Saggistica Salute e Benessere Bianco è il colore del danno
 

Bianco è il colore del danno Bianco è il colore del danno

Bianco è il colore del danno

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Il corpo di una scrittrice, in apparenza integro eppure danneggiato, diventa lo specchio della fragilità umana e insieme della nostra inarrestabile pulsione di vita. Francesca Mannocchi guarda il mondo attraverso la lente della malattia per rivelare, con una voce letteraria nuda, luminosa, incandescente, tutto ciò che è inconfessabile. Quattro anni fa Francesca Mannocchi scopre di avere una patologia cronica per la quale non esiste cura. È una giornalista che lavora anche in zone di guerra, viaggia in luoghi dove morte e sofferenza sono all'ordine del giorno, ma questa nuova, personale convivenza con l'imponderabile cambia il suo modo di essere madre, figlia, compagna, cittadina. La spinge a indagare sé stessa e gli altri, a scavare nelle pieghe delle relazioni più intime, dei non detti più dolorosi, e a confrontarsi con un corpo diventato d'un tratto nemico. La spinge a domandarsi come crescere suo figlio correndo il rischio di diventare disabile all'improvviso e non potersi quindi occupare di lui come prima. Essere malata l'ha costretta a conoscere il Paese attraverso le maglie della sanità pubblica, e ad abitare una vergogna privata e collettiva che solo attraverso l'onestà senza sconti della letteratura lei ha trovato il coraggio di raccontare.



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Bianco è il colore del danno 2024-05-04 17:49:30 mariaangela
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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    04 Mag, 2024
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Essere malati. Malattia. Qual è il suo nome?

Ero in libreria alla ricerca di un nuovo compagno quando lo sguardo si è posato su questa copertina e su questo titolo. Conosco l’autrice e mi piace molto come giornalista.
Una veloce lettura della quarta di copertina mi ha quasi bloccata dall’acquistarlo temendo un risveglio delle mie paure più ancestrali. Poi mi sono detta che le paure comunque restano. E questo libro non avrebbe cambiato un dato di fatto.

Ciò che mi colpisce di lei nel suo lavoro è la sensazione che possa sentirsi a casa ovunque, nei territori più lontani, feroci e poco ospitali.

Il racconto è molto diretto, sembra di leggere un diario di ricordi e di confessioni a cui non si sottrae. Famiglia e malattia si alternano nella narrazione. Ma anche le difficoltà di trovarsi al cospetto di ospedali, medici, infermieri…file interminabili e liste di attesa che non hai il tempo di attendere. Le scelte da prendere e le persone di cui fidarsi. Scontrarsi improvvisamente con quell’immenso mostro burocratico che è la Sanità. Sapere di non poterne fare a meno.

“Mentre uscivo dal parco di Santa Maria della Pietà ho chiuso gli occhi e l’ho sentita, finalmente. Era la sua voce. Mi ha detto: attenta a te.”

E’ impossibile non provare empatia, ma questo non è l’unico sentimento che la lettura suscita.
Cerco di immaginare cosa possa significare non sentire più un lato del corpo, gamba, piede, ascella, collo, testa, spalla, gomito, avambraccio, mano, anulare, mignolo, vederli, ma sentirli estranei, assenti.

Mi impressiona il racconto della sua prima risonanza, rivivo la mia, la maschera intorno alla testa a bloccarla, le cuffie per attutire i rumori, la pompetta stretta in mano da schiacciare al primo accenno di claustrofobia. Quando il lettino è scivolato nel tubo e la luce ha cominciato a sparire ho realizzato lo spazio che avevo. E non ho avuto il tempo di premere la pompetta. Ho urlato di tirarmi fuori. Solo dopo tanto tempo ho riprovato, e come lei ho tenuto gli occhi chiusi per circa un’ora.
Ammiro il suo coraggio. Perché così appare ai miei occhi. Il suo prima e il suo dopo.
E io avrei avuto lo stesso coraggio?

La sua diagnosi mi gela. Ignoravo questo aspetto della sua vita.
Francesca Mannocchi ha trentasei anni e un figlio di sei mesi quando scopre di essere affetta da una malattia neurologica cronica, la sclerosi multipla, una malattia potenzialmente disabilitante del cervello e del midollo spinale. E’ definita ingravescente, cioè la situazione patologica può peggiorare progressivamente.
Quando ciò possa accadere resta un punto oscuro.

“Chiedimi se ho paura.”

Quando sarà cominciata la malattia, dove, perché. Ha senso porsi queste domande?
Le foto con un prima e un dopo. Essere nel contempo ignari.

“Non posso spostare l’asse del tempo e riportarlo indietro, ma posso provare a non essere schiacciata dal passato e dal futuro.”

Essere malati. Malattia. Qual è il suo nome?

Macchie nel cervello, quel grigio che invece di essere uniforme ha delle placche bianche. Il danno.

“Mi posso fidare ancora del mio corpo?”

Le sue domande sono le mie. Lo erano anche prima di leggere la sua storia.
Perché in fondo il pensiero di come sono ora e di come sarò domani non mi abbandona mai.
Rifiuto, collera, ingiustizia, depressione, vergogna, malattia.
La rabbia che le fa pensare “Perché a me?”

È un raccontarsi in modo molto pulito, asciutto ed essenziale, senza travestimenti da supereroe, senza descrizioni di una famiglia perfetta e di una gravidanza idilliaca. Forse perché quando qualcosa ti tocca da vicino mentire sarebbe un inutile sforzo. Chissà che il suo lavoro, di inviata in zone di guerra che con tanta cura riesce a raccontare, non abbia condizionato e reso veri, reali, anche i racconti su se stessa e su ciò che le sta’ intorno, sul voler chiamare le cose con il loro nome.
Che è sempre un punto di partenza fondamentale, aggiungo io.
La prosa asciutta e schietta mi fa pensare ad una rassegnazione e ad una reazione. E questo mi suscita grande ammirazione.
Se potessi farlo le direi semplicemente grazie.

Buone prossime letture.

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