Venuto al mondo
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Ritorno a Sarajevo
È mattina presto, una mattina estiva del 2008. Roma dorme ancora. Dorme Giuliano, a torso nudo come sempre, con quel grugnito da bestia placida che è solito cavare fuori dalla bocca. Dorme Pietro, con i piedi fuori dal lenzuolo, in quel letto diventato ormai troppo piccolo, ai cui piedi giace la sua chitarra. Dorme la città, dormono la sua festa ed il suo pantano, dorme anche il Papa. Gemma invece è già sveglia quando arriva la telefonata da Sarajevo. È il suo amico Gojko, il poeta, la guida turistica, l'importatore di improbabili gadget occidentali da piazzare ai suoi connazionali. Gojko il guerriero, Gojko il cupido. Ci sarà una mostra a Sarajevo, per ricordare i lunghi e sanguinosi giorni dell'assedio, verranno esposte anche le fotografie di Diego. Gemma non può mancare, dopo sedici anni in cui è stata lontana dalla città che le ha cambiato per sempre la vita, che le ha dato l'amore per poi rubarglielo, che le ha fatto conoscere la morte e le ha regalato la vita, dove ha stretto amicizie e legami più forti di quelli che è mai riuscita a coltivare in patria. Non può mancare, così come non può esimersi dal portare con sé Pietro. Pazienza se dovrà lottare per convincerlo, se dovrà faticare a sconfiggere i pregiudizi verso quella che il ragazzo chiama ancora "Jugoslavia". Deve imbarcarsi anche lui, neanche lui può tirarsi indietro davanti a questa sorta di viaggio della speranza. "Speranza, penso a questa parola che nel buio prende forma. Ha la faccia di una donna un po' sgomenta, di quelle che trascinano la loro sconfitta eppure continuano ad arrabattarsi con dignità. La mia faccia, forse, quella di una ragazza invecchiata, ferma nel tempo, per fedeltà, per timore." Giuliano no, lui resta a casa, Sarajevo non gli appartiene, non perlomeno nel modo in cui appartiene a Gemma e Pietro. Perché Giuliano è arrivato dopo, è arrivato a salvare una madre impacciata, miracolosamente scampata all'assedio, e il piccolo fagotto che si è portata dietro. O come lui preferisce raccontarla, a farsi salvare da loro. Perché prima c'era l'altro, il ragazzo di Genova, il fotografo delle pozzanghere, l'ex ultrà del Grifone, il chitarrista eroinomane, il magro, stralunato, innamorato Diego. Quel Diego che Gemma ha conosciuto proprio nella capitale bosniaca, con cui ha fatto l'amore per la prima volta nel letto della mamma di Gojko, con cui è ripartita per l'Italia rispedendolo nella sua Genova per tornarsene a Roma con l'idea di non rivederlo più. Quel Diego che invece non uscirà più da lei, che la sposerà, che lotterà insieme a lei contro il destino, contro la genetica, contro ogni morale e ogni tipo di burocrazia per regalarle Pietro. E Allora comincia questo viaggio tra madre e figlio, un viaggio fatto di continui flashback che vanno a spezzare il presente. Un presente in cui il ragazzo parte svogliato, costretto, privo di aspettative, pronto a snobbare la terra che lo ha visto nascere, a suo dire, solo per caso, solo perché suo padre era impegnato a Sarajevo come reporter di guerra e sua madre era voluta restare lì al suo fianco. Ma più passano i giorni, più Pietro è contento di essere lì, più resta su quella terra, più conosce la storia di quel popolo barbaramente trucidato, di