Mi sa che fuori è primavera
Saggistica
Editore
Recensione della Redazione QLibri
https://www.missingchildren.ch
Numerosi potrebbero essere i motivi che spingono alla lettura di questo libro. I fatti, per la risonanza mediatica che hanno avuto e per l’assurdità in essi racchiusa, sono noti a tutti.
Irina, madre di due gemelle di sei anni, perde nel giro di pochi giorni figlie e marito. Le bambine sono sparite, il loro papà pone fine alla sua vita in Italia, facendosi travolgere da un treno dopo aver meticolosamente parcheggiato l’ auto e ancor prima distrutto qualsiasi traccia del suo operato.
Quando si viene a conoscenza di queste tragedie, la compartecipazione emotiva è immediata e trasversale, calata l’onda di piena rimangono però i morti viventi, coloro che la tragedia l’hanno vissuta ma non come l’ennesimo spettacolo di cui, in questa triste realtà, si offre la tragica trasposizione, dilatata, diluita, amplificata, confusa, distorta a uso e consumo.
Si avverte nell’animo umano un desiderio di sapere, di giustificare, di incolpare, di assurgersi tutti, indiscriminatamente, a ruolo di giudici. Mi capita e mi costa fatica ammetterlo. Si cerca forse, nell’intimo, di appianare le proprie paure, di scandagliare a fondo anime e psicologie per evitare di farlo con le nostre o con quelle dei propri cari e così, repentinamente, si diventa morale, giudice, etica e regola.
Leggere questo piccolo libro potrebbe allora portare ad una riflessione profonda, al superamento di una certa malcelata morbosità, a scoprire un messaggio positivo ed equilibrato. Irina ha bisogno, a distanza di quattro anni dai tragici fatti, di scrivere e quindi di comunicare e lo fa cercando e usando come intermediaria la De Gregorio che, con grande delicatezza, sparisce quasi in queste pagine e si presta mirabilmente a restituirci l’immagine di una donna che si ama e che ama, a dispetto di tutto.
Brevi capitoletti alternano le voci femminili in questione; Concita offre una sorta di cronistoria dell’incontro fra le due e del loro lavoro di conoscenza reciproca, Irina scrive missive e rivolgendosi all’archivista ottusa, alla maestra latitante, alla nonna, al padre, al giudice o allo stesso marito all’epoca dei fatti, offre la storia di se stessa, della sua famiglia d’origine, della sua famiglia, delle indagini e del suo percorso successivo. Si rapporta ad una dimensione temporale che ormai non la rende più schiava delle quotidiane categorie temporali di ieri, oggi e domani, vive il presente e riscopre se stessa e l’amore.
Riporta una serie di coincidenze nella propria storia che la fortificano nella convinzione di essere parte di un tutto che tende a presentarsi e ripresentarsi per annullarsi e risolversi per poi riproporsi.
La lettura è consigliabile se si riesce a superare l’atteggiamento sopra descritto e se si ha voglia di avere una soluzione del caso che la giustizia umana non ha ancora prodotto ma che permette, rara se non unica volta, in un arco di tempo relativamente breve- quattro anni- ,di sapere come riesce una mamma a vivere e a non sopravvivere.
Brava Irina!
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missing children.ch
122 pagine, intervallate da capitoli brevi, tutti d'un fiato, rapidi...troppo rapidi.
E' un libro difficile, è una storia difficile...è una storia vera. Irina parla, sogna, vive...è italiana, vive in Svizzera per lavoro ma è altrove, in quell'altrove dal 28 gennaio 2011.
Chi legge, chi ha scritto questo libro non può non chiederselo:"io che cosa farei in quella condizione?". Questo testo nasce da una richiesta di una madre, senza figli, da una necessità sfiancante di "mettere fuori di me quest'oggetto rotto". E poi, mentre scorrono le pagine, si rimane agghiacciati da un discorso che la scrittrice fa dire ad Irina: "Il nulla non basta. Anche se fossero 99 le probabilità. anche se ne restasse 1 su 100 che le mie figlie siano in un luogo del mondo, magari separate, lontanissime, magari in un paese di cui non conoscono la lingua, magari invece accudite in segreto da qualcuno che amano e dunque, persino quiete ormai nel loro dolore, persino in qualche modo serene. Ecco! E' quell'unica possibilità che devo percorrere".
