Vita di Galileo
Saggistica
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scienza contro fanatismo
"E la forza non può fare che un uomo non veda ciò che ha visto".
Una lettura che mi incuriosiva da diverso tempo, questa "Vita di Galileo" di Bertolt Brecht, e che non ha deluso le mie aspettative. Un'opera teatrale in quindici scene che coprono un arco temporale compreso tra il 1609 e il 1637, una buona e importante fetta della vita di Galileo Galilei, uomo di Scienza tra i più importanti della Storia. La sua vicenda è nota e il grande drammaturgo tedesco la immortala - tra Padova, Firenze, Roma e infine di nuovo Firenze - in uno dei suoi lavori più noti e importanti.
La figura del protagonista viene ritratta da Brecht in tutta la sua umanità, forte e fragile allo stesso tempo (si pensi a quando, nella parte conclusiva, egli ammette di aver temuto di affrontare il dolore fisico, motivo per il quale ha abiurato dinanzi all'Inquisizione), prestandosi probabilmente a diverse interpretazioni, anche alla luce del particolare contesto storico in cui queste pagine furono scritte (la prima versione si colloca nel periodo a ridosso dello scoppio della seconda guerra mondiale). Dunque, un testo in un certo qual modo complesso e non semplice da analizzare; esso, oltre a dar prova della grandezza drammaturgica di Brecht, mette in luce il contrasto - tanto per cominciare - tra ragione e fede, scienza e fanatismo, libertà di pensiero e censura.
L'opera offre anzitutto una lettura di piacevole scorrevolezza, ricca com'è di dialoghi e di personaggi, tra cui spicca in modo particolare quello del giovane Andrea Sarti, figlio della governante che, in principio, entra in scena addirittura giovanissimo. Senza dubbio, una figura singolare, quella di Galileo, la cui rappresentazione - come scrisse lo stesso autore nelle sue note riportate alla fine dell'edizione Einaudi che ho avuto occasione di leggere - "[...] non dovrebbe mirare a stabilire l'immedesimazione e la partecipazione del pubblico; si dovrebbe anzi lasciare il pubblico libero di assumere piuttosto un atteggiamento di stupore, di riflessione, di critica."
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La verità sotto il mantello
Dramma in quindici scene, "Vita di Galileo" riprende un pezzo della vita di Galilei - in particolare dal momento della "scoperta" del telescopio e della conseguente conferma della teoria copernicana, e di tutto ciò che ne consegue - con lo scopo di scandagliare la figura dello scienziato: un uomo che deve combattere con l'atavica riluttanza (per usare un eufemismo) dell'uomo nell'accettare il cambiamento, guidato in questo senso dall'interesse o dalla paura.
Certo l’uomo si è evoluto, nel corso degli anni; non ci troviamo nella stessa condizione in cui si trovava Galileo, in un mondo dove gli uomini di scienza erano costretti a celare le proprie scoperte per non irritare i potenti (la Chiesa, in questo caso). Ma è interessante riflettere su quanto la storia narrata da Brecht fosse un modo per rappresentare tempi ben più recenti: Galileo è, infatti, oltre che simbolo supremo della figura dello scienziato e dei suoi conflitti, anche rappresentazione di quei tedeschi costretti ad “abiurare” le proprie idee politiche, artistiche e intellettuali durante l’orrore nazionalsocialista, nella Germania dal ’33 in poi. Quando Brecht, per bocca del suo protagonista, afferma: “Quando attraversi la Germania, riponi la verità sotto il mantello”, non si può non riconoscere in queste parole un avvertimento che trascende i secoli e scorre fino a quell’epoca oscura, così lontana eppure così vicina, a noi e a Galileo. Lo scienziato fiorentino ci pone di fronte lo stesso dilemma di quei tedeschi della cui esistenza forse non ci siamo mai curati, quei tedeschi che pur di non perdere la vita hanno dovuto adattarsi, sottomettersi; col nostro sguardo freddo distante decenni da loro, spesso pensiamo che avrebbero dovuto comportarsi da eroi, opporsi all’orrore in cui erano immersi, morire per una giusta causa; così come gli allievi di Galileo s’aspettavano che questi accettasse l’esecuzione per “mantenere il punto”, per dare il via alla rivoluzione, per dimostrare che l’uomo che è nel giusto non si piega. Ma chi garantisce che la rivoluzione avvenga e che la morte non sarà invano?
Oltretutto, chi può dire quale sarebbe la nostra reazione di fronte agli strumenti di tortura? Magari anche noi ci saremmo trasformati in farabutti, pur conoscendo la verità e avendo la consapevolezza che, nel mondo intorno, ci sia qualcosa di profondamente sbagliato. Magari saremmo pronti ad accettare nuovamente il cosmo tolemaico, o annuiremmo con convinzione quando qualcuno, con una lama puntata alla nostra gola, cercherà di persuaderci che la terra è piatta.
