Le Bacchidi
Saggistica
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Teatro antico
Se non fosse stato per un Gruppo di Lettura a cui ho preso parte nei mesi scorsi, a me non sarebbe neanche lontanamente passata per la testa l’idea di rispolverare il buon vecchio T. Maccio Plauto. È stata, in definitiva, una lettura interessante che mi ha rievocato gli anni della scuola, quando questo autore si studiava per letteratura latina.
È da allora, infatti, che mi è rimasta impressa la grande vivacità linguistica (dai neologismi ai doppi sensi, senza tralasciare le battute ben colorite) come caratteristica distintiva del teatro plautina, e infatti nelle “Bacchidi” se ne trova ampia conferma. Il plurale del titolo si riferisce a due sorelle etère, le quali tuttavia non sembrano essere le protagoniste dell’opera in quanto la scena viene presto dominata da personaggi maschili ben precisi, anzitutto i due giovani innamorati e il servo scaltrissimo. L’inizio vero e proprio della commedia risulta perduto e di esso la tradizione ha conservato una trentina di versi piuttosto mutili. Il modello è indubbiamente greco: il “Dis exapatòn” di Menandro, a cui il testo di Plauto, in generale, si mantiene fedele, non rinunciando però a una rielaborazione a tratti contraddistinta da grandi libertà (si pensi anche alla mancanza del coro, elemento invece fondamentale nel teatro greco).
Da un certo punto in poi, forse a partire dal terzo atto, i ritmi divengono più veloci e pressanti e la trama, con il suo intreccio certo complesso, entra nel vivo; la figura dello schiavo furbo e ingannatore (una costante della commedia plautina) non può non andare a segno, rivelandosi molto apprezzata nonché abbastanza divertente: nel suo significativo monologo all’interno del quarto atto Crisalo (o Rubaloro, a seconda delle edizioni in traduzione) paragona se stesso addirittura a Ulisse (e non solo) e la sua impresa truffaldina all’espugnazione di Troia. Molto importante anche il personaggio del pedagogo che, ovviamente, finisce per ammonire a vuoto e il quinto e ultimo atto dimostra che giovani e anziani (in questo caso, figli e padri), alla fin fine, non si discostano affatto nei loro comportamenti. La questione educativa, pertanto, emerge in modo chiaro da questo testo.
Lettura scorrevole e piacevole, forse non sempre pienamente spassosa; sebbene forse non si tratti di una delle migliori opere di Plauto, induce a leggere (o rileggere) anche altro di questo autore.
Indicazioni utili
Bacchae bacchanti
Stupisce leggere Plauto. Non per contenuti profondi, acutezza sottile, ma per la vivacità di un latino che è pulsante, distante da tabelle grammaticali, vincoli sintattici. E' una lingua viva, ardente, riflesso di una società romana lontana dai palazzi del potere, dalle convenzioni religiose o politiche. E' una commedia che ha come sfondo le piccole, garbate, quasi insulse diatribe borghesi, senza assurgere a simbolo di temi esistenziali, il bene e il male, democrazia e oligarchia. E' una produzione, quella plautina, che ha un solo scopo: far ridere. Non con la sottigliezza, ma con le allusioni, i doppi sensi, i riferimenti accennati, poi taciuti, gli artifici retorici del suono che accompagnano come un vivace allegretto tutti i cinque atti del Bacchides, mentre note spumeggianti si alternano ad un ritmo indiavolato. Al di là della trama, piuttosto complessa che, chi scrive, tralascia per evitare di lambiccarsi il cervello, è interessante evidenziare alcune caratteristiche tipiche del teatro plautino.
Innanzitutto i personaggi, estremamente stereotipati in vesti che calzano alla perfezione: ci sono le cortigiane qui due, addirittura col medesimo nome, a complicare la vicenda), ammaliatrici, seduttrici, abili nel manipolare il desiderio; c'è il vecchio pedagogo rigido che inveisce esasperato contro la cupidigia dei giovani, così caricato da apparire grottesco; ci sono i giovani, invaghiti delle cortigiane, interessanti soltanto alle donne e al denaro (dirà Cecco Angiolieri nella seconda metà del duecento: Tre cose solamente mi so 'n grado, le quali posso non ben men fornire: ciò è la donna, la taverna e 'l dado; queste mi fanno 'l cuor lieto sentire, senza, naturalmente, riferimento all'opera Plautina, ma qui la si riporta a sottolineare come, in fondo, le attrattive siano sempre le stesse). Ci sono il genitore permissivo, e quello truffato, l'epulone parassita cacciato, e il soldato fanfarone comprato.
Poi c'è lui, il burattinaio, il cospiratore e l'aiutante, il truffatore e l'ammaliatore; il servo, protagonista indiscusso dell'opera plautina, che con i suoi artifici diviene trasfigurazione dell'autore stesso. Così come il secondo può dipanare l'intreccio, il primo può risolverlo, o complicarlo. E a poco servono i nomi attribuiti ai personaggi. Mnesiloco, Crisalo, Filosseno o chi altro. O forse sì, a qualcosa sono necessari: al riso. Crisalo, ad esempio, il nome del servo, significa oro, come se tutto quello che egli escogita sia prezioso, ma anche croce, e il motivo è chiaro. I personaggi sono dunque maschere. Plauto sacrifica la caratterizzazione psicologica per suscitare la risata, generata dalle allusioni al campo sessuale. Il desiderio che muove la vicenda sempre uno: la donna e, a fianco, i conquibus (sghei, denaro, che si voglia dire).
Per quanto riguarda le tematiche, oltre il chiaro riferimento ai riti di Bacco, sempre più diffusi a Roma, e che verranno poi messi al bado nel 186 a.C. perchè considerati antinomici al mos maiorum, causa orge, vino ed altro, non si riscontrano altre tematiche. Una carenza di contenuti giustificabile, e comprensibile. Quello che Plauto tenta di fare, infatti, è creare una dimensione, quella della commedia, appunto, dove regni il rovesciamento: i padri non comandano i figli, ma il contrario, i servi comandano i cittadini liberi, il costume antico di disgrega nel piacere. E' una sospensione dalla realtà, il Bacchides, in cui il rovesciamento, che non vuole assurgere a modello rivoluzionario, è necessario a suscitare il riso, arma temuta, e gradita: capace di controllare masse, e di annichilire qualsiasi timore, ad esempio, per le divinità (tema quast0ultimo non presente in Plauto, di stampo più cristiano).
Alla luce di tali elementi, dunque, vale la pena di leggere Plauto per scoprire la vivacità di una lingua considerata morta, per ridere (e non in maniere astratta, ma concreta), per lasciarsi trasportare in un mondo assurdo, paradossale, dove l'orizzonte d'attesa del lettore è soddisfatto in maniera originale e comica, lontano da critiche politiche, o questioni esistenziali. Leggerezza e risata che contrastano con quell'idea di austera rigorosità che accompagna la visione di una Roma antica, pulsante, che nei motivi dominanti, perdura ancora oggi.
(il voto sull'approfondimento è ovviamente indcativo, in quanto non si tratta di un saggio)