quella patria violentata, umiliata, bagnata con il sangue dei suoi figli, più gli è difficile l'idea di staccarsene. Perché il legame con le proprie radici lo si sente sulla pelle, nelle ossa, nel sangue, e Pietro a Sarajevo non ci è nato davvero per caso. Ma per conoscere la verità dobbiamo affrontare assieme ai protagonisti questo viaggio, tuffarci e rituffarci in questo continuo sali e scendi temporale, guidati dall'abile penna di Margaret Mazzantini, dalla sua fine capacità di raccontare i sentimenti umani, dalla sua sensibilità, dalla dovizia di particolari che caratterizza la sua prosa. Al centro del racconto ci sono la guerra e l'amore, concetti diametralmente opposti che in queste pagine convivono in uno straziante conflitto, arrivando in alcuni casi a toccarsi, sovrapporsi, confondersi. L'amore è la base, il punto di partenza e insieme di arrivo, il motore capace di dare la forza per vivere. Ma, come i protagonisti sanno bene, l'amore spesso è guerra, è contrasto, è lotta, con gli altri, con noi stessi, con una vita incapace di darci quello di cui abbiamo bisogno. "Guardai il mare, e immaginai di prendere Diego per mano e di fare un salto, laggiù, oltre la schiuma. Chissà se sotto tutto quel mare avremmo ritrovato un'altra vita. Pesci, pensai, non siamo altro che pesci... branchie che si gonfiano e si chiudono... poi viene un gabbiano che dall'alto ci prende e mentre ci smembra ci fa volare, forse questo è l'amore." La guerra è il contorno, è l'ambientazione, un'indesiderata compagna di viaggio che distrugge città, case, speranze, vite, che violenta donne, che sevizia bambini, che calpesta ogni diritto, ogni dignità. È quella guerra che Gemma e Diego hanno voluto vivere da vicino, volontariamente, sentendone i sibili, gli scoppi, vedendone il sangue, l'orrore, subendone la fame, la paura. La stessa davanti alla quale troppo spesso ci giriamo dall'altra parte, per non sporcare le nostre coscienze immacolate, tanto "che si ammazzino tra di loro", come ha fatto l'Occidente nel caso dei Balcani. "Ora avrei la cura per i potenti del mondo, per gli uomini in giacca e cravatta intorno al tavolo della finta pace. Bisognerebbe posare il bambino blu su quel tavolo. Dovrebbero restare chiusi in quella stanza, senza potersi muovere. Restare. Vedere la morte che fa il suo lavoro metodico, che se lo mangia da dentro. Distribuire panini, sigarette, acqua minerale e lasciarli lì, mentre il bambino si svuota, si decompone fino alle ossa. Per giorni. Per tutti i giorni che ci vogliono. Questo esattamente farei." Pagine toccanti, personaggi con cui è impossibile non entrare in empatia, temi importanti, fanno di questo libro un'opera molto coinvolgente, delicata, ricca di colpi di scena e spunti di riflessione sulla precarietà della condizione umana, la subdola ineluttabilità della morte e la troppo spesso atroce inesplicabilità della vita. "Spegni tutto, cosa cazzo aspetti, Dio? Togli il sole, buttaci addosso dal cielo un pianeta nero come il cuore dei bracconieri in cravatta. Oscura tutto una volta per sempre. Cancella anche il bene, perché il male vive nelle sue tasche. In questo istante. In questo. Perché in questo istante un bambino sta per essere raggiunto. Salva l'ultimo. Spegni tutto, Dio. E non avere pietà, non abbiamo diritto a nessun testimone."
