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Storia universale della distruzione dei libri Storia universale della distruzione dei libri

Storia universale della distruzione dei libri

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"Dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini": queste parole di Heinrich Heine ci ricordano che in tutte le epoche e civiltà il libro, come strumento di trasmissione delle idee e della memoria, è stato vittima del fanatismo e della censura. Da quando è nata la scrittura, gli elementi della natura e la volontà distruttrice dell'uomo hanno messo in pericolo la sopravvivenza dei suoi supporti materiali. In questa edizione, rivista e ampliata rispetto all'originale, Fernando Bàez ricostruisce l'inquietante storia della distruzione dei libri, vittime delle catastrofi naturali, delle fiamme, delle guerre e soprattutto dell'intolleranza politica e religiosa. L'itinerario parte dalle tavolette sumere e giunge fino al saccheggio di Baghdad all'inizio del secolo XXI, passando per la sparizione della leggendaria biblioteca di Alessandria, i grandi classici greci perduti, i roghi dell'imperatore cinese Shi Huangdi, la rovina dei papiri di Ercolano, gli abusi degli inquisitori, l'incendio dell'Escorial, l'eliminazione dei libri durante la guerra civile spagnola, le persecuzioni degli scrittori da parte dei totalitarismi del Novecento.



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Storia universale della distruzione dei libri 2008-06-10 10:55:06 galloway
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galloway Opinione inserita da galloway    10 Giugno, 2008
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Distruggere i libri

Questa è l’introduzione ad un libro che nessun bibliomane/bibliofilo dovrebbe mancare di leggere. Quella che state per leggere è una storia infinita. Comincia qualche migliaio di anni fa (5.000, 6.000, di più?) con i primi libri dell'umanità e le loro immediate, precoci distruzioni. Perché da subito ogni guerra e tutti i conquistatori, mentre si appropriano di terre e massacrano uomini, coltivano l'insopprimibile impulso e la tracotante necessità di cancellare le culture nemiche — la memoria custodita da tavolette, rotoli, papiri, codici, nei supporti e nelle forme che la genialità umana ha via via inventato per registrare, raccontare, lasciare traccia di sé, investigare il proprio destino. Ma quella che state per leggere è una storia infinita per una ragione più inquietante: non finisce mai. I distruttori hanno cambiato strumenti e tecnologie, quello che un tempo faceva il fuoco oggi è prodotto dalle censure della Rete, dal digital divide, dalla distruzione degli archivi elettronici: pratiche che per così dire integrano ma non eliminano le più tradizionali, come raccontano le cronache a noi contemporanee. Il caso della fatwa globale contro I versi satanici di Salman Rushdie è solo il più clamoroso e "mediatico" - e comunque ha lasciato sul terreno almeno una vittima, il traduttore giapponese Hitoshi Igarashi, che non andrebbe dimenticato.

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L'immaginario del fuoco purificatore continua a circolare, se è vero che in forme per ora grottesche sfiora bestseller come Harry Potter e Il codice da Vinci. A parte le polemiche intorno al libro di Ariel Toaff Pasque di sangue che hanno portato al suo ritiro dalle librerie, libricidi veri e propri si commettono ancora in molte parti del mondo. Al fondo c'è la stessa banale intenzione di ridurre l'area della conoscenza, perseguitare l'alterità, sopprimere le differenze, cancellare le memorie altrui.

Del resto quella che state per leggere è anche una storia ininterrotta: non c'è stato regime, ideologia e religione immune da questa ossessione distruttiva. Hanno bruciato libri i reazionari e i rivoluzionari, i seguaci delle tradizioni minacciate e gli adepti di nuovi culti ansiosi di cancellare i vecchi, le inquisizioni cattoliche e le ortodossie ebraiche, i califfi islamici e i pastori protestanti, i nazisti e i comunisti ma anche le democrazie liberali, almeno in certe loro periferie ideologiche. Sono stati bruciati i libri degli illuministi e subito dopo quelli dei nemici della Rivoluzione francese. Nel Novecento totalitarismi diversi hanno applicato la stessa radicale cura del fuoco che è affiorata perfino nella più nobile delle lotte, quella contro l' apartheid.