Lo stile non è ridondante, non vi sono momenti particolarmente struggenti, da togliere il fiato.
Usa belle metafore, Concita, per giungere nel modo più preciso alla reale e tangente sofferenza.
Irina è una donna, una madre, che sta tentando faticosamente, con estremo dolore, a risalire da quel pozzo in cui è piombata da ormai otto anni. E non è affatto facile specialmente quando una gran parte dell'io è concentrata a tradurre certi sguardi, alcune affermazioni, come un immenso macigno: quel dannato senso di colpa. La subdola vocina che si insinua nelle risate, in un frangente di spensieratezza, e sussurra "come puoi dimenticare, come puoi lasciarti indietro quello che ti è successo...".
Ogni riga è una piccola conquista per permettersi di raccontare, per rispondersi ai quesiti posti durante questi infiniti otto anni.
Mi piacciono moltissimo le lettere che Irina scrive alla nonna tenendola aggiornata sulla sua faticosa risalita verso l'amore: con lei non ha filtri, si racconta nel dolore ma anche nella ricerca disperata di poter vivere anche un pallidissimo raggio di sole, purché sia caldo e accogliente. "Ma io sono viva, nonna, il dolore da solo non uccide e io sono viva. Dunque devo vivere, perché finché ci sono, ci sarà il ricordo di chi non è più con noi". Poi ci sono quei capitoli in corsivo, quello spazio lasciato all'altro, a un'altra voce, quella che vorrebbe prendere il "pacchetto dolore" e gettarlo in mezzo al mare, il più lontano possibile. Il resto dello scritto sono lettere che questa madre invia a una psicoterapeuta, a una segretaria di un archivio anagrafico...perché ha bisogno di dare un significato a quello che le è successo, trovarne una spiegazione.
Il dolore in questo libro si accarezza dolcemente. Non è cruento, né disperato, ma c'è. Non può essere ignorato, il dolore, perché altrimenti si presenta in tutta la sua violenza e ti fa pagare anche gli interessi. Però si può alleviare, diluire e permettersi di pensare, dopo aver esaurito tutte le lacrime consentite, "ora però facciamo due passi, che ne dici? Andiamo a vedere, perché mi sa che fuori è primavera".
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Ferite come medaglie
La mia mania di scegliere, o farmi scegliere dai libri, girovagando tra gli scaffali mi ha portato ad innamorarmi di questo titolo: Mi sa che fuori è primavera. L’ho detto a me stessa prima ancora di sapere di cosa la De Gregorio volesse parlarmi in questo dialogo a tu per tu…e così ho afferrato il libro e l’ho portato con me, a casa.
L’ho guardato per due giorni prima di decidere di leggere il sunto sul retro, solo allora mi sono trovata davanti ad una storia vera, sentita ai Tg anni prima e poi riposta in un angolo della memoria. Ho avuto il timore di trovarmi innanzi una storia pesante, cupa, che mi mostrasse tutt’altro che la primavera…mi sono fatta coraggio e ho iniziato la lettura.
Ho letteralmente divorato questo testo, che non riesco a categorizzare tra romanzo, inchiesta, saggio…direi vita! E’ una narrazione a due voci, quella della De Gregorio e quella di Irina Lucidi, madre di Alessia e Livia Schepp, rapite dal padre nel 2011 e mai più ritrovate. Non è una cronostoria, non del tutto almeno, è la storia di una discesa nel vortice più buio che la vita può riservare ad una madre, e la risalita verso la luce. Una risalita guidata dall’amore, nonostante i sensi di colpa, il giudizio della gente, la disperazione, i vuoti.