La storia di Galileo era attuale al tempo di Brecht ma lo è anche ora: perché l’uomo non cambia mai, è sempre soggetto alle stesse imperfezioni e si rende colpevole degli stessi errori: sempre “bisognosa di eroi” e dunque perennemente in lotta per scrollarsi di dosso la propria miseria.
“Statemi a sentire: chi non conosce la verità è soltanto uno sciocco; ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un malfattore!”
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La scienza, la società, l'uomo
Dramma in quindici scene, compendia la vita di Galilei nel suo essere scienziato consegnandolo perfettamente aderente alla realtà storica, in modo quasi oggettivo, creando però un personaggio ben caratterizzato e al tempo stesso difficile da inquadrare nelle categorie del bene e del male.
La lettura del testo, scorrevole e apparentemente semplice, ha il merito di rievocare la nota vicenda umana dello scienziato senza sovraccaricarlo di inutili ideologismi, senza fare di lui un eroe, aprendo al contempo infiniti dilemmi. L’uomo Galilei è semplicemente un uomo che entra in scena lavandosi a torso nudo, che fa colazione, che ride e scherza con il figlioletto della sua domestica, che da anni insegna il sistema tolemaico ma è sempre in bolletta. È un uomo che burla il potere con un cannocchiale o che lo raggira assecondandone la boria mentre è perfettamente consapevole della frattura che le sue scoperte andranno a generare. Eppure la dicotomia fede e dubbio che alimenta la scienza pare non toccarlo, laddove la scienza smentisce i dogmi, lui non gioisce ma appura la supremazia della ragione senza per questo farsi tronfio di alcuna vittoria, anche quando il Collegio romano, istituto pontificio di ricerche scientifiche, conferma le sue scoperte. L’uomo, se non usa la ragione, in fin dei conti, è incapace di leggere il cielo quanto la Bibbia; e allora perché quello stesso Galileo che dopo essere stato intimato a non minare la fiducia della Chiesa in seguito all’inserimento della teoria copernicana nell’Indice dei libri proibiti, capace di tali parole: “No, no, no. La verità riesce ad imporsi solo nella misura in cui noi la imponiamo; la vittoria della ragione non può essere che la vittoria di coloro che ragionano”, abiura? E così troviamo infine il personaggio chiedersi quale sarà il giudizio dei posteri mentre sentenzia sull’evidenza che la pratica della scienza non possa andare disgiunta dal coraggio e che l’uomo di scienza dev’essere capace di reagire all’intimidazione del potente. È fuor di dubbio anche per il vecchietto ormai costretto al domicilio coatto, che però, abilmente, continua a tramare facendo passare la verità oltreconfine, sotto un mantello…
Il testo è impreziosito dalle note Sulla “Vita di Galileo” che permettono di inquadrare l’opera rispetto alle sue tre stesure e alla biografia del drammaturgo e poeta tedesco, rendendo questo gioiello letterario un testo di riflessione etica sul ruolo della scienza nella società, donandoci allo stesso tempo un irrisolto personaggio di straordinaria efficacia, capace di trascendere il tempo.
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Sventurata la terra che ha bisogno di eroi
E’ un Galileo che trabocca vitalità ed entusiasmo il personaggio che apre questa opera teatrale: gioioso, appassionato, inebriato dall’intuizione di una nuova verità e impaziente di condividere le sue scoperte con chiunque abbia curiosità e mente, dal figlio della domestica al lattaio. La scienza è energia positiva, dinamica di possibilità, libertà: di osservare con i propri occhi, capire e far vagare il pensiero oltre le barriere imposte dal senso comune o dall’autorità, sulla volta del cielo così come sui meccanismi che regolano la terra. La sua missione è il bene dell’umanità, non solo nella concretezza delle scoperte ma soprattutto nell’attitudine al dubbio.
Ma poi la scienza si scontra con la realtà del mondo e i tavoli del potere. E le cose cambiano. Lo sa bene Brecht che scrive quest’opera fra il 1938 e il 1955, in un momento storico in cui la scienza è piegata, snaturata dal nazismo a mezzo di dimostrazione delle proprie tesi razziali e dalla guerra a mezzo di distruzione massiva.
Infatti, pagina dopo pagina, l’entusiasmo di Galileo scema, deluso da chi non vuole vedere per non discutere i dogmi su cui ha basato le proprie certezze, sconfitto dal potere che fomenta l’ignoranza e la superstizione perché su di esse fonda la garanzia dei propri privilegi, piegato dalla paura. La sua. Paura del dolore fisico, della tortura, della morte. Perché Galileo è solo un uomo con le sue debolezze, ama il cibo gustoso e il buon vino, ama i libri e le sperimentazioni, ama vivere. Non ha il coraggio degli eroi. E abiura.
Ma sventurata è la terra che ha bisogno di eroi per convincersi di essere in grado di pensare, di conoscere, di aspirare a cose grandi. Sventurati siamo noi tutti quando ci facciamo massificare dalla forma di potere attuale, più mediatico che religioso, che ci vuole altrettanto ignoranti e appiattiti.