E infine lo sterminato elenco di distruzioni che Fernando Báez ha raccolto con una sorta di partecipazione dolorosa e maniacale racconta una storia circolare. Non solo perché inizia e (per ora) finisce là, in Iraq, nella Mesopotamia dove tutto, anche la scrittura, cominciò e dove oggi guerre e terrorismo non risparmiano le biblioteche, gli archivi, i quartieri del libro. Ma perché nei modi reiterati di una disperante coazione a ripetere sembrano riproporsi gli stessi impulsi e le stesse motivazioni: si distruggono libri perché non si accettano idee e memorie diverse dalla propria. In nome della fissazione per l'uniformità che già nella Cina del II secolo a.C. trasformò l'augusto sovrano Shi Huangdi in uno dei più grandi distruttori della storia: migliaia di libri "non legalisti" distrutti, oltre quattrocento letterati sepolti vivi. Secondo il principio lucidamente rivendicato dal califfo Omar davanti alla biblioteca di Alessandria: «Se i libri contengono la stessa dottrina del Corano, sono inutili in quanto ripetizioni; se i libri non sono in accordo con la dottrina del Corano, non è il caso di conservarli». Parole che potrebbero essere pronunciate da altre migliaia di burocrati del terrore culturale sparsi in tutte le epoche e religioni. Perché i libri (i buoni libri, quelli che si conquistano l'onore della distruzione) non sono mai "in accordo" con la Verità, la Fede, il Progetto, la Missione. A chi scrive (e a chi legge), le Verità uniche, le Fedi obbligate, i Progetti sbandierati e le Missioni salvifiche non piacciono o non bastano. Per questo scrivono o leggono. Questo rende loro e i loro libri dei Nemici.

La prima vittima di una distruzione di libri a seguito di un pubblico decreto tu il sofista Protagora, che nell'Atene del V secolo a.C. «gli dei affermava di non sapere né potere capire quali fossero né se davvero esistessero, mantenendo una posizione misurata e cauta». Protagora pagò «il suo relativismo epistemologico» - accusa che a noi oggi suona sinistramente familiare. Ma bisogna sfuggire simili tentazioni. Non tutte le epoche e le distruzioni sono uguali. Quando un libro non era tecnicamente riproducibile, la sua eliminazione aveva ovviamente effetti fatali. E qualunque democrazia – compresa quella che con facile fiducia definiamo elettronica – per il tanto o poco di pluralismo che comporta, permette ai libri da qualche parte e in qualche modo di sopravvivere.

Del resto gran parte delle distruzioni che Báez racconta hanno cause naturali: terremoti e inondazioni, incendi e uragani. Ma la distinzione non risulta in realtà così netta e decisiva. La fragilità dei libri è infatti resa più vulnerabile dall'indifferenza colpevole che li circonda: come giudicare l'immobilità delle truppe americane a Bagdad nei giorni del saccheggio delle biblioteche, degli archivi e dei musei? E come definire la scomparsa della straordinaria biblioteca del Centro culturale ebraico di Buenos Aires nell'attentato del luglio del 1994? Solo l'effetto collaterale di una bomba che ha provocato quasi cento morti? L'indifferenza è più pericolosa del fuoco, pensava Josif Brodskij: «non leggere i libri è peggio che bruciarli» – e a me torna in mente l'irrilevanza così peculiare confessata dall'editore napoletano Tullio Pironti quando in Libri e cazzotti racconta degli abili scippatori di piazza Dante costretti a rimettere al loro posto i volumi che avevano sottratto alla sua libreria, per l'impossibilità di piazzarli remunerativamente altrove. Ma l'indifferenza ha ben altre dimensioni e altre colpe. La storia più drammatica e attuale che questo libro contiene è quella della Vijecnica, la splendida biblioteca di Sarajevo, distrutta in tre giorni, a partire dalla dieci e mezza di sera del 25 agosto 1992, dai colpi di 25 obici serbi. Nel cuore d'Europa, in epoca contemporanea, sotto gli occhi e nel silenzio del mondo, pure già istruito dall'infallibile profezia di Heinrich Heine («Dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini»). A Sarajevo l'odio per i libri ha consapevolmente sintetizzato l'intreccio di memorie ferite, rivendicazioni identitarie, disprezzo per le altrui culture, travestimenti ideologici e religiosi che forma la terribile miscela dei conflitti contemporanei (e qualche pagina dopo Báez nelle poche righe dedicate alla Cecenia senza libri mostra quanto velocemente questa tragedia sia destinata a ripetersi).