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Il viaggio della speranza
La storia è ambientata tra Roma e Sarajevo: tra vari flashback, inizia nel 1984 con Gemma studentessa, per concludersi oltre 20 anni dopo. E’ il 2008: Gemma riceve una telefonata dal vecchio amico bosniaco Gojko, che la invita a tornare a Sarajevo per una mostra fotografica sull’assedio serbo alla città, in cui saranno esposte anche foto di Diego, ex fidanzato di Gemma e padre di suo figlio Pietro. Gemma parte col riottoso figlio adolescente e, da lì, iniziano i flashback che ci riportano indietro nel tempo, nelle atmosfere fascinose della Bosnia prebellica. Gemma, all'epoca fidanzata con Fabio, ricorda il suo arrivo a Sarajevo nel 1984 per concludere la tesi su Ivo Andric. Il bizzarro Gojko è la sua guida. L’uomo le mostra la vita quotidiana bosniaca, le fa conoscere degli italiani venuti a seguire le Olimpiadi invernali: tra essi c’è Diego, un bizzarro fotografo che Gemma inizia a frequentare. Tornata a Roma, scopre di essere rimasta incinta, ma ha un aborto spontaneo. Diego le telefona ogni giorno, corteggiandola, ma Gemma, decisa a proseguire la sua vita senza ripensamenti, s’impone di dimenticarlo e sposa Fabio. Il matrimonio è piatto: lui è troppo preso dai suoi cantieri edili, Gemma troppo legata a quei giorni a Sarajevo. Quando Gojko le chiede di fare da madrina al battesimo della sorellina, Gemma parte subito: lì rivede Diego, che le confessa il suo amore: tornati in Italia, Gemma e Diego vanno a vivere insieme. Ma la vita riserva rose e spine: arrivano periodi difficili, tra lavori precari e un figlio che non arriva. Infine, la terribile diagnosi: Gemma è sterile. La sua incompatibilità alla vita la getta nella depressione, nel folle timore di perdere Diego; si sposano per iniziare l’iter dell’adozione. Diego, da giovane, era stato schedato come ultras drogato, così l’adozione viene negata. Una nuova vacanza, nel 1991, a Dubrovnik è l’occasione per rivedere Gojko, cui confessano l’impossibilità di avere figli. Gemma pensa di ricorrere a una madre surrogata, un utero in affitto, prima in Ucraina e poi in Bosnia, dove Gojko ha trovato una ragazza disposta a farsi pagare per procreare con Diego. Si chiama Aska, è una musicista; tra mille titubanze, si accordano. Ma infuria la guerra e la serata scelta per il concepimento si svolge in modo del tutto inatteso... da lì, gli eventi travolgeranno l'ossessione di maternità di Gemma, l'apparente inerzia di Diego, la verace follia di Gojko, la risolutezza di Aska. Quando il bambino finalmente nasce, tra i bombardamenti dell'assedio di Sarajevo, niente sarà più come prima per nessuno. La vita di Gemma, tornata a Roma e totalmente assorbita dalla nascita di Pietro, affronta altri distacchi e riavvicinamenti, fino al sorprendente epilogo.
Libro forte, crudo, che indaga nell'animo di una donna sezionandola ferocemente e mettendone in luce aspirazioni, debolezze, passioni, disillusioni. Una lettura scorrevole, con lo stile tagliente della Mazzantini, che alterna frasi brevi (e linguaggio, a volte, scurrile) con iperboli e similitudini che aggiungono sostanza al racconto, senza annoiare.
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Giorni indimenticabili di Sarajevo..
«”Non devi pensarci, devi venire”.
“Perché?”
“Perché la vita passa, e noi con lei. Ti ricordi?
[..] Di colpo mi chiedo come ho fatto a rinunciare a lui per tutto questo tempo. Perché nella vita capita di rinunciare alle persone migliori a favore di altre che non ci interessano, che non ci fanno del bene, semplicemente ci capitano tra i passi, ci corrompono con le loro menzogne, ci abituano a diventare conigli?» pp. 10-11
Gemma. Quando tutto ha avuto inizio, non era altro che una giovane donna, di circa ventinove anni. Oggi, invece, ne ha quasi cinquanta, è sposata con un ufficiale dei carabinieri, Giuliano, calmo e premuroso, un uomo che non si è tirato indietro dal tirare su quel figlio, Pietro, ora sedicenne, frutto di un passato che non può essere dimenticato. Una telefonata che arriva da Sarajevo. E’ Gojko, vecchio amico, poeta matto che simboleggia quei giorni indelebili nella memoria. E’ un richiamo a cui la protagonista non può sottrarsi. Perché quei dolori mai sopiti, quei dolori che non hanno mai smesso di battere sul cuore di Gemma chiedono di essere affrontati, e con loro vuol vedere la luce anche quella verità troppo a lungo celata. Ancora, ricordi di un eccidio senza morti, rendono impossibile provare emozioni. Di nessun genere.
