La banalità del male
Saggistica
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Il male è banale
“Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso.”
Questo libro nasce con l'intento di riportare il processo effettuato ad Eichmann, appartenente al Reich, fuggito al termine della guerra e successivamente catturato per essere processato.
Quali erano le particolatà di quest'uomo? In realtà si trattava di una banalissima persona, senza un gran carattere per poter rifiutare un ordine, o almeno decidere se una determinata azione possa essere buona oppure no.
Lui era semplicemente, il migliore per quanto concerne l'organizzazione degli orari dei treni, utilizzati per le deportazioni.
Che fossero merci, bestiami, o persone poco importava. Lui doveva semplicemente organizzare i treni.
Nulla di più.
Tra le righe di questo saggio della Arendt, si possono trovare parti tratte dal processo stesso, ma condite con i ragionamenti della stessa autrice, che vanno a toccare i più disparati argomenti.
Tra le tante mi ha colpito un ragionamento, legato alla funzione del processo stesso:
“Qui si devono giudicare le sue azioni, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l’umanità, e neppure l’antisemitismo e il razzismo.”
Infatti questo processo, per molti aspetti, aveva preso la via "sbagliata" ovvero quella del dover per forza far pesare tutto ciò che era stato compiuto, senza in realtà andare ad analizzare effettivamente le colpe per le azioni compiute dall'imputato.
Il tutto portando alla creazione di una sorta di "spettacolo" per giornalisti.
Oltretutto, per una persona mediocre come Eichmann, può risultare accettabile l'affermare che le azioni compiute erano state ordinate dai superiori? Perché in questo caso, chi può decidere che sia giusto rischiare la propria vita, o comunque rovinare la vita alla propria famiglia (ovviamente trovandosi nelle alte cariche, rifiutare di eseguire un ordine nel regime nazista non poteva portare a conseguenze positive)?
Infine voglio chiudere questa recensione per sottolineare quanto disarmante sia, il leggere queste pagine e mano a mano accorgersi del fatto che, in realtà, Eichmann sia una normalissima persona. Uno che potrebbe essere chiunque, io per esempio o tu che stai leggendo queste mie righe.
Il male, in fin dei conti, non viene solamente creato da persone che una qualche devianza mentale, spinte da odio verso razze o situazioni sociali. Il male è anche creato da persone normali, che se ne rendano conto oppure no.
Concludo consigliando a tutti di leggere questo titolo, perché è importante conoscere ciò che è successo. Soprattutto però è importante vedere da un punto di vista differente la situazione, perché non tutti coloro che hanno reso possibile uno sterminio del genere, erano per forza malvagi.
Ma come sempre, l'importante è ricordare, per cercare in tutti i modi di evitare che situazioni del genere possano anche in futuro ripetersi e questo libro fornisce enormi spunti di riflessione per poterci creare un'idea personale, o comunque approfondire l'argomento del nazismo (quasi abusato) ma anche secondo un punto di vista differente.
“I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo c’è troppa gente perché certi fatti non si risappiano: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può mai essere praticamente inutile, almeno non a lunga scadenza.”
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Gli impiegati del male
“Hannah Arendt (1906-1975), filosofa tedesca, allieva di Heidegger e Jaspers, emigrata nel 1933 dalla Germania in Francia a causa delle persecuzioni contro gli ebrei, dal 1941 ha insegnato nelle più prestigiose università degli Stati Uniti”.
E’ questa l’introduzione alla biografia dell’autrice riportata sul retro di questo piccolo libro. La banalità del male è la storia vera del processo a Eichmann, uomo del Reich, fuggito dopo la guerra, catturato a Buenos Aires e giudicato dal Tribunale di Gesuralemme per aver commesso “in concorso con altri” crimini contro gli ebrei.
“La banalità del male” presenta già nel titolo il suo senso. Eichmann si è macchiato di crimini orrendi eppure non è il mostro che ci si potrebbe aspettare. L’uomo è un essere mediocre, banale, un mero esecutore di ordini.
Sono questi gli uomini malvagi che hanno decretato la fine di migliaia e migliaia di ebrei? Esseri apparentemente non in grado di discutere un ordine, di distinguere il bene dal male?
Un libro da leggere per capire quanto siano simili a noi i carnefici di questo secolo.