Non so se il libro e la lettura siano antidoto e terapia sufficienti di fronte all'odio. Nell'affascinante immaginario dialogo di due unni davanti alla biblioteca di un monastero in un romanzo ottocentesco che Báez cita, uno dei due barbari irride così i colti: «una mano che ha impugnato il calamo non sarà mai in grado di impugnare una spada». Questo paradossale elogio pecca però di ottimismo. Dalle biblioteche escono anche i massacratori, ci ricordava Bertolt Brecht. Diverse dittature hanno magari retoricamente provato a intrecciare libri e moschetti (dimostrando poi scarsa pratica di entrambi). Accademie zeppe di letterati hanno benedetto le più atroci stragi etniche del nostro tempo. Il culto del libro non può che essere relativo. Leggere è una attività critica ma anche autocritica: già il primo eroe della lettura, il grande Don Chisciotte, mette in scena la più sarcastica ironia verso la propria stessa passione. È per questo infine che ai libri – o meglio: a quello che nella storia dell'umanità finora è stato nei libri – non possiamo rinunciare.

Da questo punto di vista, la storia dell'odio per i libri finisce per diventare una paradossale, rovesciata storia dell'amore per la lettura. Cosa combattono infatti i biblioclasti? Quella trama di relazioni che ogni lettore tesse. Il legame con «lo spirito diabolico del passato», come lo chiamava Goebbels, e quello altrettanto tenace con altri uomini, sentimenti, esperienze e sogni che minaccia l'incontestabilità di ogni realtà e autorità presente. La semplice idea che (quasi) ogni libro contiene l'esistenza di un Altro e di un Altrove magari immaginati come migliori indebolisce fedeltà e obbedienze dogmatiche. Leggere è dunque un gesto scismatico, che separa e mette in discussione il presente nello stesso momento in cui mette in connessione e avvicina altri uomini, altre epoche, magari lontane e nemiche.

La quantità di spiegazioni che Fernando Báez mette in campo per cercare di capire la furia dei distruttori – dall'indagine sui miti apocalittici alle teorie complottiste di Jacques Bergier, a quelle psicoanalitiche di Gérard Haddad – è suggestiva. Ma al termine della lettura rimane la sensazione che l'ossessione della tabula rasa e della negazione dell'Alterità sia sufficiente a spiegare gran parte delle distruzioni. Forse sarebbe a questo punto più interessante studiare e finalmente rivalutare le ragioni dei pochi o tanti che a Qumran sul Mar Morto, a Mogao nel deserto del Gobi, a Nag Hammadi in Egitto – ma anche a Firenze nel 1966 –, più simili agli Uomini-Libri di Bradbury che a dei bibliotecari veri e propri, hanno salvato qualcosa: un rotolo, una tavoletta, un manoscritto, una storia, una memoria. Coloro che hanno custodito, nascosto, curato quella delicata e vulnerabile fede nel futuro che da qualche migliaia di anni – sì, è davvero una storia infinita – noi uomini affidiamo ai libri.

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