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Alla conclusione della guerra, nei giorni compresi fra la smobilitazione e l'inizio della restaurazione Livio Bianco affidò l'esperienza che aveva vissuto in qualità di comandante di una pattuglia della Resistenza piemontese in questo libro. C'era in lui la consapevolezza che la stagione della speranza era finita, e occorreva tracciare un primo bilancio, sia pure ancor caldo di passione civile. Le annotazioni diaristiche diventano storia, nasceva "il documento conclusivo di un'epoca grandiosa e irripetibile, l'atto di fede di un uomo che non vuole arrendersi" (Nuto Revelli).



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Guerra partigiana 2016-08-19 02:15:42 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    19 Agosto, 2016
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Il partigianato

Ai più Dante Livio Bianco risulterà uno sconosciuto, ma dopo aver letto questo suo libro e dopo avere imparato che cosa fu veramente la Resistenza finirà con il diventare un personaggio indimenticabile. Nelle pagine si respira un’aria di libertà, di speranza, un’aria buona che manca da troppo tempo. Non è il solito strombazzato retoricamente eroismo partigiano, ma è la realtà di uomini che si trasformano, che militarmente combattono per affermare un ideale di giustizia e di libertà, e Giustizia e Libertà si chiameranno infatti le brigate del Partito d’Azione, di cui Bianco é membro. L’autore sa scrivere in un bello e conciso italiano e, soprattutto, sa quel che vuol dire; vuole mettere nero su bianco quale fu l’esperienza partigiana nel cuneese, una delle zone a più alta densità di “ribelli”. Il suo non è un romanzo, ma è uno studio organico, la cui attenta lettura porta a comprendere chiaramente come vennero a nascere le bande, come progredirono, la loro funzione, il loro inserimento nel tessuto sociale. Sono dell’idea che arrivati all’ultima pagina si sappia molto sul movimento partigiano, non se ne abbia solo un’idea, ma una conoscenza approfondita. Divisa in capitoli sistematici l’opera si presta a fornire puntuali risposte alle tante domande. Rammento, in particolare, avendo destato in me maggior interesse, quelli relativi al carattere popolare dei partigiani, all’inevitabile crisi che subentra nei superstiti dopo un rastrellamento, alla militarizzazione e politicizzazione delle formazioni, alla tecnica militare e allo spirito politico-morale. Si noti bene, peraltro, che Dante Livio Bianco non era un professore di storia, ma un avvocato; evidentemente, però, ha avvertito il desiderio e la necessità di ricordare, per primo a lui stesso e agli uomini della sua epoca, e di far conoscere alle generazioni successive un fenomeno, quale quello del partigianato, del tutto nuovo per l’Italia e con ambizioni non solo di liberare il paese dal giogo nazi-fascista, ma anche di gettare le basi per la nascita di una nuova Italia. Tuttavia, mi è sembrato di avvertire fra le righe delle ultime pagine un senso di sconforto, poiché, finita la guerra, anziché veder sorgere un periodo di rivoluzione (nel senso politico e non insurrezionale del termine) ebbe inizio subito, implacabile, la restaurazione, di cui scontiamo tuttora gli effetti.
Da leggere, lo merita.

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