Un anno sull'altipiano
Saggistica
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«Una spinta istintiva: salvarsi»
Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu è uno dei dieci libri del nostro Novecento che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella loro vita. Le ragioni sono svariate. Innanzitutto parla della vita di trincea durante i combattimenti della Prima Guerra Mondiale come nessun altro libro della nostra letteratura. Lo fa con uno stile che ancora oggi gli dona freschezza e modernità. È infatti un volume che non disperde energie in inutili sbrodolamenti retorici. Ritrae il dramma della guerra senza artefici e nei suoi aspetti di grande caos, lasciandole tuttavia le dimensioni del vissuto, semplicemente e immediatamente da coloro che vi si trovano presi. La questione stilistica si intreccia con la storia editoriale del capolavoro di Lussu. È stato scritto dopo una ventina d’anni dal termine delle ostilità, precisamente tra il 1936 e il 1937, quando l’autore era in un sanatorio di Clavadel, sopra Davos, dove si era ritirato per l’aggravarsi della malattia polmonare contratta in carcere (Lussu è stato un convinto anti-fascista e uno dei più importanti militanti del Partito d’azione). Il distacco temporale tra i terribili fatti bellicosi vissuti in prima persona tra il Carso, l’altopiano di Asiago e il Bainsizza e il momento della stesura del libro permette a Lussu di non farsi condurre dalle emozioni. Dietro a ogni singolo episodio narrato c’è stata una lunga riflessione durata anni, la quale ha spogliato l’episodio stesso di tutti i connotati retorici incanalandolo sul binario di una narrazione diretta appassionata, lucida, sarcastica e trascinante. Il tenente Lussu è per forza di cose il catalizzatore di un dramma collettivo; egli procede leggero e lo sentiamo pensoso in modo straordinariamente genuino dei casi altrui più che dei suoi. Dunque, è proprio il distacco temporale che potenzia l’impegno dell’autore di testimoniare fatti e vicende, situazioni e comportamenti osservati e interpretati sul vivo del loro prodursi. E lo stesso Lussu nell’avvertenza al lettore dice che «anche questo [libro] non sarebbe stato mai scritto, senza un periodo di riposo forzato».
È un volume in cui le morti si susseguono. Durante la lettura è normale fermarsi e interrogarsi sul perché avviene l’«inutile strage», come la definì Papa Benedetto XV. Si comprendono le dinamiche folli di una guerra di posizione sfiancante e improduttiva, nella quale «si sta come d’autunno sugli alberi le foglie», citando Giuseppe Ungaretti, altro reduce della Grande Guerra. Un anno sull’altopiano è un libro pieno di alcool (ne ho incontrato il medesimo carico soltanto in un altro volume, ovvero Mosca-Petuškì poema ferroviario di Venedikt Erofeev, simbolo della stagnazione) e più nello specifico pieno di cognac. «L’anima del combattente di questa guerra è l’alcool. Il primo motore è l’alcool. Perciò i soldati, nella loro infinita sapienza, lo chiamano benzina» si legge appena dopo il trasferimento di Lussu dal Carso all’altopiano di Asiago. Uno dei pochi a non bere è proprio Emilio Lussu e questa sua capacità di rimanere sobrio sembra tradursi vent’anni dopo nella sua pagina pulita e lucida. Il suo diversivo all’alcool è la letteratura, sono Baudelaire e Ariosto, I fiori del male e L’Orlando furioso; la letteratura che permette di evadere nella sua straordinaria eterogeneità. Chi non viene ucciso dalle pallottole o dalle bombe austriache viene invece consumato dal cognac, sorso dopo sorso. Si tratta di un processo inevitabile, come accade al colonnello Abbati, la cui fine si sovrappone al trasferimento sul Bainsizza di Lussu che segna anche la conclusione delle narrazioni sebbene la guerra continuasse.
