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Il grande califfato Il grande califfato

Il grande califfato

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Il giorno in cui, per la prima volta, parlarono a Domenico Quirico del califfato fu un pomeriggio, un pomeriggio di battaglia ad al-Quesser, in Siria. Domenico Quirico era prigioniero degli uomini di Jabhat al-Nusra, al-Qaida in terra siriana. Abu Omar, il capo del drappello jihadista, fu categorico: "Costruiremo, sia grazia a Dio Grande Misericordioso, il califfato di Siria. Ma il nostro compito è solo all'inizio. Alla fine il Grande Califfato rinascerà, da al-Andalus fino all'Asia". Tornato in Italia, Quirico rivelò ciò che anche altri comandanti delle formazioni islamiste gli avevano ribadito: il Grande Califfato non era affatto un velleitario sogno jihadista, ma un preciso progetto strategico cui attenersi e collegare i piani di battaglia. Questo libro non è un trattato sull'Islam, è soltanto un viaggio, un viaggio vero, con città, villaggi, strade e deserti, nei luoghi del Grande Califfato.



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Il grande califfato 2015-10-24 13:42:23 f.martinuz
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f.martinuz Opinione inserita da f.martinuz    24 Ottobre, 2015
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Ombre islamiche

Il romanzo-saggio di Domenico Quirico, giornalista e inviato de “La Stampa”, non ha alte pretese di indagare il contenuto dottrinale dell’islam, né tantomeno suscitare istinti e reazioni islamofobe nel lettore per mezzo delle vicende che, talvolta in modo fumoso, si alternano a catena nel libro.
Infatti con uno stile immaginifico, metaforico, al limite di un lirismo obiettivamente esagerato e in alcuni casi artificioso che anestetizza le atrocità belliche e non perpetrate dai fondamentalisti Quirico racconta la sua storia pluriennale di viaggiatore, cronista e osservatore esterno, le sue esperienze fisiche e psicologiche con un occhio alla Storia; ci rende partecipi delle sue riflessioni e ci presenta i personaggi che ha avuto modo di incontrare nel suo lungo viaggio.

Il testo è composto da più capitoli tra loro uniti da un fil rouge ma al contempo indipendenti e con specifiche mission letterarie. Uno dei più significativi è il capitolo relativo al nuovo Califfo, all’interno del quale Quirico descrive la figura di Abu Bakr al-Baghdadi e le sue antinomie con il movimento che per anni è stato additato come il peggior male della Storia, ovvero l’Al-Qaida di Osama bin Laden. Giustificato spauracchio di inizio millennio, Al-Qaida letteralmente impallidisce al confronto con il nascente Stato Islamico.
Al Qaida, tuttora esistente ma ai margini delle gerarchie terroristiche, viene definita da Quirico come la Preistoria del jihad; il debole antesignano di ciò che sarebbe stato poi; l’organizzazione di bin Laden, milionario dedito al terrore quasi per gioco, era tutta apparenza, un continuo vedo-non vedo angosciante sostenuto da una propaganda che contava sull’effetto e sulla risonanza mediatica degli attacchi terroristici, primo tra tutti l’attacco alle Torri Gemelle del 2001.
L’Is di al-Baghdadi è ben diversa, sia per radicalismo, propaganda, potenzialità attrattiva, progetto e modernità terroristica. Inoltre manca la persistente e reiterata ostentazione iconografica del leader in quanto di al-Baghdadi abbiamo un solo video e poche fotografie, sulla cui affidabilità i servizi segreti nutrono dubbi. È quindi un leader presente come leader ma assente mediaticamente, almeno sui canali convenzionali a cui l’Occidente è abituato.

Ma chi è allora al-Baghdadi? L’uomo che sta tenendo sotto la minaccia del terrore mezzo mondo? L’uomo che sta portando avanti il progetto di uno Stato islamico unito che ristabilisca l’antichissimo califfato?
È un uomo colto, preparato ed edotto che in parte nega la falsa interpretazione occidentale per cui tutti i jihadisti siano pazzi analfabeti e ignoranti. I capi saranno pure dei folli invasati, ma pur sempre colti e in origine studiosi, proprio come al-Baghdadi.
Il condottiero dell’Is è un abilissimo, sagace e acuto accentratore, trascinatore e arruffapopoli che gioca sull’emotività degli adepti e di coloro che, in tutto il mondo, sentono il richiamo delle sirene del jihad.
Il suo successo deriva dal fatto che egli è il luogotenente in terra di Dio; è l’emanazione diretta della divinità al pari del faraone in Egitto e degli imperatori romani. Ha poteri decisionali materiali, i quali però sono univocamente usati per garantire la perpetuazione ed il rispetto delle volontà di Dio che detta legge e in quanto Dio è ontologicamente infallibile. Il contrario di ciò che accade nel mondo occidentale che giornalmente assiste all’allontanamento dalla fede in favore di un avvicinamento a valori post-moderni; una società laica in cui le decisioni non sono prese da un’entità impalpabile ed eterna, ma bensì da entità politiche o finanziarie in carne ed ossa e in quanto tali fallibili e passabili di critica. La mancanza di una divinità sopra tutto e tutti soffoca di fatto la possibilità del fanatismo radicale, non cancellando tuttavia potenziali innamoramenti o affezioni politiche o ad idee.

Il libro assume i connotati di un saggio altalenante dove manca un percorso cronologico e geografico preciso ed organico; Quirico infatti, a seconda del capitolo, saltella tra la martoriata Cecenia di fine secolo e la moderna Algeri islamizzata, tra la rovente piana di Ninive e la Siria di Bashar al-Assad fino a giungere nei territori di Boko Haram prima e a Tunisi poi. Della capitale tunisina Quirico traccia una descrizione incredibilmente malinconica e ben più inquietante rispetto alla città araba che, nel marasma nordafricano e siriano, ci è presentata dalla stampa nostrana come un’isola felice dove i valori di rispetto, tolleranza e laicità avrebbero preso piede sulla visione radicale di matrice islamica. Cosi invece non è; Tunisi vive ancora grosse conflittualità e contraddizioni difficili da estirpare e anche qui la rivoluzione araba è in parte fallita dilaniando la città.

Il racconto di Quirico non mira quindi a proporre una ricostruzione cronologica e geopolitica ma prova a immergersi nella complicata cultura araba, nei difficili rapporti sociali, nei conflitti e nelle contraddizioni politico-religiose della quotidianità araba. Non c’è presa di posizione, né pretesa di verità assoluta; non viene additato l’Is come il “Male assoluto” in accento propagandistico ma Quirico cerca di narrare, capire, approfondire e raccontare questo nuovo Male che, è bene ricordarlo, è in parte da noi mantenuto, foraggiato, protetto e coltivato.

Una curiosa annotazione che può emergere solo dopo aver concluso il libro è il fatto che Quirico, se non in brevi passaggi, non parla mai della sua prigionia, né tanto meno vi accenna tanto spesso come se temesse di peccare di vanagloria e di vanità agli occhi del lettore. Non è da tutti.

“Alassan odia le strade, perfino quella tutta buche e fossi che ne abusa il nome per andare dalla capitale ad Agadez. Forse ha ragione quando dice che la strada è il primo vincolo che l’uomo ha imposto alla libertà. Quando un Paese comincia a lasciarsi avvincere dalle strade come da una grande rete, significa che gli abitanti hanno fretta, non sono più padroni del loro tempo”.

FM

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