Necropoli Necropoli

Necropoli

Saggistica

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Campo di concentramento di Natzweiler-Struhof sui Vosgi. L'uomo che vi arriva, una domenica pomeriggio insieme a un gruppo di turisti, non è un visitatore qualsiasi: è un ex deportato che a distanza di anni è voluto tornare nei luoghi dove era stato internato. I ricordi riaffiorano con il loro carico di dolore. Ritornano la sofferenza per la fame e il freddo, l'umiliazione per le percosse e gli insulti, la pena profondissima per quanti, i più, non ce l'hanno fatta. E come fotogrammi, si snodano le infinite vicende che parlano di un orrore che in nessun modo si riesce a spiegare, ma insieme i tanti episodi di solidarietà tra prigionieri, di una umanità mai del tutto sconfitta, di un desiderio di vivere che neanche in circostanze così drammatiche si è mai perso completamente.



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Necropoli 2014-03-15 08:43:59 romantica82
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romantica82 Opinione inserita da romantica82    15 Marzo, 2014
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Il senso di colpa del sopravvissuto

Decodificare questo libro, farne una sinossi e ripercorrerne il senso è difficile, soprattutto perché scritti e testimonianze su quella terribile parentesi nella storia dell’umanità che è stato il genocidio nazista nei campi di concentramento fortunatamente pullulano nelle librerie, ma questo testo, contrariamente alla maggior parte delle storie strazianti dei sopravvissuti, ha qualcosa di diverso, che definirei in una parola: spietatezza.
Termine, anche questo, abusato, in una trattatistica del genere, se si fa riferimento ai comportamenti disumani delle guardie, dei medici e responsabili di ciascun campo, ma questa volta questa parola può essere inusualmente incollata alle stesse vittime delle uccisioni ed, ancor di più, a coloro che si sono salvati.
Questa è, dunque, ciò che differenzia questo libro, dai toni forti e mai pietistici, rispetto a tutti gli altri, relativi a questo specifico argomento, nei quali mi sono imbattuta fino ad ora.
Pahor è un sopravvissuto e, dopo venti anni dalla fine della barbarie, ritorna nel campo di Natzweiller- Struthof dove ha trascorso tre anni della propria vita. Vi fa, dunque, ritorno volontariamente, contrariamente alla prima volta in cui ha superato quel cancello, ed in solitaria.
Apparentemente sembrerebbe un signore di mezza età che fa visita ad uno dei luoghi più rappresentativi della seconda guerra mondiale, ma nella realtà egli, con molta insofferenza, si stacca dal gruppo di turisti che incontra nel suo cammino ed intraprende questo viaggio della memoria.
Un viaggio catartico? Assolutamente no . Mentre ripercorre palmo a palmo quella che, per alcuni anni, è stata la sua casa del terrore, quanto più i ricordi salgono alla mente, tanto più la rabbia inonda il suo animo.
Si lascia andare ad una congerie di sentimenti negativi per la barbarie, le uccisioni di innocenti tacciati di essere colpevoli solo perché sloveni, ma soprattutto perché è sopravvissuto alla morte di amici del campo e di bambini nei confronti dei quali non ha fatto nulla di concreto.
Pahor non vuole descriversi come una vittima, non cerca la pietà del lettore rispetto alla propria storia, ma, con lo scritto, cerca di liberarsi di una tormenta interiore che, dal primo giorno della liberazione, lo accompagna.
Il fatto che avesse studiato e, per tale ragione, fosse stato destinato ad un lavoro infermieristico contrariamente a chi, invece, veniva portato nelle cave, lo ha preservato da quelle malattie che si contraggono per la mancanza di cibo e l’eccessiva spossatezza fisica, ed anche questo è vissuto da lui come foriero di sensi di colpa. Per questa ragione non dà importanza agli aiuti che, grazie alla sua posizione all’interno dello studio medico, ha dato a coloro che avevano più bisogno, ad esempio attraverso la somministrazione di glucosio a chi versava in condizioni di malnutrizione evidente, ma, pur raccontando questi episodi di pietas genuina, sembra volervi glissare perché non sono nulla rispetto al dolore che gli si parava davanti.
Così ha perso di vista il fatto che egli stesso fosse protagonista di una tragedia umana dalla quale è uscito vivo, contrariamente ai suoi cari che hanno perso la vita, ma dilaniato dentro.
Questo mondo interiore, cosparso di rabbia e spietatezza cui prima ho fatto cenno, si riversa nella scrittura che si tinge di tinte fosche, priva di raggi di speranza e spietata anch’essa.
Le descrizioni delle torture, dei corpi che si muovono, come delle anime in pena, privati della dignità umana, calvi e poco coperti, è minuziosa, quasi scientifica, e lascia al lettore un profondo senso di desolazione.
Necropoli, la città dei morti, dove la morte non è preludio della resurrezione dei giusti, ma è semplicemente la fine tragica di chi non c’è più e di chi, pur vivendo ancora, ha spento, nel proprio cuore, la luce della speranza.

