L'inferno di Treblinka
Saggistica
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La fabbrica della morte
«Allo stesso modo il delirio di un malato riflette – deformati e mostruosi – pensieri e sentimenti precedenti alla malattia. Allo stesso modo un folle con la mente annebbiata agisce sovvertendo la logica tipica dei comportamenti e delle intenzioni di un normale essere umano. Allo stesso modo un criminale che infligge alla sua vittima una martellata fra gli occhi unisce l’abilità professionale – la mira e la precisione del fabbro – al sangue freddo del mostro.»
Cosa resta oggi di Treblinka? Sei esistita davvero Treblinka? Forse ci sarà chi potrà affermare che no, non sei esistita, ma tu, al contrario, puoi dimostrare di esserci stata, di aver lavorato con furiosa attività per tredici interminabili mesi con un numero di morti giornaliere a dir poco spaventoso e i cui dati se moltiplicati, anche facendo una stima al ribasso, sono a dir poco indeterminabili. Oltre tre milioni in poco più di dieci mesi di effettiva attività per un numero molteplice di convogli giornalieri, minimo tre, trasportanti la bellezza di 150/180 prigionieri a vagone per almeno 60 vagoni a convoglio.
«Era una fabbrica di morte, una catena di montaggio improntata a quella moderna produzione industriale su larga scala.»
Solo che a Treblinka ad essere oggetto di “larga scala” erano volti di uomini e donne, corpi ammonticati, corpi privati di tutto, dei loro beni come della loro umanità. Uomini e donne usati come schiavi, come cavie, come reietti, come oggetti di piacere, come oggetti destinatari di una violenza gratuita e la cui origine atavica è inspiegabile. Ed è scomoda Treblinka, prima con la sua ribellione interna dei detenuti del 2 agosto 1943 che portò alla fuga di quei pochi e alla conseguente distruzione del luogo stesso. Per celare, nascondere, obliare. Perché la sussistenza del lager stesso era una testimonianza sconveniente di cui era necessario liberarsi quanto prima, prima che altri potessero vedere e sapere, odorare e respirare di quei corpi morti tra violenza, camere a gas, pestaggi, di quei morti in stato di decomposizione perché numericamente maggiori anche a quelli che volta volta potevano essere bruciati. In tal senso basti pensare che Himmler medesimo, dopo la sconfitta della Battaglia di Stalingrado, optò per un convinto negazionismo seppur l’opera stessa di distruzione di massa fosse in vita e i cadaveri in visibile decomposizione tra insetti grassi e variegati. Che mosche grandi e grosse, osservavano i prigionieri al loro arrivo al campo, mosche sempre sfamate da quegli stessi ignari futuri pasti. E allora via con i forni, i cadaveri devono bruciare e quanto più rapidamente possibile, nulla deve riemergere dal fondo della terra e per questo devono essere costruiti strumenti di eliminazione delle prove adatti. Una macchina della morte che nulla poteva lasciare al caso era Treblinka e lo è stata anche nell’arte del suo scomparire. Una ruota continua, un congegno preciso e puntuale come un orologio svizzero, una catena di montaggio che mai poteva fermarsi e per nessuna ragione.
«La presidente riusciva a soddisfare i suoi desideri, almeno in parte, usando in modo arbitrario il potere di cui disponeva. Lo considerava un male minore, anche perché era fermamente convinta di fare il bene della comunità. (…) doveva essere successo un fatto talmente grave da superare l’ampio margine di tolleranza che lei concedeva a se stessa e agli altri. Un fatto che la tormentava e la riempiva di sensi di colpa.»
