3096 giorni
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La verità di Natascha
Natascha è ancora una bambina il 2 marzo del 1998. Una bambina che si prepara per andare a lezione, fa colazione, prende il suo zainetto e parte da sola tra le strade di Vienna, per recarsi alla scuola elementare. Un battibecco con la madre la spinge ad allontanarsi da casa senza rivolgerle nemmeno un saluto, del resto “cosa può mai succedere?” pensa la bimba. Eppure qualcosa sta per succedere, nello stesso momento in cui lei prepara le sue cose per uscire di casa, un folle senza scrupoli sta architettando il suo rapimento, sta mettendo a punto gli ultimi ritocchi per rendere il più possibile isolata e silenziosa la cella in cui verrà segregata Natascha. Mentre la bimba percorre a piedi i pochi chilometri che la separano dalla scuola si sente inspiegabilmente triste e malinconica, sarà colpa del litigio che ha avuto con la madre la sera precedente? Con gli occhi lucidi e la testa bassa continua a camminare, finché si trova di fronte al mostro, l’uomo nero che tutti i bambini temono. Natascha ce l’ha davanti, ma qualcosa la spinge a continuare dritta, senza attraversare, la spinge direttamente a pochi centimetri dal suo rapitore.. e poi, è un attimo. La bambina viene caricata a forza su quel furgone bianco e condotta a casa di Wolfgang Priklopil, colui che la terrà poi isolata dal mondo e rinchiusa per otto lunghissimi anni.
Questo libro, più che una biografia, sembra un racconto dell’orrore alla Stephen King. Fa accapponare la pelle immaginare il rapimento di Natascha, mi fa rabbrividire pensare che anch’io, in quelle mattine ero solita andare a scuola da sola e avrei potuto essere vittima di un folle come Priklopil. Fa paura immaginare cosa si celi nella mente di alcune persone. Dopo aver letto questo libro ho cercato di documentarmi un po’ sul caso di Natascha leggendo anche il libro “Natascha - otto anni con l’orco” di Hall Allan e Leidig Michael. I libri presentano delle sostanziali differenze, il primo è scritto da Natascha, di suo pugno, mentre il secondo è stato scritto da due giornalisti britannici che hanno cercato di ricostruire il caso, nel modo più imparziale possibile. Non è tutto qui però, il libro dei giornalisti mette in luce dei misteri sul caso della ragazza, delle domande a cui nemmeno lei ha mai dato risposte, mentre in questo libro “3026 giorni”, scritto successivamente, la ragazza ha voluto raccontare la storia per com’è stata realmente vissuta da lei. Si è parlato di “Sindrome di Stoccolma”, sindrome che ti porta ad avere una visione positiva del tuo aguzzino, di affetto vero e proprio e si tende a giustificarne i suoi comportamenti. Natascha è stata anche attaccata dalla gente e dai media per come ha reagito alla prigionia, per come si è immedesimata in Priklopil, arrivando quasi a provare pena per lui e non provare dei sentimenti di odio nei suoi confronti. Il caso di Natascha presenta ancora dei punti oscuri, dei segreti, ma quella mattina, a soli dieci anni c’era lei tra quelle mura, c’era lei chiusa in un furgone che procedeva tranquillamente per le strade di Vienna, è stata Natascha a dover fare i conti per otto lunghi anni con l’umore instabile del suo aguzzino. Non c’era chi ora la accusa, non c’era nessun giornalista a documentare la sua prigionia. A fare i conti con se stessa e con quell’adulto folle, che invece di proteggerla l’ha rinchiusa, c’era soltanto lei. Immaginare una bambina spaventata chiusa in una stanza buia, in una cantina insonorizzata, dietro a delle pesanti porte di ferro, non mi fa pensare a quanto folle dev’essere una ragazza che piange sulla morte del suo rapitore. Mi fa pensare a cos’è capace la mente umana pur di sopravvivere, a quanto era forte la voglia di Natascha di VIVERE e abbandonare un giorno quell’orrore. Lei è fuggita, ce l’ha fatta, ha saputo esattamente quand’era ora di mettere fine alla sua prigionia, senza commettere errori che le sarebbero stati fatali.