Quella descritta è una guerra che logora lo spirito e il corpo perché non si capisce nemmeno chi sia il nemico. «È da oltre un anno che io faccio la guerra, un po’ su tutti i fronti, e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi. È orribile! È per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall’altra» si legge. Ecco che quindi il peggior nemico non sono gli austriaci ma paradossalmente i capi politici e militari del proprio esercito. «Il generale era sempre là, come un inquisitore, deciso ad assistere, fino alla fine, al supplizio dei condannati» si dice a proposito dell’odiato Generale Leone. Uno dei più decisi nella lotta contro i capi è Ottolenghi, uno di quelli chiamati a guidare l’artiglieria. «I nostri generali sembra che ci siano stati mandati dal nemico, per distruggerci... Hanno verniciato la stessa nostra vita, vi hanno stampigliato sopra il nome della patria e ci conducono al massacro come delle pecore» afferma in un concitato incontro con altri comandanti e sottotenenti dopo un tentativo di tumulto. Non ha paura di attentare contro i suoi superiori, primo fra tutti il Generale Leone che espone al mortale pericolo della feritoia 14, e si rende anche protagonista di una singolare azione sul magazzino di sussistenza della divisione con la squadra degli sciatori.
Come si può intuire, in Un anno sull’altopiano si alternano giorni spenti e sempre uguali in trincea, assalti, tumulti, rappresaglie, riposi, ritorni a casa. Ne esce un grande mosaico lungo dodici mesi, un mosaico paradigmatico di quello che è stato il conflitto sulle montagne italiane. Ci sono pagine anche molto intime. Toccante, ad esempio, il capitolo nel quale Emilio torna per un brevissimo periodo a casa, in Sardegna, e incontra la madre e il padre. Da rimarcare anche in questo frangente la capacità scrittoria dell’autore che con estrema semplicità descrive il patimento sovraumano provato dai suoi genitori, chiamati a sopportare l’angoscia di avere entrambi i figli impegnati al fronte. Non manca nemmeno la storia d’amore, quella del capitano Avellini, uno dei tanti che non ce la farà a sopravvivere. Infine, assumono un valore indescrivibile le piccole cose, quelle che in un sistema esistenziale ordinario sfuggono. «Ecco, io dormo ancora mezz’ora, io posso ancora dormire mezz’ora, e poi mi sveglierò e mi fumerò una sigaretta, mi riscalderò una tazza di caffè, lo centellinerò sorso a sorso e poi mi fumerò ancora una sigaretta» pensa prima di uno dei tanti assalti Lussu. E questo dice che «appariva già come il programma gradito di tutta una vita» perché anche a distanza di vent’anni «mentre il nostro amor proprio, per un processo psicologico involontario, mette in rilievo, del passato, solo i sentimenti che ci sembrano i più nobili e accantona gli altri, io ricordo l’idea dominante di quei primi momenti. Più che un’idea, un’agitazione, una spinta istintiva: salvarsi».
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Fango e cognac
Poco rilevante dal punto di vista strettamente letterario (con qualche ripetizione e una sintassi non sempre perfetta) questo romanzo autobiografico racconta però uno spaccato alternativo della Grande Guerra, fatta di uomini più che di eroi, in una trincea che puzza di sangue, fango e cognac, mentre la ragione vacilla:
“Sentivo delle ondate di follia avvicinarsi e sparire. A tratti, sentivo il cervello sciaguattare nella scatola cranica, come l'acqua agitata in una bottiglia”.
La guerra, programmata a tavolino da speculatori che non scendono in campo e coordinata da generali capricciosi e incapaci, appare farsesca, oltre che tragica:
“Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! È orribile! È per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall’altra”.
L'altra parte è quella degli austriaci, che sparano e sparano, e poi cessano il fuoco per permettere agli italiani di raccogliere morti e feriti.
Chi è il vero nemico?
Emerge, dalle pagine migliori, un senso alto di umanità (vedere un proprio simile nel nemico, e non sparargli addosso) che niente ha a che vedere con l'attribuzione di medaglie e che si colloca agli antipodi dei valori monarchici e patriottici osannati in quel periodo.