Treblinka non perdeva tempo. Perché far patire la fame, far lavorare in modo estenuante, dover rifornire i prigionieri di abiti seppur usati e smunti, perché doverli anche solo tollerare nella loro esistenza quando questi potevano immediatamente essere eliminati previo precedente annientamento di quell’ultimo rimasuglio di umanità? Giusto qualche violenza antecedente alla morte atta a soddisfare questo fine era prevista e poi basta, nessuna perdita di tempo e per nessun motivo. I prigionieri venivano stipati verso le camere a gas e si sperimentavano anche diversi modi di uccisione in queste. Un primo modo poteva ad esempio essere quello di sottrarre poco alla volta l’ossigeno dalla stanza, ma ci sarebbe voluto troppo tempo. Il metodo doveva essere affinato. Un secondo modo poteva essere quello di usare il vapore ma anche in questo caso ci sarebbe voluto troppo tempo e il metodo non sarebbe stato sufficientemente efficace. Usare lo Zyklon B? No, perché mai dover usare questo se si poteva fare semplicemente ricorso al gas di scarico del carro armato, una morte tale da essere paragonata a quella di uno strangolamento. Bastava calcolare la giusta quantità da immettere onde evitare che ci potessero di nuovo mettere ore a tirare il calzino. La stessa struttura della camera a gas viene modificata e migliorata nel tempo approntando una giusta pendenza per essere certi che i corpi potessero essere rimossi in tempi più rapidi e dunque al fine di rendere più snelle e celeri le operazioni di “pulizia”. Treblinka non ha tempo da perdere! Avanti con il prossimo convoglio, avanti con il prossimo gruppo da stipare! Avanti con i corpi da rimuovere! Veloci!
«Solo la cosa più preziosa al mondo – la vita veniva calpestata. Intelletti generosi e robusti, anime pure, occhi innocenti di bambino, cari volti di anziani, belle teste altere di ragazza che la natura aveva faticato secoli e secoli a crear, scivolarono come un fiume silenzioso e infinito nell’abisso del nulla. Bastano pochi secondi per distruggere ciò che il mondo e la natura hanno creato nella gestione lunga ed estenuante della vita.»
È lì Grossman in quell’autunno del 1944, è lì che scrive, che raccoglie testimonianze, che osserva il terreno e che conta, annota, conserva nella memoria quel che vede apparire. Cappelli, pantaloni, scarpe, candelabri, corpi scampati al forno, vesti, tessuti, capelli pare destinati ai sottomarini, ricami ucraini e tanto tanto altro ancora. Ed ancora ci sono le voci. Voci di contadini che osservavano l’arrivo in quel luogo geograficamente strategico ma sinonimo di condanna a morte, voci di pochi e fortunati superstiti, voci di quelle stesse guardie. Apparso sulla rivista “Zamja”, “L’inferno di Treblinka” è letto al processo di Norimberga dove arriva con tutta la sua grande e infinita forza evocativa. Una prosa rapida, descrittiva, concreta e complessa che oscilla tra orrore, incredulità, impotenza ma volontà che quanto accaduto non riaccada. Un monito per il passato al futuro che verrà. Un allora futuro oggi diventato presente che ha fin troppo dimenticato quel che è in realtà stato.
«La crudele esperienza degli ultimi anni ci insegna che un uomo nudo perde ogni capacità di ribellarsi, si rassegna al proprio destino, insieme agli abiti dismette anche l’istinto di sopravvivenza e accetta la sua sorte come un fatto ineluttabile. Chi prima aveva una fame inesauribile di vita diventa passivo e indifferente. Eppure, a scanso di sorprese, in quest’ultima tappa della catena mortale le SS aggiunsero comunque un nuovo tassello – annichilivano le loro vittime, le riducevano in uno stato di shock psicologico. Come? Sfoderando all’improvviso, brutalmente, una crudeltà assurda, illogica. Esseri umani nudi ai quali è stato tolto tutto restano tenacemente mille volte più umani delle bestie in divisa nazista che li circondano, continuano a respirare, a guardare e a pensare, i cui cuori battono ancora.»
Un piccolo reportage nella mole, una grande testimonianza nella sua essenza. Uno di quegli scritti che oggi come oggi dovrebbero essere letti e riletti anche e soprattutto dalle generazioni più giovani che sentono come troppo lontani fatti che sono al contrario del tempo di uno ieri.