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Necropoli 2012-06-21 13:34:28 Amorelettronico
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Amorelettronico Opinione inserita da Amorelettronico    21 Giugno, 2012
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La città dei morti

Inizio subito col dire che questo libro tratta una tematica decisamente pesante e che l'uso di similitudini, il linguaggio forbito, non rende il libro per nulla leggero. Pahor ha stile da vendere e scrive in modo eccellente e sebbene io all'inizio credevo di non cogliere nulla di quello che aveva scritto, alla fine del libro mi sono trovata ancora più riflessiva di quella che ero. Com'è possibile scrivere in un modo così preciso e allo stesso tempo con un linguaggio "difficile"? L'autore ha vissuto realmente ciò che narra nel libro, non è la solita narrazione sulla sofferenza degli internati è qualcosa di ben più profondo. Leggendo ho realizzato di quanto poco, forse per nulla, mi fossi immedesimata in quella sofferenza per anni. Il libro si apre con l'introduzione di Claudio Magris che descrive in modo eccellente ciò che troveremo durante la narrazione. A fine libro una nota bio-bibliografica di Enrico Bistazzoni. Ho messo 3 come piacevolezza al libro perché è un po' "pesante" da leggere ma la trama ha un forte impatto sul lettore... lo consiglio per il forte impatto psicologico ed emotivo.

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qualsiasi cosa. Ovviamente lo consiglio vivamente a chi è molto sensibile a questa tematica.
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Necropoli 2011-12-26 08:22:55 Fulvia
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Opinione inserita da Fulvia    26 Dicembre, 2011

La mia sensazione? Solo cumuli di morti.

Mi ha lasciata turbata la lettura di questo libro, che ho trovato pesante come un macigno. Leggo solo libri sull'Olocausto, ne ho una collezione intera. Questo è il peggiore in assoluto, lo sconsiglio.

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lo sconsiglio. C'è di meglio, senza ombra di dubbio!
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Necropoli 2008-09-12 11:34:51 Rubindi
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Opinione inserita da Rubindi    12 Settembre, 2008

Necropoli Memoria

Con Necropoli Boris Pahor mette a nudo il lettore
proiettandolo nella dimensione apocalittica del "mondo crematorio",realtà infernale,anticamera della disumanizzazione.
L'esperienza di Pahor svuota e disarma dinanzi all'assurdità delle persecuzioni razziali e alla ferocia del mostro nazista.
Formidabile l'eloquenza dell'autore che suscita meditazione sul senso della "storia umana" e sul fine da perseguire nella vita affinchè lo strazio e la morte di milioni Fratelli non siano stati vani...Grazie Pahor per la memoria che ci hai donato...

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Se questo è un uomo/La Tregua_Primo Levi
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Necropoli 2008-03-08 20:59:35 Walter Chiereghin
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Opinione inserita da Walter Chiereghin    08 Marzo, 2008

RITORNO ALL'INFERNO

RITORNO ALL’INFERNO



Finalmente la versione italiana di “Necropoli”, capolavoro di Boris Pahor



Un signore di mezza età che, in una domenica di luglio della metà degli anni ’60, viaggia a bordo della sua 600 sui tornanti di una strada nei Vosgi, incolonnato con una quantità di altre vetture di turisti. Non si può immaginare un incipit più quietamente piccolo-borghese per questo Necropoli, ma poche righe dopo quel signore, uno sloveno triestino minuto e dall’aria distinta di nome Boris Pahor, entra assieme a un gruppo di turisti più o meno consapevoli in quello che era stato il lager nazista di Natzweiler-Struthof. Tenendosi appartato dalla comitiva accompagnata dalla guida, il signore percorre da solo l’itinerario che conosce bene, scendendo dall’ingresso collocato in alto sul pendio, attraverso i terrazzamenti digradanti che conducono in basso, al margine inferiore del campo, dove oltre il filo spinato si vede un folto bosco. Qui, nel fondo, due baracche, una delle quali ospitava la prigione (la prigione? Cos’era allora il resto?), l’altra il forno nel quale gli scheletrici resti di quanti non ce l’avevano fatta trovavano alfine una pace di cenere.

