Saggistica Storia e biografie Il naufragio della baleniera Essex
 

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Il naufragio della baleniera Essex

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Tre nomi - George Pollard, Owen Chase e Thomas Chapple - del tutto sconosciuti al mondo delle lettere, sono i protagonisti di uno dei tanti naufragi di cui nell'Ottocento si scriveva. Se ne raccoglievano indicazioni negli annali dei porti cui navi o baleniere non avevano fatto ritorno. I tre, in luoghi diversi del mondo, lasciarono di quell'evento vissuto in prima persona un laconico resoconto. Sul naufragio di cui qui si racconta, che ebbe luogo nel 1820 sulla linea dell'equatore, nelle acque dell'Oceano Pacifico, scese allora un imbarazzato silenzio. Lo scontro con un mostruoso cetaceo aveva affondato la baleniera e decimato l'equipaggio. Tre scialuppe e pochi sopravvissuti, bianchi e neri. Ridotti allo stremo dalla sete e dalla fame, a turno attesero la morte dei compagni per sopravvivere nutrendosi dei loro corpi, a partire dal cuore: il colore della pelle non aveva più importanza, il gusto delle carni era lo stesso. L'infrazione di un tabù ancestrale per la cultura occidentale, così diversa da quella del 'cannibale', ma anche un passo oltre le leggi tribali che ne regolavano i riti, perché su una delle tre scialuppe i sopravvissuti decisero di tirare a sorte chi tra loro sarebbe stato ucciso per nutrire gli altri. La sorte toccò al più giovane, che preferì essere ucciso piuttosto che nutrirsi di chi al suo posto lo sarebbe stato. Fu il primo 'antieroico' eroe moderno. Sull'incidente cadde un pietoso silenzio. Imbarazzo, vergogna? "Stato di necessità" fu il verdetto archiviato dalla legge americana. Non risulta che studiosi di letteratura e storici se ne siano allora occupati. Fino a quando, nel 1947, il poeta Charles Olson, lavorando alle carte di Herman Melville trovò degli appunti. Gli appunti sul naufragio della baleniera Essex. Pagine che gettarono nuova luce sulle scelte letterarie ed esistenziali di Melville. Quella lettura era destinata a segnare in profondità il resto della sua carriera, da "Moby Dick" in avanti. Barbara Lanati si interroga sull'impatto di quell'incontro e insieme mette in luce i modi in cui un'opera letteraria quale "Moby Dick" sia stata segnata da quelle pagine - un reperto apparentemente rozzo, informe e insieme angosciante - in cui Melville si imbatté come ci si imbatte in relitti, legni, conchiglie che il mare ha buttato a riva. Affinché li si raccolga. Affinché li si interroghi per raggiungerne il segreto.



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Il naufragio della baleniera Essex 2020-01-21 09:52:19 FrancoAntonio
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    21 Gennaio, 2020
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Le vittime di Moby Dick