“Dimenticare è impossibile, ma vivere si deve perché la vita ha deciso così: il dolore da solo non uccide. L’assenza di un amore si ripara con altro amore.”
Così Irina ci porta nel suo intimo, attraverso lettere alle persone care e alle istituzioni, a chi l’ha sostenuta e a chi invece non ha fatto altro che ignorare le sue richieste di giustizia, di aiuto, di chiarezza in una vicenda che di chiaro non ha niente. Si parla di indagini non fatte, di indizi non cercati, di testimoni non ascoltati, di burocrazia inutile, e si parla di sentimenti, di coincidenze, di date, di eventi che ritornano e si ripresentano nella storia di una famiglia finché “Todo quadra”. Si parla soprattutto di amore, un amore silenzioso (quello di Luis) che riesce a riparare le ferite, lasciandole in evidenza, perché con il dolore, come con “l’elefante rosa” che sta sempre in mezzo, bisogna convivere, senza dimenticare, perché se siamo ciò che siamo è per la strada che abbiamo percorso. d’altra parte “la vita è molto semplice. Per essere felici non ci vuole tanto. Per essere felici non ci vuole quasi niente. Niente, comunque, che non sia già dentro di noi. (…) E’ il tempo la nostra prigione. Il troppo presto, il troppo tardi, il troppo breve e troppo poco.”
La narrazione riflette spesso il flusso interiore di Irina come negli elenchi che redige: cose che mi irritano, cose che mi piacciono, cose che non devo dimenticare, e si alterna con i pensieri della De Gregorio, che raccoglie, appunta, interiorizza, dialoga e ci apre un mondo interiore che le pagine di cronache non possono far trasparire.
“Aiutami a dire quello che non si può dire, chiedi. Sarebbe questo il risultato strabiliante. Riuscire a dire a voce alta e occhi asciutti cose che non si possono dire perché nessuno ha un posto dove metterle, non vuole proprio tenerle in mano, bruciano.”
Ma con un amico che ti prende per mano, come un amore che ti riaccende il cuore, ci riaffacciamo sempre alla vita perché alla fine “fuori è primavera.”
P.s. Riporto ciò che trovo nel libro “Concita e Irina sarebbero felici se questo libro riuscisse a sostenere e far camminare a lungo il lavoro prezioso di Missing Children Switzerland.
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Lui voleva ucciderti, ma tu non lo farai
Tutti noi siamo rimasti colpiti dalla incredibile e triste storia di Alessia e Livia, le due gemelline portate via dal padre, il quale non si sa bene cosa abbia fatto di loro prima di farsi investire da un treno in Puglia. Quello che in particolare mi ha sempre colpito di questo caso è la freddezza e allo stesso tempo la crudeltà di cui quest'uomo è stato capace per organizzare una cosa simile. Va bene essere psicorigido, maniacale, avere evidentemente qualche turba mentale, ma come si può arrivare a tanto solo per far del male del male alla persona che ti ha lasciato? Certo, non sarebbe il primo purtroppo che uccide i propri figli, ma lui è stato capace di fare di più: ha condannato questa donna a dover sopravvivere non solo con l'assenza delle figlie, ma anche con il non sapere che fine hanno fatto davvero. E ha fatto tutto ciò con una incredibile freddezza e attenzione, anche se leggendo queste pagine ci rendiamo conto che forse qualche traccia poteva anche esserci, ma le indagini non sono state molto approfondite da parte delle autorità svizzere.
Non voglio essere ipocrita, ma mi sono sempre chiesta: come farà questa donna ad andare avanti? Si ucciderà anche lei? Ho letto con piacere queste pagine che parlano di lei, del suo coraggio e della forza che ha trovato per continuare a vivere, della grande umanità che mostra nonostante tutto, ma anche della rabbia che traspare da alcuni passaggi (soprattutto quelli relativi alle indagini), rabbia che ovviamente ha trasmesso anche a me che leggevo.
