Arcipelago Gulag
Saggistica
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Un anno per leggerlo tutto
Monumentale!! Qui siamo davanti a un testo che fa impallidire pure "Guerra e Pace" di Tolstoj
1400 pagine che trasudano sangue e disperazione. Immaginate cosa significhi leggere un testo gravido di morte, violenza, suicidi, disperazione, follia.
L'Arcipelago del titolo è quell'enorme mondo dimenticato in cui venivano spediti negli angoli più remoti di questo enorme. sconfinato e meraviglioso paese che è la Russia.
Arcipelago perchè si creavano come isole (tipo Filippine), ma su terra ferma dove milioni e milioni di deportati andavano incontro a una pessima fine.
L'autore vuole dare voce a questi reietti, picari, dimenticati che per un motivo o un altro erano destinati a finire i loro giorni attraverso le pene più atroci, che andavano dalla tortura, il congelamento, la follia, il suicidio, l'oblio della storia.
Ho trovato veramente difficile, da portare a termine la lettura, praticamente ci ho messo 14 mesi, con qualche pausa per leggere altri libri ed alleviare il senso di disagio che mi ha provocato leggere certe atrocità.
Venti anni fa avevo fatto un primo viaggio in Russia, che dopo Moska, mi aveva portato nell'estremo sud del Paese: ad Astrakan.
Avevo preso un treno (con l'allora mia meravigliosa fidanzata russa), che dalla stazione centrale della Capitale, in 30 ore mi aveva condotto appunto sul Mar Caspio.
Ricordo queste sconfinate lande desolate che si perdevano all'orizzonte e che vedevo dal finestrino....era la "Stieph".....la Steppa.....l'orizzonte e in la oltre la propria immaginazione e leggendo questo libro che spesso parla della Steppa innevata dove venivano condotti i prigionieri, spesso con viaggi di giorni e giorni ammassati come bestie, senza avere neanche in "bugliolo" per i bisogni, con donne, fanciulli, delinquenti di ogni risma, persone innocenti viaggiavano attaccati e lerci senza riuscire neanche a sedersi in terra per la quantità di esseri umani in spazi angusti all'interno di questi carri merci. E allora mi è venuto in mente quel mio viaggio, fatto in assoluta comodità e mi ha assalito un malessere immaginando invece queste perdute anime che affrontavano questi viaggi atroci, che li avrebbero portati a chi fosse sopravvissuto verso delle destinazioni disperse nel nulla dove avrebbero dovuto lavorare fino alla fine delle loro forze e dei loro gironi....
L'autore scrive migliaia e migliaia di nomi, date, avvenimenti, luoghi, come se volesse riscattare tutte queste vite distrutte.
Ci sono centinaia e centinaia di aneddoti, brevi e lunghe storie rievocate, ma una su tutte mi ha colpito per la sua semplicità e follia.
Dispersi nella Tundra più estrema, si era completamente isolato un villaggio (parliamo delle terre estreme del Nord del mondo, delle terre dell'aurora boreale, dove le temperature difficilmente superano lo 0....o meglio gli abitanti di questo remoto villaggio avendo saputa delle deportazioni che accadevano in tutto il Paese aveva appunto deciso di "sparire" isolarsi in uno degli angoli più remoti ed inaccessibili di questo sconfinato paese transcontinentale.
Vivevano tipo selvaggi, senza luce, gas, comunicazioni ma in loro certi che non sarebbero stati scoperti e quindi imprigionati e deportati chissà dove....il caso volle, che un aviatore durante un volo di prova, sorvolasse questa Tundra e osservando in basso vide queste capanne, questo villaggio dimenticato e tornando alla base fece rapporto ai suoi superiori.....ebbene la Macchina Infernale del Regime Sovietico si mise in moto e in mezzo a mille difficoltà in pochi mesi l'esercitò raggiunse il villaggio e fece deportare questi tutti gli abitanti con le scuse più disparate.....
Il cuore di tenebra dell'uomo vince sempre.