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Segregazione fisica e psicologica
Ogni volta che litigavano sua madre le ripeteva: “Non dobbiamo mai separarci arrabbiati. Non si sa, infatti, se ci rivedremo!” Ma la mattina del 2 marzo 1998 la delusione e il risentimento per l’ennesimo battibecco che le due hanno avuto la sera precedente sono talmente forti in Natascha da convincerla ad uscire di casa per recarsi a scuola senza salutare la mamma. E’ decisa a non darle più un bacio e a punirla con il proprio silenzio. E poi, in fondo, cosa può mai succedere? Invece qualcosa, purtroppo, succede. Durante il tragitto infatti la piccola incontra un uomo che istintivamente le provoca un moto di paura apparentemente irrazionale. Ha l’impulso di cambiare strada ma non lo fa, a ben guardarlo le sembra più debole ed insicuro di lei. Ma è la prima impressione a rivelarsi giusta: quest’individuo la ferma, la costringe a salire su un furgone bianco, la porta in casa sua e la rinchiude in una sorta di bunker ricavato nella sua cantina. E’ l’inizio di un lungo periodo di segregazione fisica e psicologica che si concluderà 3096 giorni dopo, quando la ragazza ormai maggiorenne troverà la forza ed il coraggio di fuggire costringendo il suo rapitore, Wolfgang Priklopil, al suicidio. Fredda e lucida la Kampusch ripercorre la sua lunga e terribile parentesi di prigioniera e schiava raccontando con poche riserve molti particolari di questa esperienza che lascerà in lei per sempre un ricordo indelebile. Natascha spiega quali meccanismi psicologici abbia attivato la sua mente per poter sopportare le violenze, gli abusi, le umiliazioni a cui il suo aguzzino l’ha sottoposta, come non si sia mai lasciata sopraffare completamente dalla situazione sopportando l’insopportabile ma riservandosi sempre quel minimo di ribellione e di orgoglio che le hanno permesso di restare comunque se stessa e di non rassegnarsi davanti a quello che poteva sembrare un destino ineluttabile, finché non è riuscita a realizzare il suo sogno di raggiungere la libertà spezzando le catene che la tenevano prigioniera grazie alla sua forza e alla sua determinazione. Eppure la sua condanna nei confronti di Priklopil non è totale come ci si potrebbe aspettare. In molti hanno parlato al riguardo di sindrome di Stoccolma, ma la ragazza rifiuta fermamente che le si appiccichi addosso questa etichetta. Natascha non se la sente di parlare del suo carceriere come di un essere assolutamente malvagio, preferisce definirlo un essere umano con un lato oscuro e uno un po’ più chiaro, con il quale ha vissuto momenti orribili ma anche brevi istanti di normalità e di comprensione reciproca. Un atteggiamento che ha provocato non poche polemiche in una società che vede un netto confine tra il bene e il male, come se esistessero soltanto il bianco e il nero e non le loro varie sfumature. Una società che, dice la Kampusch, “ha bisogno di criminali come Wolfgang Priklopil, per dare un volto al Male che vi risiede e per scinderlo da se stessa. Ha bisogno delle immagini delle segrete nelle cantine per non dovere guardare alle tante case e ai giardini, dove la violenza mostra il suo volto conformista, piccolo borghese. Usa le vittime di casi spettacolari come il mio per non sentirsi responsabile delle tante vittime dei crimini di tutti i giorni che rimangono senza nome e che non vengono aiutate, neppure quando chiedono aiuto.”
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Drammaticamente reale
Rapimento, isolamento, sevizie, violenza psicologica. Da affrontare da sola, a nove anni. Per un tempo infinito: otto anni e mezzo.
Sopravvivere contando solo sulle proprie forze e riuscire a conquistare la libertà da sola, dopo aver inutilmente atteso l'intervento della polizia ed aver perso ogni speranza di aiuto dall'esterno.
È successo davvero a Natascha Kampusch e la vicenda ha avuto molta visibilità su tutti i media per l'eccezionalità della storia conclusasi nel 2006 con la fuga della ragazza in un momento (il primo) di distrazione del suo carceriere.