Mi ha anche stupito come riesca a parlare di Mathias, l'uomo che le ha letteralmente distrutto la vita, in modo anche piuttosto distaccato, senza vomitargli addosso tutto l'odio che si meriterebbe. Parla poco di Alessia e Livia, almeno direttamente, ma la loro presenza si percepisce in ogni pagina del libro così come loro sono sempre presenti in ogni giorno della vita della madre, la quale è comunque piuttosto realistica sulla sorte delle bambine, ma ha comunque la speranza che chissà...
E' un libro delicato, che dice tanto senza mai passare il limite, cosa c'è di più difficile di sopravvivere all'assenza?
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Sopravvivere all'assenza
Alessia e Livia. Le due gemelline bionde scomparse un giorno di gennaio di qualche anno fa. Chi non le ricorda? Con quei loro bellissimi visi. Con la loro disarmante innocenza, contro cui si è sfogata, in qualche modo, la personalità psicorigida del padre. Questo libro ripercorre questo dramma dal punto di vista della madre. La giornalista la cerca, la intervista, scrive di lei e della sua storia. In un alternarsi di capitoli in cui il punto di vista è quello della giornalista su questa mamma e di capitoli in cui è la mamma la voce narrante. Vibrante solitaria, oppure sottoforma di lettere scritte di suo pugno ad alcune figure chiave della sua vita e della sua storia. C’è tanto dolore in queste pagine. Tanti sensi di colpa. Tante domande. Purtroppo però il dolore, da solo, non uccide. E queste pagine racchiudono anche tanto coraggio, perché questa mamma trova la forza di sopravvivere all’assenza delle sue bimbe, al non sapere. Perché l’assenza è la vera misura della presenza, il calibro del suo valore e del suo potere. Irina riesce a passare il confine dall’ombra alla luce. Dal non avere più alcune forza, la ritrova e supera se stessa. Perché resta, con ogni sua fibra, nello spazio minuscolo della speranza.
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L’assenza è una presenza costante
“Mi sa che fuori è primavera” di Concita De Gregorio ripropone il caso di Livia e Alessia (“Alessia e Livia sono nate il 7 ottobre, come la nonna Mayme, quella di cui porto il nome e della cui madre rivivo la sorte”), figliolette di Irina Lucidi e Mathias, rapite dal padre – morto suicida – e mai più ritrovate.
Dopo la separazione, intervenuta per scelta di Irina, che intende reagire a un marito “psicorigido”, che soffre di “ansia da controllo”, e a un ambiente familiare troppo formale e ipocrita, senza avvisaglie preventive Mathias rapisce le due figliolette e si dà la morte. Livia e Alessia non saranno mai più ritrovate.
Nell’opera viene scolpita la disperazione di una donna che si chiede come ha potuto non premonire la tragedia, se ha il diritto di amare ancora, e se ha titolo per nutrire qualche speranza di ritrovare in vita le figlie.
L’analisi psicologica, la rivisitazione dell’iter delle indagini (“Queste indagini che non hanno indagato nulla se non la tua colpa di aver scelto di separarti da Mathias”), le lettere scritte a familiari e non, tracciano in drammatica sequenza un percorso che ha condotto Irina sino all’impegno sociale di “Missing Children Switzerland”.
La narrazione è ibrida: cronachistica, epistolare, intimistica (“Un amico è quella persona per cui anche se è cambiato tutto non è cambiato nulla”), spesso affidata al flusso delle libere associazioni come negli elenchi che la protagonista redige: cose che mi irritano, cose che mi piacciono, cose che non devo dimenticare (Todo quadra).
Giudizio finale: sconcertante per la vicenda narrata, terapeutico nella disperata proposta esistenziale e d’impegno sociale.
Bruno Elpis
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Madre
Irina Lucidi, dal gennaio 2011, è mancante del contatto con le sue figlie gemelle di sei anni, Alessia e Livia. In italiano si dice vedova, si dice orfana, ma non c’è parola che definisca una persona dopo la perdita di un figlio. Le bimbe scompaiono nel nulla, dopo essersi allontanate con il padre, Matthias Schepp, suicida dopo cinque giorni, nella stazione ferroviaria di Cerignola.
