Saggistica Storia e biografie La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956
 

La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956 La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956

La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956

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«Ma alla fine abbiamo mandato giù papà al cimitero, mentre noi abbiamo rimasto qui in Belgio e non ce l'ho mai domandato alla mamma, che ora ha novantasei anni, perché ha voluto prendere questa decisione di non muoversi più dal Belgio». Il messaggio più scomodo che viene, in queste pagine, dalle parole dei superstiti è che essi furono e si sentirono orfani non solo della miniera ma, una seconda volta, orfani della patria. Marcinelle, Belgio, 8 agosto 1956, la Catastròfa (nell'espressione metà dialetto metà francese) è l'incendio scoppiato a 975 metri sottoterra in una miniera del distretto carbonifero di Charleroi. 262 morti, 136 immigrati italiani, caduti per un banale accidente ma uccisi soprattutto dall'imprevidenza premeditata, dalla mancanza di misure protettive e dalla disorganizzazione. Al di fuori delle celebrazioni rituali, la tragedia di Marcinelle è caduta in un colpevole oblio: questo libro la racconta come non è stata mai raccontata, riportando alla memoria l'epica spesso dolorosa della nostra emigrazione. È un romanzo-verità, a mezzo secolo di distanza, che non usa altre parole se non quelle ricche di fervore delle vittime – vecchi minatori superstiti, amici, familiari, soprattutto i bambini di allora – e quelle avare dei documenti ufficiali di raggelante insensibilità. Le loro voci portano il lettore nei cunicoli arroventati della miniera incendiata, negli anfratti dov'era cercato disperato rifugio, e su in superficie tra i pianti delle famiglie, il frastuono dei soccorsi e le frasi sgomente delle prime dichiarazioni; lo conducono lì intorno, nelle baracche e le botteghe dove si svolgeva la vita interrotta. E scorrono poi avanti e indietro nel tempo rispetto al presente della tragedia: ai paesi d'origine, tra poesia del ricordo e miserie primitive, all'incredibile assenza dello Stato italiano (non fu visto un presidente, non un ministro), alla parzialità dell'inchiesta successiva, all'inerzia della giustizia, e infine al solitario, silenzioso e fiero riadattamento alla vita straniera di chi rimase. Questo libro induce a riflettere su diverse parole-chiave, quali: lavoro, dignità, sicurezza, emigrazione, patria, giusta remunerazione. Parole incerte e bisognose, oggi come allora, di chiarezza.



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La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956 2012-08-09 14:17:36 pinco
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pinco Opinione inserita da pinco    09 Agosto, 2012
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quando il terzo mondo era l'Italia

A Marcinelle sono morti 262 minatori, di cui 136 italiani. Il racconto di quel giorno terribile, in quella terra lontana, è affidata a chi è sopravvissuto, alle vedove, agli orfani.
Nessuna domanda. Non è un'intervista. E' lo scorrere della memoria. Lo stile è colloquiale e l'autore non "corregge" la cadenza, ma lascia che le testimonianze siano genuine, rispettando la voce di chi racconta.
Alternate ai ricordi, sono le deposizioni degli imputati e dei testimoni al processo che seguì il dramma.
Traspare la rabbia, l'impotenza e l'abbandono da parte dello stato itagliano, quello con la esse minuscola e con la gi:

"... Non voglio dire che ci hanno venduti allo straniero, non voglio dirlo inquantoché in fondo in fondo sono partito spontaneamente e senza obbligo di nessuno, ma [quelli del governamento, n.d.r.] restano falsi e imbroglioni, bastardi falsi farabutti imbroglioni e minchie di primissima qualità, che loro sicuramente dovevano saperlo dove ci inviavano a morire, nelle vene della sottoterra, e che cos'erano le mine e di quanti ci lasciavano la vita..."

"... Tutte ste genti che si sono dimenticati e la gioventù che non può conoscere quello che abbiamo visto noi là sotto e non possiamo neanche dirlo, quello che abbiamo visto, perché noi delle squadre di soccorso siamo censurati ancora oggi, non possiamo dire quello che abbiamo visto e quello che abbiamo trovato là sotto..."

"...Questa è la storia di un lavoratore italiano che non ha avuto niente da nessuno..."

Il pensiero corre. Corre a mio nonno e a suo fratello, anche loro in miniera in Belgio a cavar carbone, anche loro "a buttare sangue nelle mine". E a mio padre, coi suoi dieci anni di galleria e trenta di fabbrica. E un po' anche a me, che del mio posto di lavoro non rimane che un mucchio di cenere. Ancora oggi, l'altra firma sul contratto spesso non è del "datore di lavoro", ma del "paròn".

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