Un rapimento anomalo, non a scopo di uso sessuale o di riscatto, ma indirizzato a creare soggezione psicologica fino al plagio totale: praticamente un tentativo di riduzione in schiavitù.
Per tutti quegli anni Natascha ha avuto la forza di mantenere lucidamente la propria identità, anche sotto minaccia di sevizie inaudite, trovando in sé la forza di “perdonare” al proprio rapitore ogni attimo di sofferenza, per non farsi divorare viva dall'odio.
Il racconto lucidissimo di quegli anni di formazione - la fine dell'infanzia, l'adolescenza e l'ingresso nell'età adulta, con il suo aguzzino come unica compagnia, unico essere umano con cui condividere tempo pensieri e addirittura abbracci – è il contenuto di questo libro, che Natascha ha voluto scrivere per mettere fine alle tante illazioni più o meno fantasiose inventate dai cronisti per sfruttare una storia quasi incredibile finita bene al di là di ogni aspettativa.
Il libro è scritto in modo semplice e forse talvolta un po' ripetitivo nei concetti, ma credo si tratti soprattutto di un voler sottolineare, da parte dell'autrice, la propria verità contro le speculazioni della stampa che metteva in dubbio le modalità della prigionia e della liberazione, tirando in causa la “Sindrome di Stoccolma” per giustificare alcune dichiarazioni di Natascha.
Sorprende il distacco con il quale racconta le sevizie subite, quasi si tratti della lista della spesa al supermercato: forse l'unico modo per mettere fra sé e l'orrore il distacco necessario per sopravvivere.
Nel chiudere definitivamente il libro resta la meraviglia per l'incredibile forza d'animo e per il coraggio di questa bimba cresciuta attingendo energia solo da se stessa e grande rispetto, privo di compassione, che è proprio quello di cui Natascha sente il bisogno.
Le righe che seguono sono inserite nel libro, copiate da un diario che Natascha ha tenuto durante la prigionia.
[...]
“Mi ha presa a calci e picchiata più volte, anche sulla testa. Mi ha colpito sulle labbra a sangue, e una volta sul labbro inferiore si è formato un gonfiore grande come un pisello (leggermente bluastro). Un'altra volta mi ha picchiata fino a quando si è formata una tumefazione raggrinzita a destra, sotto la bocca. Inoltre ho anche un taglio (non ricordo più causato da cosa) sulla guancia destra. Una volta mi ha gettato una valigetta degli attrezzi sui piedi, la conseguenza sono stati degli ematomi estesi, verde pastello. Mi ha colpito più volte sul dorso delle mani con la chiave a forchetta o simili. Ho due ematomi simmetrici e nerastri sotto entrambe le scapole e lungo la spina dorsale.
Oggi mi ha dato un pugno sull'occhio destro, così che ho visto i lampi, e uno sull'orecchio destro, allora ho avvertito un dolore penetrante, un suono e uno scricchiolio. Poi ha continuato a colpirmi sulla testa.”
[...]
