Il pane di ieri
Saggistica
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Semplicità dell'essere
Raccolta di ricordi, pensieri, bozzetti sul Monferrato di ieri da parte del Priore di Bose.Un richiamo alla sobrietà e alla semplicità dell'essere.
Un libro adatto ai tempi che stiamo vivendo, ci ricorda che ci sono valori essenziali, irrinunciabili.
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Il sapore dei ricordi
El pan ed sèira, l’è bon admàn, ovvero il pane di ieri è buono domani, un antico detto contadino che Enzo Bianchi riprende per spiegare come le esperienze e la cultura che provengono dai nostri padri siano un ottimo insegnamento per noi figli. Ed è proprio questo il tema dominante del breve saggio con cui l’autore intende raccontare lo stile di vita povero e semplice che ha caratterizzato la sua infanzia, confrontandolo con quello frenetico e consumista dei giorni nostri, e constatando quanto possano risultare utili gli insegnamenti di chi ci ha preceduti e quanta validità ed importanza possano avere ancora oggi alcuni principi che regolavano la vita di allora, anche se spesso accantonati o dimenticati. Il canto del gallo, la cura per le piante da cui derivava il sostentamento per intere famiglie, la cucina tradizionale, il rito della tavola che andava al di là del mero nutrimento, il valore delle (poche) feste, ma anche la violenza domestica, i bicchieri di troppo, la durezza del lavoro nei campi, il freddo, la fame, sono alcuni dei tanti aspetti su cui si sofferma il libro. I racconti di Bianchi ricordano molto quelli pieni di nostalgia per i tempi andati e di malanimo per quelli odierni che spesso ascoltiamo dai nostri nonni o genitori e che, anche se si riferiscono a poco più di mezzo secolo fa, sembrano appartenere a un'epoca remota viste le fortissime differenze con il mondo in cui viviamo oggi. Il priore di Bose però si lascia prendere la mano e infarcisce il racconto di luoghi comuni e di immagini stereotipate, eccedendo inoltre in inutili ripetizioni e girando e rigirando sempre intorno agli stessi concetti. Ciò non toglie comunque che il libro rappresenti una lettura interessante e piacevole, ma va preso con le molle perché, come spesso accade quando c’è di mezzo la memoria, nei ricordi le cose tendono ad apparirci migliori di quanto in realtà non erano, e il sapore del pane di ieri potrebbe non essere stato poi così gustoso.
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La serenità di un mondo scomparso
Da bambina, mio padre aveva l’abitudine, ogni sera, di mettermi sulle sue ginocchia e di raccontarmi una storia. Era un rito, qualcosa di rassicurante e inebriante insieme, per le cose che scoprivo e per quella saggezza concreta, esperita nel dolore della guerra, che mio padre mi trasmetteva come una testimonianza preziosa: unico suo prezioso lascito, custodito gelosamente in me dopo la sua scomparsa, ormai tanti anni fa.
Leggendo “ Il pane di ieri sono tornata con la memoria a quei tempi, a quella dimensione, sospesa fra la fanciullezza e l’età adulta, in cui un uomo buono e saggio riempiva il silenzio delle mie sere e quello mio, di bimba malinconica, con aneddoti sulla campagna del Monferrato. Motti dei contadini, vendemmie descritte come feste, cene fatte di poco o niente, ma cui non mancavano mai l’accoglienza e l’ascolto reciproci, erano il cuore di aneddoti che divertivano o facevano riflettere,e che mi scaldavano l'animo.
Questa pacata armonia l'ho ritrovata nelle pagine di questo libro. Come in un lungo e poetico racconto, Enzo Bianchi ci conduce, senza retorica né buonismo, in quella civiltà contadina del Dopoguerra, indissolubilmente legata alla terra , ai suoi ritmi e alle sue stagioni. Pur non negandone la durezza ( una grandinata improvvisa poteva rovinare,improvvisamente il duro lavoro di un anno nei campi),si coglie, nella descrizione dei vari riti come la vendemmia o la festa de paese, i momenti di gioia e quelli del lutto,una rasserenante armonia con la vita , con gli altri , con la natura stessa. Nessuna nevrosi nell'affrontare le avversità, nessun dolore che non si fosse preparati ad accogliere come parte stessa dell'essere vivi, sempre insieme agli altri, sempre insieme a qualcuno disposto a sorreggere e a dare una mano.
Era la comunità, il paese, a sopperire alle necessità e alle mancanze di ognuno, morali e materiali,; era un’epoca in cui il semplice sedersi attorno alla tavola a sgranare pannocchie o la preparazione della mostarda dal mosto e dalla frutta diventavano, per tutti, una fonte di gioia, un’occasione per stare insieme rallegrata sempre, come nella tradizione monferrina, da un buon vino forte.