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"Tutto fu esattamente così"
ALEKSANDR SOLZENICYN (1918-2008), premio Nobel per la letteratura nel 1970, scrive ARCIPELAGO GULAG tra il 1958 e il 1968; riesce a farne pervenire clandestinamente un microfilm in Francia, dove l’opera viene pubblicata nel 1973 (in Italia l’anno dopo); nel 1974 Solzenycin è arrestato e costretto all’esilio, da cui rientra nel 1994.
Ecco la dedica:
Dedico questo libro
a tutti coloro cui la vita non è bastata per raccontare.
Mi perdonino
se non ho veduto tutto,
se non tutto ricordo,
se non tutto ho intuito.
Quando ho visto questo titolo in un negozio dell’usato, non mi ero resa conto che era il primo di tre volumi. Bene. Ora, se avete letto i Racconti della Kolyma di Varlam Salamov (potete eventualmente leggere la mia “opinione” in questo sito), sappiate che il primo volume di “Arcipelago gulag” si presta benissimo a introdurli poiché ricostruisce in modo, mi sembra, esaustivo e comunque preciso e ampio tutto quanto succede (e succedono molte cose) prima di finire in un campo di lavori forzati sovietici, un GULag appunto, dove “lag” sta per “lager”.
Trattandosi di un autore e di un’opera molto noti, mi limito qua a dire le mie semplici impressioni di lettrice. Ebbene, al di là del contenuto, mi hanno colpito il vigore e l’immediatezza che animano quello che a ragione Solzenicyn definisce nel sottotitolo “SAGGIO DI INCHIESTA NARRATIVA”. Un saggio di inchiesta che attraverso una parola tesa fra la nuda cifra e il battito d’ali della poesia ricostruisce fatti dati e destini di un’epoca forse non ancora finita:
“Da una all’altra isola dell’Arcipelago sono tesi sottili fili di vite umane. S’intrecciano, si sfiorano una notte, magari in uno di questi strepitanti vagoni semibui, poi si allontanano per sempre: porgi l’orecchio al loro fievole ronzio e all’uniforme rumore delle ruote. E’ il fuso della vita che batte”.
Un saggio, che però dà l’impressione di un racconto di viva voce, e di una voce che racconta con sapienza artistica, per cui giustamente l’autore dice la sua inchiesta “narrativa. D’altra parte, quando racconta vicende che ha appreso, è la sua immaginazione di artista che gli consente di colmare il vuoto fra le parole della testimonianza raccolta e la palpitante realtà degli accadimenti.
Io non sono in generale molto sensibile alla poesia vera e propria, ma sempre mi commuove profondamente un poema di André Chénier, rivoluzionario ghigliottinato da altri rivoluzionari (la storia si ripete …), che comincia col verso “Quand au mouton bêlant la sombre boucherie ...”: anche Chénier come Solzenicyn vuole testimoniare l’ingiustizia fatta agli “agnelli” immolati sull’altare del Terrore, anche lui soffre di sentirsi dimenticato da quelli che sono fuori e però si sforza di giustificarli conoscendo il rischio ... La differenza è che nelle segrete del Terrore della Francia del 1793 non si restava 10, 20 anni né si era sfruttati come mano d’opera gratuita a perdere nei vasti deserti siberiani. Nè quel Terrore stritolò milioni di persone e per decenni. Insomma, anche nel Terrore ci sono gradazioni diverse. Ecco, se queste ultime parole le dicesse Solzenicyn, le pronuncerebbe con l’amaro sarcasmo in cui nel tempo si è stemperato il grido di Chénier.
