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Agonia del cristianesimo Agonia del cristianesimo

Agonia del cristianesimo

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La presentazione e le recensioni di Agonia del cristianesimo, opera di Miguel de Unamuno edita da Bompiani. Era dal periodo della grande crisi spirituale ed esistenziale del 1897 che Miguel de Unamuno non avvertiva un moto di sconforto così pregnante, dettato dal tormento nostalgico vissuto durante l'esilio e la fuga in Francia. Il senso profondo di questo abbandono lo spinse a concepire l'"Agonia del cristianesimo" (1924), un'opera sul cristianesimo dal taglio colloquiale e semi-autobiografico, dove molte delle idee già espresse in "Del sentimento tragico della vita" (1913) vengono rinnovate da una forte vis polemica nei confronti della società e delle ideologie precostituite, e da un intenso conflitto interiore. Un conflitto che sta alla base della stessa agonia del cristianesimo che abita ogni singolo individuo, ogni uomo cristiano, che è agonico per definizione. L'agonia è infatti la "lotta" di chi vive lottando contro la vita stessa, e contro la morte, poiché il fine della vita è farsi un'anima, un'anima immortale ("ansia d'immortalità"). L'agonia del Cristo sulla croce, che lotta per la salvezza dell'umanità, sarà dunque la stessa agonia che il cristiano prova lottando interiormente per la propria salvezza.



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Agonia del cristianesimo 2013-08-30 13:12:19 paolo migliaro
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paolo migliaro Opinione inserita da paolo migliaro    30 Agosto, 2013
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L'agonia esistenziale

L'illustrissimo Carlo Bo, all'età di 34 anni, già ordinario della Facoltà in Letteratura in lingua francese e spagnola all'Università di Urbino (poi Rettore dal 1947 fino al 2001), rifugiato a Valbrona vicino al lago di Como, durante gli ultimi mesi della seconda guerra, nel febbraio 1945, finì di scrivere la postfazione al libro di Miguel De Unamuno, "L'agonia del Cristianesimo", di cui riporto un giudizio esplicito:
"...La lezione che possiamo aspettarci da uno spirito come il suo ha soltanto valore negativo, a nessuno verrà più in mente di riprendere le sue soluzioni per proprio conto: è impossibile usare della sua sostanza come elemento se non di nutrimento, almeno di collaborazione."

Ma poi cosa capiterà al grande Rettore dell'Università di Urbino con il trascorrere delle esperienze e della lenta penetrazione dentro un'opera altrui, non ancora sua e dunque da incarnare, da soffrire nelle sue contraddizioni, da esaminare meglio e da scoprire in un eureka? "Perchè nessuna cosa che possieda verosimiglianza, veridicità o verità e che sia letta o ascoltata è mai nostra fintanto che non la incarniamo e questo è il motivo del perchè diventiamo saggi solo con il passare degli anni" .

Ecco cosa dirà Carlo Bo in una intervista, molti anni dopo, nel 1984, insieme al rammarico di aver sempre scritto, letto e studiato e fatto null'altro per realizzare la sua piena umanità, cosa che solo uno spirito grande come era il suo poteva ben raccogliere, nel senso che solo un grande spirito si arrende all'evidenza riscontrata di molta miseria e nonostante la mole prodotta - mole infinitesimale, detto pascalianamente - e mole non ripagata da tante altre esplicazioni mai avventurate:

"...Ricordo oggi il suo diario poetico e la ricerca di una bellezza pensata e scolpita, il suo amore per il Leopardi della Ginestra e la sua 'Agonia del cristianesimo', dove agonia è frazione attiva di morte, lotta eterna, confronto tra parola e silenzio. Rileggo i suoi piccoli versi e mi percuote ancora, mi sento denudato, sono dentro di lui, parla anche per me. Questo credere che anche noi possiamo sbagliare, che nella storia degli uomini c’è sempre un’incognita, una X che non dipende da noi e che è il frutto della lenta costruzione di una filosofia superiore…L’ importanza di Unamuno, di Gide, era qui, nel fatto che si opponevano alle certezze, alle violenze, a una vita quotidiana e pubblica vissuta con fede inerte, negativa. Pensiamo al clima di quegli anni, a quel sospetto e quell’odio."