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3096 giorni
I libri non si leggono mai per caso: essi rispondono ad una necessità profonda, un desiderio che spazia dallo svago alla riflessione più profonda; in questo caso, per me, questa semi-biografia è stata una sfida, una dura prova che ho cercato di vinecere. Ci sono, spesso, delle circostanze in cui esprimere il proprio dolore, piangere, diviene un imperativo, un mezzo per sentirsi come gli altri, per condividere le sofferenze; tuttavia, quando qualcuno non esplicita i propri sentimenti, viene definito "apatico", parola che spesso viene pronunciata quasi con disprezzo. Ebbene, forse i lettori di questa recensione non hanno capito cosa c'entra questo con il libro e propabilmente sono un po' confusi, ma questa premessa è indispensabile per capire ciò che questo scritto abbia sgnificato per me. Volevo capire se fossi veramente insensibile, distaccato sino a sembrare indifferente: è per questo che ho lettoo il libro, per vedere se fossi stato in grado di capire il dolore e di metabolizzarlo; è stato inevitabile. Perché la Kampusch si è confessata, in uno sfogo per capire e superare il passato. 3096 giorni è una storia dolorosa, dalla quale stracolma sia sofferenza sia liberazione una confessione necessaria e sofferta. Segregata, umiliata, picchiata e abusata, ma mai sconfitta o completamente sottomessa. Natascha non ha mai perso la sua dignità, non si è mai umiliata, a costo di essere quasi uccisa e letteralmente sfigurata. Nel leggere la storia della sua prigionia, qualsiasi distacco, qualsiasi atteggiamento anaffettivo scompare: subentrano rabbia, paura, incredulità e perfino terrore. Questo libro è molto peggiore di un trhiller, nemmeno nella mia più fervida immaginazione avrei potuto concepire scene di tale crudeltà. Ad un certo punto della lettura ho pensato" BASTA!, SMETTI DI RACCONTARE" (come se potessi bloccare le pagine e aver già finito il libro). Ma il male esiste, ci circonda, si concretizza ini un'inquietante normalità. Nonostante l' abbia terminato da poco, la mia mente ha già dimenticato le scene più crude, si è già protetta in un oblio sempre più denso. Durante la lettura mi sono visto estremamente debole, la mia volontà (in confronto a quella di Natascha) appare completamente annichilita. La Kampusch invece ricorda ancora tutto, nei dettagli, perchè il passato si supera, ma non scompare, le sue tracce si marchiano indelebilmente su di noi. Il libro può apparire inorganico in alcuni tratti, ma proprio perché è uno sfogo liberatorio, un flusso di coscienza che rompe gli schemi letterari e ci si pone spietatamente di fronte. Non si deve pensare, però, che il libro parli soltanto dei maltrattamenti: racconta anche le impressioni dell'autrice sulle azioni del rapitore (un'analisi psicologica quasi terrorizzante), i suoi appigli alla vita (i film, i libri, la radio) in un percorso drammatico necessario per non soccombere al rapitore. Poi Natascha racconta la fuga, l'apparente libertà e l'incomprensione della gente nei suoi confronti, senza però dimenticare il rapporto unico, oscillante tra affetto e rabbia, nei confronti del rapitore. Affetto, vi chiederete? Sì, perchè non si può "odiare colui che ti dà da mangiare". 3096 giorni scuote l'anima, la coscienza e ci fa un grande regalo: il dolore dell'autrice. Grazie ad esso possiamo riflettere e confrontarci con la realtà, possiamo aprirci e condividere emozioni e sentimenti. Forse questo commento può apparire un poco sconclusionato, ma anche quasto è uno sfogo, un fiume di riflessioni necessarie a metabolizzare il libro. Forse ciò che mi rimarrà di questa lettura, è il mio volto allibito, quando, dopo averlo terminato, ho sentito qualcuno lamentarsi perchè la cena ritardava di qualche minuto. Natascha è sopravvissuta senza cibo (o con qualche carota) interi giorni.
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Il Male
Ricordo con grande chiarezza il giorno in cui la tv diede la notizia della liberazione di Natasha.
Ricordo la sua intervista con una camicia lilla e un viso che mi parve bellissimo.
Questo dettaglio mi inquietò.
Strano pensiero il mio:come se la bellezza non potesse essere toccata dal male,come se questo costituisse un ulteriore abuso.
Quando ho scelto di leggere questa semi-biografia sono stata spinta da quella curiosità,da quel voyeurismo che a volte(ma è sempre e comunque troppo spesso)si ha nei confronti dei fatti di cronaca.
La mia indiscrezione è stata punita:avevo sottovalutato il violentissimo impatto emotivo che mi avrebbe causato.
Questo è un libro che non si può leggere.
Ti leva il fiato.
Ti causa un dolore in petto.
Ti disperde i pensieri,incapaci di comprendere.
Ti ricorda che il Male esiste.
Ti spaventa.
Spesso durante la lettura ho dovuto convincere la mia mente di non essere di fronte a un thriller,il mio personale vissuto non mi consentiva di accettare questa storia come una realtà.
Anni segregata,picchiata,lasciata in balia della fame,abusata.
Una vita che per quanto recuperata e recuperabile è violentata per sempre.
Il mio palesemente inutile moto di affetto va a questa giovane donna,a voi il suggerimento di astenervi dal prendere tra le mani questo libro.