E così Gemma e Pietro partono. La scusa ufficiale è quella di assistere ad una mostra fotografica in onore di Diego, grande amore, padre del ragazzo, e fotografo morto in terra straniera durante il suo lavoro, la realtà è permettere al giovane di fissare alcune immagini del padre, permettere alla madre di fare i conti con i propri fantasmi.
In un perfetto alternarsi di ieri ed oggi, Margaret Mazzantini affronta, con “Venuto al mondo” tematiche di grande impatto sociale nonché emotivo. In queste pagine, troverete, infatti, il dramma della maternità, un miracolo che può al tempo stesso rivelarsi dannazione ma anche il caos, la confusione in cui l’esistenza può cadere, per i fatti quotidiani che la compongono che per fattori esterni, quali la guerra, che con la loro disarmante criticità e infausticità, scompongono e distruggono le certezze.
Seppur il romanzo abbia un inizio lento, pedante e soprattutto nella prima parte farraginoso, e nonostante a tratti si perda nei sentimentalismi e moralismi, esso si dimostra portatore di grandi valori e contenuti pregnanti. Superate, invero, le prime trecento pagine, questo sopraggiunge con tutta la sua forza disarmante conquistando anche quel lettore che, inizialmente, non era riuscito a farsi rapire.
Buona anche la delineazione dei personaggi, tra tutti, Gojko, è il meglio riuscito. Senza difficoltà egli fa capolino nel cuore dell’avventuriero conoscitore riserbandosi un posto d’onore anche a conclusione della lettura.
Dal punto di vista stilistico, l’autrice si offre a chi legge attraverso un linguaggio troppo ricercato, un linguaggio fatto di epitaffi, parolacce e frasi brevi che, per quanto curate, finiscono con il far da ostacolo al proseguire dell’opera.
Nel complesso, il libro vale la pena di essere letto, ma ne consiglio la discoperta con la giusta propensione d’animo altrimenti potrebbe risultare faticoso e difficile da cogliere.
«..E la vita ride di noi
Come una vecchia puttana sdentata
Mentre ce la scopiamo a occhi chiusi
Sognando il culo di u giglio.. »
p. 198
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Struggente per certi aspetti ma meritevole
Su questo testo si è parlato moltissimo, addirittura ci è stato fatto un film.
E' un libro che ha bisogno di essere compreso (io l'ho letto due volte). Mi viene da paragonarlo ad una scritta poco illuminata e abbastanza lontana poichè se non ti avvicini e non provi a "far luce" su quello che realmente la Mazzantini ed il suo testo voglio trasmettere probabilmente leggerai le prime due pagine e poi lo abbandonerai. Così ho pensato di fare anche io, in un primo momento.
Successivamente ho letto in maniera più "paziente" ed attenta e le cose sono sembrate non solo più chiare ma più piacevoli. Come dico nel titolo è un racconto sicuramente struggente in quanto, in ogni caso, si tratta non solo della guerra in Bosnia con tutti i dettagli appunto dolorosi e inumani che ciò comporta ma anche di cosa la guerra in Bosnia abbia lasciato. Da quella guerra è nato qualcosa; tante vite sono state spezzate e come sono state spezzate è davvero orribile ma come simbolo della rinascita o se si vuole dell'immortalità di quelle vite che si "reincarnano" in Pietro e in quella storia d'amore che nonostante le cose siano andate in un certo modo (RISCHIO SPOILER) ha lasciato il segno.
Come ho già detto, è un libro che va letto per una questione di informazione innanzitutto perchè mi pare che si sappia davvero poco di questo tragico evento e anche perchè come ad esempio tutti i testi che sono stati scritti sull'olocausto, per esempio, hanno un certo valore umano.
