Storia di dodici manoscritti
Saggistica
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Un viaggio inaspettato
Siccome “viaggio tra libri meravigliosi, miracolosamente sopravvissuti ai secoli, viaggio nella loro storia, tra i loro proprietari (siano essi persone o istituzioni); viaggio nell’arte, nel tempo, nell’evolversi della mentalità, del gusto e della religiosità” era un titolo troppo lungo, si è optato per un più semplice (o forse più intrigante?) “storia di dodici manoscritti”. Eppure, persino il titolo che ho proposto io non rende appieno la ricchezza di questo libro.
Cominciamo dal principio: il noto e canuto accademico, tale signor De Hamel, decide di parlarci di dodici manoscritti appartenenti a epoche, luoghi e committenze diverse, in un percorso che non si focalizza esclusivamente sul libro, ma soprattutto sul suo vissuto (se così si può chiamare): si descrive il luogo dove ora è conservato, quello (se conosciuto) da cui deriva, e le persone che hanno contribuito alla sua storia: proprietari, ritrovatori, collezionisti, estimatori, esperti che lo valutarono ecc; il tutto arricchito da considerazioni sui tipi scrittura, sulla miniatura, sulle corti europee. A leggerlo si può diventare estremamente acculturati.
Prendiamo per esempio il libro di Kells (fine VIII secolo): è inscritto nel Registro della Memoria del Mondo dell’UNESCO (sapevate della sua esistenza?), ed è un tale monumento per l’Irlanda da aver dato il nome alla fermata del tram; i suoi disegni sono famosissimi e riprodotti nei modi più diversi e, a volte, più kitsch: monete, banconote, facsimili, francobolli e souvenir, tra cui gli immancabili canovacci. Nonostante elementi tipicamente celtici come i complicati intrecci, l’autore sottolinea i paralleli con l’arte greca e copta e fa notare che il manoscritto è in latino: la cosa non ci sorprenderebbe più di tanto se non tenessimo conto del fatto che l’Irlanda è stata estranea alla colonizzazione romana; la presenza del manoscritto (e di altri) dunque, indica chiaramente che quella lingua era penetrata (attraverso il cristianesimo) anche sull’isola. Inoltre il libro contiene la più antica raffigurazione europea della Madonna con Bambino.
E a proposito di primati: il commentario di San Girolamo a Isaia invece (conservato alla Bodleian Library, Oxford; tardo XI secolo), contiene quello che è il più antico autoritratto inglese firmato, ovvero quello di Hugo Pictor; si tratta di un autoritratto piccolissimo, posto in un angolo interno della pagina che, curiosamente, ci presenta un monaco dai capelli verdi. Eppure un piccolo disegno può rivelare grandi cose: Hugo è “pictor” appunto, quindi ha miniato il manoscritto (effettivamente vi si riconosce una mano uniforme), ma si rappresenta nell’atto di scrivere, quindi è probabile che sia anche uno dei quattro scribi del libro. Ma da dove veniva Hugo Pictor? De Hamel si ricollega all’impresa di Guglielmo il Conquistatore e alle conseguenze che ebbe per l’Inghilterra, tra le quali una maggiore apertura verso l’Europa continentale e in particolare verso la Francia; non da ultimo notiamo che il nostro Hugo sta scrivendo sotto un tetto di tegole: nel Devon (la contea da cui proviene il libro) i tetti erano di paglia; in Normandia (terra del Conquistatore) erano di tegole: pare proprio che il più antico autoritratto dell’arte inglese sia in verità continentale (e francese!)…
E chi non ha mai sentito parlare dei Carmina Burana? Carmina si richiama ovviamente al contenuto, cioè alle circa 350 poesie e canti in latino e tedesco; Burana deriva invece dal nome (di pronuncia lievemente difficile per noi) del monastero nel quale il manoscritto fu trovato: Benediktbeuern. Si tratta dell’antologia medioevale più ampia a noi conosciuta e, come è noto, i suoi canti furono messi in musica con grande successo da Karl Orff nel 1937. Sono costretta a deludervi però: dovete infatti sapere che le note di Orff non hanno niente a che vedere con i canti medioevali, e che persino il testo è stato stravolto per esigenze di ritmo.
Oltre a questo, come vi dicevo, varie sono le nozioni sparse qua e là come briciole di pane che rispondono a domande forse mai poste, eppure davvero interessanti; per esempio sapete perché e da quando i fogli hanno una forma rettangolare? Da quando si iniziò a usare la pergamena: essa infatti si ricava dalla pelle di animali (ovini, caprini, bovini) che hanno una forma oblunga, cioè danno un foglio rettangolare; quando poi è subentrata la carta, alla quale teoricamente si poteva dare qualunque forma si volesse, eravamo così abituati al rettangolo che a nessuno venne in mente di cambiarlo.
E sapete perché “mezzogiorno” in inglese si dice “noon” (da cui deriva anche “afternoon”)? Perché per tutto il medioevo le ore venivano scandite secondo l’uso religioso (prima, sesta, compieta ecc.), e l’ora “nona” corrispondeva, appunto, a mezzogiorno: ora è facilissimo notare l’assonanza tra “nona” e “noon”. E ancora: come veniva prodotto fisicamente un manoscritto? Io per molto tempo ho pensato che si prendesse un quaderno bianco già bell’e fatto e si iniziasse a scrivere, senza pormi eventuali problemi che un amanuense poteva incontrare: potevano servire molte più pagine o, al contrario, potevano servirne molte meno. La verità è che la stragrande maggioranza dei manoscritti (ma anche dei libri a stampa) veniva prodotta per fascicoli, solitamente affidati a più scribi per velocizzare la produzione.
Un’ultima chicca per sottolineare nuovamente la differenza di mentalità intervenuta nei secoli, e sulla quale spesso non riflettiamo: mentre per noi nell’arte in generale è importante e meritevole l’originalità dell’artista, nell’Europa medioevale copiare non era un reato e men che meno motivo di disprezzo; gli artisti si imitavano tra contemporanei e si richiamavano ai loro predecessori (anche lontani tempo) in quanto considerati auctoritas. Un’opera d’arte doveva porsi su una linea di continuità con ciò che fino a quel momento era stato prodotto e riconosciuto di valore. Un espediente famoso come quello del manoscritto ritrovato (con il quale iniziano una molteplicità di narrazioni: il Decameron, I promessi sposi, Il conte di Montecristo e così via) si pone proprio sotto questa luce: serve a dare antichità e veridicità a quello che si sta per raccontare.
In ultimo non si possono non apprezzare le osservazioni, l’ironia e i commenti (comunque sempre molto english) ai quali l’autore si lascia andare, discostandosi occasionalmente dal linguaggio accademico e dando così al tutto un tono più leggero: i guanti con cui a volte deve sfogliare i manoscritti sono sempre orribili, la maggior parte delle rilegature sono recenti e inadatte, mentre la famosissima Madonna col Bambino del libro di Kells “è di una bruttezza agghiacciante” (corregge poi il tiro aggiungendo che “tuttavia, la bellezza intrinseca è un concetto difficile in storia dell’arte, specialmente quando da un’opera ci separano milleduecento anni”). Anche su di noi ha qualcosa da dire: la sua prima richiesta di vedere il codice Amiatino, infatti, subì un rifiuto, “condito dai profondi sospiri e dalle espressioni di rammarico in cui gli italiani non hanno rivali”; questo però non lo scoraggiò affatto, in quanto “in Italia […] un no non equivale necessariamente a un rifiuto. È solo una fase preliminare della discussione”. E su questo, come dargli torto?