«Che grande cosa è il dono dell’umanità! Un dono che non muore finché non muore l’uomo. E se anche sopraggiunge un’epoca storica breve ma tremenda in cui la bestia ha la meglio sull’uomo, l’uomo ucciso dalla bestia conserva comunque fino all’ultimo suo respiro forza d’animo, mente lucida e cuore ardente.»
«Dobbiamo tenere a mente che di questa guerra il nazismo, il razzismo, non serberanno soltanto l'amarezza della sconfitta, ma anche il ricordo fascinoso di quanto sia stato facile uno sterminio di massa.
E dovrà tenerlo a mente ogni giorno, e con grande rigore, chiunque abbia cari l'onore, la libertà, la vita di ogni popolo e dell'umanità intera.»
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Breve ma devastante
Questo di Vasilij Grossman è un reportage molto breve ma psicologicamente devastante, incentrato su quello che era uno dei tanti campi di sterminio nazisti, in Polonia. La nascita, la “crescita” e la fine di questo campo viene efficacemente descritta da Grossman con uno stile calmo ma brutale, senza risparmiarsi in alcun modo perché: «[…] chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità. Chiunque giri le spalle, chiuda gli occhi o passi oltre offende la memoria dei caduti». E questo è assolutamente vero: così come è importante leggerne, altrettanto importante sarebbe vedere coi propri occhi ciò che resta di queste “fabbriche della morte”, che seppur mantenendo solo un minimo dell’impressione che davano quando erano in attività, dovrebbero scuoterci e farci pensare, così da non permettere che simili bestie possano nuovamente accalappiarci con la loro retorica e i loro discorsi, i quali nascondono brutalità e devastazione, crudeltà e disumanità. Essi si reputavano più umani dell’umano, quando non erano null’altro che bestie. Grossman riesce a dipingere quelli che erano i momenti della deportazione, della separazione dai propri cari, dell’annullamento del sé prima da un punto di vista legale e mentale, e infine corporale. Leggere tra queste pagine delle malefatte tedesche (che attenzione, non vanno inquadrati come un popolo diabolico in toto) è sconcertante, ed è sconcertante soprattutto vedere come queste malefatte non generassero neanche un minimo di rimorso, anzi, permetteva a questi animali di tornarsene a casa a testa alta, convinti di aver fatto ciò per cui erano venuti al mondo. E chi parla di semplici fantocci che eseguivano degli ordini, beh, questo non sembra vero in tutti i casi: che dire dei sadici giochi perpetrati ai danni anche di donne e bambini, costretti a vedere altri poveri derelitti mentre vanno incontro alla propria crudele fine, lasciando loro la consapevolezza che una medesima li avrebbe attesi di lì a poco?
Brutale.
Questo libro andrebbe letto da tutti, bisogna rendersi realmente conto di quello di cui siamo stati capaci. Oltre ciò, cercavo un incentivo al mio proposito di approfondire l’autore con “Stalingrado” e gli altri suoi lavori. Direi che l’ho trovato.
“Che grande cosa è il dono dell'umanità! Un dono che non muore finché non muore l'uomo. E se anche sopraggiunge un'epoca storica breve ma tremenda in cui la bestia ha la meglio sull'uomo, l'uomo ucciso dalla bestia conserva comunque fino all'ultimo suo respiro forza d'animo, mente lucida e cuore ardente. Mentre la bestia trionfante che lo uccide resta comunque una bestia. Nell'immortalità dello spirito umano è insito un cupo martirio, trionfo - però - dell'uomo che muore sulla bestia che vive.”
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La strada senza ritorno
“La strada è coperta di sabbia bianca, e i primi della fila – a mani alzate – distinguono sulla rena smossa le tracce recenti di altri piedi scalzi: piccoli – piedi di donna, ancora più piccoli – piedi di bambino, e orme profonde di anziani. Quelle tracce incerte sono tutto ciò che resta delle migliaia di persone che hanno percorso lo stesso tratto di strada, come stanno facendo queste altre quattromila e come, dopo di loro, di lì a un paio d’ore, faranno le altre migliaia che aspettano il proprio turno sul binario nel bosco. Oggi come ieri e come dieci giorni prima, oggi come domani e tra quindici giorni, oggi come per tutti i tredici mesi in cui esistette l’inferno di Treblinka. I tedeschi la chiamavano “la strada senza ritorno”.
