Lettere dal carcere
Saggistica
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Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volo
Quando il pubblico ministero Michele Isgrò concluse la sua arringa contro Gramsci proclamando apertamente la necessità “di impedire a questo cervello di pensare per vent’anni”, certo doveva avvertire il peso non solo di una mente straordinariamente lucida, ma anche di una tempra morale che farebbe impallidire l'era post-ideologica. E non avrebbe mai sospettato che in un uomo tanto fieramente piccolo si potesse preservare un ardore tanto radicale da consumare se stesso.
Negli anni che egli sconterà in carcere, dal 1926 fino alla morte nel 1937, trasportato tra le prigioni più svariate, nelle celle più anguste, tormentato da una ripetitività ipnotica, fiaccato dalle malattie più varie, condannato ad una veglia perpetua da una mente troppo energica per dormire, e troppo orgogliosa per riposare, estenuato fino alla schizofrenia da un controllo subdolo e sinuoso, Gramsci oppone alla tragedia di una pena ingiusta, una tempra sfolgorante. Perché in fondo a nulla vale essere eroi se l'abnegazione condanna alla morte, a nulla vale proclamare la propria innocenza crogiolandosi nella propria innocenza e smettendo di sopravvivere. Non è un giudizio politico, ma un'esperienza umana.
Gramsci scrive: scrive per sopravvivere, e si avverte ad ogni lettere, ad ogni parola, ad ogni riga strappata alla censura, ad ogni frase salvata dal tempo limitato della corrispondenza, ogni periodo complesso o spezzato tanto velato da sfuggire ai controllori e al pudore della certezza che ciò che si scrive sarà letto da altri, tanto preciso da poter essere compreso. La scrittura come mezzo per comunicare, nelle ore senza tempo del carcere, mentre i libri letti a velocità impressionante segnano il passare dei giorni, mentre l'arrivo di riviste giornali tiene il conto di periodi più o meno lunghi, mentre di addensano le ombre di un tradimento, mentre il dubbio corrode le certezze mai certe e il ripiegarsi su sé fa collassare la lucidità: la mente aggroviglia la semplicità, i fantasmi di pericoli non colti lo tormentano mentre il freddo lo fa tremare, la febbre lo fiacca, mentre ingurgita farmaci e tiene il conto minuzioso della propria dipendenza. Il carcere ha ucciso Gramsci: non per le condizioni, che in fondo avrebbe potuto sopportare, ma per quella prolungata e sistematica esclusione dall'impegno politico, dalle relazioni umane, dalla propria genetica vocazione di uomo di stato, che ne corrodono lo spirito vitale. Gramsci si erge con la sua forza, ma pure con la sua fragilità, di cui solo alla fine si renderà conto.
Eppure ciò che colpisce in queste lettere, in questa opera letteraria di intima coerenza, che si pone come l'incarnarsi di quella conquista “für ewig” (per l'eternità) che egli più volte auspica, cui più volte tende, è la forza con cui, anche quando la malattia intorpidisce la mano che scrive, quando ogni parola costa uno sforzo ai limiti della sostenibilità, persevera nei suoi progetti. In queste lettere Gramsci sfolgora in tutta la sua implacabile analiticità: dai brucianti giudizi politici, ai commenti sui fatti del mondo, dagli studi su Dante, all'apprendimento del tedesco e del russo, passando per le preoccupazioni più umane e l'ironia più dissacrante, ciò che egli scrive colpisce per l'inaspettata, quanto imprevedibile quantità di temi, la rapidità delle variazioni, l'ordine nel disordine, la forza del pensiero, la logica dei giudizi, l'attacco costante e letale ai grovigli più intricati. Sono le lettere di un uomo che sa cosa significa scrivere, e che comprende nelle sue basi profonde l'importanza dell'educazione: un uomo che scrive alla moglie, a migliaia di chilometri di distanza, sull'educazione dei figli, che con una certa superbia, ma non minore dolcezza elargisce consigli sulla loro istruzione, estrapola dalle rare foto di cui ha un matto bisogno i volti di familiari che più non vede, o di un figlio che non ha mai visto, ma a cui, con inaspettata tenerezza, si rivolge con storie e fiabe, con sollecitazioni e incitamenti.
Un uomo di così elevata statura, di così estrema esperienza biografica, di così forte determinazione sta un esempio che atterrisce per la rarità, ma sfida per forza. Nella trasparenza della sua scrittura, nella ossessività minuziosa del suo narrare, a volte persino fastidiosa, Gramsci ha davvero composto un'opera per l'eternità: ha coniugato la figura dell'intellettuale organico con quella del padre, dell'amico, del figlio, del marito, del fratello, dell'uomo di stato. E lo stesso Gramsci alla fine si è arreso, prosciugato fin nel profondo, ma con una lucidità tanto più acuta quanto più feroce era il morbo: l'inizio della fine, come lui stesso nota, non è il carcere, ma il dissolversi dell'autoironia. Segno premonitore di un abbruttimento morale, Gramsci cede forse al ritmo ipnotico ed esacerbante del carcere, ma ci provoca con gran forza ad essere giganti sulle spalle di questo inesauribile piccolo uomo.
(L'Edizione completa delle lettere è quella edita da Sellerio (1996); Einaudi ha pubblicato in varie occasioni raccolte più o meno ampie dell'epistolario gramsciano, mettendo spesso in luce le lettere tra Gramsci e l'amica e cognata Tania, interlocutrice prediletta durante il suo implacabile stillicidio).