Ecco alcuni brevissimi passaggi:
1. “Anche ammettendo che la natura umana cambi, non cambia molto più rapidamente dell’aspetto geologico della terra” (p. 557 dell’edizione Mondadori del ‘74)
2. “La memoria sia il tuo tascapane da viaggio. Ricorda, fissa nella memoria. Soltanto quegli amari semi germoglieranno forse un giorno (…) E parla meno: udrai di più.” (p. 514) ;
3. “Dove esiste la legge, esiste anche il delitto” (p. 83): ovviamente si riferisce al fatto che le leggi possono essere fabbricate apposta per perseguire chi compie le azioni che quelle leggi configurano come delittuose. Un esempio vicino a noi è il reato di clandestinità: si stabilisce che è reato entrare nel nostro paese senza documenti per poterlo perseguire come atto criminale.
4. “E quella minuscola tempesta delimitata da lastre di acciaio viaggia pacificamente tra sei file di macchine, si ferma ai semafori, segnala le svolte” (p. 528) (le lastre d’acciaio sono quelle del furgone cellulare che trasporta detenuti, la minuscola tempesta è quella tempesta emotiva vissuta da uno dei detenuti durante il viaggio verso la prigione): com’è facile nascondere il sopruso! basta renderlo invisibile! basta mimetizzarlo nella normalità.
5. “… mentre voi vi occupavate a piacere dei misteri, scevri da pericolo, del nucleo atomico, dell’influenza di Heidegger su Sartre e collezionavate riproduzioni di Picasso, partivate in villeggiatura in comode carrozze ferroviarie o finivate di costruirvi una dacia nei dintorni di Mosca, i furgoni carcerari scorrazzavano senza posa per le strade e gli agenti della KGB bussavano e suonavano alle porte” (p. 107): come non pensare al silenzio complice dell’intellighenzia e delle élites culturali in tante occasioni? ma anche e soprattutto al fatto che alla nostre vite “normali” ne scorrono innumerevoli altre segnate dalla sofferenza?
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ZEK
Non bisogna mai portare un peso più forte nella destra o nella sinistra. Il segreto, quello dello ZEK, è nascosto nel torso. Il busto deve diventare bilancia per le braccia, in questo modo puoi camminare con pesi di trenta kg per mano anche per un miglio nella neve.
Lo ZEK sa che quando c'è una pausa e bisogna per forza fermarsi, solo il novellino lascia il peso a terra. Il vero ZEK è conscio del fatto che mollare la presa per poi "ricostruirla" è fatica doppia per la colonna vertebrale. Per un minuto egli non mollerà mai il peso...
Sono alcuni dei consigli che Aleksandr Solzenicyn ha eternato nel suo saggio più noto, quello che io lessi in tre volumi al Liceo.
ZEK è una parola siberiana, significa "pezzo"...esattamente come TUK in tedesco...uomini= pezzi.
In questo affresco di neve cronica l'autore scrive una storia del sistema concentrazionario russo prima e sovietico poi. I gulag esistevano già al tempo degli zar, ovviamente, e Solzenicyn ne descrive le cosiddette "ottimizzazioni" un salsa bolscevica.
Consigliare questo libro è difficile in un'epoca in cui qualcuno trova "deludente" Kafka o "superata" la Shoah...
Ma io ci provo.
In fondo gli ZEK si ritrovavano a fumare una maciorka sull'Isola dei morti, a notte inoltrata, discutendo di filosofia accanto al ghiaccio eterno.
Dietro al quale, in piedi come sull'attenti,sembrava spiarli dal 1812 un soldato napoleonico perfettamente conservato e, paradossalmente, molto più giovane di loro.