Un’altra testimonianza dell’Olocausto che ho letto quest’anno, lasciata da una penna eccelsa, Vasilij Grossman, e che si associa a “Stalingrado”, per l’esaltazione e la celebrazione della storica battaglia in cui l’Armata Rossa sconfisse una volta per tutte l’esercito tedesco.
Sono libri che vanno letti e riletti anche se urtano la nostra sensibilità, perché parlano dell’essere umano quando di umano non ha più nulla e sto parlando sia delle vittime che dei carnefici. Una terribile ferita nella nostra storia occidentale che non bisogna coprire e ignorare, ma tenere sempre viva e presente.
Lo scrittore riporta testimonianze dirette ed indirette e ogni volta è un pugno nello stomaco, nonostante io abbia letto molte storie riguardanti questi terribili eventi, però colpiscono le riflessioni di Grossman sulla sofferenza degli uomini e delle donne che da un giorno all’altro si sono visti caricati su un treno come bestie e portati a Treblinka, in Polonia: all’inferno sotto ogni aspetto.
“È stupefacente come quelle bestie riutilizzassero ogni cosa – cuoio, carta, stoffa, tutto ciò che era servito agli esseri umani serviva, tornava utile anche alle bestie. Solo la cosa più preziosa al mondo – la vita – veniva calpestata. Intelletti generosi e robusti, anime pure, occhi innocenti di bambino, cari volti di anziani, belle teste altere di ragazza che la natura aveva faticato secoli e secoli a creare, scivolarono come un fiume silenzioso e infinito nell’abisso del nulla. Bastano pochi secondi per distruggere ciò che il mondo e la natura hanno creato nella gestazione lunga ed estenuante della vita”.
Il disprezzo e anche una certa ironica ammirazione verso i tedeschi che, come si fa coi maiali, non buttavano via nulla delle loro vittime (esseri umani!!!), finanche i capelli che venivano usati per cordami e parrucche per i più ricchi. Se l’Armata Rossa non fosse arrivata in tempo, Hitler l’avrebbe fatta franca e nessuno avrebbe potuto conoscere gli orrori dei campi di sterminio.
A noi lettori il dovere di ricordare
“tenerlo a mente ogni giorno, e con grande rigore, chiunque abbia cari l’onore, la libertà, la vita di ogni popolo e dell’umanità intera”.
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Stazione di Treblinka
Ho letto “L’inferno di Treblinka” in occasione del Giorno della Memoria. Il libro è in realtà il reportage scritto da Vasilij Grossman che era al seguito dell’Armata Rossa come corrispondente di guerra; nei primi giorni di settembre del 1944 i russi entrarono in quello che fu forse il più atroce, il più crudele dei campi di concentramento che i nazisti costruirono in Polonia. E’ un racconto molto dettagliato su come funzionasse il campo, sulle figure degli aguzzini (SS e Wachmanner) e, man mano che procedevo nella lettura pensavo che, per quanto si possa conoscere, è impensabile per la mente umana riuscire a concepire quello che è stato; è forse per questo che, complici alcuni film ed alcuni libri, abbiamo una visione un po’ edulcorata di che cosa fosse un campo di sterminio, e non di concentramento, poiché di STERMINIO si tratta nel caso di Treblinka. Qui sono arrivati e subito mandati a morte milioni di uomini (Grossman fa un calcolo per difetto basandosi su testimonianze oculari) in circostanze e modi orrendi, con sofferenze prima morali (venivano di fatto colpiti nei sentimenti più umani e annientati) poi fisiche (tanto che un colpo di pistola era una grazia). Già da questo reportage si intuisce il grande scrittore che Grossman diventerà, alcuni passaggi sono veramente illuminanti “...l’uomo ucciso dalla bestia conserva comunque fino all’ultimo suo respiro forza d’animo, mente lucida, cuore ardente. Mentre la bestia trionfante che lo uccide resta comunque una bestia”.
