Letteratura palestra di libertà
Saggistica
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Perché scrivere. Perché leggere.
Titolo più indovinato, per l'autore di “1984” e “La fattoria degli animali”, non poteva esservi.
Si tratta di una raccolta di dodici diversi scritti (alcuni dei quali pubblicati su giornali e periodici di metà '900) che provano a definire il senso della letteratura attraverso l'influenza che essa ha sugli individui e la società. Ma anche, all'opposto, quella che la società ha sulla letteratura, in una sorta di ciclo continuo: per questo Orwell non disdegna di analizzare gli intenti perseguiti da alcuni grandi scrittori del Regno Unito o da loro singole opere.
Azzeccato il primo capitolo, “Ricordi di libreria”: si tratta di una esilarante introduzione sulle diverse tipologie di “consumatori” di libri, che Orwell può descrivere in virtù di una passata esperienza di commesso di libreria.
Nei cinque articoli successivi, lo scrittore di origine bengalese si misura rispettivamente con Charles Dickens, Henry Miller, Ruyard Kipling, Thomas S. Eliot e Graham Greene. Le riflessioni su Dickens risultano particolarmente interessanti: Orwell spiega perché non sia un caso l'interesse di questo autore per l'infanzia, e come esso si ricolleghi ad una certa visione della società; sebbene Dickens sia a digiuno di determinate dinamiche sociali – ci dice l'autore – egli è tuttavia un uomo di fortissimo senso morale, ed è questo che già ai suoi tempi ne fa un autore amato sia dalle masse che da un tipo di lettore colto.
Rilevante, per capire l'atteggiamento di Orwell nei confronti della letteratura, il settimo capitolo, su quelli che egli chiama “buoni brutti libri”: essi, in quanto testi senza pretese che però colgono l'universale, sopravviveranno a quelle opere grandi che tuttavia sono destinate ad “invecchiare male”.
“Libri contro sigarette” dimostra come la passione per la letteratura non sia poi così costosa: è evidente, dice Orwell, che la scarsa propensione alla lettura nel Regno Unito è legata ad altre motivazioni.
Molto bello il capitolo su “La politica e la lingua inglese”, che analizza con una certa sottigliezza la “decadenza” di un linguaggio: esso è quasi un'introduzione alle restanti parti del libro, laddove l'analisi sulla comunicazione politica è il preludio alla successiva presa di posizione di George Orwell contro ogni totalitarismo.
Gli ultimi tre capitoli sono dedicati allo scrivere e – udite, udite! – al recensire. Il primo, infatti, traccia un quadro (venato di umorismo) del recensore di professione, ed arriva alla conclusione – sicuramente apprezzabile per qualcuno tra noi - che è meglio dedicare pochissimo spazio alle recensioni negative e invece dilungarsi per i libri che lo meritano (almeno 1000 parole, dice Orwell), così da poterne sottolineare efficacemente l'importanza.
I capitoli finali, “Perchè scrivo” e “Lo scrittore e il Leviatano” sono assolutamente irrinunciabili per comprendere le motivazioni alla base della scrittura di George Orwell e quanto i contenuti delle sue opere siano stati condizionati dalla contingenza storica e sociale: forse, dice lo stesso autore, di lui si sarebbe parlato come scrittore dedito al naturalismo se alcuni avvenimenti – la guerra civile spagnola più d'ogni altro – non l'avessero portato ad individuare un preciso intento nella sua produzione letteraria.
Mi piace terminare con una nota curiosa, citando due periodi ampiamente dimostrativi della falsa suggestione che ci coglie quando riteniamo di vivere tempi degradati; i problemi, in realtà, si ripropongono nel tempo e alle varie latitudini:
“Se il nostro consumo di libri è ancora basso come un tempo, riconosciamo almeno che questo succede perché leggere è un passatempo meno appassionante delle corse dei cani, del cinema o del pub, e non perché i libri, comprati o presi in prestito, costino troppo.”
“Un uomo può darsi al bere perché si sente fallito, e poi fallire ancor più completamente perché beve. Alla lingua inglese sta succedendo qualcosa di molto simile: diventa brutta e imprecisa perché i nostri pensieri sono sciocchi, ma la sciatteria della nostra lingua ci rende più facile nutrire pensieri sciocchi.”