E' il popolo - fa dire l'autore ad un intrepido tenente - che deve ribellarsi ai soprusi dei capi, con una rivoluzione in cui lo spargimento di sangue, forse necessario, sicuramente non vano, conferisca autentica dignità a chi combatte:
“Hanno verniciato la stessa nostra vita, vi hanno stampigliato sopra il nome della patria e ci conducono al massacro come delle pecore”.
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La guerra... la guerra...
“Contro le scelleratezze del mondo, un uomo onesto si difende bevendo. E da oltre un anno che io faccio la guerra, un po' su tutti i fronti, e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! E' orribile! E' per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall'altra.”
Non c'è grande opera sulla guerra (libro o film o altro che sia) che non induca alla stessa domanda, sempre la stessa: come è possibile che una cosa di cui sono protagonisti così intensi gli uomini, sia tanto profondamente disumana?
E non c'è grande libro che cada nella trappola di rispondere direttamente a questa domanda, quando è molto più efficace “fermarsi” a delle constatazioni, a delle tracce: quella sulla catena causale di un conflitto bellico, ad esempio, per cui c'è chi lo decide, chi lo dirige, chi lo combatte, e infine chi lo perde. Se non ci fosse questa “suddivisione di ruoli”, probabilmente non ci sarebbero uomini disposti a farsi guerra.
“Un anno sull'altipiano” di Emilio Lussu è un grande libro che parla della guerra: pone la domanda, e, invece che avventurarsi a rispondere, declina tutta l'assurdità di cui essa si nutre. Negli sguardi sulla vallata, negli ordini ai sottoposti, nei dialoghi tra persone prima che tra soldati, nelle promesse reciproche nate sul timore di non tornare più, si aprono le feritoie che controllano l'intero fronte avversario, scorre tutto il cognac che serve da anestetico, trovano un motivo le esercitazioni così come le maledizioni.
Mario Rigoni Stern – uno che di guerra ha scritto, e si trattava proprio di prima guerra mondiale – ha amato questo libro perché in esso vi ha visto i luoghi in cui è cresciuto, la profanazione dell'altopiano d'Asiago in una stagione di vite sacrificate al nulla.
Ogni altro lettore che non conosca i posti narrati troverà un motivo per non dimenticare quest'opera, la vita di trincea così come essa viene spiegata, nella più estenuante guerra di posizione che la storia ricordi.
Intanto il conflitto va avanti, si continua a farlo... se non per convinzione, per rassegnazione, perché la paura più grande è quella di avere di fronte un nemico impazzito, perciò un nemico pronto a tutto. Così la guerra si fa anche se non lo si vuole, per non farsi sopraffare, per non farsi togliere tutto. E a pensarla così – ad un certo punto di ogni conflitto – sono l'una parte e l'altra, senza distinzione tra chi attacca per primo e chi risponde.
La domanda giusta, allora, spetta a chi assiste alla guerra, non a chi la subisce. Ma è un esercizio fine a se stesso, giacché è una domanda che non prevede definitiva risposta.
“Ho fatto tutta la guerra libica e ho preso parte a molti combattimenti. Sono stato decorato al valore, come vede, e credo di non aver paura. Io credo di non aver più paura di un altro. Sono ufficiale di carriera ed è probabile che io avanzi ancora di grado. Ma le assicuro che le più belle soddisfazioni della mia carriera sono come questa d'oggi. Noi siamo professionisti della guerra e non ci possiamo lamentare se siamo obbligati a farla. Ma, quando siamo pronti per un combattimento, e, all'ultimo momento, arriva l'ordine di sospenderlo, glielo dico io, mi creda, si può essere coraggiosi finché si vuole, ma fa piacere. Sono questi, lealmente, i più bei momenti della guerra.”