Irina sceglie Concita di Gregorio come medium di ascolto, e la giornalista accetta di diventare strumento, compagna, voce della vicenda. Le lettere, le riflessioni in corsivo dell’autrice, gli elenchi, i ricordi, sono le formule adeguate per creare narrativa da un caso di cronaca. Il romanzo, così, diviene pretesto per un’occasione di accoglienza e di alleanza fra Irina e Concita.
La vergogna e la difficoltà a comparire in socialità rappresentano la sintomatologia del dolore. L’impotenza contamina pensieri e sentimenti. Irina, e ciascuna/a di noi con lei, non dimentica, non si assolve, non esce dal dolore. Offre una testimonianza attraverso il racconto di sé e lo scambio di pensieri con la giornalista. La mancanza è una grande prova di vita.
Non casco nella ricerca della facile morale della favola: capire come una donna, dopo una tragedia, possa rifarsi una vita e un amore! Non nell’indagine è il senso, non nella scoperta, non nell’assoluzione e nella rinascita, ma, unicamente, nella relazione, nel processo del racconto che non salva, ma, dicendo, incontra il volto, riconosce il prossimo, rimette al mondo.
Confermo che la mancanza di protezione verso di sé, non origina mai forme d’amore per gli altri. Rifletto su come l’ostinazione a dire e a inseguire l’essere amato ha, come confine ultimo, solo la morte.
Sono convinta che la ripetitività e l’inconsapevolezza sono già segnali di un tempo immobile, rispetto alla diversità continua dei tempi del benessere. No, non si può prevedere, il gesto folle. Vigilare, sì, dobbiamo. E, soprattutto, valutare l’intuizione come una buona guida.
Al prezioso oggetto rotto, riparato in Giappone con oro liquido, affianco il ricordo dei grandi piatti di terraglia color crema a fiorellini blu, ereditati dai miei avi bitontini, ricuciti con fili di ferro. Senza alcuna nobiltà, non conservano nessuna apparenza di rielaborazione, né di trascendenza. Ormai crepati, possono contenere acqua e terra, liquidità e solidità. Non possono più essere esposti al contatto con il fuoco.
“Todo cuadra. Questa formula, tutto è al suo posto. Ma non si può tanto tradurre. Tutto è proprio come deve essere. Non c’è da ostinarsi a spostare i pezzi. Bisogna solo osservarli muovere, vedere dove vanno. Questo siamo: spettatori attivi nel teatro dell’universo. È uno spettacolo, realmente, la vita. Todo cuadra.”p.79
“Mi ha logorata nell’attesa, perché sa, giudice, l’attesa delle persone amate non è una pausa: è un lavoro incessante, una fatica mostruosa, una lotta contro i peggiori dei pensieri. È uno spazio che si riempie di mostri e ti sorprende alle spalle. Gli anni passano, i minuti, no.”p.63
“C’è bisogno di essere felici, nonna, per tenere testa a questo dolore inconcepibile. C’è bisogno di paura per avere coraggio. È l’assenza la vera misura della presenza. Il calibro del suo valore e del suo potere.”p.14
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"L'assenza è una presenza costante"
Qual è il dolore assoluto, il dolore perfetto? Esistono i confini del dolore associati agli estremi della malvagità, dall’astio profondo, dalla vendetta programmata nei minimi dettagli?
Quanto è accaduto il 30 gennaio 2011 in una piccola città di un cantone svizzero, è cronaca lacerante di un episodio che ha, nella sua immane efferatezza, una maligna irrealtà; la sparizione di due bambine, gemelle, a causa di un padre (ma dobbiamo ancora chiamarlo padre?) che nutre un odio così difficile da definire tanto è il dolore da infliggere alla sua compagna indirizzato a non lasciare traccia alcune delle due bambine e poi suicidarsi contro un treno in una cittadina della Puglia. Un viaggio assurdo e infernale che inizia dalla “ridente” cittadina svizzera, dove vive una famiglia all’apparenza senza problemi, e continua avanti e indietro lungo un percorso che sfugge a ogni logica umana per completarsi in maniera tragica e orrenda su un binario ferroviario; non sembrano esserci testimoni, a parte la strumentazione elettronica, durante questi cinque giorni di pura follia.
