Il Principe
Saggistica
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Manuale per avere e mantenere il potere
Penso proprio che George R. R. Martin abbia letto “Il principe” di Machiavelli, prima di dare alla vita alla sua serie di libri sul “Trono di spade” e di conseguenza anche alla sua trasposizione televisiva. Essendomi cimentato nella visione di tutta la serie dal suo principio proprio in questo periodo, non ho potuto non accorgermi di come gli accorgimenti suggeriti da Machiavelli in quest’opera trovino delle analogie nei regnanti che popolano la storia di Martin e che sono il riflesso dei regnanti dell’epoca machiavelliana. E non solo, probabilmente.
“Il principe” di Machiavelli è una sorta di trattato su come debba comportarsi un sovrano di qualsiasi titolo per poter conquistare e, successivamente, mantenere il dominio sul suo regno. Citando una moltitudine di esempi, suoi contemporanei e non, Machiavelli cerca di considerare varie situazioni in cui un principe (o un aspirante tale) si ritrovi a fronteggiare il “fardello del potere” e gli suggerisce una via di scampo per varie situazioni. Chi si aspetti un libro di consigli buonisti, che esorti il sovrano a mostrare solamente buone qualità, probabilmente non conosce Machiavelli e nemmeno l’essere umano; ed è proprio questo che rende interessante quest’opera: il suo non voler addolcire la pillola e far credere che tutto si raggiunga con la virtù e la bontà.
Un principe ha da essere astuto, machiavellico. Un principe deve possedere molte virtù, nella speranza che Fortuna si volga in suo favore; e se non dovesse farlo deve essere in grado di far fronte alle avversità del destino. Un principe deve essere previdente, temuto, mostrare misericordia quando è possibile e crudeltà quando necessario; essere amico del popolo e cercare il favore delle sue milizie: che possibilmente siano sue e non d’altri o ancor peggio dei mercenari. Un sovrano deve essere in grado di prevedere le disgrazie e porvi rimedio in anticipo; deve circondarsi di consiglieri eccellenti ed essere avido dei loro consigli, ma essere sempre lui a chiederne e mai accettarli quando questi arrivino senza che li abbia chiesti.
Credo che, per un sovrano, avere accanto un consigliere come Machiavelli potesse essere una fortuna inestimabile; chissà se Lorenzo di Piero de Medici ha fatto tesoro dei consigli che, in quest’opera a lui dedicata, Machiavelli gli ha dispensato generosamente.
“E esaminando le azioni e vita loro non si vede che quelli avessimo altro da la fortuna che la occasione, la quale dette loro materia a potere introdurvi drento quella forma che parse loro: e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano.”
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De principatibus
Niccolò Machiavelli è uno degli autori italiani più conosciuti all'estero e questo perché la sua attualitò, come hanno detto prima di me gli amici commentatori, è davvero sorprendente.
L'opera detta Il principe è un capolavoro di realismo politico e di visione rinascimentale insieme che hanno effetti anche oggi, nel mondo che ci circonda. Non solo in Italia, nella quale il frantumarsi, il fallire e lo scadere della politica italiana ha dato molto stimolo alla rilettura del principe, ma anche laddove i sistemi politici parrebbero meglio funzionare.
Questo perché?
Perché da sempre si discute se sia meglio un uomo solo al potere piuttosto che una rappresentanza di cittadini eletta dal popolo. Perché da sempre si cerca di capire le ragioni della politica.
Machiavelli è stato il primo a fare della politica una scienza! Questo fatto, pure lodevole, però, si scontra con la spregiudicatezza che tante volte gli è stata attribuita.
Leggendo quelle pagine, i cui capitoli hanno un titolo in latino (a sottolineare l'importanza dell'argomento) ma un testo in volgare (a dire che la politica è per tutti e tutti la devono seguire!), si ha la chiara impressione che se da un lato Machiavelli indica nell'uomo forte la soluzione (perché la divisione degli Stati italiani era anche l'arma di ingresso degli stranieri) ma dall'altro lato indica anche che l'Italia (se ha troppa storia come dirà poi Gramsci) ha buona tradizione politica.