Questo libro mi ha lasciato in dono una grande serenità, facendomi riflettere sulla freneticità con cui,oggi, consumiamo tutto senza “assaporarlo” veramente: il cibo, il tempo, l’amore, l'amicizia.
E' stato, per me, come una meravigliosa e rasserenante "fiaba vera".
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Il mestiere di vivere
“Oggi in cui tutto è a breve durata, tutto è , tutto senza memoria; oggi in cui ogni scelta è rimandata e, non appena presa, è revocabile alla prima difficoltà; oggi in cui non si ha nemmeno la percezione che esista un > per ciascuno.”
La vita di ognuno di noi è un dono, venire al mondo è un omaggio, il più grande che ci viene fatto, ma siamo sicuri che proprio per questo la nostra esistenza abbia un senso? Siamo veramente consapevoli che, perché regalata, la vita non si debba imparare? Per quanto possa sembrare strano il fatto che noi procediamo in questo mondo è un dovere, un mestiere non certo agevole e quasi sempre faticoso, il mestiere di vivere, come con grande acutezza definì l’esistenza Cesare Pavese.
Se dopo aver letto Ogni cosa alla sua stagione non mi stupisco più per le straordinarie qualità di Enzo Bianchi, con Il pane di ieri mi ritrovo in ogni pagina, in ogni riga, frutto com’è di una continua pacata riflessione.
E’ certo il libro di chi arrivato a una certa età, diciamo metaforicamente alla stagione autunnale della vita, si volge all’indietro, e non tanto per fare un bilancio, bensì per riannodare il presente al passato, nella prospettiva di un futuro che sarà gratificante quando si sarà verificato che la propria esistenza costituisce un unicum, un succedersi di fatti ed eventi di cui, per lo più, siamo stati artefici.
Emergono così i ricordi, l’unico patrimonio che ci può dare la certezza che abbiamo svolto e che stiamo praticando il nostro mestiere di vivere; fare uscire dalla nebbia del tempo la nostra infanzia e la nostra giovinezza implica però il rischio di un rimpianto, come se, nella nostra primavera, tutto sia stato idilliaco, perfetto, irripetibile. Enzo Bianchi non cade in questo errore, sfumando, ancora prima di scrivere, immagini e memorie che, se da un lato possono anche indurre a un garbato entusiasmo, dall’altro trovano onnipresenti le difficoltà inevitabili che si incontrano nell’esistenza, tanto più marcate in un periodo post bellico di grande miseria, in un ambiente, quale quello contadino del Monferrato, chiuso, a volte gretto, altre invece fecondo di umana solidarietà quale solo è possibile trovare tra la povera gente. Ed è così che ai comandamenti delle tavole consegnati a Mosè se ne aggiungono altri quattro, frutto di una coscienza sociale, tramandata di padre in figlio, ma che nella loro apparente semplicità sono i cardini dell’insegnamento del mestiere di vivere: “Fa il tuo dovere, crepa, ma va avanti!”, elogio quindi del dovere, obbligo a cui mai venir meno, temperato tuttavia da un “Non esageriamo!”, che richiama all’indispensabile senso della misura; “Si tratta di non prendersela” , un invito, a fronte delle disavventure, a non lasciarsi abbattere, e infine “Non mescoliamo le cose!”, una versione più pratica e adatta a molti usi del celebre detto di Gesù “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.
Principi saldi, quindi, frutto di generazioni che si sono succedute in quelle colline di viticultori, sperimentati, applicati e appunto insegnati ai successori perché basilari per esercitare il mestiere di vivere.
Nel leggere questo libro, che potrei definire un saggio sul come vivere la vita, fatto di tanti capitoletti per lo più abbastanza brevi, si scoprono virtù antiche, presenti per tanti secoli e poi di colpo scomparse, con la fine di quella civiltà contadina di cui un altro scrittore che amo tanto, Ferdinando Camon, ha scritto così bene.
Tuttavia, Enzo Bianchi, in questo suo ripercorrere la propria esistenza, in questo estrarre ciò che conta e metterlo per iscritto con disarmante semplicità, ma con altrettanto notevole efficacia, ci trasmette una lezione di vita, senza imporcela, anzi suggerendocela, che non potrà non lasciare indifferente il lettore, sia che si tratti di un credente che di un ateo. Il suo è un immaginario dialogo con chi leggerà, una serie di riflessioni coinvolgenti, a cui lasciarsi andare, certi che alla fine ci sentiremo pervasi da quella grande serenità che è propria dell’autore.
Spesso è una parola abusata,ma credetemi se vi dico che Il pane di ieri è un autentico capolavoro.