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Per fare chiarezza
Dall'archivio del Corriere della Sera
Bilanci Una biografia per i novant' anni dell' autore di «Arcipelago Gulag» fa discutere in patria
Solgenitsin, il grande ripudiato
Dopo lager ed esilio, i russi dimenticano lo scrittore che appoggia Putin
MOSCA - Coscienza della Russia, implacabile accusatore del regime comunista e di quello degli oligarchi e di Boris Eltsin, che lui definiva pseudo-democratico. E adesso sostenitore convinto della «democrazia guidata» appena trasmessa da Vladimir Putin a Dmitrij Medvedev. Aleksandr Solgenitsin, il grande scrittore premio Nobel per la letteratura, sta per compiere novant' anni e su di lui si pubblica la prima monumentale biografia (quasi mille pagine) letta e approvata dallo stesso ex recluso nei campi di lavoro e dall' inseparabile seconda moglie Natalia. Lui è malato, quasi non può camminare e da cinque anni non esce di casa. Ma scrive tutti i giorni, cura la pubblicazione della sua Opera omnia e, soprattutto, continua a sparare bordate contro l' Occidente, l' America di George W. Bush e coloro che criticano la politica del governo russo. Da dissidente a supporter del «suo» presidente e del «suo» primo ministro. Tanto da arrivare a difendere persino il passato nel Kgb di Vladimir Putin e a sostenere, lui che per anni è stato vittima dei servizi segreti, che «servire nello spionaggio estero non è una cosa che viene vista negativamente in molti Paesi». La biografia scritta da Lyudmila Saraskina - per le edizioni Molodaya Gvardiya - è stata appena pubblicata a Mosca, proprio in vista del compleanno dello scrittore (che sarà celebrato l' 11 dicembre). Novant' anni che coprono quasi per intero il «secolo breve», dalla nascita in una famiglia di ex proprietari terrieri subito dopo la rivoluzione (e in casa non si doveva mai parlare del nonno ufficiale zarista), alla partecipazione alla guerra come comandante di una compagnia di artiglieria. Il giovane Aleksandr era un comunista convinto, ma in una lettera privata criticò Stalin e finì nelle grinfie dell' Nkvd, predecessore del Kgb. Otto anni di campo di lavoro e poi il confino. Dalla sua esperienza in Kazakistan e in altri luoghi di «espiazione» nacquero i grandi capolavori. Una giornata di Ivan Denisovich, che raccontava la quotidianità dei lager, venne pubblicato durante il breve disgelo kruscioviano nel 1962 e fece un immenso scalpore. Giubilato Kruscev, il nuovo potere sovietico impedì a Solgenitsin di pubblicare alcunché e alla fine lo cacciò dall' Unione Sovietica. Dopo che uscì all' estero Arcipelago Gulag, la dettagliata analisi del mondo della repressione nata con Lenin e proseguita con Stalin, i tentativi di persecuzione continuarono, come sappiamo oggi. «Contromisure attive», come le chiamavano i ragazzi degli «Organi» repressivi. La sua biografa ci racconta che Jurij Andropov, allora direttore del Kgb, era ossessionato dallo scrittore. Fece pubblicare in Italia e in Giappone un libro denigratorio scritto della ex moglie di Solgenitsin. Poi fece uscire sull' Unità, l' 11 luglio del 1975, una lettera della figlia del direttore di Novy Mir, la rivista che aveva pubblicato Una giornata di Ivan Denisovich. «Provvedimento per screditare Solgenitsin e i suoi scritti antisovietici», annotò soddisfatto Andropov. Dopo lo scioglimento dell' Urss, il Vate riebbe la cittadinanza russa e poté tornare a casa dal Vermont, dove si era stabilito. Giunse in Estremo Oriente nel 1994 e attraversò tutto il Paese in treno, con migliaia di persone alle stazioni. Ma ben presto il feeling con il Paese venne meno, anche a causa delle sue opinioni assai particolari. Profondamente antidemocratiche, le hanno definite i suoi critici. Anatolij Chubais, uno dei più brillanti tra i giovani riformisti degli anni Novanta (e tra i più criticati) ha detto: «Un odio simile verso la Russia moderna non l' ho visto nemmeno nei comunisti di Ziuganov». Per un po' l' ideale di Solgenitsin è stato il ritorno a una Russia agraria e religiosa. Poi, più recentemente, ha sposato