Lacrime di sale Lacrime di sale

Lacrime di sale

Saggistica

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Pietro Bartolo è il medico che da oltre venticinque anni accoglie i migranti a Lampedusa. Li accoglie, li cura e, soprattutto, li ascolta. Queste pagine raccontano la sua storia: la storia di un ragazzo mingherlino e timido, cresciuto in una famiglia di pescatori, che si è duramente battuto per cambiare il proprio destino e quello della sua isola. E che, non dimenticando le difficoltà passate, ha deciso di vivere in prima persona quella che è stata definita la più grande emergenza umanitaria del nostro tempo.



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Lacrime di sale 2017-11-29 21:00:22 Flavia Buldrini
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Opinione inserita da Flavia Buldrini    29 Novembre, 2017

Figli di uno stesso mare

È un racconto asciutto e incisivo, dallo stile fluente, che si legge tutto d’un fiato, toccante, che arriva dritto al cuore, quello che ci consegna, - con il supporto della giornalista della Tgr Lidia Tillotta - questo coraggioso medico, il quale non ama definirsi eroe (eppure quale costante abnegazione in una quotidiana quanto drammatica emergenza, quante vite salvate accanto a tanti corpi esanimi recuperati e restituiti alla loro dignità!), perché secondo lui adempie soltanto al suo dovere. Egli lascia parlare i fatti, eloquenti di per sé, i quali non hanno bisogno di orpelli retorici, giacché svelano quella che Papa Francesco non ha esitato a definire a Lesbo “la più grande tragedia umanitaria dopo la Seconda guerra mondiale” in tutta la sua scabrosa nudità. “Ho impiegato vent’anni a scrivere il libro; mi sembrava di tradire la fiducia di queste persone, poi ho capito che era necessario far conoscere le storie di chi si è confidato con me. Temevo di far torto a loro, così ho esposto anche la mia vicenda, in modo che siamo alla pari.” Così Pietro Bartolo ha illustrato, in uno degli incontri in giro per l’Italia in cui offre la sua testimonianza per aprire gli occhi alla gente, le sofferte ragioni del cuore, per cui la sua personale vicenda s’intreccia con quella di tanti sconosciuti venuti da lontano che prontamente scopre fratelli, “figli di uno stesso mare.” Nell’epilogo del libro le “lacrime di sale” che scorge sul viso del padre che ritorna dagli ultimi abbracci di quel mare che per lui “era tutto” nei giorni che precedono la morte, divorato da un cancro, sono le stesse che affiorano “sulle facce, nere, dei disperati che hanno vagato per giorni in mare in balia delle onde.” Il romanzo autobiografico, dunque, si conclude e si avvia con la propria intensa vicissitudine, che costituisce un tessuto unico con quella delle numerose persone soccorse in venticinque anni di missione, a riconoscere la stessa matrice di un’umanità dolente, ciò che si rivela ineluttabilmente nell’essenzialità della condizione dell’uomo di fronte al pericolo, mentre si dimentica facilmente negli oziosi dibattiti di chi alimenta meschine discriminazioni, ricacciando questo immane dolore in fondo agli abissi. L’esordio, ugualmente, ha come protagonista questo mistero insondabile e ambivalente del mare, iridescente culla della vita, ma anche terribile gorgo di morte, in cui rischiava di sprofondare il narratore fanciullo, il quale, quale segno del suo destino, egli stesso salvato dai flutti insidiosi, a sua volta si sarebbe trovato a strappare innumerevoli esseri umani dalla trappola fatale delle acque. L’affabulazione dell’esperienza in prima persona è frammista a quella delle storie che sono diventate carne viva della sua stessa carne e non anonimi numeri o nomi: ogni volto, ogni situazione, i cui particolari evocano personaggi o avvenimenti familiari, come in un flashback – in questa esposizione che ha molto del cinematografico e che non a caso ha ispirato a Gianfranco Rosi il capolavoro Fuocoammare (premiato con l’Orso d’oro per il miglior film al festival di Berlino) – , s’imprimono a caratteri di fuoco nella sua sensibilità emotiva e ad essi corrispondono una vicenda spesso agghiacciante che non potrà mai dimenticare. È quel cadavere di un bambino così bello, da non sembrare esanime, che con i suoi pantaloncini rossi s’affacciava ad una vita migliore; è quel ragazzo orrendamente mutilato dei genitali, irrimediabilmente condannato all’umiliazione e all’infelicità; è quella donna che piange e si butta per terra e non vuole più vivere, mentre non sa accettare quel frutto di molteplici sevizie che porta in grembo; o ancora è Faduma che, dopo aver visto brutalmente decapitato suo marito dai jihadisti, ha lasciato i suoi sette figli con la madre in Somalia per cercare un lavoro in Italia, in modo da assicurare loro un futuro, nonostante le sue precarie condizioni di salute. Ma sono anche fiori di speranza che sbocciano soprattutto dallo stupore dell’infanzia: i grandi occhi di Favour, di soli nove mesi, scampata al naufragio in cui ha perso la sua mamma, la cui immagine in braccio al dottore ha fatto il giro del mondo, sollevando numerose richieste di adozione da ogni parte, trovando infine il calore di una famiglia; la voglia di vivere, nonostante l’amarezza, di Mustafà, un bambino eritreo di cinque anni che ha visto inghiottite dal mare la madre e la sorellina, il quale aspetta ancora di trovare chi si prenda cura di lui; o la nascita travagliata di Gift che ha visto la luce attraverso un rischioso parto d’emergenza, ma alla fine “il dono” (che è la traduzione del suo nome) della vita ha vinto. Ogni volta gli sbarchi di fortuna restituiscono volti, vicissitudini, tragedie, di cui, su tutte, eretta poi a simbolo nella giornata nazionale dei migranti, spicca quella del 3 ottobre 2013, in cui persero la vita 366 persone, che il medico e l’intera popolazione dell’isola hanno subito come un terribile trauma. Eppure, anche in questo arido deserto di morte, fiorisce, tenace, un tenero seme di speranza, rappresentato da una bellissima ragazza di nome Kebrat, il cui cuore, da un flebile battito del polso, grazie alla prontezza e alla perizia di Bartolo e dei suoi collaboratori, con tutte le necessarie misure di soccorso, riprende a pulsare: in seguito andrà a stabilirsi in Svezia e diventerà madre.
Su tutto questo tempestoso scenario si staglia l’eroismo, che da esso stesso è considerato normalità, del popolo lampedusano, pronto sempre a soccorrere e ad accogliere, anche mettendo a repentaglio la propria vita, come fece lo stesso padre dell’autore in condizioni proibitive del mare, insieme a tutti i collaboratori cui Bartolo preme ringraziare: la capitaneria di porto - guardia costiera, guardia di finanza, polizia, carabinieri, vigili del fuoco, i colleghi del poliambulatorio, i volontari, i mediatori culturali, oltre alla sua splendida famiglia d’origine, in cui è maturata la sua tempra forte, alla moglie e ai figli che l’hanno sempre sostenuto e al regista Gianfranco Rosi che ha dato voce al grido di silenzio di un inumano dolore.
È un racconto straziante, quello di Pietro Bartolo,in cui l’inconcepibile realtà affiora senza filtri, capace di scuotete vigorosamente le coscienze:“È come se fossimo in guerra. Una guerra che non abbiamo scelto noi di combattere e che stiamo affrontando ad armi impari. Che ci consegna ogni giorno decine di feriti. E noi non possiamo fare altro che stare in trincea, nel senso più letterale del termine.”









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