Sciascia l'eretico
Saggistica
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Sciascia tre decenni dopo
«È l’alba del 20 novembre 1989 quando Sciascia si spegne. Sono le 7 del mattino. Viene vestito con un abito grigio e una cravatta mai indossata prima, dono di Franco Nasca, il giudice suo amico, suo assiduo accompagnatore a Palermo insieme con l’Avvocato Angelo Perna. Fra camera da letto e salone ci sono i quattro nipoti, Fabrizio e Vito, Michele e Angela. La casa sarà poi affollata anche da persone in vita, negli ultimi anni della sua vita, lo hanno contestato. Soprattutto sul fronte del diritto. A Racalmuto attende la salma l’arciprete del paese, suo amico d’infanzia, quel padre Puma, “mezzo parente”, sempre pronto a tentare invano di scardinare in lui un certo laico scetticismo. Magari con la speranza di una conversione finale che non ci fu. Ma che il sacerdote avrebbe dato per cosa quasi fatto se solo gli avessero consentito di tracciare una croce sulla lastra marmorea voluta dallo stesso Sciascia.»
Come raccontare Sciascia a chi non lo conosce o a chi, invece, lo ricorda vivido nella mente con tutta la sua complessità per quelle battaglie che tanto lo hanno visto partecipe e che ancora oggi non rappresentano altro che sfide del quotidiano, sfide che la nostra attuale società è chiamata ad affrontare in un alternarsi tra ragione e diritto, legalità e illegalità, correttezza e scorciatoie?
Leonardo Sciascia ha anticipato i tempi anticipando – perdonate il gioco di parole – quelli che sono poi stati i temi cruciali della vita pubblica e cioè quei nodi rimasti intrappolati in un pettine che non riesce a districarli, quei nodi che passano dalla lotta alla mafia e alla corruzione, a una politica sempre più marcia e fatta di esponenti ancora più di dubbia umanità, agli errori della macchina giudiziaria, agli errori dello Stato, dal caso Moro al travaglio di Enzo Tortora, passando “da forti intese a grandi contese, da Calvino a Gattuso. Con qualche rimpianto, come nel caso di Pier Paolo Pasolini e “del ritorno delle lucciole”.
Una vita priva di passioni, controcorrente, fatta di una realtà riportata su carta con drammatica verità, una realtà riportata con quel cinismo tale da scuotere cuori, anime e menti, tale da lasciare un segno indelebile nella mente del lettore che prendeva – e tutt’ora prende – parte di quel narrato, di quel proferito. Perché egli era un uomo di pensieri originali, di intuizioni, di scelte volutamente e drasticamente anticonformiste. Ecco perché, questo saggio, non poteva che intitolarsi “Sciascia l’eretico. Storie e profezie di un siciliano scomodo”. Perché con cura e dovizia, con aneddoti propri di chi l’autore ha avuto modo di conoscere da vicino, ne viene ricostruito il volto, la fisionomia, il pensiero, il ricordo.
E così, a trent’anni da quel vuoto non colmato, ecco che le sue lezioni tra ragione e diritto, tra politica e religione, tra onestà e disonestà, risultano essere tremendamente radicate anche nei nostri tempi così come anche la sua figura. La risentiamo vicina ripercorrendo gli anni del delitto Moro, gli anni del difficile rapporto tra Pci e Dc, gli anni dei cd. “professionisti dell’antimafia”, gli anni dei “quaquaraquà”.
Quella proposta da Cavallaro è una biografia diversa dal solito perché ha quale obiettivo non tanto quello di ricostruire i fatti pregnanti di un’esistenza quanto di riportare alla luce la forza intellettuale e umana del letterato. Con grande maestria egli ricostruisce una vita fatta di intrecci e di scambi culturali con figure portanti quali Italo Calvino, Vincenzo Consolo, Pier Paolo Pasolini, Gesualdo Bufalino e molti altri ancora.
Quella di Cavallaro è la riuscita ricostruzione dell’eredità di un uomo abituato a vivere a pensare senza farsi influenzare, di un uomo il cui lasciato è fondamentale per i tempi di ieri e per quelli che verranno. Torniamo a Racalmuto con il cuore gonfio di curiosità e ce ne andiamo, chiudendo queste pagine, con la voglia di leggere ancora e ancora di questo protagonista, con quel senso di malinconia per una perdita troppo grande.
«Ho continuato a pensarci ricordando a me stesso la regola di non diventare mai altoparlante di una fonte, ma di passare sempre tutto al setaccio del riscontro. Anche a costo di apparire poco accondiscendente con la stessa fonte, compreso qualche magistrato. […] Tensioni sorde vivevano alcuni di noi, considerati meno affidabili. Io continuavo a pensare che non si potesse scrivere su commissione. Nemmeno su stimolo dei pubblici ministeri. Nemmeno con magistrati pronti a stilare le loro liste di buoni e cattivi, a parlare con direttori e vicedirettori per contestare il taglio di un articolo. C’era chi pensava di potere suggerire interpretazioni e titoli.»