Sarri prima di Sarri
Saggistica
Editore
Recensione Utenti
Opinioni inserite: 1
Il travet
Noi italiani siamo un popolo di eroi, si sa, e di poeti, di santi, di navigatori.
Poi, in special modo nel periodo in cui si disputano i campionati mondiali o europei di calcio, che catalizzano l’attenzione dei più, vestiamo tutti i panni, o meglio la tuta di allenatori o commissari tecnici della nazionale.
Almeno vorremmo esserlo, fermamente convinti come siamo di essere gli unici capaci di scegliere con cura e per bene undici ragazzi, allenarli e disporli in campo al meglio e portarli senza indugio all'inevitabile trionfo, grazie alla bontà dei nostri schemi e dalla nostra impareggiabile sagacia calcistica. Dopo tutto, che ci vuole? Il calcio è materia semplice, basta capirne, e tutti ne capiamo.
È questo il bello del calcio: nella sua semplicità sta il suo fascino.
Se un alieno in vena di esplorare usi e costumi dei terrestri si trovasse a sorvolare uno stadio durante una qualsiasi partita di pallone, dopo poco capirebbe perfettamente come funziona il tutto, qual è il fine ultimo del gioco. Dopo novanta minuti, avrà assimilato alla perfezione il concetto di calcio d’angolo, punizione diretta, penalty e il famigerato fuorigioco, una delle regole più semplici da capire guardandola anziché spiegare a parole. Qualche altro tempo ancora, e inizierà a pensare che se quei terrestri si disponessero in maniera diversa, ne otterrebbero maggiori benefici…guarda caso.
Se per sua sfortuna, l’alieno avesse sorvolato invece un campo di baseball, avrebbe sicuramente chiesto lumi all’algoritmo del computer di bordo, convinto di avere a che fare con una civiltà adusa a complicarsi inutilmente l’esistenza.
Il calcio è bello perché è semplice, possono giocarci tutti, con qualsiasi struttura fisica, alti, bassi, magri, è nella sua natura polivalente, oltretutto è una metafora dell’esistenza.
La palla è rotonda come il ciclo della vita, incontri chi è leale e chi simula e si tuffa sperando in un vantaggio truffaldino, chi mena e chi tira indietro la gamba, chi comanda il gioco e chi lo distrugge, si segna un gol e poi si riparte, una rivincita è sempre possibile.
Il calcio è chiaro, attrae e incanta come l’acqua di sorgente, neanche devi fare fatica a chinarti per giocare, la palla la prendi con i piedi, anche se devi comunque usare la testa.
C’è chi difende, chi ragiona, chi concretizza, ma si vince e si perde tutti insieme, è un inno alla solidarietà, alla compartecipazione, all'unione, al tutti per uno e uno per tutti.
Il calcio è sentimento, è euforia e rabbia, è festa e commozione, è emozione languida e intensa e tristezza indescrivibile, il calcio perciò è amore.
Solo l’amore presenta tutte queste stridenti caratteristiche in contrapposizione tra loro.
Ci giochiamo un po’ tutti, al calcio, ma giocarlo bene, per agonismo e professione, richiede freschezza atletica; gestire gli atleti, allenarli, disporli in campo secondo schemi e idee personali, si può fare invece a prescindere dall’età.
Questo è il motivo per cui ci sentiamo tutti allenatori, come Dio comanda.
Che cosa siamo veramente disposti a fare per divenire sul serio un allenatore di pallone?
Per chi ha giocato, anche in serie semiprofessionistiche, l’iter è agevolato, talora anche obbligato, al termine dell’agonismo.
Per chi invece, al più, ha giocato per mero divertimento nei dilettanti e nei campionati minori, e che per sbarcare il lunario svolge tutt'altra attività, una famiglia non si mantiene, infatti, correndo sui campetti in terra battuta delle periferie, intraprendere una carriera di allenatore è assai difficile, instabile, incerta partendo da zero, dall’abc, senza avere un retroterra professionistico alle spalle.
Quanti avanti negli anni sarebbero davvero disposti a lasciare un lavoro stabile e sicuro, magari anche importante e ben remunerato, con cui mantenere più che dignitosamente una famiglia, per intraprendere l’aleatoria carriera di allenatore di calcio? Francamente, nessuno sano di mente.
Salvo che…vedete, il calcio è amore, come dicevo sopra. Omnia amor vincit.