Pahor ci fa da guida in questa geografia dell’orrore, a rievocare l’esplicita metafora che essa rappresenta, un’autentica rivisitazione in termini crudamente realistici della topografia dell’inferno dantesco nella quale i terrazzamenti hanno il posto dei gironi, i deportati quello dei dannati, i secondini quello dei demoni, il forno la collocazione di Lucifero, nelle cui fauci anziché i traditori dei benefattori vengono divorati i resti di ciò che erano state le povere carni martoriate e innocenti, divenute alfine le ossa umiliate, come le definisce ora una pietosa iscrizione.

Il libro che, con imperdonabile ritardo della nostra editoria, è stato pubblicato in versione italiana da un editore di valenza nazionale (Necropoli, Fazi editore, traduzione di Ezio Martin, revisione del testo di Valerio Aiolli e prefazione di Claudio Magris, pp. 280, 16 Euro) è stato pubblicato in sloveno nel 1967 e viene proposto al pubblico italiano dopo che le traduzioni in francese, inglese, tedesco, spagnolo, catalano, finlandese, serbo-croato e persino esperanto hanno fatto conoscere l’opera di Pahor ai lettori di mezzo mondo. Tale fama internazionale ha collocato l’autore nella dimensione europea che gli spetta per aver attraversato quasi per intero un secolo della storia di questo continente, facendosene testimone e interprete rigoroso ed attento, consapevolmente partecipe e politicamente sempre impegnato, ancorato ai valori di humanitas che stanno alla base del suo agire personale, sociale e letterario.

Necropoli non è, a differenza di altri libri sul medesimo tema, la cronaca dell’internamento in un lager del suo protagonista. Al contrario, si tratta di un libro sul ritorno, che affronta ex post il nodo esistenziale di quella inumana detenzione, a rievocare la miriade di fatti che ne costellano la scia, rivissuti da una memoria che non riesce a staccarsene, condannata come sembra alla pena accessoria del senso di colpa per essere sopravvissuto alla mattanza, oltre a quella di un perpetuo ritorno sul luogo dove s’era consumato l’abominevole delitto. Delitto tutto di altri, s’intende, perché lì dentro i detenuti erano gli Abele e le guardie i Caino.

La rievocazione che Pahor compie per i suoi lettori, per se stesso, avviene con l’intermittente presenza del gruppo di turisti dal quale egli cerca di stare appartato, a sottolineare la diversità, quasi un occulto vizio originario, tra chi è stato in quei luoghi in compagnia della morte onnipresente e incombente e gli altri, quelli che vivono la loro normalità senza l’insostenibile soma dei ricordi acuminati del reduce.

Chi legge il libro può valersi della memoria lucida e inflessibile di chi lo ha scritto: un’evocazione senza compiacimento letterario alcuno, un incalzare di immagini che hanno la tremenda forza che deriva loro dal bianco/nero col quale sono rappresentate, come sequenze di un agghiacciante documentario che mette in scena senza commento sonoro e senza pause il popolo dei dannati, il freddo e la pioggia e la fame e le teste rasate di una moltitudine priva di individualità, di forze, di calore, di passato e di futuro, apparentemente anche di dignità.

Come ci ha detto Pahor in un’intervista del 2006, tale descrizione degli eventi e delle figure che popolano quello spazio di morte e di vergogna, con le sue caratteristiche di meticolosità e di assenza di ogni troppo facile indulgere al patetico, costituisce il tentativo di riprodurre nel testo quello che fu l’atteggiamento mentale del protagonista per resistere all’inaudita sopraffazione che gli era imposta. Occuparsi soltanto del contingente, della crosta di pane che in quel momento poteva nutrirlo, dello scalino che doveva badare a salire senza scivolare, del calore che doveva trattenere in fila nudo fuori della baracca delle docce, delle bende di carta che costituivano pressoché l’unico strumento del suo lavoro di infermiere. In quelle così estreme condizioni, il protagonista si era vietato di pensare a passato e futuro, privandosi così del conforto di ricordi e speranze, per dedicarsi soltanto al suo sopravvivere al presente.

È così che questo minuto signore transita, nella detenzione, dalla Resistenza nella quale si era impegnato nella lotta antifascista ad una resistenza con la minuscola, un non meno glorioso percorso individuale di intransigente opposizione, un quotidiano non arrendersi ubbidendo soltanto all’imperativo di sopravvivere rimanendo se stesso, senza nessun compromesso con la propria coscienza.