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GEMMA, MOGLIE DI SARAJEVO
Ciò che ho fatto quando ho chiuso il libro, dopo aver letto l'ultima pagina, è stato mettere una mano su quel libro, su quelle vite, per proteggerle, per mangiare ancora un pò della loro esistenza.
Mi chiedo perchè la gente della mia età non sappia assolutamente nulla della guerra in Bosnia, di quelle montagne, di ciò che è accaduto. questo libro mi ha aperto gli occhi, il cuore e soprattutto i canali lacrimali. ho divorato ogni parola, ogni movimento di queste persone normali, con un passato, una vita in un altro luogo, vicino, eppur così lontano da noi. Non ho amato Gemma, non ho amato nemmeno Diego, ma ho amato il loro amore, la loro diversità. Prendono la vita in due modi completamente diversi: Gemma è una donna, è nata signora. Diego è nato bambino e rimarrà sempre tale, con quel suo canzonare la vita, prenderla a sberle e urlandogli dietro che lui lì ci deve stare, lui deve vivere per portare il dolore di chi è più debole. ma lui per primo è debole, cresce solo una volta.... cresce quando sa che la sua strada non deve salire su un aereo. Gojko invece è il fratello di tutti noi, la nostra guida che ci prende in giro e ci insegna cosa è una poesia. E poi arriva questo ragazzo, Pietro, attraverso il quale viene raccontato il prima, il libro in sè. Non attraverso la sua voce, ma attraverso il suo corpo. Un pò odioso a dire il vero questo adolescente strafottente!
Ci sono molti momenti in questa storia. Momenti anche in cui ho dovuto fermarmi per piangere, per riprendere in mano ciò che stava accadendo e capirlo bene, perchè nessuna parola è messa li per niente. tutto ha un senso. é un libro articolato, carico di emozioni, buone e cattive, che ti lascia l'amaro in bocca e in testa solo una frase: "Perchè non si parla mai della guerra di Sarajevo? Perchè io non so? Perchè non viene considerata??". questo mi è rimasto, insieme alla videata sul computer dei voli per Sarajevo...
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Non siamo morti stanotte.
Questo libro è un'opera d'arte, non lo dico mai e questa volta non ho paura a dirlo. E' fantastico, una fotografia fluida dell'uomo, della donna, dell'umanità e di tutti i sentimenti che ci stanno in mezzo. E' vero, è crudo, è dolce, è la vita.
Parla di Gemma, giovane 29enne, in viaggio a Sarajevo per una ricerca universitaria, durante le olimpiadi invernali del 1984, quando la città era pulita, in festa, una scoperta. E poi parla di Gemma vent'anni dopo, che torna nella stessa città, ora con un figlio e un peso nel cuore che Sarajevo le porta a galla, con le sue rovine e il dolore che traspira dai muri dilaniati e dalle rose in memoria delle vittime. Della sua guerra, che lei stessa ha vissuto lì. Anche lei vittima. Vittime della guerra che dal '92 al '96 ha spezzato la Bosnia e i Sarajeviti, una guerra che i nostri genitori guardavano dall'altra parte del mare, in tv; una guerra vicina e per questo curiosa, una guerra che alla Mazzantini è rimasta tanto dentro da sentire il bisogno di ridarle vita con questo libro. L'autrice ha creato personaggi veri, vivi, che potremmo incontrare ogni giorno, che pensiamo di conoscere, a cui ci affezioniamo, che vorremmo coccolare e consolare. Aiutare. Per questo ci rende partecipi di tutto. Non ci sono cattivi o buoni, solo vittime e carnefici. Ma ogni personaggio si fa odiare e voler bene a proprio modo.
Gemma che si innamora di Diego, la loro vita insieme, una coppia fantastica, di quelle su cui scommetteresti tutto, perché sono fatti l'uno per l'altro e niente può separarli.
