Cacciatore di mafiosi
Saggistica
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Uomini contro uomini
Giovanni Falcone sosteneva che la mafia, prima di tutto, è un fenomeno umano, una lotta di uomini contro altri uomini, e che solo inquadrandola così si può combattere. Istituzioni contro malavita, uomini di legge contro "uomini d'onore", cacciatori contro prede. Siamo all'indomani delle stragi di Capaci e via D'Amelio. La mafia ha dichiarato guerra allo Stato e quest'ultimo è pronto a prendersi la sua rivincita. Nella Procura di Palermo, guidata da Giancarlo Caselli, opera come sostituto procuratore l'autore di questo libro, Alfonso Sabella, passato alla storia come il cacciatore di mafiosi. Leoluca Bagarella, i fratelli Giovanni ed Enzo Brusca, Vito Vitale, Pietro Aglieri, nomi che fanno accapponare la pelle soltanto a sentirli pronunciare, cadono uno ad uno sotto i colpi delle serrate indagini dello zelante magistrato. Il suono delle manette che continuano a scattare mette in ginocchio Cosa Nostra, facendo crollare il mito dell'inafferrabilità dei boss. Uomini legati alla stessa organizzazione ma spesso molto diversi tra loro, a volte alleati, a volte in contrasto; stesso nemico, lo Stato, ma discordi visioni sul modo di contrastarlo; medesimi fini, ma pareri divergenti su come perseguirli. Differenze che portano ad un diverso modo di approcciarsi all'indagine a seconda dell'obiettivo. Ogni caccia ha la sua storia, per ogni preda cambiano tempi, luoghi, metodi. A volte ci si serve di qualche soffiata, altre ci si affida a pedinamenti e intercettazioni ambientali, in alcuni casi si fa uso di sofisticate tecnologie, in altri si risolve soltanto grazie ad un guizzo, un'intuizione illuminante, un'idea originale. Denominatore comune, tuttavia, è la necessità di entrare nella mente del latitante di turno, capire cosa pensa, come e dove si muove, quando e con chi entra in contatto, parlare la sua lingua, saper collocare nel giusto contesto ogni frase, ogni parola, ogni gesto, ogni azione. Un lavoro difficile, certosino, sfiancante, reso ancora più arduo dalla resistenza di un territorio spesso (volente ma soprattutto nolente) connivente, zeppo di sentinelle, piegato alla legge dell'omertà. Scogli davanti ai quali Sabella ha spesso dovuto decidere, nei limiti della legge ovviamente, di giocare sporco, forte degli insegnamenti recepiti dai cacciatori di Bivona e dintorni che, subito dopo la laurea, quando muoveva i primi passi nel mondo della giustizia, si è trovato a difendere come avvocato da accuse di frodo. Familiarità con il territorio, minuziosità nel seguire le tracce, conoscenza delle abitudini, dei rifugi, delle necessità della preda, capacità di prevederne spostamenti e reazioni, grande pazienza, sono le basi per una buona e proficua caccia. Nozioni che lui, animalista convinto, si è trovato a mettere in pratica nell'inseguimento non di lepri, pernici, cinghiali, ma di spietati boss mafiosi. E quando i metodi "convenzionali" non sono stati sufficienti, Sabella è dovuto passare a sistemi meno ortodossi, come quello della "terra bruciata". Così come i bracconieri incendiano la vegetazione in cui vive la selvaggina, costringendola ad uscire allo scoperto, così l'autore si è trovato a volte nella necessità di fare il vuoto attorno alla sua preda, bruciando gli appoggi, interrompendo i fili, staccando i collegamenti, fino ad isolarla. Sabella racconta anni dolorosi per lui, per l'intera procura, per tutta la nazione, di fatica fisica e mentale, di bombe, spari, sirene, di sangue e manette, di paura, di coraggio, di orgoglio. Anni che hanno portato a grandi vittorie, a catture eccellenti, ma anche a sconfitte, ritardi, rimpianti, primo fra tutti il rimorso, che diventa onta, macchia, vergogna, di non aver fatto in tempo a salvare la vita al piccolo Giuseppe Di Matteo. Usando uno stile da cronaca, ma tirando fuori, a tratti, una vena quasi romanzesca, il magistrato agrigentino ci porta sui luoghi dove avvenivano le riunioni tra i pezzi grossi di Cosa Nostra, negli insospettabili rifugi che ne ospitavano la latitanza, nei bunker dove venivano nascoste armi bastanti a sostenere una vera e propria guerra, nei casolari apparentemente abbandonati dove avvenivano brutali torture, efferate esecuzioni, abominevoli occultamenti di cadavere. Per ogni boss viene poi raccontata la storia personale, vengono eviscerati carattere, modus operandi, piccole e grandi manie, reazione all'arresto e approccio nei confronti della possibilità di diventare quello che per la legge si chiama "collaboratore di giustizia" e per la mafia "infame". "«Vede, dottore. Quando voi venite nelle nostre scuole» dice proprio così, nostre scuole, «a parlare di legalità, di giustizia, di rispetto delle regole, di civile convivenza, i nostri ragazzi vi ascoltano e vi seguono. E, magari, tornano a casa a riferire ai genitori quelle belle parole che hanno sentito. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro, una casa, assistenza economica e sanitaria, a chi trovano? A voi o a noi? Dottore, trovano a noi. E solo a noi. Lei è siciliano e lo sa bene che è così. Cosa collaboro a fare, allora? Solo per farvi arrestare qualche altra decina di padri di famiglia o per farvi trovare qualche pistola arrugginita? Cosa potrebbe cambiare se vi dicessi quello che volete sapere da me?». Non so cosa replicare. Ha ragione. Da vendere. Negli anni precedenti l'azione delle istituzioni a Palermo si era limitata, praticamente, alla repressione. Magistratura e forze di polizia avevano tagliato e, in qualche zona, sradicato le «male erbe», ma nessuno aveva piantato qualcosa al loro posto. Lo Stato non era riuscito a riappropriarsi del suo territorio e, per esempio, le scuole erano ancora le «loro», come «loro» era la sanità, l'assistenza sociale, l'attività commerciale e produttiva." Anni logoranti, che hanno portato l'uomo a dire basta, a lasciare la procura di Palermo esausto ma vincitore per dedicarsi ad altro, per continuare altrove una carriera a cui però, denuncia infine con rammarico, vengono tarpate le ali, perché i meriti a volte non bastano se non si fa parte di questa o quella "corrente", se non si va a bussare alla porta giusta, se si cerca di lavorare all'insegna dell'indipendenza. "«Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande» diceva Giovanni Falcone. I tempi sono certamente cambiati. Nel mio caso è bastato isolarmi, fare un po' di terra bruciata intorno a me e quando, qualche anno dopo, si è presentata l'occasione favorevole, anche screditarmi, «mascariarmi» come si dice nella mia terra. Nell'indifferenza o, addirittura, con la complicità, spero inconsapevole, di molti miei colleghi. Sono pur sempre nato e ho a lungo vissuto a poche decine di chilometri da contrada Kaos di Porto Empedocle, a meno di un'ora di macchina dal famoso pino di Luigi Pirandello e ho persino studiato in un liceo intitolato a lui. E allora perché stupirsi dell'ennesimo controsenso siciliano. Siamo proprio sicuri che quello del predatore che diventa preda, del cacciatore... cacciato sia veramente un paradosso?"