In un capitolo, ad esempio, se analizza le colpe degli Italiani che nel 1494 hanno fatto venire in Italia il re di Francia Carlo VIII, attribuisce a questi la colpa di avere accresciuto il potere dello Stato pontificio in Italia (Stato pontificio responsabile, a detta di Machiavelli) dell'instabilità politica.
Viene così anche a smorzarsi l'entusiasmo troppo edulcorato attorno alla figura del duca di Valentino, Cesare Borgia. In fondo, analizzando la sua parabola (Machiavelli non ama i principati ereditari quanto quelli nuovi, perché quelli nuovi mostrano la grandezza del principe che li ha conquistati!) Cesare Borgia - che dovrebbe essere un esempio da seguire - in realtà è la figura di un vinto, che, tolto l'aiuto dall'alto, è crollato.
Così si viene a profilare un'opera politica complessa, entro la quale Machiavelli si discosta dalla solita trattazione politica dell'epoca in cui il principe ideale era bravo, bello e buono, cioè doveva porsi il fine di un governo morale, di essere giusto, di non contravvenire le regole etico-morali della religione cristiana.
Questa perdita della fede da parte del principe machiavelliano è la peggiore delle pagine del Rinascimento italiano, ma era più l'osservazione di ciò che stava avvenendo che un suggerimento dato dal fiorentino.
In ultimo, analizzo che il Principe in realtà Machiavelli lo ha intitolato De Principatibus (Sui principati), cosa che dice quanto alcune letture poi diventate comuni abbiano stravolto intere opere (Bibbia, Divina Commedia, eccetera), tradendo anche lo spirito dello scrittore. Cosa, a mio giudizio, da non fare.
Vi lascio un verso petrarchesco dalla famosa chiusa del trattato machiavelliano.
Si noterà quanto attuale sia il lirismo dell'aretino e la speranza politica del fiorentino, ancora oggi attuali:
ché l'antico valor
negli italici cuor
non è ancor morto!
La democrazia di oggi è quell'essere tutti principi, partecipi del destino comune. Una grandezza che ci vorranno anni perché tutti, semmai si potrà, la capiscano.
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Rispettare le regole?
Breve classico considerato una vera pietra miliare della letteratura italiana. “Il fine giustifica i mezzi” è la sua frase più celebre e forse più significativa, che ne rappresenta il contenuto e lo spirito. Il libro è ovviamente molto di più, molto più ricco. E’ un libro storico e filosofico, dalla prosa complessa, da leggere non tanto per passatempo, quanto per approfondire un periodo storico e per entrare nei meandri di un messaggio politico, anche se l’autore politico non era. E’ un libro più da studiare che da leggere. E’ fatto di precetti, anche se l’autore era il primo a non credere alle regole. In questo senso è un libro di contraddizioni, che ho sempre trovato di non semplice lettura e decisamente ostico.
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Il Principe
E’ l’opera più importante di Nicolò Machiavelli, il famoso trattato politico de “Il Principe”, scritto in lingua volgare intorno al 1500. Con questo libro l’autore vuole mettere per iscritto, rivolgendosi a Lorenzo De’ Medici (esortandolo a liberare l’Italia dalle invasioni barbariche), tutte le qualità che secondo lui deve avere un capo di stato e mantenerlo nel corso degli anni, infatti diversifica i titoli ereditari da quelli conquistati. Cita come esempio Cesare Borgia, il quale, secondo Machiavelli possiede le caratteristiche necessarie per governare su un territorio, accennando anche a numerosi personaggi del suo tempo. A suo parere un principe dovrebbe soprattutto imitare dei “grandi” uomini prendendone esempio, trovare un punto di forza nell’esercito, riuscire a farsi apprezzare dal popolo, essere saggio e prudente, dovrebbe saper “simulare e dissimulare” (fingere e ignorare).
