Life
Saggistica
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Ribellione
Keith Richards, Keef, il mito anticonformista, l’icona ribelle, l’archetipo del rocker contro corrente. Tutti, anche se non sono dei fan degli Stones, almeno una volta han sentito parlare delle gesta del ragazzaccio, dei suoi “casini”, del suo vivere sregolato, accanito nemico dell’ordine sociale, dell’autorità, ecc. ma se così non fosse? Se lui non fosse veramente così?
Life è la sua autobiografia, la storia, interessantissima e sorprendentemente ben scritta (complimenti al ghost writer) delle sue bravate, ma ancor più un viaggio nella sua testa, guidati da un pensiero che quantomeno si potrebbe definire trasgressivo ma, di nuovo, e se in realtà non fosse così trasgressivo?
Intendiamoci il buon Keith, fa di tutto, raccondandoci la sua storia, per farci capire quanto fosse, e sia, avverso allo status quo specie quello dettato dalla civiltà moderna e, se stai al gioco, se segui e credi alle sue regole, senza dubbio Lui ne viene fuori come la bandiera della ribellione. Se stai al gioco...
Ribellarsi però non è forse andare contro le regole? Spezzare le catene della società?
Quindi proviamo a ribelliarci anche noi alle “regole di Keith” e proviamo a ragionare: qual’è uno degli effetti collaterali, uno dei mali, di questa moderna oppressiva società occidentale/capitalista nella quale noi viviamo e verso la quale Lui si mostra così avverso? Be uno di questi, uno dei suoi problemi più infidi, poiché difficili da riconoscere è “il principio del diritto”: i membri della nostra società, se attivi lavoratori, benestanti, paganti, proprio poichè lavorano, guadagnano e pagano si credono in diritto di avere e possedere ogni cosa, tra tutte la libertà di opinione. E per carità ce l’hanno sì questo diritto, ci mancherebbe!, peccato però che poi in virtù proprio di quanto si sentano “valorosi”, di quanto guadagnino e del potere che acquisiscano, la loro/nostra opinione tenda a trasformarsi in assoluto: se io la penso così è perché questa è la verità. E se io ho una posizione sociale migliore della tua, la mia verità è più vera della tua. David Foster Wallace certamente lo spiegava meglio di me, ma il meccanismo fa pressapoco così: io lavoro - io fatico - io guadagno - io valgo - io ho dirittto di esprimere una mia opinione e più fatico, più guadagno, più valgo, più ho diritto e più la mia opinione conta. (Per gli interessati sto parafrasando “Questa è l’acqua” di DFW e diverse sue illuminanti interviste).
Ok, vero probabilmente, ma non è per nulla detto che se una persona agli occhi delle masse conta più di un’altra, anche la sua opinione conti più, ed è ancor meno probabile che questa opinione sia sempre e per forza più autentica, vera o anche solo onesta rispetto a quella di un cosiddetto “signor nessuno”. Soprattuto in materia di cose che non la riguardo direttamente o, per meglio dire, di cui non ci capisce un beneamato nulla!
Ebbene sì, questo del “diritto acquisito con il potere” è, ed è sempre stato, uno dei peggiori difetti del pensiero occidentale. E anche il buon Keef, per quanto faccia di tutto per mostrarci quanto sia un “dannato che gioca secondo le sue regole”, in realtà proprio non ce la fa, non riesce uscire da quest’ottica conformista/occidentale e in fin dei conti egocentrica così da Lui odiata.
Anzi a ben vedere Life di K.R. per certi aspetti è l’emblema del pensiero conformista. È figlio della nostra società. Fin dalle prime pagine infatti K.R. raccontandoci la sua vita ci illustra il suo atteggiamento verso il mondo, la sua filosofia (il che per carità considerate certe autobiografie, di attorucoli, pop star e sportivi 23 enni è encomiabile) ma il problema è che ce le racconta da dentro il suo personaggio, con gli occhi della star,, e dunque proprio per quel meccanismo che vorrebbe sconfiggere, poiché lui vale, lui è un icona, il suo pensiero automaticamente si eleva a verità assoluta e, senza mai mettersi in discussione, di fatto involontariamente ce lo impone.