Il teatro di Brecht mostra il suo stretto collegamento con la realtà sociale e innesca interrogativi forse diversi da quelli del 1950, ma significativi tanto ieri quanto oggi. E lo fa con un testo che si legge tutto d’un fiato, piacevole e a tratti anche divertente, vivacissimo grazie alla forma del dialogo e capace di delineare un Galileo ricco e profondo, che si fa simbolo di un’umanità intera.
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Prestate fede ai vostri occhi
Cosa c’è dietro l’abiura che nel 1633 Galileo Galilei pronuncia davanti all’Inquisizione? Niente, solo ciò che si vede e che è immediatamente comprensibile senza dietrologie: semplice paura del dolore fisico.
Bertolt Brecht ci consegna in questo dramma un ritratto realistico e materiale dello scienziato pisano che dialoga con il popolo, è afflitto da preoccupazioni economiche, non è privo di scaltrezze e senso pratico, beve vino, apprezza la buona tavola, scrive le sue opere in volgare anziché nel latino dei dotti, strapazza e si fa strapazzare dalla sua governante, ma soprattutto ha davanti a sé l’evidenza di una nuova era destinata a cambiare il mondo e tuttavia deve dissimulare l’eccitazione e barcamenarsi tra pericoli, trappole e fastidi di ogni genere.
Nel corso delle quindici scene, dove c’è spazio anche per battute di spirito e passaggi divertenti, si scivola dalla commedia al dramma, per giungere infine ad un interrogativo sul ruolo degli scienziati nella società.
Brecht prima ci fa familiarizzare con il sanguigno scienziato accompagnandoci nel tinello di casa sua, lontano da cattedre, muffa e polvere. Poi ce ne mostra la grandezza, soprattutto nella rivoluzionarietà delle sue scoperte e nella sua lotta senza speranza contro le forze della conservazione (Galilei: “Signori, ve ne prego in tutta umiltà: prestate fede ai vostri occhi”. Matematico: ”Caro Galilei, ho ancora l’abitudine, anche se possa apparirvi antiquata, di leggere ogni tanto Aristotele: e, ve ne assicuro, quando lo leggo, credo ai miei occhi!”). Facciamo il tifo, trepidiamo, ci immedesimiamo, vorremmo che andasse a Roma e li stendesse tutti e poi, di fronte al suo cedimento, ci rifugiamo nel complottismo (l’avrà fatto per continuare a studiare! Per continuare a scrivere libri!) e rifiutiamo di usare gli occhi, rinnegando il suo insegnamento.
Bertolt Brecth vuole dirci che l’umana debolezza di Galilei è gravata di una grande responsabilità. La colpa di cui Galileo si è macchiato abiurando, secondo il grande drammaturgo, è di aver svuotato la scienza del suo significato sociale, di averla rinchiusa nel recinto delle dispute tra specialisti, fuori da ogni controllo e coinvolgimento popolare, e dunque libera di accettare ogni condizionamento e compromesso con il potere.
Brecht scrive la terza e ultima versione di Vita di Galileo dieci anni dopo il lancio della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki, con il mondo diviso in due blocchi contrapposti, ognuno dei quali ha costruito un potente apparato scientifico, militare e accademico per affermare la propria supremazia sul mondo. In Galileo egli vede l’autore del peccato originale che pesa sulla coscienza di ogni successiva generazione di scienziati. “La bomba atomica, come fenomeno tecnico non meno che sociale, è il classico prodotto terminale delle sue conquiste scientifiche e del suo fallimento sociale” (Bertolt Brecht, Note alla Vita di Galileo).
Nella prima versione, completata in esilio nel 1938, Brecht rappresenta l’abiura di Galileo come un’astuzia per poter continuare a lavorare senza essere molestato dai suoi persecutori . Si tratta di un pensiero rivolto agli antinazisti rimasti in patria, perché continuino a vivere senza farsi scoprire sotto Hitler. Ma dopo gli orrori della guerra e in piena corsa verso il baratro delle superpotenze vincitrici, Brecht ci toglie ogni speranza.
L’ex allievo Andrea ancora si illude e dice al suo maestro: “Volevate guadagnar tempo per scrivere il libro che solo voi potevate scrivere. Se foste salito al rogo, se foste morto in un’aureola di fuoco, avrebbero vinto gli altri”.
E Galileo: “Hanno vinto gli altri. E un’opera scientifica che possa essere scritta da un uomo solo, non esiste”.
“Ma allora perché avete abiurato?”
“Ho abiurato perché il dolore fisico mi faceva paura”.
Con l’abiura, Galileo si conquista la possibilità di continuare a studiare per assecondare una sua personale voglia, un suo privato vizio e di ciò prova vergogna, consegnandosi sconfitto alla storia: “Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità.”