Il libro mi è piaciuto per certi aspetti, ma non è stato di mio gradimento per altri. Se da una parte mi ha affascinata il pensiero dell’autore che ha una visione curiosa e allo stesso tempo affascinante della vita politica di un capo di stato, ho trovato difficoltà nell’interpretare l’uso della lingua volgare e della sintassi articolata. Per questo motivo ho dovuto rileggere più volte lo stesso rigo per capirne il significato. Comunque pur trovando affascinante e colto il suo pensiero non sono d’accordo con certi punti di vista dell’autore, ad esempio: “Non può pertanto uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservantia lo torni contro e che sono spente le ragioni che lo feciono promettere. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché è sono tristi non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai osservare con loro”. Oppure la nota frase: “Il fine giustifica i mezzi”. Sostengo che una persona debba essere sempre onesta, a prescindere dal fatto che sia un principe, un borghese o un semplice contadino. Ad ogni modo lo consiglio perché è un’opera ricca di contenuti storici e letterari.
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Il fascino del Principe
Ci sono scrittori che sono diventati famosi non solo per i libri che hanno scritto e per il numero di lettori che riescono a mantenere col passare del tempo, ma anche per l’attualità che riescono a mantenere con la loro scrittura, con i simboli e con i valori attribuibili non solo alla loro arte ma anche al ruolo ed alla funzione che hanno avuto durante la loro vita. La continuità che scaturisce dalle loro opere, continua ad essere rilevante ed essenziale li fa diventare dei veri e propri personaggi. E’ il caso di Niccolò Machiavelli, uno scrittore di cui si parla sempre non solo in quanto tale, per le sue opere, bensì anche e soprattutto per la sua vita, le sue idee politiche, la sua persistenza letteraria che sfida il tempo e ne fa un personaggio che emana un “fascino principesco”.
Su uno degli ultimi numeri del settimanale inglese “The Times Literary Suplement” è apparso un lungo saggio con la recensione di un esperto di storia e cultura del rinascimento italiani, Lauro Martines, di ben sette libri sul grande scrittore fiorentino. Due nuove traduzioni del “Principe” in inglese, la traduzione sempre in inglese della “Vita di Castruccio Castracani”, un saggio sul “Principe”, e due biografie del Machiavelli. Ma chi era veramente Niccolò Machiavelli?
N. M. apparve sulla scena del mondo poco prima del 1500 in un momento di crisi crescente in Italia e nella sua nativa Firenze. Gli Sforza a Milano stavano per cadere. Venezia era instabile e perseguiva una politica dello sfascio. Roma e la Chiesa erano sotto il governo di Papa Alessandro VI, il suo nome vero era Rodrigo Borgia già abbastanza noto per la sua sfrontata corruzione. Firenze, dopo la cacciata dei Medici nel 1494 e a seguito della perdita della sua maggiore colonia, il porto di Pisa, faceva di tutto per sopravvivere come Repubblica. Su e giù per la penisola, da Napoli alle Alpi, governanti e governati si sentivano minacciati.
Lo shock degli eventi in atto si registra anche nelle idee che Machiavelli esprime. Gli scrittori e gli intellettuali del tempo stavano soffiando sul fuoco di cambiamenti circa l’antica idea di “fortuna”, una forza capace di creare e abbattere gli stati, i popoli, le città e gli individui. Il concetto era una testimonianza del fatto che la capacità di governare la propria esistenza era sfuggita dalle mani degli Italiani. La politica e la storia improvvisamente li colpì facendoli come cadere in uno stato di sonnolenza, preda di forze irrazionali. Gli onesti ed i buoni erano in grave pericolo. Lo stesso Machiavelli dava grande importanza all’impatto della “fortuna” nella vita dei popoli, non soltanto nel “Principe”, ma anche nei “Discorsi su Livio”, nei suoi versi e in tutti gli altri scritti.
Machiavelli si fa conoscere all’inizio come l’autore di due poesie sull’amore composte intorno all’anno 1492, forse in onore di Giuliano de’ Medici, uno dei figli di Lorenzo il Magnifico. Queste composizioni fanno capire il tipo di istruzione che aveva avuto, un cultura impregnata di latino e di classici, anche se aveva studiato nozioni rudimentali di commercio e contabilità. Per un giovane ambizioso di fare carriera nella Firenze rinascimentale, ciò che contava veramente era lo studio dei classici, specialmente quelli romani, i quali aprivano la strada alla carriera legale, alla politica e spalancavano le porte anche della Chiesa.