"Eravamo una di quelle coppie strampalate, su cui nessuno avrebbe scommesso un’unghia. Di quelle destinate a una manciata di mesi superbi e poi ad afflosciarsi di botto. Eravamo così diversi. Lui dinoccolato, io sempre un po’ rigida, con le borse sotto gli occhi, il cappottino austero. Invece i mesi passavano, le nostre mani erano sempre l’una nell'altra per strada, i nostri corpi dormivano vicini senza darsi noia come due feti nello stesso sacco."
Poi i figli che non vengono, il dolore e la frustrazione, la ricerca infinita. "I figli che devono venire vengono" dice Diego. Ed è vero, ma la sterilità assomiglia esattamente alla stessa guerra bosniaca, solo che i cecchini sparano dall'interno e feriscono a morte.
La guerra che scoppia nella città che li ha visti nascere, il desiderio di non abbandonarla a sé stessa, il dolore di rimanere, ma ancora di più di andarsene. E Aska, il figlio della guerra, le priorità, la vita che si fa largo tra la morte, una dolcezza vista attraverso il disumano... e soprattutto un finale che ti risarcisce.
Ti risarcisce di tutte le lacrime versate prima - che non sono poche -, tutto quel pensare alla crudeltà e all'ingiustizia che si scioglie in un dolce-amaro che ti avvolge.
Perché questo non è un libro che puoi chiudere e lasciare sul comodino per passare oltre. A metà del libro ho dovuto chiudere e respirare per un po', il libro ti trascina troppo dentro la storia e finisci per soffrirne anche tu. E comunque continui a pensarci. A me è nata la voglia di sapere, di informarmi, di sapere di più di questa guerra, del fotografo di pozzanghere - che esiste davvero, e soprattutto
esistono le sue fantastiche fotografie -, delle giovani dal futuro spezzato...
"La gente camminava tranquilla, quella mattina, donne con i foulard, uomini con la cravatta. Bisognava mostrare il pugno chiuso con il medio fuori a quelli lassù, al club delle tre dita cetniche. E' un messaggio per loro, infilatevi nel culo i vostri fucili di precisione. Quei foulard, quei passi ordinati, stavano lì a dire quello. A testimoniare che la vita continuava. [...] Sul muro sotto casa era apparsa una scritta: NON SIAMO MORTI STANOTTE."
E le parole, le frasi... Frasi che sono poesia, frasi forte ma dolci, che mi farei tatuare su tutto il corpo perché rendono davvero. Migliore, non lo so, ma rendono. E' un libro che mi ha preso e non credo mi lascerà mai andare.Lo consiglio a tutti, con un po' di pazienza. A me fa ancora battere il cuore.
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Venuto al mondo di Margaret Mazzantini
Sono la 123° a dire la mia su questo libro, che ha letteralmente spopolato e la cosa mi mette un po’ a disagio, ma ci tengo a farlo. Voglio dire che amo lo stile di questa scrittrice e il modo in cui sonda l’animo umano, per cui per quanto riguarda stile e classe, niente da eccepire. Per quanto riguarda la trama: molto bella, soprattutto per il finale per niente scontato; però, a mio parere, si potrebbero tranquillamente togliere 150-200 pagine, perché troppo prolisso. Non ho mai amato i libri troppo “pesi”, perché spesso è solo un arricchire dei fatti che potrebbero essere raccontati in modo più semplice e meno ridondante. Detto questo, in questo romanzo, premio Campiello 2009, si trattano due temi principali: quello della guerra (trattato in modo preciso ed esauriente) e quello della maternità: cercata, negata e “guadagnata”, se intesa come genitorialità (io ho sempre pensato che i figli siano di chi li cresce, non di chi li mette a mondo!)