Anche se sottaciuta nelle pagine del suo libro più importante, un’indefettibile forza di volontà ha consentito a Pahor di uscire vivo da quell’inferno e, quel che più conta, di uscirne mondo dell’abiezione che aveva attraversato. Tale straordinaria determinazione a non soccombere, la sua capacità di resistenza, riguarderebbe soltanto lui stesso se non fosse stata confortata anche da un rigoroso senso morale che viene riportato, senza mai essere esplicitamente citato, nelle pagine di questo grande libro, che consente al lettore, chiusa l’ultima pagina, di rispondere affermativamente alla domanda incapsulata nel titolo di “Se questo è un uomo”, l’altro grande libro su analoga materia scritto da Primo Levi.

Sì, questo è un uomo! Il minuto signore dall’aria distinta che ripercorre le scale del suo inferno assurto a monumento nazionale di una tragedia che supera ogni confine si erge come un gigante a ricordare che anche nelle più estreme condizioni, al di sotto della soglia minima di dignità umana, quando tutto sembra perduto sono ancora percorribili le vie della pietà e della moralità. Quanto insomma ci rende uomini.

Nel lager Pahor non era capitato per errore né, com’è avvenuto per altri milioni di persone, perché fosse ebreo. La storia del suo antifascismo è tutt’uno con la storia della sua vita, dal momento che ancora bambino, all’indomani della Grande guerra, aveva visto prevalere le ragioni dell’odio e dell’intolleranza xenofoba che furono alla base dell’agire delle squadracce che a pochi metri da dove abitava, con l’incendio del Narodni Dom del quale il piccolo Pahor fu testimone diretto, inaugurarono una lunga e triste stagione di prevaricazioni e violenze. La negazione della lingua materna, quella della stessa sua identità di sloveno furono levatrici della vocazione antifascista che lo condusse al lager.

Negli anni che seguirono, sotto più felpate e mimetiche apparenze, l’indifferenza con la quale la cultura di lingua italiana a Trieste guardava a quanto avveniva in ambito sloveno perpetuò quella separatezza che le ha impedito ad esempio di riconoscere per decenni in Necropoli il più importante libro scritto a Trieste nella seconda metà del Novecento.

Conforta il fatto che da qualche tempo qualcosa si stia muovendo nella nostra società in direzione di un reciproco riconoscimento delle diverse anime e delle diverse nazionalità che coesistono da secoli su questo nostro territorio. Dall’ambito culturale e accademico di più alto livello, da Claudio Magris a Elvio Guagnini, a quello giornalistico dove molto ha contato l’opera del responsabile delle pagine culturali de Il Piccolo. Alessandro Mezzena Lona (ricordato dall’editore come ispiratore della felice scelta operata dalla casa editrice con la pubblicazione di Necropoli) alla bella recensione di Paolo Rumiz su Repubblica, la cultura triestina di lingua italiana ha rotto da tempo, opportunamente, con una visione angustamente relegata alla contemplazione di se stessa.

Tra le tante figure di deportati che compaiono in Necropoli, quella di un altro triestino di lingua italiana, Gabriele (si tratta, anche se il testo non lo dice, dell’eroe della Resistenza Foschiatti, che rappresentò il Partito d’Azione in seno al CLN), viene rievocata da Pahor per riesumare una conversazione nella quale l’italiano “faceva progetti democratici e parlava di future relazioni di buon vicinato nei nostri territori costieri”. Pahor ascoltava scettico e perplesso, incapace di intravedere un futuro quale quello che gli veniva prospettato dalle parole di Gabriele. “A lui però non feci cenno delle mie perplessità: ero comunque contento di aver ascoltato quelle sue parole, ma le misi da una parte, come per conservarle in vista di un tempo migliore, il tempo della vita, che fluiva lontano anni luce da questi ripiani”. Forse che adesso, col confine appena cancellato, in una diversa visione della vita comune in questa città straziata e pure bellissima è finalmente arrivato anche per Pahor, come per tutti noi, il momento di tirar fuori quelle parole di Gabriele e di ringraziare chi le aveva profeticamente pronunciate nella miseria di un campo di concentramento. E anche il minuto signore dall’aria distinta che le ha conservate per il nostro presente.



Walter Chiereghin



Pubblicata su Konrad , n. 134

Marzo 2008

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