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IL CUORE SULL'ALTOPIANO DI ASIAGO
Il mio cuore è sull'altopiano, ad Asiago, luogo magico, uno dei pochi luoghi che possiede un'anima propria ed in cui si respira la storia. In questo testo autobiografico ho ritrovato parte dello spirito di questi posti che amo, mortificati e deturpati dalla guerra, che ne ha alterato l'animo e il destino rendendolo uno spazio immortale. La guerra si respirerà sempre sull'altopiano e questo racconto ne è la testimonianza.
Schietto, sincero, coinvolgente. Una cronaca che tutti dovrebbero leggere per non dimenticare e per afferrare parte di quella storia che è ancora nascosta tra le montagne meravigliose di Asiago.
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Uomini contro
Dalla primavera del 1916 a quella dell’anno successivo la brigata ‘Sassari’ fu spostata dal Carso all’Altopiano di Asiago per contrastare la pressione esercitata dagli austriaci nel perenne tentativo di raggiungere la pianura veneta. Il tenente Lussu segue il suo reparto e, vent’anni dopo i fatti, ne ricostruisce le vicende limitandosi a cambiare i nomi e a romanzare qualche riferimento: ne esce un diario di guerra esemplare nel mostrare l’insensatezza del conflitto e la criminale crudeltà dei comandi. L’autore era stato fervente interventista ed era partito volontario, ma già l’esperienza nella Venezia Giulia ne aveva mutato profondamente il modo di pensare: sebbene il trasferimento ad Asiago fosse stato visto in un primo momento come un sollievo rispetto alle pietraie carsiche, ben presto si accorge che anche la guerra di montagna viveva delle ormai ben consolidate atrocità. Ecco allora gli assalti allo scoperto sotto il fuoco dei mitraglieri nemici, l’artiglieria che prima non c’è e poi bombarda le proprie linee, la tragica farsa delle corazze che corazze non sono, le conquiste pagate a carissimo prezzo e abbandonate dopo una manciata di ore: Lussu ne racconta con un tono volutamente misurato e quasi dimesso che ha lo scopo di far risaltare l’assurdità della situazione. Con altrettanta efficacia è disegnata l’esperienza di trincea, segnata dalla paura costante, ma che, tra un’assalto e l’altro, finisce per scorrere con il suo ripetitivo tran-tran (peraltro punteggiato con costanza da morti e feriti) perché la vita continua persino nelle situazioni estreme: è notevole il contrasto con i pochi momenti di rilassamento vero vissuti dalle retrovie da uomini che sapevano di poter morire da un giorno all’altro, come nella scena del soldato appartato con una ragazza in cui l’autore letteralmente inciampa o nella rivalità del protagonista e del tenente Avellini per una giovane di buona famiglia. I rischi condivisi impongono a Lussu e ai suoi parigrado di stare sempre dalla parte della truppa considerata carne da macello contro alti comandi che superano volentieri il limite del sadismo e che vengono incarnati dal generale Leone nonché dal più subdolo suo successore Piccolomini: nell’esercito si riflettono così le distinzioni di classe presenti nella società, fino a spingere il tenente Ottolenghi alla rabbiosa e sconsolata considerazione che il vero nemico sta alle spalle. Quando lo scrittore e i non numerosi compagni che sono sopravvissuti ripartono le condizioni non sono in pratica mutate dal loro arrivo: un ‘pareggio’ costato migliaia di cadaveri – inclusi molti degli amici più cari – e raccontato in un libro che, grazie alla sua prospettiva dal basso, restituisce come forse nessun altro gli orrori dimenticati di una guerra per troppo tempo permeata di retorica.
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VIVERE LA GUERRA
Il primo libro italiano che racconta la Grande Guerra; viene pubblicato a Parigi nel 1938, e poi in Italia, per Einaudi, nel 1945, dopo la Liberazione. E' ancora oggi fra le più importanti opere sull'argomento. Emilio Lussu è un sardo, interventista in quei mesi che precedettero l'entrata in guerra dell'Italia. Combatte come ufficiale di fanteria nella Brigata Sassari e, terminata l'esperienza bellica, si impegna attivamente nella politica italiana.