Tornare a casa e rendersi conto che il coniuge ha commesso una simile atrocità fa librare la mente in una dimensione sconosciuta nella quale non esistono sentieri, non esistono confini, ma solo baratri metaforici pronti ad accogliere ciò che rimane dell’essere umano spezzato in più parti nell’animo. Il dolore non è mai quantificabile in qualsivoglia circostanza; penso, comunque, che vivere o sopravvivere nella costante assenza dei propri figli dei quali non si hanno più notizie, ma che la statistica delle probabilità ci indica una infausta sorte, sia il cosiddetto dolore perfetto che trasforma la mente, ci astrae dalla realtà mondana, rende vuoto tutto ciò che ci sta intorno.
La vita non è più scandita dal tempo; un dolore così devastante porterebbe molte persone ad annullarsi fisicamente al fine di trovare una pseudo-pace interna in un’altra forma a noi sconosciuta. Sopraggiunge, a volte, una titanica forza d’animo che si abbarbica intorno all’esile barlume di speranza atto a far riemergere ciò che abbiamo amato e del quale siamo stati privati in maniera violenta.
Ho seguito molto questa tragedia umana sui mass-media; il romanzo è ancor più tagliente per certi particolari che rendono ancor più tragica questa maledetta e oscura vicenda.
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L'assedio dell'assenza
La scomparsa delle gemelle Schepp.
La mamma Irina si mette a nudo, con grande coraggio e lucidità ripercorre tappe, estrapola emozioni, analizza fatti, elogia, critica, riflette.
Le indagini sono ad un punto morto, l’unica certezza è la morte suicida del marito, il padre che ha fatto sparire Alessia e Livia alla tenera età di sei anni, probabilmente un atto vendicativo nei confronti della ex moglie.
Ma come è possibile. Abbracciare il proprio figlio, salutarlo sulla porta di casa nel fine settimana destinato all’altro genitore, baciarlo quasi mangiandolo, sentirlo al telefono e assicurargli ancora una volta il proprio fedelissimo affetto. Poi recarsi da lui per riprenderselo e non trovarlo. Non ci sarà più. Il nulla. Deve essere un dolore così grande, così tremendo, da non poter essere tradotto a parole. Bisognerebbe inventare un nuovo vocabolo specifico per questa circostanza. Uno shock che resetta la mente. Al posto del cuore un buco, ma continuerà ad allargarsi, o come ci lascia intendere eroicamente mamma Irina, si sopravvive, si restringe e si riempie ancora di cose buone, come l’amore nei confronti di un’altra persona?
Con l’aiuto della giornalista Concita, la mamma scrive alla nonna, al papà, alla maestra, alla psicologa, al Giudice, all’amica, alla polizia, al fratello, ad alcuni vanno i suoi ringraziamenti, ad altri la sua disapprovazione. Impressionano le lacune nelle indagini svolte dalle autorità, un’inchiesta imbastita ma mai perfezionata.
Il tutto è scritto benissimo, con garbo, cura, precisione, è una penna dolce e amara allo stesso tempo, non ha il tono freddo e asciutto dei fatti di cronaca, non è semplicemente l’ennesima tragedia familiare messa nero su bianco, è molto di più, è speranza, è ricerca, è divulgazione della verità, è conforto per chi ha vissuto simile situazioni, è ricordare, sempre. Tra le pagine emergono prepotentemente la voglia d’amore e il bisogno d’ascolto.
Inoltre, il libro sostiene l’associazione Missing Children Switzerland.
Concludendo, una lettura, per me, straziante per l’argomento trattato ma è alleggerita dalla personalità estremamente positiva di Irina, assolutamente da leggere, per porre attenzione a chi ci circonda, nel bene e nel male.