“I poliziotti sono tutti str...., la droga se pura, se presa con parsimonia (boh!) alle volte ti aiuta, la legge è stupida ecc.” che anticonformista, che ribelle!
Si ok, forse hai ragione Keith, forse posso capire il tuo punto di vista, ma il vero problema è che tu stesso non riconosci che si tratta solo di un altro punto di vista, che non metti mai in dubbio il tuo modo di ragionare. E certo, del resto che bisogno ne hai? Sei un mito, una star, hai diritto di ribellarti, di criticare lo status quo, perché quello che dici è senz’altro vero. È assolutamente così...
E il lettore ci crede, sta al suo gioco, specie se è un fan, del resto che problema c’è? Tu sei libero e Lui, il simbolo, lo è ancora piú di te, lui non ha problemi a giocare e se ne frega se tirando troppo la corda questa si spezza.... ma un’altra verità di questa società marcia e prevaricante è che “nell’oceano ci sarà sempre un pesce più grosso con cui dovrai fare i conti” e quando a un certo punto Keef si sente in dovere di confermare (e dar manforte) alla teoria della relatività di Einstein poichè da strafatto di eroina gli sembrava che il tempo scorresse più lentamente... be, ragazzi miei, be... è lo squalo che si scontra contro l’orca assassina (o la balena o insomma qualche altro bel pesciolone ancora più grosso, fate voi) e d’improvviso vi rendete conto che l’impalcatura della sua immagine crolla. L’uomo nell’alto castello si svela per quel che realmente è: un’ icona, un mito, un meraviglioso chitarrista, ma pur sempre uno dei tanti membri di questa società. Un individuo che per quanto possa essere rivoluzionario e abilissimo in quel che fa non è detto che possegga le chiavi della verità.
Più si tenta di sfuggire all’ordine costituito più probabilmente vi si rimane invischiati e leggere certe cose, quando il castello di carte crolla, ci fa capire, quanto certe immagini siano frutto di illusioni, quanto probabilmente davvero ogni cosa sia relativa. E attenzione, il succo del discorso non è l’essenza relativa di ogni cosa, alrimenti anche quella del sottoscritto sarebbe un’ imposizione, ma il “probabilmente”: la mancaza di certezza, la presuntamente onesta negazione di assoluti.
Keith però no, Keith dicevamo è il ribelle... e certo lui sarebbe il primo a dire qualcosa tipo “rilassati amico, quella della relatività è una battuta.” Sì, vero, ovvio, ma come lui anche quesra a suo modo archetipica di una mentalità, e la cosa assurda che è la mentalità stessa contro cui Lui stesso combatte in tutto il libro: perché, davvero perchè caro K. ti senti in dovere di suggellare col tuo benestare e dunque in qualche modo avvalorare una delle teorie più famose e importanti del novecento? Come se Einstein ne avesse avuto bisogno...
E visto che siamo in tema di relatività concedetemi di fare un’ultima retorica riflessione: chi è veramente più ribelle? Una rockstar famosa e idolatrata in tutto il mondo a cui basta dire una cosa che questa diventi subito autentica e ideale o un “professorino” tedesco che ha dovuto lottare 40 anni per far capire che i concetti di spazio e tempo (guarda caso prima di allora considerati assoluti...) in voga all’epoca probabilmente non erano corretti? Che il suo pensiero era quello giusto. Quel professorino ha dovuto lottare persino con se stesso per convincersi della veridicità di quanto affermava. Forse dunque la vera ribellione nasce non tanto da dentro la società ma in primis da dentro noi stessi; mettiamo in discussione quello in cui noi crediamo e poi potremo discutere quello in cui credono le altre persone. E, intendiamoci, non è certo una cosa semplice ribellarsi a se stessi, contro i propri istinti, i propri umanissimi desideri, certe volte questo percorso non ha termine, oppure è un problema cosi complesso e insolubile che crea un tale disagio da portare una delle menti più fini nonchè uno degli autori più dotati della nostra generazione al suicidio (sto parlando di nuovo di D.F.W).... ma almeno è una cosa autentica, è un percorso sincero, è una presa di posizione relativa però onesta.