L'autore in un momento di convalescenza, durante il quale è costretto a letto, ricorda la prima guerra mondiale così come lui l'ha vissuta, spogliandosi delle consapevolezze che lo hanno raggiunto solo più tardi. Ambientato sul'altipiano di Asiago, sul cui fronte il protagonista ha combattuto per un anno, tra il 1916 e il 1917. Vive nella trincea, là dove ogni istante può essere l'ultimo, a contatto con i soldati semplici, costretti ad azioni pericolosissime, e i comandanti, che sembrano giocare con la vita degli altri.
Emergono, in quello che non è "né il romanzo né la storia", tutti gli elementi per conoscere la prospettiva di chi, quella guerra, l'ha toccata con mano. Con uno stile diretto e asciutto Lussu non si risparmia, alternando momenti di acuta tragicità ad episodi coperti da un leggero velo comico.
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LA GUERRA IN PRIMA PERSONA
Scritto fra il 1936 e il ’37 durante una convalescenza, la prima edizione fu francese nel 1938 e la seconda finalmente italiana nel 1945 a Liberazione avvenuta.
Quando una trincea è uno scavo improvvisato e individuale, quando l’istinto si rivela la sola arma di sopravvivenza, quando il ricordo è vivo e genuino come nel momento in cui la situazione lo ha prodotto.
Nessuna mediazione né psicologica né letteraria abbellisce il ricordo.
“J’ai plus de souvenirs qui j’avais mille ans” cita Baudelaire, in esergo, Emilio Lussu.
Eppure la prosa è bella , la narrazione avvincente e le sensazioni tangenti come il passaggio dal puro interventismo intellettuale al pacifismo necessario. La guerra fa maturare avversione rispetto alle proprie fisime intellettualoidi.
Il libro è una testimonianza sul filo del ricordo decontaminato da esperienze successive: impegno politico – Lussu è tra i fondatori del PSd’Az -, dissidenza parlamentare - partecipa alla secessione aventiniana -, antifascismo - confino, evasione, esilio - .
Emerge un giovane appartenente alla Brigata Sassari, consapevole dello strappo temporale che la guerra ha prodotto nella sua esistenza, lui appena laureato e in virtù della sua cultura già graduato. Un ragazzo, ancora, ma con l’atteggiamento maturo ed equilibrato che solo un uomo può avere. Abile intermediario, coglie tutte le debolezze umane nei soldati e negli eventi. La narrazione è fedele ai fatti e nemmeno la distanza temporale dal processo di scrittura ne modifica il tono. Ciò che è stato brutto, brutto rimane, così ciò che si è potuto apprezzare, nella sua bellezza, bello rimane. Nemmeno la guerra cancella l’ironia nel ricordare episodi comici ai limiti del grottesco. E ci si può ritrovare a gioire come un soldato felice per una gentile concessione che il Fato rispedisce subito al mittente o a capire l’umanità bizzarra , espressa in trincea, che per un’assurdità si è ritrovata a interpretare l’assurdo che è in ogni guerra.
Interessante osservare che la prosa è facilmente fruibile e permette l’accesso a ogni tipologia di lettore che abbia interesse ad approfondire le contraddizioni insite in ogni guerra e nello specifico la partecipazione italiana al conflitto nelle sue drammatiche peculiarità.
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"Uomini contro"
La narrazione è basata sulle memorie dello stesso autore inerenti la vita di trincea durante la Prima Guerra Mondiale, in particolare nell’anno che abbraccia il periodo tra Marzo 1916 e¬ Luglio 1917 sull’altipiano di Asiago.
In questo libro vengono raccontati degli episodi di guerra realmente accaduti a quei soldati facenti parte della Brigata Sassari inviati al fronte per mantenere una posizione e contrastare il nemico. L’orrore della guerra, delle battaglie e delle scaramucce si manifesta, in primis, nell’inefficienza del vettovagliamento, nella scarsa preparazione dei giovani ufficiali di complemento e nel fanatismo e ottusità di alcuni generali che non esitavano a sacrificare in modo spregiudicato e cinico i propri uomini pur di ottenere la personale gloria applicando il codice militare di guerra in maniera arbitraria che genera “mostri” e morte.