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eichmann a gerusalemme
Un titolo entrato nell’immaginario collettivo per un saggio ancor oggi di fondamentale importanza: se prendere in mano il libro incute un certo timore reverenziale, il doverne parlare è un compito difficoltoso visto che proprio nella banalità, seppur di ben diverso tipo, si rischia di scivolare. Non è però l’unico disagio che si prova e neppure il più grave: come accade sempre leggendo opere di analogo argomento, si viene pervasi da una sensazione disturbante che qui è accentuata dall’implacabile procedere dell’analisi con cui la studiosa tedesca naturalizzata statunitense sviscera la tragedia dell’Olocausto. Arendt va a Gerusalemme come inviata del New Yorker per seguire il processo ad Adolf Eichmann, funzionario di medio calibro delle SS incaricato della soluzione (finale e non) della questione ebraica, prelevato dagli israeliani in Argentina per venire processato dinanzi a un tribunale. Dallo studio dell’imputato attraverso le sue azioni durante la persecuzione e i suoi pensieri o parole nel periodo di prigionia, l’autrice prende lo spunto per un approfondimento che va ben al dilà della lineare corrispondenza giornalistica diventando l’esposizione delle logiche di come un crimine mostruoso possa scaturire da una routinaria attività burocratica. Alla base di una simile distorsione sta l’evaporare della coscienza individuale nella convinzione che, se si è una rotella di maggiore o minore dimensione, altro non si può fare che girare nel verso richiesto dal meccanismo: è questa acquiescenza priva di reazione che segna senza speranza la colpevolezza di Eichmann e di tutti coloro che si comportarono come lui perché in certe situazioni, obbedire agli ordini è un’aggravante. A questo scopo, sono fondamentali gli esempi di come la solo all’apparenza inscalfibile ferocia nazista si andasse attenuando alla ricerca di accomodamenti non appena qualcuno si mettesse più o meno timidamente di traverso, fino al caso eclatante della Bulgaria da dove non fu deportato nessuno: considerazione per la quale risulta necessario il racconto della caccia all’ebreo nei vari Paesi europei che si estende nei capitoli centrali causando a tratti un affaticamento nella lettura. Così, benché non vengano nascoste le lacune nell’organizzazione delle udienze – dal rapimento in Sudamerica a uno svolgimento assai poco equo – la pena capitale rimane l’inevitabile sbocco anche per stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di giustificazionismo: se Eichmann è lontano dal rappresentare l’incarnazione classica del male, lo rappresenta tuttavia in maniera tanto più inquietante. Nel considerare l’esito del dibattimento, va inoltre tenuta presente l’epoca in cui si tenne (e in cui il volume fu pubblicato), un momento nel quale l’Olocausto non giocava ancora il ruolo attuale nel sistema di valori occidentale e la Germania non aveva fatto i conti con il recente, tragico passato (basti pensare che Willy Brandt era solo il sindaco di Berlino Ovest): la forza delle argomentazioni dell’autrice – che comunque si guarda bene dal concedere sconti a chiunque, ebrei inclusi – hanno anzi aiutato questa maturazione grazie altresì a una prosa non semplice, ma che sa essere coinvolgente in special modo quando cerca di gettare luce sulla personalità del criminale nazista.
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Tutto diviene il contrario di tutto
11 maggio 1960: a Suarez, periferia di Buenos Aires, Ricardo Klement, operaio, viene rapito dai servizi segreti israeliani e tradotto in carcere a Gerusalemme. Perché Israele ha violato la sovranità dello stato argentino per rapire un anonimo lavoratore immigrato? Perché Ricardo Klement non è mai esistito. Dietro quel nome si nasconde Adolf Eichmann, membro dell' RSHA (Ufficio centrale sicurezza del Reich, un organo che aveva accorpato SS e Gestapo), esperto di questioni ebraiche, che ha avuto un ruolo rilevante nella attuazione pratica della Soluzione Finale e il cui nome era apparso regolarmente negli atti del famoso processo di Norimberga.
15 dicembre 1961: dopo un processo di ben centoventuno udienze, che si era protratto per mesi perché il pubblico ministero Haustner ( e il primo ministro israeliano) voleva concentrare l'attenzione del pubblico sullo sterminio degli ebrei tout court più che sui singoli crimini dell'imputato, viene emessa la sentenza di morte della corte.
31 maggio 1962: emessa la sentenza definitiva della Corte suprema e respinta la richiesta di grazia da parte del primo ministro, Adolf Eichmann viene frettolosamente impiccato.