Ma Lui no, la rockstar che gioca secondo le sue regole no, lui si faceva, il tempo scorreva più lento e dunque Einstein aveva ragione. Keith Richard l’ha confermato!
C’è sempe il pesce più grosso.
Ma non condanniamo completamente un buon libro solo per una frase (anche se emblematica di un pensiero tanto miope quanto endemico), altrimenti peccheremmo anche noi di miope assolutismo (avete notato come sono passato al plurale maiestatis nella speranza di ottenere la vostra approvazione e rendere in qualche modo comune/assoluta un’opinione personale? Credetemi è sempre la stessa sindrome!) In buona sostanza, Life è un ottimo testo, probabilmente la migliore autobiografia degli ultimi trent’anni, è divertente, scorrevole, entusiasmante, per certi aspetti profonda e senza dubbio sorprendente, ma... ma... finché stai al gioco. Finché giochi secondo le regole di Keith e della società, poiché non appena comprendi che, proprio per quanto l’autore affermi nella narrazione non dovrebbero esserci regole, allora ti accorgi che il tempo scorre sì più lentamente, che lo spazio si dilata sì in rapporto alla densità di massa del corpo esaminato e che le immagini così come ci pervengono di icone, rockstar, miti e leggende del nostro tempo, sono ahinoi irrimediabilmente distorte e in fin dei conti... relative.
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Un magico e micidiale blues
Parlare di sé non è mai facile. Ancora più difficile dev’essere tirare le fila di una vita intensa fino allo spasimo, condita di leggende mai dissipate (volontariamente o per fantasia cocciuta di chi ci crede), densa di nomi, storie, fatti anche di portata storica. Un mondo magico e micidiale come quello della musica rock.
Keith Richards, il celeberrimo chitarrista dei Rolling Stones, ci si prova con questa imponente autobiografia, scritta con semplicità e senza fronzoli, senza maschere ma permeata di tutto il primordiale carisma che lo caratterizza. Per una volta, niente biografie scritte da altri, che sanno travisare o arrangiare ad arte i fatti e le parole, tratteggiando un personaggio che spesso si allontana parecchio dall’uomo reale, matto artista sempre sull’orlo dell’autodistruzione ma anche uomo di profondi affetti familiari e convinto assertore del valore dell’amicizia.
Richards condisce la sua autobiografia con alcune foto, private e non, dalla sua infanzia ai giorni nostri, una chicca per i fans. Con un linguaggio scarno ma preciso, racconta la sua esistenza fin dai primi anni d’infanzia, quando viveva con i genitori a Dartford, cittadina un tempo covo di banditi e nel dopoguerra triste angolo di provincia senza pretese.
I giorni di monello del giovane Keith erano già solleticati dalla musica. Il nonno musicista lo portava spesso a veder riparare gli strumenti, constatando il desiderio crescente del nipote per la chitarra. A scuola, la sua bella voce gli aveva valso il ruolo di soprano nel coro, unico raggio di sole in una carriera educativa noiosa, frustrante e densa di soprusi da parte dei compagni, cosa che gli insegnò ben presto a imparare a difendersi (ancora oggi Richards non si separa mai da pistola e coltello, che sa usare con maestria).
Le delusioni e la comprensione che gli adulti erano tutt'altro che infallibili, la percezione dell’autorità delle istituzioni come una prevaricazione dei propri desideri, condurranno Richards a quel fare ribelle che lo farà espellere da scuola mettendolo così nelle condizioni di dedicarsi a ciò che sapeva essere il suo destino: la musica.
Il chitarrista racconta quindi la difficoltosa genesi del gruppo originario dei Rolling Stones, i mesi passati a studiare come eremiti tutti i dischi del blues di Chicago, la difficoltà di ottenere serate e una paga che consentisse almeno di mangiare. Eppure, nonostante la difficoltà, tutti sentivano di poter sfondare, cosa che accadrà con una velocità sconvolgente, portando il gruppo in cima alle classifiche.
