Caporetto Caporetto

Caporetto

Saggistica

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Da cent'anni la disfatta di Caporetto suscita le stesse domande: fu colpa di Cadorna, di Capello, di Badoglio? I soldati italiani si batterono bene o fuggirono vigliaccamente? Ma il vero problema è un altro: perché dopo due anni e mezzo di guerra l'esercito italiano si rivelò all'improvviso così fragile? L'Italia era ancora in parte un paese arretrato e contadino e i limiti dell'esercito erano quelli della nazione. La distanza sociale tra i soldati e gli ufficiali era enorme: si preferiva affidare il comando dei reparti a ragazzi borghesi di diciannove anni, piuttosto che promuovere i sergenti - contadini o operai - che avevano imparato il mestiere sul campo. Era un esercito in cui nessuno voleva prendersi delle responsabilità, e in cui si aveva paura dell'iniziativa individuale, tanto che la notte del 24 ottobre 1917, con i telefoni interrotti dal bombardamento nemico, molti comandanti di artiglieria non osarono aprire il fuoco senza ordini. Un paese retto da una classe dirigente di parolai aveva prodotto generali capaci di emanare circolari in cui esortavano i soldati a battersi fino alla morte, credendo di aver risolto così tutti i problemi. In questo libro Alessandro Barbero ci offre una nuova ricostruzione della battaglia.



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Caporetto 2018-03-12 06:46:33 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    12 Marzo, 2018
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Una disfatta non inattesa

Credo che sia difficile trovare un evento nella ancor pur breve storia dell’Italia che abbia colpito il nostro popolo in modo così evidente, al punto di definire ogni risultato particolarmente negativo come “una Caporetto”. Del resto, in quelle giornate di fine ottobre del 1917 poco ci mancò perché le truppe tedesche e austriache arrivassero a dilagare nella pianura padana, determinando di fatto la fine del nostro stato.
Ma come è potuto accadere che un esercito come il nostro, quasi sempre in numero ben superiore all’avversario e dotato di moltissime artiglierie venisse di fatto ridicolizzato da un nemico che dopo undici battaglie sull’Isonzo si riteneva incapace di sostenerne una dodicesima? Proprio per questo motivo, nel timore di un crollo con un altro scontro diretto, l’alto comando austriaco si risolse di chiedere aiuto all’alleato tedesco e insieme elaborarono un piano che, se nelle intenzioni era volto ad alleggerire la tensione sul fronte, di fatto arrivò quasi a ottenere una nostra irreparabile sconfitta, insomma una Waterloo o una Stalingrado. Data la tematica non pochi storici hanno provato a dare una risposta, più o meno convincente, ma comunque non così attentamente elaborata come ha invece fatto il prof. Alessandro Barbero. L’impegno nell’opera è stato notevole, se si considera che il volume, edito da Laterza, consta di ben 645 pagine, ivi comprese quelle dedicate alle carte geografiche, poche in verità, ma utilissime; non mancano poi alla fine corpose parti dedicate alle indispensabili note e alla ragguardevole e ben scelta bibliografia. Il lavoro è stato ben strutturato in XIII capitoli, che vanno dall’ideazione dell’offensiva alla nostra ritirata in Friuli, affrontando tutta una specificità di aspetti che se non riescono a dare una risposta certa al 100% su chi fu colpevole del disastro, chiariscono però non poche cose. In particolare, e qui Barbero è piuttosto esplicito, ritiene che la colpa non può essere attribuita solo a Cadorna, a Badoglio o al suo comandante dell’artiglieria colonnello Cannoniere, perché la responsabilità, come esposto nel saggio storico, è condivida da tantissimi altri. Lo sfacelo del fronte, con il collasso del nostro esercito, fu il fallimento di un’organizzazione posticcia, in cui le direttive erano a dir poco nebulose, le decisioni importanti erano prese in modo intempestivo, la professionalità latitava, la paura di assumere provvedimenti, con l’assunzione quindi di responsabilità, era la norma, la stanchezza di quasi tutti i soldati era giunta a un punto tale da far preferire loro la fuga o la resa. Inoltre, il distacco fra comandanti e militari semplici era tale da lasciar chiaramente intendere che i primi costituivano una casta, mentre i secondi erano solo carne da macello, e del resto in quest’ottica si preferiva nominare ufficiali, dopo un corso affrettato, giovani inesperti, ma figli della borghesia, invece di ricorrere ai subalterni (sottufficiali) che avevano maturato una grande esperienza in anni di guerra. Cadorna, che non era uno stratega scadente, anzi era un buon comandante sotto questo aspetto, aveva poi il difetto di considerare i componenti del suo esercito come semplici strumenti in mano a lui, artigiano della guerra, strumenti da spremere senza alcun riguardo. E pensare che aveva avuto a portata di mano la possibilità di vincere la battaglia risolutiva, se avesse preceduto, di poco, l’offensiva nemica, cogliendola nella fase di attesa, quella più delicata, con tutte le truppe in prima linea. Il nostro Servizio informazioni gli aveva detto dove sarebbero avvenuti gli attacchi, le forze utilizzate, i mezzi che sarebbero stati impiegati, il giorno e l’ora, ma come già accaduto in passato il comandante supremo non si fidò del nostro spionaggio, con le conseguenze che tutti conosciamo.
Quindi, ricapitolando, l’opera di Barbero, ben strutturata organicamente, è in grado di offrire una visione a 360° dell’intero evento, e ciò viene fatto con rigore storico, ma anche con dinamismo e a volte con quelle punte di ironia che sono proprie dell’autore, così che la lettura risulta agevole e anche avvincente, tanto di avere sovente l’impressione di essere presenti, come spettatori, sul palcoscenico che ospita il tragico fatto. Tale coinvolgimento è di particolare rilievo ove si consideri che l’analisi comprende anche la situazione della grande massa di prigionieri che fecero le forze nemiche, nonché gli aspetti, meno strettamente militari, di quella che può essere considerata la più grande ritirata della storia, in cui non pochi soldati in fuga diedero sfogo agli istinti più repressi. Si accenna appena, invece, ai motivi per i quali migliaia di militari sconfitti e demoralizzati riuscirono da subito, giunti sulla linea del Piave, ad arrestare l’offensiva nemica; infatti, e giustamente, Barbero scrive che per far questo occorrerebbe un altro corposo libro.
Mi sembra superfluo aggiungere che la lettura di questo approfondito saggio storico non solo è consigliata, ma è da me vivamente raccomandata per la completezza con cui viene trattato l’argomento e per l’equilibrio dell’autore nella ricerca delle colpe, da cui emerge anche una caratteristica italica, quell’improvvisazione, non disgiunta da menefreghismo, che purtroppo ci portiamo dietro e che nei momenti più delicati emerge chiaramente, come anche avvenne nella seconda guerra mondiale.

