Odio gli indifferenti
Saggistica
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odio gli indifferenti
Premessa: non mi piacciono i saggi, e questo mi è capitato per caso tra le mani. E poi, recensire un saggio spesso significa entrare nel merito. Delle lettere di Gramsci mi soffermerò su quella più famosa (e più usata): sugli indifferenti. Potrà sembrare un’opinione derivante da una posizione politica, la mia, ma vorrei che non fosse presa come tale. Credetemi, non lo è. So che non è questo il luogo per tali cose. Dico questo per invitare a leggere le parole che seguono con occhio non condizionato da idee di vario genere. Sento il terreno scivoloso e prevedo molte opinioni in disaccordo. Comunque.
Fine premessa. Iniziamo.
Con una certa insistenza – prima con Carofiglio, poi con Vendola – si torna a citare la lettera di Gramsci, dalla quale il titolo della pubblicazione di Chiarelettere.
C’è qualcosa, però, che ritengo vada precisato. A difesa degli “indifferenti”.
Innanzitutto il contesto storico. Gramsci scrisse quella lettera, come si può capire fin dalle prime due righe, contrapponendo all’indifferenza la partigianeria, all’aridità dell’azione e del pensiero un prendere parte (a un’ideologia, a un partito, a un’opposizione) e da qui poter configurare e dar vita a un possibile cambiamento. Ora, l’indifferenza a cui essenzialmente si riferiva Gramsci era di natura politica. Ma è proprio l’aver confinato le osservazioni sugli indifferenti – e le analisi che, oggi, ne scaturiscono – a questo unico territorio, la causa principale del limite a cui le osservazioni gramsciane, o di Carofiglio o Vendola, incontrano un loro limite.
L’apatia politica di molti, negli anni dell’epoca fascista, non è detto che sia stata contrassegnata principalmente dall’indifferenza. E non è detto, anche, che sia stata proprio questa indifferenza a determinare ascesa e consolidamento del potere fascista. Tralascio le cause storiche, che esulano da questo spazio.
Non ho vissuto in quegli anni – e questo depone a mio sfavore per ciò che voglio dire –, ma ho l’impressione, avendo ascoltato alcuni “vecchi” che quell’epoca l’hanno vissuta in prima persona, che per loro ‘quello’ fosse il migliore dei mondi possibili. Quanto questo pensiero (sicuramente manipolato) sia distante dalla realtà di allora è cosa che ha dimostrato poi la Storia.
Ciò che voglio dire è che quella che in un primo momento si può scambiare per indifferenza altro non era che una forma di forzata e indotta idea del presente di quegli anni. In altre parole, la loro – quella di chi ha vissuto in quegli anni – era comunque una considerazione di parte, allo stesso modo di come i partigiani prendevano “parte” ad altri progetti politici. Non era indifferenza. Da qui ritengo che il cuore del problema sia altrove, forse.
Si parla di questi indifferenti, di ieri e di oggi, come esseri “non pensanti” e senza capacità di azione, con la stessa superficialità con cui si osserva un teatrino di burattini; si guardano dei pupazzi muoversi senza mai riflettere cosa li fa muovere. Pensare solo a un burattinaio non coglierebbe il senso di ciò che può interdire una volontà inducendola all’indifferenza. L’attenzione, allora, andrebbe spostata ai fili che “qualsiasi” burattinaio ha tra le mani, fili con i quali ha la possibilità di far compiere gesti e azioni a “burattini” inconsapevoli e, senz’altro, destinati all’indifferenza. Allora, viene da chiedersi se l’indifferenza non sia, più che la causa di ciò che è, la condizione a cui sono esposti, e sottoposti – senza possibilità di discernere cosa è male e cosa è bene –, coloro che, non possedendo strumenti dell’intelletto, finiscono per cedere a illusioni e distrazioni.
Non mi piace il titolo, quindi, e credo che spesso il contenuto del libro venga usato in maniera non sempre pertinente.
Io non odio gli indifferenti, essendo il verbo odiare, in assoluto, la definizione di un sentimento al quale ognuno, oggi, dovrebbe tentare di sottrarsi.
p.s.: è stato difficile mettere i voti.