Richards non nasconde granché dei guai combinati da lui e dagli altri una volta entrati nel giro della discografia (per quanto il chitarrista non abbia mai amato lo star-system). Donne come se piovesse, un problema sempre più grave con la droga, culminato con una traumatica disintossicazione solo molti anni più tardi. I guai con la legge, veri o ricercati ad arte da quelle forze dell’ordine che vedevano nei Rolling Stones l’epitome della gioventù bruciata da punire e sopprimere. I problemi di una collaborazione tanto lunga fra persone con un carattere dominante e aspirazioni differenti.
Alle vicende della band si allacciano quelle sul piano personale, la famiglia e i figli, cui Richards è profondamente legato. L’autobiografia è una lunga passerella di persone che hanno significato molto per il musicista, un uomo che crede profondamente nell’amicizia e che conserva come tesori coloro che sente vicini al suo mondo e alla sua sensibilità. Molti i lutti, dovuti principalmente al male serpeggiante dell’uso di droga. Si scopre un uomo acculturato, un vorace lettore che sa sorprendere con citazioni imprevedibili.
Stupende le dissertazioni sui trucchi alla chitarra, sui tentativi fatti per scoprire un certo suono, un riff sfuggente, anche se forse apprezzabili solo da chi conosce la musica e suona uno strumento. Bellissimi i momenti di collaborazione creativa con altri musicisti. La prosa conserva sempre un’autoironia che impedisce al testo di diventare stanco o ripetitivo, fornendo numerosi spunti per la risata e coinvolgendo il lettore senza alcuna captatio benevolentiae.
Imperdibile per coloro che amano i Rolling Stones e il panorama musicale degli anni ’60.
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Keith Richards con James Fox: “Life”
Che Keith Richards fosse (sia) un tipo poco raccomandabile non è una sorpresa. Non molto alto, magro e tutto nervi – come certi mediani grintosi di estrazione proletaria – si porta a spasso per l’intera vita un’attitudine ribelle maturata nelle condizioni difficili dei suoi primi anni, quando da vessata voce bianca nel coro della scuola si trasforma in adolescente riottoso inadatto a qualsiasi tipo di scuola e di ordinamento. Da qui viene l’uomo che dorme con la pistola sotto il cuscino (guai a chi lo sveglia!) e che è capace di azioni inconsulte quando la nebbia rossa gli annebbia il cervello. Però è anche lo stesso tizio che mette il gruppo e gli amici prima di ogni cosa (a differenza del suo sodale Mick Jagger, almeno così la racconta) oltre che il giovanotto che, ereditata l’attitudine musicale dalla madre e dal nonno, trasforma la chitarra, anzi la musica stessa, in una superiore ragione di vita (del resto, che può fare un povero ragazzo eccetera eccetera). James Fox registra e mette in bello stile il torrenziale racconto che Keef fa della propria vita in un libro di oltre cinquecento pagine che si fa leggere tutto d’un fiato anche da parte di chi il rock ‘n’ roll non sa neppure dove stia di casa: magari, per favorire il neofita, l’edizione italiana avrebbe potuto segnalare i titoli e i versi di canzone sparsi nel testo. Da queste pagine esce lo spaccato di un mondo – almeno fin quando la storia arriva agli anni Ottanta – irripetibile con i suoi meravigliosi alti e gli orribili sprofondi. Ecco allora sfilare l’accanito studio dei vinili di blues, i primi passi e il successo improvviso, il sesso e gli amori, la deboscia della rockstar, l’improbabile cura dei figli, i litigi feroci con Jagger, la droga a fiumi (attenzione: per Keith ‘essere pulito’ non significa non assumere droghe, ma, semplicemente, stare lontano dall’eroina) e soprattutto la musica, la grande passione che è panacea di tutti i mali, fisici e psicologici: le accordature aperte, l’emozione di riuscire a comporre (lui e Mick chiusi da Oldham in cucina…), la ricerca del suono perfetto anche in uno stadio