Figlio di un poco noto avvocato che si dilettava coi classici, Niccolò nacque da una antica famiglia fiorentina, ma è molto probabile che le sue origini fossero illegittime, in quanto i suoi congiunti non erano qualificati ad essere eletti in cariche pubbliche. Questa condizione era un handicap sia dal punto di vista sociale che economico. Senza avere il diritto di accesso alle cariche pubbliche della città, non si poteva essere cittadini politici a pieno titolo. Si era destinati ad avere un rango inferiore, si correvano forti rischi in un giudizio in tribunale, le porte erano chiuse per fare un matrimoni di prestigio, anche perché tutti i matrimoni di un certo prestigio erano oggetto di attente contrattazioni. Machiavelli non riuscì mai ad affrancarsi da questa condizione inferiore originaria e le conseguenze si sarebbero avvertite nel suo acceso repubblicanesimo, soprattutto nella ironica, comica ed amara visione delle cose del mondo che egli avrebbe sempre portato con sé.
Suo padre, più che col suo lavoro di legale, sostentava la famiglia con i proventi che gli venivano da una piccola proprietà terriera. Niccolò, anche per questa ragione, venne istruito privatamente, si ritenne sempre povero e di modesta condizione sociale. Se si leggono i “Ricordi” di suo padre, una specie di diario domestico, si può dire che egli sia cresciuto in un ambiente familiare impregnato di scetticismo. Infatti egli omette sistematicamente ogni riferimento religioso in occasioni in cui la religione aveva un suo ruolo, com’è il caso di nascite, matrimoni e decessi. Una certa sfiducia nei preti aleggia in quelle memorie di famiglia. Anche Firenze, come Bologna, era una delle città più ferocemente anticlericali, una città nella quale l’eminente politico Gino Capponi ammoniva i suoi figli a non mettersi con i preti perché essi “sono la schiuma della terra”.
Il contemporaneo di Machiavelli, il frate domenicano Savonarola, una volta così si espresse in un sermone rivolto ai suoi concittadini: “Volete fare del male a vostro figlio? Fatelo diventare prete!” Lorenzo il Magnifico nel 1480, mentre stava acquistando un cappello per suo figlio tredicenne Giovanni, disse che Roma e il suo clero erano come un pozzo nero. Non è difficile, allora, capire perché Niccolò Machiavelli e molti suoi concittadini guardavano alla Chiesa ed alla religione con un occhio a dir poco distaccato e critico.
Poco si sa, comunque, dei primi anni di vita di Niccolò, almeno fino al 1498 allorquando all’età di 29 anni viene nominato vice cancelliere della città, con un lauto stipendio. Questa carica includeva anche quella di primo segretario dei “Dieci di balìa”, il corpo di magistratura dai poteri dittatoriali che reggeva la città in momenti gravi e a tempo determinato. Questi incarichi gli diedero una sicurezza economica e gli venivano unicamente dalle sue capacità culturali oltre che da legami con persone all’interno delle istituzioni. Poteva così essere in contatto giornaliero con i più importanti politici della città, uomini astuti, abili, che viaggiavano molto, tutta gente abbondantemente titolata dal punto di vista accademico ed in grado di manovrare le dolcezze e le brutalità della politica che avevano luogo nella penisola italiana.
I più abili di essi erano stati ambasciatori nelle principali corti d’Europa e Niccolò potè ricevere il migliore addestramento possibile dal punto di vista diplomatico, senza dimenticare la sua passione per la storia antica, principalmente quella romana. Il suo amore per la politica lo portò ad avere quel ruolo politico non senza avere prima ascoltato alcuni dei famosi sermoni che il rivoluzionario Savonarola usava tenere in città. Appena tre settimane prima che fosse nominato nel suo incarico il frate, infatti, era stato giustiziato ed egli scrisse in proposito una brillante analisi politica su di lui.
