La mafia ha vinto
Saggistica
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Una vita, due vite
Non fosse esistito quest'uomo con la faccia da indio, la pelle ruvida, un'indomabilità consolidatasi in strada, probabilmente anche il nostro ricordo del giudice Giovanni Falcone sarebbe diverso da quello che è.
Quest'uomo, Tommaso Buscetta, può essere considerato qualcosa di più distruttivo, per la mafia, dell'intero pool palermitano (Caponnetto, Ayala, Borsellino, Falcone, Di Lello, Guarnotta), una squadra di magistrati che ha scritto una fondamentale pagina di storia recente del nostro Paese. Fondamentale perché irreversibile.
Buscetta è un pentito, non un “collaboratore di giustizia” (i due termini non sono sinonimi, come pure a volte si crede). Significa che Buscetta ha rinnegato la sua appartenenza a Cosa Nostra e ogni concetto di “nobiltà” della mafia, e lo ha fatto fino alla sua morte, nonostante gli abbiano ammazzato per vendetta figli e altri parenti. Ne esistono pochi, nella storia della mafia, di pentiti “veri” al modo di Buscetta. Di fuoriusciti che hanno portato l'organizzazione mafiosa sull'orlo del tracollo esiste solo lui. Partendo da questo dato di fatto, la sua storia (e la sua importanza) è sin troppo ignorata.
Una prima confessione di quest'uomo – all'indomani degli ergastoli ai capi di Cosa Nostra che hanno concluso il cd. “maxiprocesso” – era stata raccolta da Enzo Biagi nel libro “Il boss è solo”.
Saverio Lodato torna a ricostruire il pensiero di Buscetta con questo libro del 1999, simbolicamente (e amaramente) intitolato “La mafia ha vinto”: è una lunga intervista rilasciata poco prima della morte del “boss dei due mondi”, avvenuta nell'aprile del 2000.
E' davvero impressionante sentir parlare della mafia “dal di dentro”: ci si rende conto che solo l'apporto di pentiti o collaboratori di giustizia può far acquisire informazioni e chiavi di lettura altrimenti inaccessibili. Buscetta è chiarissimo e rivelatore quando parla degli infami travestiti da uomini delle istituzioni, che vendono se stessi e lo Stato alla criminalità mafiosa; così come quando parla dell'inganno attuato da Totò Riina e dai corleonesi per soppiantare la mafia con il suo codice “d'onore” (se è lecito associare questa parola al fenomeno criminale) e sostituirla con una visione feroce e personalistica dell'organizzazione.
Senza sottovalutare l'aspetto individuale di una storia che è unica (e che il giornalista Saverio Lodato, in questo senso, riesce a raccontare sotto la migliore prospettiva): quella di un uomo che – proprio dal momento della cruenta presa del potere operata da Riina – è in grado di rinnegare se stesso e di costruirsi, per quanto ormai possibile, una seconda vita. Scegliendo da che parte stare. Con la consapevolezza, tuttavia, che il contributo singolo è sempre relativo, e la volontà comune è qualcosa d'altro, legata com'è, nel bene e nel male, alla maturità degli uomini e dei tempi.
“La politica non vuole essere processata. Non ci sta. E quando dico politica, dico un immenso mondo fatto di interessi, finanza, economia e potere. C'è un livello che non deve e non può essere superato: la mia impressione è che la conseguenza di tutto questo è proprio la normalizzazione (…), l'apparente pace mafiosa. Così, mentre gli eroi ingenui venivano sacrificati e la loro ansia di scalare la montagna veniva spezzata, gli stati maggiori avranno siglato un nuovo patto... Lei mi chiede qual è, a parte il ritorno alla normalità, il vero obiettivo da raggiungere, E io le dico: una nuova omertà, adatta al terzo millennio.”