Altri passi potrebbero essere stati scritti oggi talmente sono attuali “Oggi come oggi ogni singolo uomo è tenuto....a rispondere con tutta la forza del cuore e della mente a una domanda: che cosa ha generato il razzismo? Che cosa bisogna fare affinchè il nazismo, il fascismo, l’hitlerismo non abbiano a risorgere né al di qua né al di là dell’oceano mai e poi mai, in secula seculorum?”. Non vi è nulla di umano in questo racconto, questo libro di poche pagine è come un pugno nello stomaco, ci mette di fronte alla realtà terribile di una fabbrica della morte poiché tutto funzionava proprio come una catena di montaggio. Ma forse il pensiero più agghiacciante che Grossman rileva nei discorsi e nei comportamenti delle SS tedesche è che “ Erano tutti profondamente e sinceramente convinti di fare una cosa giusta e necessaria”
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Dov'è Treblinka?
Dov’è Treblinka?
Non c’è! È stato distrutto questo campo di lavoro e di sterminio dopo una furiosa attività di tredici mesi. Dopo 10.000 morti al giorno, 300.000 al mese, tre milioni in dieci mesi di effettiva attività, se si vuole essere oggettivi e includere le pause forzate dovute al mantenimento stesso dell’inferno. Treblinka fisicamente non c’è più, dopo la rivolta dei suoi detenuti, quelli condannati a viverci perché detentori di abilità manuali necessarie o di abilità professionali imprescindibili alla sussistenza del lager stesso, rivolta datata 2 agosto 1943 che portò alla fuga di pochi e alla distruzione per mano nazista di una testimonianza che si voleva rendere invisibile e mai esistita. Già Himmler, dopo la sconfitta della Battaglia di Stalingrado, provvide di suo ad affinare il negazionismo mentre l’opera era ancora in vita: con una visita fulminea decretò un netto miglioramento dell’operazione di sparizione dei cadaveri. Era ormai improbabile e fuori luogo farli sparire in fosse comuni la cui terra brulicava di insetti grassi e di continua restituzione fisica di prove dell’annientamento; occorreva ora progettare forni capaci di bruciare una quantità enorme di cadaveri fatti riemergere dal fondo della terra e continuare, col nuovo metodo, a smaltire i nuovi arrivi. Perché questo era Treblinka: una precisissima macchina della morte, a ruota continua, un congegno ad alta mortalità a rispecchiare la produttività delle migliori catene di montaggio. Non si risiedeva a Treblinka, non si pativa la fame, non si subiva estenuante lavoro, si arrivava e subito, attraversando meticolose fasi di preparazione, si moriva, subito, previo diabolico annientamento dell’essere umano che ancora respirando, facendo battere il suo cuore, pensando, avendo paura, provando orrore, subendo incredibili e subitanee violenze ante- mortem era lì in piedi a stiparsi verso le camere a gas. Il gas, prerogativa tutta sua, non era lo Zyklon B, no, qui si procedeva con il gas di scarico del carro armato, capace di far respirare a vuoto e di far morire come per strangolamento, o con l’assenza completa di ossigeno che veniva aspirato appositamente dalle camere, o ancora con immissioni di vapore. Taccio tutto l’altro orrore letto e procedo rendendo un infinito grazie a Grossman, lui nell’autunno del 1944 è lì e scrive il suo reportage mentre la terra sputa fuori ciò che la mente stenta ancora a credere: brandelli di vesti, tessuti col ricamo ucraino, capelli, pantaloni, scarpe, candelabri…il suo scritto apparso sulla rivista «Znamja» è letto al collegio d’accusa del processo di Norimberga. È fondato su decine di testimonianze di prima mano: i pochi superstiti, gli abitanti dei dintorni, le guardie. È pervaso da un sentimento di orrore e di incredulità ma soprattutto da quel monito a noi così familiare, lo stesso della poesia “Shemà” che precede “Se questo è un uomo”. È un monito a non dimenticare “quanto sia facile uno sterminio di massa”.