1963: la filosofa tedesca Hannah Arendt, inviata del New Yorker al processo Eichmann, pubblica un'opera che, benché inondata e sommersa da pesanti critiche, presto si impone nel panorama internazionale fino a diventare un classico della riflessione sull'orrore del XX secolo: “Eichmann in Jerusalem:A Report on the Banality of Evil”
Adolf Eichmann è un uomo mediocre nato in Austria da una famiglia benestante. Studente pigro, lavoratore ancor più pigro, trova un'occupazione stabile grazie ai parenti ebrei della matrigna ma ben presto si stufa. Uomo privo di idee proprie, fanfarone che va avanti con frasi fatte e conformismo, su consiglio di un amico, entra nel 1932 nel partito nazista senza conoscerne l'ideologia e successivamente nel Servizio di Sicurezza delle SS, specializzandosi in questioni ebraiche ed espulsioni. Ben presto fa carriera, diviene tenente-colonnello (grado non eccezionale) e capo della sottosezione IV-B-4 dell' RSHA “Affari Ebraici, espulsione ed evacuazione”. Quando nel 1941 Hitler procede alla Soluzione Finale della questione ebraica, ovvero allo sterminio fisico, Eichmann diviene una rotella abbastanza importante della grande macchina burocratica. È lui che organizza la deportazione degli ebrei del Reich e dei territori conquistati nei vari campi di concentramento e si occupa dei rapporti con i vari consigli ebraici. Infatti, nel momento di annessione di un territorio, i nazisti entravano in contatto con questi consigli i cui funzionari trattati con i bianchi guanti distribuivano le stelle di David e redigevano l'elenco dei deportati, consegnavano cioè i loro fratelli al macello. Eichmann, “cittadino ligio alla legge” smanioso di promozioni, mostrò in questo suo lavoro grande zelo che non calò neppure alla fine.
Quello che emerge dall' argomentazione approfondita e serrata della Harendt è il ritratto non di una bestia inumana, sadica e perversa, inebriata dal sangue e dall'orrore, ma di un uomo normale. È propria la sua normalità a fare paura: Eichmann è un grigio burocrate privo di di iniziativa, di spessore culturale e morale. Non odiava affatto gli ebrei e non riusciva nemmeno a entrare in un campo di concentramento e ad avvicinarsi ad una camera a gas. Era interessato solo a statistiche, rapporti e avanzamenti di carriera e non si preoccupava che dietro quei numeri vi erano 5 milioni di ebrei massacrati. E la sua coscienza? Mai toccata da una crisi perché quando sei circondato dal crimine non ci fai più caso. Nel Terzo Reich l'illegalità era divenuta legalità, l'ammazzare il comandamento. Il bianco era passato per nero, e il nero per bianco e il criminale divenne un automa, inconsapevole del proprio crimine. Il male è banale e per questo più terribile: un uomo mostruoso e demoniaco non sarà mai imitato mentre c'è empatia con un uomo uguale a noi. In futuro la probabilità di un altro genocidio peggiore del proprio precedente è alta perché i servitori del male sono del tutto simili al nostro vicino di casa, ai nostri parenti, ai nostri amici, a noi stessi.
La banalità del male è un'opera densa, piena, complessa che ci svela l'enorme ragnatela del Terzo Reich, lo spirito di una nazione in cui il totalitarismo aveva fatto del paradosso la legge, della follia la normalità, senza che l'autrice si discosti mai dal processo, da Eichmann, dalla Corte. Buona lettura!
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Il ragioniere e la Morte.
C'è un ragioniere seduto sullo scranno dell'imputato.
Il ragioniere ha gli occhi velati da occhiali spessi, tipici di chi è avvezzo a far di conto con matite copiative e carte di recupero.
Non è, questo mite omarino, l'Eichmann mefistofelico di Vonnegut e di "Madre Notte"...affatto.
E' quello vero, il simbolo.
Intorno alle sue orecchie di contabile sono state piazzate cuffie a graffa...siamo alla fine degli anni '60 e la traduzione in tedesco si può comunicare in tribunale solo così.
E siamo a Gerusalemme, grazie a Dio, siamo dopo.
Il ragioniere presenta un tic nervoso all'angolo sinistro della bocca che, di conseguenza, si contrae e si rilascia continuamente.
Gli hanno piazzato intorno allo scranno una cabina di cristallo antiproiettile, ma Adolf l'inane non comprende.
In verità non comprenderà mai, nemmeno quando verrà impiccato.
Intanto i conti non gli tornano : sei milioni col fischio! A lui risulta un bel po' di più.
Ma anche a non voler sottilizzare, che diavolo ci si aspettava da lui? Che si opponesse?
E gli chiedono anche, palesemente innervositi,se non si sente colpevole...ma se ha fatto solo il suo lavoro?
Può essere poco gradevole, ma è un lavoro.
Dopotutto lui se n'era andato in Argentina...aveva tolto il disturbo.
E' il Mossad che vuole chiudere i conti, mica lui.
D'altra parte lui i conti li sa fare.
O no?
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E ci riuscirebbero senza difficoltà.