“Il dolore da solo non uccide e io sono viva. Dunque devo vivere, perché finché ci sono ci sarà il ricordo di chi non è più con noi. Niente si dimentica ma tutto, a momenti, si deve poter prendere e mettere in un posto. Come potremmo vivere senza placare la memoria, che non vuol dire arrendersi, o dimenticare, ma lasciare che ogni cosa si trasformi e nasca un inizio da ogni fine. Ogni minuto della vita gira attorno a qualcosa che non c’è più perché qualcos’altro possa accadere. C’è bisogno di essere felici per tener testa a questo dolore inconcepibile. C’è bisogno di avere paura per avere coraggio. É l’assenza la vera misura della presenza. Il calibro del suo valore e del suore potere.”
“ La vita è molto semplice. Per essere felici non ci vuole molto. Per essere felici non ci vuole quasi niente. Niente, comunque, che non sia già dentro di noi.”
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Mi sa che fuori è primavera di Concita De Gregorio
"Le bambine non hanno sofferto, non le vedrai mai più"
Questa è la frase che Mathias Schepp lascia alla moglie Irina, prima di scomparire insieme alle loro gemelle di sei anni, per non tornare mai più.
E da allora Irina è sola e cerca di superare il proprio straziante lutto.
Inizialmente, completamente smarrita, va in Asia, senza una meta; poi apre un'associazione che possa aiutare i bambini smarriti e le loro famiglie (www.missingchildren.ch), perché aiutando gli altri riusciamo un po' a sanare anche le nostre ferite e a sentirci meglio.
Ora, a distanza di quattro anni, Irina cerca di superare il proprio lutto anche attraverso la parola. La parola scritta è l'unica terapia che non aveva ancora provato e Concita de Gregorio, in questo toccante romanzo, la vuole aiutare a ricomporre i cocci. La terapia della parola, come unica forza capace di ricostruire, rigenerare e ridare senso alle cose (la funzione rigenerante della scrittura). Concita de Gregorio, all'inizio, non è convinta di scrivere questo romanzo; poi, dopo aver parlato per ben cinque giorni con Irina, capisce di voler affrontare il tema di come si superano le situazioni che sembrano disperate, siano queste un fallimento sul lavoro, la perdita di un amore o un lutto, partendo dalla tragedia di Irina e considerandola l'emblema massimo della sopraffazione, al cospetto del quale tutti gli altri problemi si ridimensionano.
La vita della madre delle due gemelline scomparse era tutta in frantumi (e anche il libro è composto da tante tessere diverse, come in un puzzle), ma Irina riesce a uscirne, perché non si chiude dentro il suo dolore. Così quando incontra un uomo che non sa niente di lei, è pronta ad accoglierlo. Perché di dolore non muori. Ed è proprio l’amore, l’oro liquido, la colla che non nasconde le fratture, che tiene insieme i pezzi di quel vaso: così ti rimetti al mondo ("ogni minuto della vita gira attorno a qualcosa che non c' è più, perché qualcos altro possa accadere"). Irina ha trovato in Luis (mani lunghe, un mazzo di chiavi del suo appartamento come primo regalo e tutto quello che si vorrebbe da un uomo) un amore nuovo, un altro amore, che non toglie niente a tutto il resto, ma «Mi distrae, mi porta fuori, mi fa ridere moltissimo. Mi lascia piangere quando arriva il pianto: sta lì in silenzio, fermo, tranquillo. Poi passa, mi prende la mano e mi dice: ora andiamo" e ancora "Non mi mette mai alla prova. È quel che è, c'è sempre. Anche quando manca", infine "Ti sente, ti tiene, ti accompagna, ti toglie lo zaino dalle spalle quando pesa troppo, nella marcia».
Il messaggio è chiaro: quando si perde qualcuno non si smette di vivere con esso, ma si continua a vivere per lui, perché il suo ricordo è il nostro.
