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Morte dell'inquisitore Morte dell'inquisitore

Morte dell'inquisitore

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Morte dell’inquisitore occupa un luogo del tutto a parte nell’opera di Leonardo Sciascia. La ragione ne fu data dall’autore stesso: «è un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere e che non riscrivo aspettando di scoprire ancora qualcosa». Un libro, dunque, fondato su un mistero non del tutto svelato, forse non del tutto svelabile. E inoltre il libro dove Sciascia ha disegnato la figura di un suo antenato ideale, l’eretico Diego La Matina. Il tema dell’Inquisizione, infine, rimane (e rimarrà sempre) quanto mai delicato, perché – come scrisse Sciascia stesso con memorabile efficacia – «appena si dà di tocco all’Inquisizione, molti galantuomini si sentono chiamare per nome, cognome e numero di tessera del partito cui sono iscritti».



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Morte dell'inquisitore 2010-11-20 10:46:52 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    20 Novembre, 2010
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L’annullamento delle fonti

“Pazienza
Pane, e tempo.

Queste parole, graffite sul muro di una cella del palazzo Chiaramonte, sede del Sant’Uffizio dal 1605 al 1782, Giuseppe Pitré riesce a decifrare nel 1906: insieme ad altre di disperazione, di paura, di avvertimento, di preghiera; tra immagini di santi, di allegorie, di cose ricordate o sognate.”


Il destino, spesso, riserva delle sorprese del tutto particolari e al riguardo Leonardo Sciascia mai avrebbe immaginato che quel personaggio di Fra Diego La Matina, incontrato casualmente raccogliendo i documenti d’epoca per il suo romanzo Il Consiglio d’Egitto, sarebbe diventato il protagonista di un altro libro, un’opera ultimata anche se incompiuta, suscettibile di nuove aggiunte, di altre ipotesi.
Certamente, più che il personaggio, è la genesi del reperimento della documentazione, incompleta, che portò lo scrittore siciliano a compiere un lavoro il cui grado di soddisfazione era per lui, per quanto possa sembrar strano, nella possibilità e nell’esigenza di rimettervi mano.
La vicenda in sé non è di eclatante interesse, con questo frate, recidivo, più volte condannato a pene sempre più severe e che infine, dopo aver ammazzato per esasperazione a manettate il suo inquisitore, viene giudicato, ritenuto colpevole e sanzionato con la pena capitale, secondo la più classica delle forme preferite dal Sant’Uffizio: il rogo.
I diari dell’epoca sono scarni, con poche informazioni, anche perché i documenti ufficiali sono stati bruciati nell’incendio ordinato dal viceré Caracciolo ed è quindi lecito formulare più di un’ipotesi in ordine al movente, e fra queste Sciascia respinge decisamente quella del delitto passionale a suo tempo formulata da William Galt nel romanzo storico Fra Diego La Matina. O forse questo frate era reo di aver interpretato il messaggio di Gesù Cristo in modo del tutto personale, con uno stravolgimento della dottrina corrente, al punto che era meglio non scrivere nulla delle sue idee teologiche, assumendo l’ipotesi che lamentasse l’esistenza di un Dio non giusto se tollerava le ingiustizie. Insomma, la mancanza degli atti del Tribunale lascia aperte tante porte, nessuna delle quali tuttavia pare condurre a qualche cosa di certo. Tutto sparito, anche se rimane il racconto dell’ultima notte del condannato, assolutamente da leggere con la massima attenzione, e la sua esecuzione, che avviene come se si svolgesse una festa paesana, con nobili in gran sfoggio e gente bramosa di annusare il profumo della morte.
Meticoloso nella ricerca com’era proprio Sciascia non c’è dubbio che anche in questa circostanza abbia proceduto con il massimo rigore, ma resta il fatto che, in assenza degli atti del Tribunale, le certezze sono poche e che quindi non è difficile comprendere il perché nella sua prefazione scriva, fra l’altro: “ La ragione è che effettivamente è un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere e che non riscrivo aspettando di scoprire ancora qualcosa…”
Pagina dopo pagina si giunge alla convinzione che l’ispirazione per l’opera non sia tanto la vicenda di questo frate, ma la mancanza di fonti certe, la presenza solo di indizi che possono fornire al più l’atmosfera di tragedia per l’operato del Sant’Uffizio, tutti elementi che avrebbero fatto desistere qualsiasi autore, ma che per Sciascia costituiscono l’idea di una riscrittura, che si avvale proprio dell’annullamento delle fonti, per artatamente ricrearle, dotandole di una sottile vena ironica che giunge a vette eccelse nella pignolesca descrizione della parata che porta al supplizio.
L’autore realizza in tal modo un saggio esemplare, probabilmente una delle più acute e lucide condanne della repressione delle libertà di pensiero che siano mai state scritte.
E definirlo un’opera incompiuta è riduttivo, perché in effetti è un lavoro che nel momento in cui si completa lascia aperte nuove possibilità, nuove ipotesi, non tanto forse per un’altra riscrittura, ma per una ulteriore integrazione. In pratica non c’è un’ultima pagina, ma solo una pagina che chiude una porta nella consapevolezza che se ne potrebbero aprire altre.
Morte dell’inquisitore non è un libro facile, come è possibile comprendere, ma è di grande valore, senz’altro uno dei migliori fra quelli scritti da Sciascia.

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