Sconfiggere Hitler
Saggistica
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Fino a quando?
“Ho abbandonato spontaneamente la politica israeliana perché, insieme ad altri, nutrivo la sensazione sempre più netta che il paese fosse diventato un 'regno senza profezia'. In apparenza, tutto funziona normalmente. Si prendono delle decisioni, si raggiungono degli obiettivi, la vita scorre, la barca naviga. Ma quale sarà la destinazione? Nessuno lo sa.”
Quando Avraham Burg, nel 2007, pubblica in Israele “Sconfiggere Hitler”, solleva una polemica immane. Contro di sé, il suo essere israeliano a pieno titolo, i suoi trascorsi pubblici (prima di ritirarsi dalla politica è stato Presidente del Parlamento); persino contro i trascorsi pubblici di suo padre (Yossel Burg, figura politica al centro della scena al tempo della nascita di Israele). Ma soprattutto contro il libro e le teorie in esso esposte.
Non è facile per un sionista accettare l'idea che la Shoah, oltre ad essere stata la maggiore disgrazia accaduta al popolo ebraico, lo sia tuttora, ma in altro senso.
E' questa la tesi di Burg. Dopo l'euforia per la creazione del nuovo Stato – finalmente una casa, i confini da difendere ed entro cui difendersi dopo millenni di storia errante –, la maggioranza ha scelto di fare della Shoah il marchio distintivo dell'essere ebraico: dunque, di sentirsi costantemente vittima, di pensare che al di fuori siano tutti nemici (non solo gli arabi). E perciò di accettare di vivere del proprio passato, non per il proprio futuro.
Non si può non pensare all'irraggiungibile follia dell'Olocausto, e non comprendere i segni incancellabili che esso ha lasciato nei superstiti. Ma non si può nemmeno negare a questo libro coraggio e lungimiranza, per aver affermato con rigorosa serenità la semplice idea che il futuro è ciò che ognuno ha davanti, da affrontare non di spalle ma con ciò che si ha alle spalle. Le nuove generazioni israeliane – che l'autore cita spesso (anche attraverso uno sguardo ai propri figli) – non vanno condizionate a pensare alla propria vita con la stessa mentalità di chi ha vissuto la più grande delle disgrazie sulla propria pelle. Perché questo è il modo migliore per non permettere loro di crescere, ed essere davvero (e orgogliosamente) ebrei, prima ancora che israeliani.
In questo caso, dice Burg, bisognerebbe ammettere che Hitler, morto in un bunker di Berlino, ha tuttavia avuto la sua vittoria proprio sul “fronte ebraico”, determinando la vita di un popolo.
Si può condividere o meno la tesi su cui “Sconfiggere Hitler” si basa; ma al libro vanno in ogni caso riconosciuti due innegabili meriti:
anzitutto la comprensibilità anche ad un profano dell'argomento, in quanto illuminante sulla storia e la mentalità ebraica: dai rabbini ultraortodossi agli ebrei talmudici, da Eichmann a Shimon Peres, il volume riesce ad inserire i complessi e delicati tasselli dell'ebraismo in un'unica storia (riuscendo a far capire di cosa si parla anche quando non può fornire un completo approfondimento di alcuni elementi);
in secondo luogo la capacità di dare una risposta indelebile, difficile da dimenticare, a chiunque nutra il dubbio che Israele rappresenti una sconfitta per tutti, come può rappresentarla un popolo che ha subito il più grande male che la Storia abbia inflitto alla sua gente e tuttavia da ciò non riesce a ripartire per mostrare al mondo una strada nuova.
Sotto questo aspetto, un volume di assoluto valore, in tempi nei quali buona parte degli scrittori più illuminati di fede ebraica chiede a gran voce ai propri governanti la legittimazione di uno Stato di Palestina, al fine di fondare il tentativo di una nuova convivenza.