Si parla di una città in guerra (Sarajevo), dove la morte fa da protagonista, dove i cecchini perdono il senso della vita (come succede in ogni guerra) e dove le persone perdono sé stesse. Una guerra molto vicina a noi geograficamente, ma che noi italiani abbiamo “sentito” molto poco. A poche centinaia di chilometri da noi migliaia di persone venivano uccise, migliaia di donne violentate nel corpo, ma soprattutto nell’anima e la maggior parte di noi ha continuato la propria vita tranquillamente, senza muovere un dito per aiutarli. Una città in guerra, dove la morte fa da protagonista, ma che dalle ceneri estrae un dono molto prezioso per Gemma (la protagonista del romanzo): il figlio tanto desiderato, che l’ Italia le aveva negato. Questa città in lotta ha ucciso migliaia di vite, ma ha dato alla protagonista la vita che lei desiderava di più a mondo: quella del suo bambino. A questo punto non voglio parlare dell’eticità o meno della scelta che Gemma e Diego (il marito) fanno, perché solo una donna a cui la maternità viene negata più e più volte, può capire la sofferenza atroce che prova la protagonista. Io, che ho avuto mio figlio subito, nel momento in cui l’ho desiderato con tutta me stessa, stento a capire cosa possa significare non riuscire ad averlo, in nessun modo. Non capisco, però, la scelta di Gemma di voler spingere il proprio marito nelle braccia di un’altra donna, con il rischio che lui si possa innamorare di lei e lasciarla: la ritengo una crudeltà inutile verso sé stessa. Quello che ho amato moltissimo è il modo in cui Margaret Mazzantini scrive, senza dosare le parole, né i sentimenti, donandosi completamente al lettore, senza filtri, solo come una donna vera può fare, senza nessun timore di quello che i lettori possano pensare. Ci tengo, comunque, a dire che al contrario di molti altri lettori, ho apprezzato molto questo libro, ma gli ho preferito “ Nessuno si salva da solo” della stessa autrice: più sulle mie corde.
Ora, come sempre, vorrei scrivere alcune espressioni o frasi che mi sono piaciute:
“La speranza appartiene ai figli. Noi adulti abbiamo già sperato, e quasi sempre abbiamo perso”;
“I miei occhi in un attimo bruciano i contorni di quella carne. E mi sembra si sentirgli l’anima, ecco tutto”;
“Ha quelle dita lunghe intrecciate alle mie che mi stringono… mi parlano, mi giurano tutto”;
“…ho cercato suo padre dentro di lui, affannosamente, ogni giorno della sua vita”;
“Il mondo mi sembrava saturo di tutto. Gli amori erano, come il resto, cancerosi di nostalgia ma svelti nel consumo. Era da fessi crederci”;
“…una vita valida non ha bisogno di verità a tutti i costi. Basta tirarsi indietro, voltarsi altrove, …sacrificare qualche sguardo autentico, per andare avanti discretamente”;
“Le donne per lui sono piccoli orchi, leccornie per palati più arditi;
“Ci sono cose. Piccole cose che non dimenticherò, che sono niente e invece restano più forti di tutto”;
“Devo arrendermi all’idea che i figli nascono come l’erba, dove capita, dove il vento spinge i semi”;
“Mi prende uno schifo per tutto il sesso del mondo, per quel ficcare e ficcare fino alla morte, per quel cercare buchi”;
“Invecchiando si può di colpo diventare avari di sé stessi, aridi con il mondo, perché niente ci ha davvero ricompensati”;
“La verità è che ho scelto, e Diego lo sa. Non me ne sarei mai andata a mani vote. Ma adesso ho questo pacco da consegnare al mondo. Mi sto portando via la parte migliore di lui, la vita nuova, quella che nessun dolore ha sporcato”;
“Ha sempre fame, questo bambino di Sarajevo, la fame della sua origine miserabile”;
“Mi aveva dato quello che volevo, il bambino era il prezzo per la sua libertà”;
“Suo padre diceva che la nuca conserva l’odore della nascita, del vento che ha portato il seme”;
“Non ha mosso un dito per difenderla, è indietreggiato per non vedere, si è schiacciato le orecchie con le mani per non sentire le urla”;
“Anche lui ha paura che quel male non possa filiare che male. Però è pronto a rischiare. Forse il bambino sarà la ricompensa”;
“Giuliano si china, resta lì ad annusargli la nuca. Come l’ultimo cane, come l’ultimo padre”.