Per più di 14 anni, quindi, Machiavelli, e precisamente dal 1498 al 1512, fu intimo con chi deteneva il potere, scrivendo lettere, relazioni e rapporti, facendo domande, osservando dal vivo situazioni importanti. Dopo il 1502 fu assistente del Capo dello Stato di Firenze, il Gonfaloniere di Giustizia Piero Sederini, e fu l’artefice delle formazione di una nuova milizia cittadina. Ebbe incarichi di missione diplomatica presso varie ambasciate in Francia, Germania, Roma, incontrò il Re Luigi XII di Francia, l’Imperatore Massimiliano e il discutibile Cesare Borgia.
Tutto ciò finì nell’autunno del 1512 quando un colpo di stato fece cadere la Repubblica Fiorentina e provocò il ritorno dei Medici. Niccolò venne licenziato, imprigionato, torturato, perdonato ed esiliato nonostante la sua apparente innocenza. Costretto a non occuparsi di politica per la quale nutriva un grande amore, fece la cosa migliore che potesse fare in quelle condizioni: cominciò a scrivere di politica. Nel 1513 scrisse l’opera che gli doveva dare la fama, “Il Principe”, dando inizio poi alla stesura dei “Discorsi su Livio”.
“Il Principe” è un’opera che si caratterizza per una sorta di energia demoniaca, un’opera proteiforme nel senso che le opinioni dello scrittore sono variabili, mutevoli, modificabili, gettano le basi per il potere del principe ed allo stesso tempo cercano di demistificarlo. Machiavelli con grande abilità fa e disfa i suoi insegnamenti, andando a visitare il campo dei nemici del principe, che è quello dei repubblicani. Le copie del libro cominciarono a circolare nel 1516 con la dedica a Lorenzo dei Medici il giovane nella speranza di nascondere le sue simpatie repubblicane allo stesso tempo, più tardi, grazie alla doppiezza del contenuto del libro, poter sostenere di avere scritto il libro sotto le mentite spoglie di repubblicano. In effetti, desideroso di ritornare al governo, egli scrisse il libro prevedendo una possibile ricompensa col ritorno dei Medici.
Se il libro è stato giudicato immorale agli occhi dei suoi contemporanei, e per diversi anni ancora dopo, è stato perché Machiavelli dice pane al pane e vino al vino. Nelle vesti di studioso del comportamento politico, aveva avuto modo di verificare che l’uso della forza, “faceva” sempre la ragione, che gli stati perseguivano i loro interessi più spietati, che i papi praticavano con leggerezza la violenza, che una giusta causa poteva sempre essere trovata per giustificare la violenza come espediente per la soluzione dei problemi, che l’ambizione, la vigliaccheria, l’ingratitudine e l’ingordigia fiorivano alla meglio in politica. Mettendo da parte la morale convenzionale, Machiavelli prese il toro per le corna e decise di elencare una serie di precetti pratici, così come li vedeva lui, sui quali potessero basarsi i principi per avere successo in politica. Il suo terreno era la prassi, non la teoria astratta, ricavata dagli ideali.
Qualsiasi traduttore che si accinge a tradurre “Il Principe” si confronta con una grande difficoltà non solo per la natura scivolosa e anticonvenzionale dell’opera, ma anche perché Machiavelli fu uno scrittore davvero eccezionale, in quanto prendeva la sue parole ed i suoi punti di vista da una grande quantità di attività come dalla politica caricandoli con la conoscenza della storia romana e del mondo antico. Inoltre, egli sapeva come immettere la sua immaginazione letteraria e il suo acuto senso narrativo nella concezione della politica e della storia. Ciò significa che il libro esercita sempre un forte fascino su ogni traduttore, seducendo le sue ambizioni. La cosa strana, comunque, è che anche se la lettura del “Principe” nel suo contesto storico non aiuta a gettare luce sulla comprensione dell’opera, la stessa sarà sempre letta più con un occhio al mondo del lettore che a quello dei giorni in cui Machiavelli visse ed operò. Ciò significa che il contesto del lettore avrà la meglio su quello dell’autore. Il che fa capire e spiega perché “Il Principe” è un’opera sempre moderna ed attuale, anche alla luce dei cambiamenti del mondo e della politica dovuti al tempo ed agli uomini.
(Traduzione e adattamento da: “Princely charm”, by Lauro Martines, TLS, September 2005,
(a cura di galloway)