Storia della follia nell'età classica
Saggistica
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IL SONNO DELLA RAGIONE
“L’uomo è un’invenzione recente” è la frase provocatoria con cui il filosofo Michel Foucault introduce le sue riflessioni ne ‘Le parole e le cose’. Nell’opera speculare ’Storia della follia nell’età classica’ si indaga il retroterra di questa strabiliante invenzione, i suoi collaudi, gli esperimenti che l’hanno anticipata: a farne da cavia i folli. Numerose sono le etichette che ad essi furono attaccate durante le varie epoche: privilegiati di Dio, insetti, smascheratori di commedie, sibille deliranti, reietti, meccanismi inceppati, animi erranti e malati. Certamente essi costituiscono qualcosa di fondamentale per la comprensione, “l’archeologia”, in termini foucaultiani, di una storia dell’umanità che mai si configura come un progresso asintotico ma sempre come una stratificazione di esperienze “incommensurabili”.
L’antropologia nasce, come fu per la teologia, primariamente come antropologia negativa: cos’è che l’uomo non è? La ricerca della risposta non può che iniziare da quegli individui che sono a metà fra l’umano e l’inumano, quegli individui in cui risplende un’animalità che rende possibile, per confronto, delimitare i contorni di un nuovo oggetto di studio: l’uomo.
Ma questa stessa animalità che ribolle sui visi contorti dei matti fa rabbrividire e la ragione, nel corso di tutta l’età classica, che per Foucault va dalla fine del Cinquecento alla fine del Settecento, si è impegnata in modo sistematico nel tentativo di stemperarla, di ridurla al silenzio, attraverso l’internamento. I folli diventano così i “nuovi lebbrosi” e assieme al resto della feccia della società (poveri, mendicanti, libertini, criminali, bestemmiatori) vengono confinati in abissi istituzionalizzati.
Le scienze umane nascono dal fallimento di questo colossale tentativo di esclusione, che si presenta simbolicamente come una lotta cartesiana della ragione contro i fantasmi dell’irrazionale e dello scetticismo, quando il folle viene nuovamente auscultato nei moti del suo linguaggio, quando si scopre che anche il suo farfugliare ha una sua logica, che risponde a un elemento primigenio che è ben più radicato della ragione stessa, quello che Nietzsche chiamerà spirito dionisiaco e Freud, scientificamente, inconscio. Presto questa nuova scoperta verrà rivestita in superficie della sicurezza tutta positivista della medicina, che affronterà i folli quali malati (poco importa se del cervello o della mente), quali eccezioni di un ideale di normalità umana, tanto importante in medicina quanto astratto e che fra l’altro deve alla follia stessa la sua esistenza: il folle non viene più combattuto dalla ragione ma convinto a combattere contro se stesso, attraverso uno slancio medico e allo stesso tempo morale. Foucault è l’anti-cristo della psichiatria, una figura diametralmente opposta a quella di Kraepelin, padre della psichiatria moderna.
Ma l’opera di Foucault è molto più complessa di quanto detto e intreccia più temi che trasversalmente attraversano più epoche (e non solo l’età classica): la follia come Giano bifronte, ora notturna e mostruosa (Bosch) ora unica raison d’etre del mondo (Erasmo), le nosografie seicentesche e settecentesche delle “specie” di folli (il demente, il malinconico, il maniaco, l’ipocondriaco), il continuo riferirsi della follia a un piano morale e in particolare al significato di “colpa”, l’evoluzione della medicina (o meglio le sue trasformazioni) il problema dell’irresponsabilità giuridica del folle, le concezioni filosofiche di Pinet e di Tucke (coloro che liberano i folli dalle catene), l’antinomia psichiatrica costituita da psicologismo e organicismo, il rapporto fra opera e psicologia autoriale (Van Gogh, Nietzsche, Artaud). Lettura molto impegnativa, ma fondamentale.