la «democrazia guidata» di Vladimir Putin. Ha appoggiato le sue campagne contro l' ingresso nel Paese della Chiesa cattolica e delle sette protestanti; se l' è presa con l' Ucraina che ha accettato «l' abbraccio mortale dell' Occidente e della Nato», che vogliono solo «accerchiare totalmente la Russia e farle perdere la sua sovranità». In patria è poco seguito, tanto che un suo programma televisivo venne cancellato ai tempi di Eltsin con il pretesto della bassa popolarità. Le grandi opere, compreso quello che lui ritiene il lavoro più importante, la storia della rivoluzione russa (La Ruota Rossa), vendono poco. Adesso stanno uscendo in una raccolta di trenta volumi che non si sa bene da chi sia stata finanziata. Un altro libro scritto in questi anni sul rapporto tra russi ed ebrei (Duecento anni assieme) ha scatenato molte polemiche, in particolare per il richiamo rivolto ad ognuno di «rispondere moralmente» delle proprie responsabilità (quella degli ebrei sarebbe la partecipazione alla rivoluzione e al bolscevismo). Ma ancora più discussioni hanno provocato, come abbiamo visto, il suo anti-occidentalismo e il suo ripetere gli slogan del Cremlino. Una recente intervista della moglie spiega almeno da dove il grande scrittore riceva le informazioni su quello che avviene in Russia, Paese nel quale le stazioni televisive trasmettono solo ciò che vuole il vertice. «Non usiamo Internet - ha dichiarato Natalia Solgenitsina - guardiamo solo il telegiornale la sera. E niente altro».
Dragosei Fabrizio
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Per non dimenticare
"... Nell’Europa occidentale gli intellettuali della sinistra moderata impiegarono molto tempo a cogliere in pieno il valore di Solgenitsin. Quando uscì la sua opera più celebre, Arcipelago Gulag, per molto tempo la considerarono con prudenza, dimostrandosi guardinghi. Il Nobel della Letteratura contribuì a rompere la diffidenza e a consacrarlo definitivamente, ma non aggiunse nulla al suo valore, che era immenso. E segnò un’epoca.
A Krusciov seguirono Brezhnev, la Guerra fredda, la corsa alle armi nucleari. L’Urss continuava a far paura, eppure proprio il seguito delle vicende di Solgenitsin dimostrano come il regime fosse già in fase di lenta decomposizione. Ai tempi di Stalin un dissidente come lui sarebbe stato semplicemente ucciso, Brezhnev invece pensò di metterlo a tacere privandolo della cittadinanza sovietica e dunque mandandolo in esilio in Occidente.
La storia ha dimostrato che Solgenitsin aveva ragione innanzitutto a credere in se stesso: anche quando tutto sembrava perso, non ha rinunciato alle proprie convinzioni. In secondo luogo nel ribadire che sarebbe morto in patria, perché il comunismo era destinato al fallimento. E così è stato. Solgenitsin tornò a Mosca vent’anni dopo esserne stato espulso. Lui ha resistito, l’imperialismo sovietico è morto.
Merita la nostra riconoscenza anche se negli ultimi anni l’Occidente non lo ha capito. Per noi fu soprattutto un grande dissidente capace di smascherare gli orrori del comunismo. Lui invece si considerava innanzitutto un patriota, la dimostrazione che il lungo periodo di glaciazione bolscevica non è bastato a spegnere l’animo russo. Un animo che in Solgenitsin è rimasto al cento per cento slavo, senza concessioni alla cultura occidentale. Il ritorno nella Russia allo sbando dell’era Eltsin fu per lui traumatico e lo persuase ancor di più che la vera salvezza andava cercata nelle radici della cultura del suo Paese.
E dunque nell’orgoglio per la propria nazione, nella riscoperta di dimensione spirituale attraverso la Chiesa Ortodossa. E questo spiega perché le sue ultime opere non siano state bene accolte in Occidente. Troppo lontane dal nostro mondo, dai nostri valori, dal nostro modo di concepire la religione. Un’incomprensione che non scalfisce il valore di Solgenitsin."
Estratto dall'articolo apparso su
IL GIORNALE a firma dello storico francese
Max Gallo, intitolato: "Ma in Occidente l'Intellighenzia non capì il suo valore" per commemorare la sua scomparsa.
5 agosto 2008