“Sarri prima di Sarri”, questo grazioso, piccolo volumetto, ben scritto e preparato con cura e dedizione, a firma di Francesca Muzzi, in estrema sintesi è un pezzo di rara maestria giornalistica: perché fa poesia della cronaca.
Narra con precisa conoscenza di dati e di cronache calcistiche dei campionati minori la bella avventura di un normale travet di provincia, un toscanaccio nato per caso a Napoli, la Napoli operaia di Bagnoli, giramondo per seguire famiglia e professione, un modesto pallonaro che giochicchiava da difensore, pure scarso, in una squadretta senza tante pretese.
Diviene “da grande” un bancario, anzi di più, un funzionario di banca: alle soglie della mezza età ha famiglia, ha professione, ha tutto quanto può desiderare, compreso l’hobby di allenare nei campionati minori con alterna fortuna.
Si badi, è un funzionario di banca, quindi non un piccolo travet, un impiegatuccio modesto e mal pagato, che conduce una vita estremamente monotona e priva di gratificazioni, magari un frustato.
Affatto: è solo un uomo perdutamente innamorato di un amore più grande di lui.
Quest’amore gli chiede di sorridergli: e per amore, solo per amore, quel toscanaccio rispose.
Non è un esaltato, non è fuori di senno: è un uomo saggio e maturo, innamorato del gioco più bello del mondo. Fa quello che nessuno farebbe: lascia quello che ha non per inseguire qualcosa di più, ma semplicemente per vivere quello che ama, costi quello che costi.
Inizia dalla gavetta, la gavetta quella vera, vera perché nera e affatto gratificante, quella che se non ti uccide ti fortifica, quella dove non vinci ma impari.
Una vita di fatica, delusioni, rospi ingoiati a forza, sangue, sudore e lacrime.
Esoneri, perché il calcio come tutti gli amori sa essere crudele nel profondo, ti scaccia quando finisce l’amore, ti umilia, ti ferisce.
Ti riduce uno straccio, ti denigra, ti porta alle soglie della miseria, devi ingoiare l’orgoglio e chiedere un ingaggio per sbarcare il lunario.
Per amore, solo per amore: perché non scendi in campo, ma è come se lo facessi, perché schieri le tue squadre come credi, e credi con fede cieca e assoluta nei tuoi schemi, provi solo amore senza fine per il tuo disegno, per i tuoi schemi.
Sei il solo fermamente convinto che toccando massimo a due tocchi, gli avversari corrono a vuoto e non feriscono, sei il solo perfettamente conscio che è il pallone che deve volare e non i ragazzi che ali ai piedi non hanno.
Certo, non è né un santo né un uomo facile, neanche un tipo che le cose le manda a dire, ha le sue fisime e le sue fissazioni, pretende per esempio cocciutamente che gli venga riservata un’aria di sosta solo per la sua auto fuori dal campo, quello spazio e non un altro, assolutamente quello, se no non allena.
Tuttavia, allena con passione, è un uomo con la coerenza di coltivare la sua passione, costi quello che costi. Non allena per soldi, o per la gloria, allena perché ama quello che fa, ne è pervaso nell’intimo, e per chi ama non esiste fatica o sacrificio che ti distolga dal tuo amore.
Per amore, solo per amore, e semplicemente e solamente con la forza e l’energia di un grande amore, un banale travet di provincia diviene Maurizio Sarri.
Maurizio Sarri, soprattutto, non l’allenatore, ma l’uomo, un uomo coerente e di valori che per amore, solo per amore, ha lasciato una stabile sicurezza di vita per allenare lo Stia e la Faellese, la Cavriglia e l’Antella, la Valdema e il Tegoleto; il Sansovino, la Sangiovannese, il Pescara e l’Arezzo. E ancora, anni e anni di fatiche con Avellino, Verona, Perugia e Grosseto; l’Alessandria e il Sorrento, fino alla storia d’oggi, l’Empoli e il Napoli.
Il Maurizio Sarri, l’allenatore che ha vinto l’Europa League con il Chelsea e lo scudetto con la Juventus, non è che una conseguenza, una logica conseguenza.
Quello che vale, è il Sarri prima di Sarri: Francesca Muzzi lo sa, lo ha avvertito da subito con rara sensibilità giornalistica, è andata oltre la cronaca, ne ha scritto con semplicità e rigore, direi con passione. E ne ha fatto poesia, sempre si fa poesia quando si parla di amore. E se ne scrive.