Ragazzo
Saggistica
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Il ragazzo vecchio
Ragazzo. Che meravigliosa parola. Essere un ragazzo. Avere vent'anni. «Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita», la frase a effetto con cui Paul Nizan apre il suo Aden Arabia è una sciocchezza d'autore. Sono stati scritti un'infinità di saggi sulla vecchiaia, dal celeberrimo De senectute di Cicerone al recentissimo Memorie di un vecchio felice. Elogio della tarda età di Pietro Ottone, e tutti, salvo rarissime eccezioni, tendono, in un'orgia di retorica, di ipocrisie e di rimozioni, a darne un'immagine edulcorata, accattivante o, quantomeno, a giustificarla, a fornirle un senso e uno scopo, a farsene una ragione. Non esistono invece saggi sulla giovinezza. Per la semplice ragione che la giovinezza non ha bisogno di essere giustificata, né di farsene una ragione, né di darsi uno scopo e un senso, o anche un non-senso, che non siano quelli della vita stessa. Perché la giovinezza è la vita, la vecchiaia già l'ombra della morte.
Lo stesso Cicerone si smaschera da solo quando scrive: «È una vecchiaia infelice quella costretta a cercare argomenti per difendersi». E tutto il suo libricino è una patetica arringa per perorarne la causa. E così Ottone. Nessuno scriverebbe mai «Memorie di un giovane felice». Perché non è un titolo. Non fa notizia, come il cane che morde l'uomo. Non sorprende.
I Latini, che erano meno ipocriti di noi, più concreti e meno abituati a mentirsi addosso, parlano di atra senectus, cupa vecchiaia. E atra vuol dire anche funesta, triste, fosca, oscura, nera. E buia. La vecchiaia è soprattutto buia. Si abbassano tutti gli orizzonti. Si fa sera. Cala la notte e non ci sarà una nuova alba.
Senectus ipsa est morbus (Terenzio): la vecchiaia è in sé una malattia dicevano ancora i Latini. Ma mentre da una malattia, anche la più grave, si può sempre sperare di guarire, dalla vecchiaia no. E infatti Seneca, correggendo Terenzio, aggiunge enim insanabilis morbus est, in verità è una malattia insanabile. È un decadere inesorabile. È come un grafico di Borsa quando tira l'Orso: ci può essere qualche picco apparentemente all'insù ma in una linea che non fa che scendere. Lasciato un gradino si sa che non lo si risalirà più. E la scala va giù, sempre più giù.
A nessuno, in nessuna epoca della Storia, è mai piaciuto invecchiare, benché nelle società premoderne il vecchio avesse almeno la compensazione di godere di un naturale prestigio. Ma noi, anche per le buone ragioni che diremo più avanti, abbiamo, al di là delle retoriche di rito, un autentico orrore della vecchiaia. Tanto che non osiamo più nemmeno nominarla. La chiamiamo «la terza età» (siamo arrivati anche alle iperboli della «quarta età»). E continuiamo a spostarne in avanti l'inizio. A rigore non dovrebbero più esserci vecchi, tanto abbiamo portato in là questo inizio. Secondo un recente sondaggio l'85% degli ottantenni rifiuta di considerarsi vecchio. E un savonese di quell'età mi ha detto, stupito: «Nu capisciu. Una vota ghean tanti vegi» (Non capisco. Una volta si vedevano in giro tanti vecchi). Evidentemente pensava che fossero tali solo quelli più anziani di lui e faceva una certa fatica a trovarne.
Con tanto tempo a disposizione, da vecchi si può leggere, si può andar per mostre, si possono fare insomma molte di quelle cose che nella giovinezza e nella maturità, occupati nella vita, non si aveva il tempo di fare. Ma tutto ciò ha perso il suo senso. Si impara per impiegare in qualche modo la propria conoscenza. Quella del vecchio è a fondo perduto, come di chi componga, disfi e ridisfi continuamente un puzzle. Eppure, poiché sente che il tempo stringe, gli monta una sorta di ossessione, alla Bouvard e Pecuchet, di conoscenza onnivora; vuol leggere tutto, vedere tutto, impadronirsi di tecniche e di scienze di cui non gli è mai importato nulla e, di fatto, continua a non importargli nulla.
«Quest'anno mi sono fatto il Nepal». Non è amore di conoscenza, è una nevrosi catalogatoria, da album di figurine di collezionisti bambini. È mettere una tacca su un coltello che ha perso il filo e non serve più. Non è un piacere ma un dovere, una faticaccia consumata sui pullmann dei tour operator specializzati nella «terza età» o su traghetti carontei, più infernali di quelli dei boat people alimentati almeno dalla speranza, dove ogni tanto qualcuno si accascia e muore...
Eppoi in questi tour c'è anche il fastidio di dover stare fra vecchi, e i vecchi, in linea di massima, detestano la compagnia di chiunque ma su tutto non sopportano gli altri vecchi. «Un mondo popolato in maggioranza da vecchi mi farebbe orrore» disse lo psicologo Cesare Musatti quando aveva novant'anni ed era quindi al di là di ogni sospetto. Che sia solo o in compagnia, che si muova o stia fermo, il vecchio non ha scampo. È un uomo braccato. Sta aspettando solo la morte. E lo sa. E disperdere i pochi giorni o anni che gli restano in attività ormai prive di senso e di direzione, tanto per «ammazzare il tempo», lo frustra profondamente. Passano, inutili, i giorni, uno dopo l'altro, e intanto il tuo cuore già stanco batte e si logora. E ti monta una rabbia, un furore impotente perché stai sprecando gli ultimi sgoccioli della tua vita ma non puoi fare diversamente. Non si può «ammazzare il tempo». È il tempo che ammazza noi.