Quasi tutti conoscono le vicende della baleniera Pequod all'inseguimento del poderoso e vendicativo Moby Dick. Sono meno quelli che hanno letto il romanzo di Melville nella sua edizione integrale. Pochissimi sanno, poi, che la storia fu suggerita al romanziere americano da un fatto realmente accaduto. Quasi nessuno conosce le peripezie che l’equipaggio della baleniera Essex – affondata, nel 1820, da un capodoglio inferocito per lo sterminio del suo branco – fu costretto ad affrontare durante un lungo, dolorosissimo vagabondaggio nel cuore dell’oceano in cerca di salvezza.
Questo libricino raccoglie le testimonianze dirette di tre dei sopravvissuti: quelle del primo ufficiale Owen Chase, del comandante della nave, George Pollard Jr., e di un altro membro dell’equipaggio, Thomas Chapple (o Chappel come si evince da altre cronache).
Dal rapporto dettagliato del primo, scritto in forma di diario, apprendiamo come l’equipaggio, messosi in salvo sulle fragili lance della nave, abbia affrontato la terribile impresa di sopravvivere per oltre due mesi e mezzo in un viaggio avventuroso che gli fece percorrere più di quattromilacinquecento miglia di oceano, tra tempeste, bonacce roventi e pericoli di ogni genere, combattendo con la fame, la sete e la disperazione, se non proprio la follia. Dopo una sosta di pochissimi giorni sull'isolotto Henderson, dal quale provarono a trarre i pochissimi viveri e la poca acqua dolce che riuscirono a trovare, in diciassette ripresero la navigazione verso le coste dell’America latina. Durante questo tratto le barche si separarono e l’inedia cominciò a esigere dai naufraghi il suo triste pedaggio di morti. Ciò li portò all'estrema decisione di cannibalizzare i compagni spirati per cause naturali (e pure no!) per trarre dalle loro carni quel po’ di nutrimento che consentisse di prolungare di qualche giorno l’esistenza e la speranza di salvezza. Quest’ultima giunse, alla fine, solo per due battelli con cinque sopravvissuti in totale.
Più sintetico è il resoconto del comandante: in parte, forse, per i comprensibili sensi di colpa per avvenimenti parzialmente da addebitarsi alla sua imperizia, in parte per la reticenza a riandare agli episodi più brutali. Basti pensare, infatti, che una delle povere vittime uccise e cannibalizzate fu il mozzo Owen Coffin, il nipote che lui aveva promesso di proteggere costantemente durante il viaggio. Peraltro la storia ci è riferita in terza persona da un missionario presso le Isole Sandwich che la raccolse dalla viva voce di Pollard e che, evidentemente, si astenne dal riportare la tragedia negli aspetti più crudi preferendo trarne un insegnamento morale e religioso.
Infine, dalla parimenti breve narrazione di Chapple, apprendiamo cosa ne fu dei tre che decisero di restare sull'isola deserta, sopravvissero malamente strappando allo scoglio il poco nutrimento che offriva e non furono testimoni diretti della parte più atroce del viaggio, quella del cannibalismo.
Mettendo assieme i racconti, come in un collage, si ottiene il quadro completo, duro e feroce, della disperata odissea di stenti e privazioni patita dai venti uomini, dove l’angoscia per il proprio futuro era compagna quotidiana, la bramosia di cibo e acqua l’unico pensiero fisso e la fede non riusciva a sorreggere gli animi.
Quello non fu certo l’unico naufragio registrato dalla cronaca di quegli anni, né, forse, fu il più tragico. Ma ne rimare l’archetipo poiché da quella vicenda Melville trasse l’ispirazione per il suo romanzo. Quindi la lettura di queste cronache ci consente di esaminare, fuori dall'epica enfatizzata del romanzo, la cruda realtà che fece seguito alla collisione con la balena, in una istantanea sbiadita, ma ancora perfettamente leggibile, di quegli anni brutali in cui il valore di un uomo veniva misurato sulla base della quantità dei barili d’olio che riportava alla base.
Con l’occhio critico del lettore moderno, possiamo notare come le testimonianze non coincidano tra di loro anzi, talvolta, risultino pure in aperta contraddizione le une con le altre. I fatti (e pure i nomi) assumono aspetto diverso a seconda dell’osservatore che ce li riferisce. Il ruolo giocato da ognuno nella tragedia muta a seconda delle convenienze del narratore. Ma proprio per questi motivi la vicenda ci appare più viva e concreta in tutta la sua straziante tragicità. Lo stile asciutto, come può esserlo quello di un verbale in una deposizione giurata, non lascia spazio a eufemismi o perifrasi edulcorate. Non esiste studio dei personaggi, non drammatizzazione fine a sé stessa. I fatti ci vengono riportati nella loro cruda successione. Tuttavia, in questa fredda rappresentazione degli eventi, si riesce comunque a partecipare appieno dei sentimenti di quegli uomini disperati.

Ho trovato meno convincente la seconda parte del libro dedicata al commento critico di Barbara Lanati che contestualizza e analizza l’opera di Melville e l’influenza che su di essa ebbe la conoscenza del naufragio dell’Essex. In essa si tenta pure l’esame sotto il profilo sociologico dell’inselvatichimento dell’uomo, costretto dalla necessità a violare il suo più radicato tabù: il divieto di cibarsi dei propri simili.
Per quanto siano meritevoli di interesse alcune delle considerazioni, soprattutto sul perché e sul come nacque Moby Dick e sull'atteggiamento di Melville nei confronti di quello che egli stesso definì “il suo romanzo maledetto” (considerazioni che in parte mi hanno confortato in opinioni che già mi ero fatto) la lettura risulta generalmente ostica, oscura, talvolta discutibile nell'opera di razionalizzare ciò che fu irrazionale. Temo che il critico letterario moderno abbia voluto inferire conclusioni in un’ansia definitoria, in un’opera descrittiva-interpretativa che rischia di contrabbandare opinioni personali come pensieri propri dell’Autore. Nell'auspicio che non si sia voluto solo dar sfoggio delle proprie capacità oratorie e della propria erudizione. Ne risulta, quindi, in generale, una lettura non particolarmente interessante o gradevole, anche se contribuisce a inquadrare sia storicamente che psicologicamente il pensiero di Melville.

Ciò nulla toglie al valore della parte iniziale, prettamente documentaristica, che è una lettura stimolante e coinvolgente che appassiona e invoglia a leggere pure la versione romanzata di Nathaniel Philbrick (Heart of the Sea) dalla quale Ron Howard trasse nel 2010 il film sulla tragedia dell’Essex.

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