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La luce sugli oceani
Uno scavo nell'animo umano
Ho finito di leggere questo libro questa notte.Appena concluso ho inviato un messaggio all'amica che me lo ha regalato, anche se era notte fonda. Dovevo farlo.
Non è stata una lettura tutta d'un fiato ma un appuntamento atteso, che mi vedeva leggere trenta-quaranta pagine e fermarmi. Per pensare, per far emergere tutte le emozioni e le riflessioni scatenate dalle parole lette.
Uno scavo nell'animo umano: è l'unica definizione che riesco a dare al libro, senza ridurlo. E' un libro che parla di tante sfaccettature della vita: l'amicizia, l'amore, la femminilità e la sua complessità, la guerra e le divisioni nel mondo. Ma non parla solo di questo. Non a me perlomeno. Il libro attraversa le sfumature dell'animo, ci scava dentro, va a fondo dove si pensano anche cose non facilmente confessabili, nemmeno a se stessi. E tiene fino alla fine legati a un finale, che arriva però inaspettato. Sarà difficile trovare un altro libro che lo eguagli!
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Libro fantastico, assolutamente da leggere
Questo è un'estratto di una mail che ho mandato a M. Mazzantini. Queste parole riescono a esprimere solo in parte ciò che penso di questo libro:
"Sono una ragazza che oggi ha finito di leggere il suo libro Venuto al mondo. Volevo complimentarmi con lei perchè nessun libro è riuscito mai a coinvolgermi come questo ha fatto. Mi sono immersa in una lettura che mi era stata consigliata molto tempo fa,ma solo ora sono riuscita a leggerla. In ogni pagina comprendevo,mi immedesimavo nei sentimenti della protagonista. Mi sono immedesimata nei suoi pensieri di donna che non poteva avere figli e tutta la sofferenza che questo provoca ... e nessuno era riuscito mai a mettere nero su bianco quello che pensavo in maniera trasparente, percettibile. Questo libro mi ha lasciato in sospeso fino all'ultimo, mi ha fatto sorridere, commuovere, piangere e le dico che penso che sarà difficile trovare un libro avvincente, coinvolgente, emozionante come questo.
La ringrazio per l'attenzione e per avermi regalato tutte queste emozioni sincere."
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Promosso sì, ma con riserva
Ho letto questo romanzo soltanto un paio di mesi fa, nonostante sia uscito già da qualche anno, e abbia avutofin dall'inizio un notevole successo. Mi aspettavo quanto meno una storia forte, intensa e coinvolgente; purtroppo, però, mi ha rinconfermato l'opinione che già avevo sulla Mazzantini,e cioè che sia un'autrice piuttosto snob, che vuol stupire a tutti i costi, e che molti dei suoi romanzi contengano qualcosa di molto artificioso. Artificioso, infatti, è lo stile, fatto di periodi brevi e continue metafore non sempre comprensibili. Artificiosa è un po' anche la storia, che vuol essere una storia forte (ed in effetti lo è: l'amore, la guerra, la violenza, la maternità...di temi forti ce ne ha messi tanti) ma alla fine, a parer mio, finisce col diventare un po' tortuosa, a tratti inverosimile. Insomma, il libro si legge, scorre, alla fine si riesce ad arrivare in fondo quelle 500 pagine, nonostante alcuni tratti della storia siano decisamente inutili. Io però non sono riuscita ad appassionarmi veramente, nè a provare empatia per i personaggi, che ho trovato a tratti irritanti e troppo estremi in certi aspetti (il desiderio ossessivo di maternità di Gemma, l'ostinazione di Diego nel rinunciare alla sua vita per tornare a Sarajevo, la sua idea un po' malata di libertà...soltanto quello di Gojko mi è parso vero e naturale). La Mazzantini, a mio parere, scrive a tavolino i suoi romanzi (che puntualmente verranno poi trasformati in film dal marito), e il fatto che sappia scriverli bene non basta.