dall’acustica difficile, la gioia di poter suonare assieme ai propri miti di gioventù. Tutto questo è raccontato da un unico punto di vista – che, oltretutto, è quello di un riccone seduto su un mucchio di soldi che neanche Zio Paperone, per non parlare delle proprietà immobiliari (in Inghilterra, nel Connecticut, in Giamaica, a Turks and Caicos e chissà dove…) – ma in attesa di confrontare le versioni, è innegabile che questa funzioni molto bene, tanto che neppure il leggero calo nelle ultime cento pagine riesce a danneggiare il risultato finale. In ogni caso, si può discutere sulla visione malgrado tutto edulcorata dei tossici anni Settanta, ma è incontestabile la convinzione – che traspare nettamente fra le righe – di aver scritto un pezzo di storia della cultura popolare e della musica. E poi, a prescindere dalle chiacchiere, io da grande voglio fare il Rolling Stone: magari uno di quelli che, in Costa Azzurra dopo aver lavorato a ‘Exile on Main St.’ fino alle cinque del mattino, prendevano il motoscafo per andare a far colazione in Italia…
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It's only rock'n'roll...but we like it
Chi può impersonificare il rock'n'roll meglio di Keith Richards? Nessuno!
Il suo brutto muso solcato da rughe profonde come il grand canyon è ormai assurto al ruolo di icona sacra della musica rock anni '70.
Quando si pensa a lui viene subito in mente la triade "sesso, droga e rock'n'roll", e non potrebbe essere altrimenti.
Questa biografia verrà letta, sicuramente, da tutti i fans degli Stones e da alcuni appassionati di musica rock, non tutti, ovviamente, perchè molti altri ritengono Mr. Richards "antipatico" (per usare un eufemismo!).
Nel campo musicale purtroppo, esistono fans rivalità tra fans molto agguerrite che sfociano, spesso e volentieri, nell'insulto gratuito al rappresentante dell'opposto schieramento.
Il libro parte con un episodio successo ai due chitarristi degli Stones (Richards e Wood) mentre viaggiavano in auto in una zona rurale degli States nei primi anni '70.
Vedere dei "capelloni" come loro a Londra o a Los Angeles non creava problemi, ma vederli da quelle parti comportava sicuramente un arresto da parte dello sceriffo del paesello.
Non vi dico come va a finire la storia ma, dopo questo prologo, comincia la biografia vera e propria partendo da Dartford, piccola cittadina inglese dove nacque Keith.
La storia prosegue con la sua prima chitarra, l'incontro con il suo amico-nemico Mick Jagger quando erano ancora adolescenti, gli inizi molto difficili a Londra e il blues.
Il blues è stato fondamentale per Keith Richards e gli Stones, la musica dei neri americani, osteggiati in patria, è stata la linfa vitale che ha contribuito alla nascita di una delle due band più famose del pianeta.
C'è anche un breve saggio sull'utilizzo dell'accordatura aperta, molto utilizzata dai bluesman neri dell'epoca e, quindi, anche dallo stesso Keith.
Poi si prosegue con l'amicizia con John Lennon, gli anni a cavallo tra i '60 e i '70 con i dischi migliori degli Stones e la droga, parte fondamentale della sua vita dissoluta.
Si passa dai vari tentativi di disintossicarsi alle ricadute, ai guai con i pusher fino alla decisione, definitiva, di smettere con l'eroina.
Parte fondamentale del libro sono gli anni '70, in particolare il periodo trascorso in Costa azzurra dove registrarono il loro capolavoro: "Exile on Main street".
Gli anni '80, '90 e '00 sono relegati alle ultime pagine, non c'era molto da scrivere, l'ultimo disco di valore è del '78, lui e Mick (poco menzionato sul libro) sono due entità estranee che si vedono solo per i tour, non ha più avuto problemi con la droga e ...è diventato il papà di Jack Sparrow!
Il libro è scritto bene, non è la solita biografia con un elenco di date e avvenimenti, è quasi una storia romanzata, la storia di una vita dissoluta, di un immortale del rock.