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I libri di storia di Alessandro Barbero.
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Caporetto 2017-12-27 14:51:22 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    27 Dicembre, 2017
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Caporetto

Nato a Torino nel 1959 e specializzato in storia militare e del Medioevo, Alessandro Barbero è uno degli storici migliori presenti nel panorama italiano. Con “Caporetto” l’autore riesce non solo ad inquadrare in modo ineccepibile quelli che sono stati i fatti e il loro susseguirsi, ma offre altresì al lettore una perfetta sintesi di ciò che possiamo trovare in altre opere a firma Monticone, Silvestri, Pieri, Faldella, Fadini, Rommel etc , che a più riprese si sono occupati dell’argomento.
La compilazione dello studioso segue uno schema metrico chiaro, lineare e preciso, tanto che il conoscitore è accompagnato passo dopo passo nel rivivere della battaglia. L’opera ha inizio con una parte introduttiva dedicata agli austro-tedeschi, prosegue con la descrizione del crollo delle nostre brigate in appena due giorni per poi approfondire ancora storie e polemiche di vecchia data su responsabilità e colpe gerarchiche che hanno negli anni fatto parte di dibattiti e discussioni tra le più autorevoli fonti storiche. Barbero si sofferma ancora sulle caratteristiche del nostro apparato militare, evidenziandone lacune e inferiorità, scarsa combattività e resistenza della maggior parte dei reparti. Ovviamente lo scrittore non si risparmia nemmeno in merito al tentativo di chi ha cercato di rendere “vittoria” quella che nel concreto è stata una sconfitta, e per dimostrare la sua tesi offre molteplici prove a sostegno.
Non mancano altresì osservazioni sul fatto che “i tedeschi avevano capito da un pezzo che in guerra bisogna innanzitutto cercare di non farsi ammazzare” quando al contrario Cadorna si rifiutava di accettare e comprendere il dato o storie relative a ciò che sarebbe stato il futuro di certi protagonisti quali, a titolo di esempio, il maggiore Visconti Prasca (diventato generale di corpo d’armata nell’ottobre del 1940, destinato a comandare l’esercito italiano nella catastrofica invasione in Grecia, silurato da Mussolini e di poi unitosi ai partigiani dopo l’otto settembre per essere infine catturato dai tedeschi, essere deportato in Germania, riuscire ad evadere per unirsi all’Armata Rossa con la quale entra a Berlino).
Nel cercare di rispondere al perché della disfatta di Caporetto, il docente si tratterrà sulla scarsa competenza tattica dei reparti italiani, alla mancanza di iniziativa e di flessibilità, all’inadeguatezza e insufficienza delle armi dei comparti. Lacune e problemi a cui si aggiungono la stanchezza, la disaffezione, la pessima qualità dei rincalzi, l’inadeguatezza e impreparazione dei giovanissimi ufficiali, le condizioni di vita precarie a cui erano soggetti, la stanchezza, l’incapacità.
Il tutto è avvalorato da grande chiarezza di scrittura e da uno stile narrativo affatto pesante nonché da immagini visive quali cartine e schemi che favoriscono la comprensione di posizioni e strategie anche a chi ne è profano. “Caporetto” sa infatti essere tanto rigoroso e appassionante come un saggio quanto scorrevole e piacevole quanto un romanzo.
In conclusione, un ottimo trattato storico completo da ogni punto di vista, tanto narrativo quanto di approfondimento e ricerca.

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