Se un uomo di fede come Bo, che studiò al liceo classico dai gesuiti, che fu un genio molto prolifico anche nella critica letteraria, che contestò con asprezza in 18 pagine argute e chirurgiche l'opera più famosa di Unamuno (1924) ventuno anni dopo la sua edizione, ebbene, qualcosa in lui dovette cambiare. Aumentò la saggezza. (Quella che assolutamente non può avere oggi un Renzi o un Grillo qualsiasi, che vogliono dimostrare di avere la chiave della risoluzione dei problemi, e quella che non hanno quelli che ancora non sanno che la conoscenza va sedimentata, strato su strato, e che una capacità si misura dalla solidità di molte conoscenze, non da chiacchere e incursioni televisive o con convegni parolai).

Non conosco minutamente la problematica che soccorse Bo rendendolo molto più saggio, ma credo che egli debba aver sofferto considerando le contraddizioni storiche ed anche filosofiche di quella sua parte affettiva, emozionale, che sento anche mia, poichè lì sono le mie radici e l'impulso alla ricerca.

Superata la necessità dell'esempio dimostrativo, ecco alcuni dei passi più critici, se ancora non avete letto il libro, di qualche tratto de L'Agonia:

"Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere" , non bisogna ridere nè piangere nè destestare, ma capire. Intelligere, capire? No, ma conoscere nel senso biblico, amare...sed amare. Spinoza parlava di "amore intellettuale", ma Spinoza è stato come Kant uno scapolo e forse è morto vergine. Spinoza, Kant e Pascal erano scapoli: sembra non siano stati scapoli: sembra non siano stati padri, ma non furono neppure monaci nel senso cristiano.

E in stretto collegamento, un altro:

Kant chiedeva, come regola suprema della morale, che prendessimo il nostro prossimo per fine in se stesso, non come mezzo. Era il suo modo di tradurre 'ama il tuo prossimo come te stesso' . Ma Kant era uno scapolo, un monaco laico, un avaro. Un cristiano? e forse prendeva se stesso come un fine in sè. Il genere umano finiva con lui.

Credo si intuisca bene, da questi brevi pensieri, che c'è sempre chi propone logiche di un tipo o di un altro, con molta abbondanza di termini e di antologia, bibliografia, ma senza avere presente le proprie contraddizioni, che spesso ben nascoste, ci negano quel che hanno detto. La logica dell'amore, della paternità e della maternità per Unamuno sono dei necessari assoluti per capire se stessi, il mondo, la stessa fede in profondità, la vera pietà e non il falso atteggiamento consolatorio e sentimentale devozionistico; la logica sapienziale, quella autentica è la sola liberante. E' una logica che però ha bisogno di tempo, di saggezza, come nel caso di Carlo Bo. Perchè non è importante la verità in se stessa, la verità per essere capita deve essere incarnata. Questo è il discorso complessivo di quest'opera.

E' quella verità fatta di lealtà innanzitutto verso se stessi. Tra noi invece, tanti vi sono e che continuano, che per imbrogliare finiscono per imbrogliarsi e non riconoscere più chi realmente sono. Imbrogliati così l'uno e gli altri insieme. Come nella storia patria degli ultimi nostri vent'anni...

Quella lealtà che sorge, ed è compresa così bene, in queste altre parole del libro, che svelano il segreto percorso dell'incarnare il pensiero altrui:
"Qual'è stato il Socrate storico, quello di Senofonte, quello di Platone, quello di Aristofane? Il Socrate storico, l'immortale, non è stato l'uomo di carne e ossa e sangue che è vissuto in tale epoca a Atene, ma è stato quello che ha vissuto in ognuno di quelli che l'hanno udito, e da tutti questi si formò quello che ha lasciato la sua anima all'umanità. E lui, Socrate, vive in questa umanità".

Occorre esistere, ex-sistere, e questo esercizio deve essere fatto fuori dalla nostra educazione e dalle nostre certezze, fuori dai capricci, dalla presunzione, dall'ignoranza che ci sovrasta e che non ci fa affrontare il dubbio, per abbandonare la virilità della volontà e affidarci al desiderio della grazia. L'autenticità è dovuta alla semplicità dell'essere. Questa è la lezione che ci offre Miguel Unamuno. Attualissimo e provocante su molti fronti anche oggi.

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