A un passo dalla forca
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Il leone del deserto
Angelo Del Boca è il nostro più autorevole studioso del colonialismo italiano e, probabilmente per questo motivo, ha avuto la straordinaria opportunità di poter consultare una documentazione di cui era ignota l’esistenza: le memorie di Mohamed Fekini, capo della tribù dei Rogeban e fra i maggiori oppositori, fra il 1911 e il 1930, alla conquista italiana della Libia. E’ certamente un documento di parte, ma incrociandolo con gli eventi che si susseguirono nell’arco di circa un ventennio, si trovano conferme di particolare rilievo, quali il comportamento dei vari governatori, alcuni degne persone, altri falsi e feroci, fra i quali non si può fare a meno di ricordare il sanguinario Generale Graziani, un individuo che avrebbe meritato di finire la sua vita non nel suo letto, ma di fronte a un plotone di esecuzione. Fekini morì comunque nel suo letto, ma esule e dopo non pochi anni di stenti, un personaggio che per certi aspetti potrebbe ricordare il nostro Giuseppe Mazzini. In queste memorie, prodighe di descrizioni di avvenimenti, di giudizi su amici e nemici, è encomiabile l’obiettività dell’estensore, un uomo coerente e mai disposto a rimangiare la parola data. In verità, se c’è chi non fa una bella figura, a parte alcuni traditori berberi, sono proprio gli italiani, quasi sempre dediti al doppio gioco, prodighi di promesse, ma avari di concretezza. Se dovessimo guardare alla nostra avventura coloniale come predominio culturale di un popolo sull’altro, le parti dovrebbero essere invertite, perché i capi libici e fra questi Fekeni dimostrano un livello di civiltà più elevato del nostro, soprattutto quando gli incaricati di reprimere la sacrosanta ribellione dei locali rispondono al nome di Graziani e di Badoglio, individui in tutto e per tutto spregevoli.
Poi, come si sa, la rivolta venne soffocata, provocando, fra battaglie e deportazioni in massa, non meno di 100.000 vittime fra i libici, che infatti, sconfitti, ma non domati, non poterono che perpetuare l’odio nei nostri confronti.
E’ il caso di dire che diventammo potenza coloniale tardi e male e che, a conti fatti, le nostre conquiste in terra d’Africa ebbero un costo assai rilevante, di molto superiore agli scarsi vantaggi economici che ne potemmo ritrarre.
Nella tragedia della sanguinosa repressione italiana Fekini rappresenta l’uomo fedele alla sua terra al punto di immolarsi, se necessario, e infatti lui fu vicino alla forca, anzi la evitò solo rifugiandosi in Algeria con tutta la sua tribù con una marcia nel deserto in cui rimasero, morti, molti uomini.
Se Fekini era imparziale nei giudizi, così è anche Del Boca, e pertanto questo libro presenta, oltre a un notevole interesse, anche un apprezzabile e certamente non consueto equilibrio.
Da leggere, quindi.