Quando le cose non vanno, tutti ci sentiamo soli perché la solitudine rispetto al dolore è una condizione esistenziale che non fa distinzioni di alcun genere ("sei in pericolo ovunque, quando le persone attorno non ti vedono, non ti credono"), ma bisogna evitare di chiudersi nel proprio dolore e lasciare un'apertura che permetta all'amore degli altri nei nostri confronti di farsi largo e dare nuova linfa alla nostra vita ("c'è bisogno di essere felici per tenere testa a questo dolore inconcepibile").
Il romanzo tratta molti temi, tutti diversi fra loro (parla di solitudine, di freddezza, di burocrazia, di razzismo, di incomprensione, di gioia, di felicità e anche d'Amore) ed è il consiglio della coraggiosa Irina che voglio fare mio: l'Amore tutto può e tutto cura.
Mi ha colpita molto anche il fatto che esista una parola per chi rimane senza marito o moglie (vedovo), per chi uccide la moglie (uxoricida), chi resta senza genitori (orfano), ma non esiste una parola per chi perde i figli ("La parola mancante. Genitore che perde un figlio. Non che lo uccide: che lo perde"). Non c’è in tedesco, francese, spagnolo, italiano. C’è invece in ebraico (Av Shakul, maschile o Em shakula, femminile), forse perché è una lingua atavica, fatta di sostanza e materia anche quando parla di assenza.
Bellissimo e toccante romanzo, che consiglio di leggere a tutti.
Le frasi o espressioni che mi hanno colpita:
"Non ho la forza di sopportare il dolore degli altri"
"La memoria fa certi scherzi: lavora. È una specie di salvavita: quando deve cancella. Delete";
"Non torneranno, lo so. Ma non potrei vivere senza sapere che nella mia casa non c'è un posto per loro";
"Un amico è quella persona per cui anche se è cambiato tutto non è cambiato nulla";
"Il tempo non esiste. Siamo tutti al mondo allo stesso momento, nel passato nel presente e nel futuro"
"Quando Mathias ha portato via le bambine e poi si è ucciso, papà è venuto da me, un giorno, nella mia stanza mi ha presa per la maglia scuotendomi all'altezza delle spalle. Mi ha detto: tu non morire, non permetterti di farti e farmi una cosa così. Tu non devi morire, lui voleva ucciderti e tu non lo farai, non morirai.... È stato in quel momento, proprio in quello - guardandomi negli occhi di mio padre -, che ho capito che no, non sarei morta. Non potevo fargli quello, aveva ragione, non potevo farlo a me. Alle mie figlie. Ha sempre avuto ragione";
"Non sento la necessità di avere nuovi figli... Non mi mancano i figli: mi mancano loro... La nostalgia è fisica... È proprio impossibile colmare la mancanza di un corpo vivo... Non c'è niente, nessuno che possa sostituire l'assenza di qualcuno. Solo il sogno... Sono felice quando le sogno. Mi sveglio felice";
"Sono una madre, lo sarò sempre. Senza figli ma madre. Non servono figli per essere madri";
"Gli attributi di possesso dovrebbero essere vietati alle persone. Quando sento dire "mia moglie", "mio figlio" sono sempre a disagio. Anche Mathias lo faceva. C' è qualcosa di bugiardo e di leggermente violento in quel "è mio". Come una impercettibile sopraffazione. Un furto di identità. Nessuno è di nessuno, penso. Tutti, volendo, invece, di ciascuno";
"Dimenticare è impossibile, ma vivere si deve, perché la natura ha deciso così: il dolore da solo non uccide. L'assenza di un amore si ripara con altro amore"
"...solo l'amore di un figlio è amore, quello vero";
"Più doloroso di non avere accanto chi si ama c' è solo non sapere dov'è chi si ama. Non avere neppure il suo corpo da immaginare che cammina altrove"
"Sono lì in ogni istante. Dell'assenza non ti puoi mai liberare... La perdita di un figlio è la pietra di paragone, la misura aurea del dolore, il metro. Ogni altra difficoltà della vita è contenuta in quel perimetro".