Da evidenziare l’applicazione della "decimazione" per punire gli atti di codardia di un reparto durante il combattimento in presenza del nemico (l’assalto alla baionetta): un soldato fucilato ogni dieci.
La guerra di trincea sfibra i fisici più robusti e annichilisce la mente; in ogni momento si rimane in attesa della famigerata distribuzione del cognac, preludio di un combattimento contro le mitraglie nemiche e del corpo a corpo. L’assalto è il momento più tragico della guerra, al cui confronto le sofferenze della trincea diventano trascurabili; si tratta di una manciata di minuti in cui il significato di “morte certa” permea l’anima del soldato in maniera fulminea e con devastante rassegnazione.
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L'orrore della guerra
Considerato da molti, e non a torto, come un romanzo che nulla ha da invidiare a “Niente di nuovo sul fronte occidentale “ di Erich Maria Remarque, differisce da questo sia per l’ambientazione (là il fronte franco-germanico, qua quello italo-austriaco), sia per la diversa struttura narrativa (più romanzo quello di Remarque, pur se basato su esperienze personali, più diario quello di Lussu).
Premetto che è un bel romanzo, anche se secondo me inferiore a quello del tedesco, laddove la guerra appare come una mostruosità quasi insita nell’uomo, mentre nel testo di Lussu, pur mostrando l’orrore di un conflitto, è più marcato il riferimento a certe decisioni, ad alcuni personaggi (vedasi il generale Leone) che sembrano imprimere con il loro comportamento un andamento sanguinoso alle tante piccole battaglie o scaramucce.
Questo dipende anche dall’andamento quasi diaristico della scrittura, frutto dell’esperienza diretta dell’autore sull’Altipiano di Asiago dall’estate 1916 alla successiva del 1917.
In buona sostanza, nel romanzo di Remarque ci si indigna subito per la guerra, mentre in questo si viene esacerbati dalle azioni stolte di certi comandanti e solo di conseguenza si arriva a comprendere l’assurdità di un conflitto.
Comunque in queste pagine c’è tutto il dramma di una gioventù che in divisa ha servito il paese nella grande guerra:
la vita di trincea, i comandati fuori di testa, gli ordini sbagliati, l’artiglieria italiana che regolarmente spara sulle nostre linee, gli assalti senza alcuna utilità, le ore di ozio e la paura delle azioni.
Il tutto viene descritto con tono distaccato, quasi che l’io narrante, il tenente Emilio Lussu fosse un semplice spettatore. Infatti, non c’è bisogno di commenti o chiarimenti, perché la realtà parla da sola.
Considerato anche lo stile non greve, anzi dinamico, non sarebbe male, anzi sarebbe bene che fosse presente nei programmi scolastici.
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Terribile testimonianza sul 'senso' della guerra
Giugno 1916.
La Brigata Sassari si trova sull'Altipiano di Asiago, lungo il fronte orientale. E' una carneficina.
Il memoriale-romanzo di Emilio Lussu potrebbe anche riassumersi così.
L'autore, fervente interventista, è costretto a ricredersi in merito all'utilità della guerra. Perché il primo conflitto mondiale risulterà essere il "perfetto" mix di generali ottusi e presuntuosi, di tenenti altrettanto inesperti (eccezion fatta per Ottolenghi) e di gente comune, per la maggior parte analfabeta, che non sa nemmeno per chi o per cosa sta rischiando la propria vita.
Lo stile e il linguaggio sono ricolmi di frustrazione e di sanguinante lucidità, sentimenti tipici di chi ha ormai perso le speranze e attende l'arrivo della morte quasi come liberazione ultima.
La morale del libro? 8450000 morti, 21188000 feriti, 7751000 dispersi.
La morale vien da sé.