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Triangoli rossi
L'Inferno di Treblinka
Questo breve opuscolo giornalistico fu scritto sul finire dell'estate del 1944, subito dopo la liberazione del campo di Treblinka, usando fonti e informazioni di prima mano. Venne addirittura adoperato durante il processo di Norimberga.
Qui Grossman raggiunge le vette della sua carriera giornalistica. Lo stile è diverso dai seguenti capolavori letterari. È asciutto e duro, non divaga in constatazioni del momento ( ad esempio, in Tutto scorre... solo alcuni capitoli si avvicinano a questo lavoro, a livello di impostazione stilistica). Ma in questo lavoro, l'ancora giornalista sovietico, deve descrivere la dura realtà del genocidio perpetrato dai nazisti, arrivando a porsi il problema che forse chi ha compiuto tutto ciò uomo non lo era: sono pagine tremende, Grossman riesce nella settantina di pagine scarse a concentrare l'odio nazista e buttarcelo addosso, dicendo: perché è successo?
E nelle ultime, terribili, pagine guarda in avanti e prevede, quasi, il fascino che simili massacri potranno avere sull'uomo del futuro, sia esso vicino o lontano:
"Dobbiamo tenere a mente che di questa guerra il nazismo, il razzismo, non serberanno soltanto l'amarezza della sconfitta, ma anche il ricordo fascinoso di quanto sia stato facile uno sterminio di massa.
E dovrà tenerlo a mente ogni giorno, e con grande rigore, chiunque abbia cari l'onore, la libertà, la vita di ogni popolo e dell'umanità intera."
(V. Grossman, L'inferno di Treblinka, p. 79)
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Non leggete questo libro, è triste.
Vasilij Grossman entra con l'Armata Rossa nel lager di Treblinka.
I nemici della razza umana sono già fuggiti con la refurtiva.
Grossman non lo sa ancora...ma lui farà, sotto il tallone di un'altra dittatura, la stessa fine degli assassinati di quel campo.
Differente sarà soltanto la modalità d'esecuzione.
Questo libretto dell'Adelphi, assai piccolo in verità, è "triste".
Ovvero, non parla di vampiri e di trame di colore giallo acceso.
Per questo il libraio che è un commerciante, se è astuto,vi avverte:"Quello è triste".
Siete dunque avvertiti.
Il rapporto di Grossman è impressionante.Prima di essere un soldato sovietico,prima della divisa, prima di tutto,insomma,Vasilij è un ebreo.
Aveva sentito voci e ascoltato racconti, precisa, ma non immaginava questo.Così non compie funambolismi intellettivi o, peggio, intellettuali per definire Treblinka: INFERNO...è la parola che gli si accosta per prima alla mente nel vedere, constatare, osservare che cosa un tedesco sa fare.
E come sempre lo sa fare bene.
E' un libro triste, è vero.
E mica dobbiamo stare male per queste cose no? Ora siamo più...maturi.
Ecco, maturi.
Espressione libera, forte, esaustiva e fiera.
Siamo più maturi! Oh!
Ma io vi dico che chi non legge questo libro non può comprendere la "rovina interiore" (Lacan) di un uomo,né percepire la dolcezza della zolletta di zucchero che si sgretola fra i denti all'ora del té.
Chi volta lo sguardo altrove non percepirà mai più il verde intenso dei campi o l'azzurro cobalto del cielo.
A molti piacciono "le sensazioni forti"...per questo leggono le saghe vampiresche di improbabili succhiasangue d'occasione impiegati come stagnini alla corte del secolo XXI...
Vi piacciono le sensazioni forti,eh?
Leggete questo libro. E' triste.
Ma in fin dei conti voi siete così sereni?