Le Baccanti Le Baccanti

Le Baccanti

Saggistica

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Ripensare alle Baccanti significa ripensare alla cultura dell'antica Grecia. Ma quale cultura? Quella della filosofia e della letteratura o quella della gente incolta? Euripide, intellettuale raffinato, rifiuta una visione elitaria del sapere, e crea una tragedia straordinaria, con risvolti profondamente conflittuali rispetto alla tradizione. C'è un dio, Dioniso, che inganna e vince ma senza esiti trionfalistici; c'è un antagonista, Penteo, che viene beffato e fatto a pezzi dalla sua stessa madre: impulsi selvaggi, spettacolarità esasperata, e però anche pietà e sofferenza.



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Le Baccanti 2019-06-13 22:37:38 DanySanny
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    14 Giugno, 2019
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Rosso di sangue e di vino

Grande peso sulla valutazione del teatro di Euripide ha avuto il secco giudizio nietzschiano che, proprio nell’ultimo dei grandi tragediografi dell’età classica, vide il tramonto di un genere, quello del teatro, che viveva, a detta del filosofo, della tensione tra la forma dell’apollineo e il caos del dionisiaco. In Euripide, certo, i personaggi si scoprono profondamente umani e fragili, vivono di passioni e dolori struggenti e proprio per questo è forse oggi il più amato dei drammaturghi greci. Il tragico in Euripide non è più nelle antitesi esasperate tra visioni inconciliabili, ma nel dramma delle piccole, grandi cose del quotidiano. Segno di questo è lo spazio che Euripide riserva al coro: se in Eschilo al coro spetta il 50% delle battute, in Euripide la quota scende al 20%. Eppure queste Baccanti, scritte dal poeta in tarda età, rivelano un dramma di inaudita potenza espressiva, animate da un fuoco misterioso e violento che illumina personaggi ambigui e smaniosi. Un teatro che, al contrario di altre opere dello scrittore, si scopre inconciliabilmente tragico.

Protagonista assoluto Dioniso, rosso, rubicondo e rubensiano, animato di sangue e di vino, principio irrazionale che crea e distrugge con un gesto. Gli fa da controcanto Penteo, re di Tebe, ingenuo e socratico difensore della razionalità, dell’ordine, della chiarezza del reale. Tutto in questo dramma è doppio e barocco, mutevole e illusorio, perché Dioniso è dio della maschera, spazio in cui gli opposti si incontrano e dissolvono. Dioniso che appare come un uomo, straniero orientaleggiante, femmineo, quasi androgino, seducente e misterioso, esemplificazione di un’ambiguità che la giovane età spesso impone di fronteggiare, così come Penteo deve fare nel corso della tragedia. Lo stesso Penteo che sarà travestito da donna, che da predatore sarà fatto preda, smembrato e vivo solo nel momento in cui i suoi brandelli, il suo sangue, torneranno alla natura.

A tenere il ritmo del dramma la follia che Dioniso, l’irrazionale, instilla negli uomini, il sesso orgiastico, in cui la differenza si annulla, la danza e l’ebbrezza, fuga dal pensiero, che riportano l’uomo alla terra. È in questa tragedia che il razionalismo di Euripide inizia a sfumare nel pessimismo; e se è vero che Socrate, suo amico allora sedicenne, esprime una visione ottimistica della realtà fondata sul raziocinio, la coerenza infaticabile di Euripide e la sua più lunga vita disgregano questa certezza granitica in un continuo questionare se stessi il cui esito è inevitabilmente una verità di per se stessa aporetica, ma non per questo meno dura. Le divinità sono distanti, l’uomo è catapultato in una dimensione in cui l’unica contemplazione possibile è quella della sua irrimediabile solitudine, angosciata da uno scontro senza esclusione di colpi con se stessi. E paradossalmente proprio questo Dioniso fatto uomo non riduce la potenza del dramma, ma anzi la incrementa dell’attesa dell’epifania conclusiva, la condisce col gusto amaro di una conoscenza superiore, con l’apprensione palpitante di un personaggio dal destino già segnato.

Al termine della vertiginosa stagione creativa del teatro greco, Euripide plasma una tragedia densa, misteriosa, primigenia, per così dire, mediterranea e sanguigna, sublimando nell’illusione tragica, così apertamente manifesta nell’opera, la trama di eventi misterici, quasi d’iniziazione. E proprio in questa riflessione sulla tragedia, in quest’ultimo manifesto di una cultura sapienziale ellenica che la stagione filosofica successiva adombrerà col suo razionalismo, il dio della tragedia, del ditirambo, del vino, della sapienza e dell’illusione si fa personaggio, emblema di una poliedricità che l’opera non manca di suggerire, ora confondendo, ora chiarendo in improvvisi sprazzi di lucida, quanto brutale, follia.
Perché alla fine, Dioniso, e con lui la vita, è sempre al di là del bene e del male. La verità è la roccia e la roccia è muta. Misterioso, difficile e criptico questo Euripide, ma di una bellezza disarmante che non posso non consigliarvi.

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Le Baccanti 2015-01-11 17:28:48 FrankMoles
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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    11 Gennaio, 2015
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La razionalità dell'irrazionale

Tragedia ad alto tasso di filosofia, Le Baccanti, considerate il capolavoro della produzione di Euripide, sono aperto manifesto della cultura del relativismo e della nuova tragica concezione dell’esistenza umana.

Il dramma si apre col prologo di Dioniso/Bacco, dio del vino e dei campi, sopraggiunto a Tebe per introdurre il suo culto nella città. Figlio di Zeus e Semele, egli non è creduto di natura divina dalle sorelle di questa (Agave, Ino, Autonoe) e da Penteo, suo nipote (figlio di Agave) e attuale re tebano. Per punire il re e la città per l’oltraggio subito, Dioniso ha punto tutte le donne della città instillando in loro il germe della follia cosicché si sono tutte radunate sul monte Citerone a celebrare i riti sacri al dio in preda al furore bacchico: sono dunque diventate le Baccanti. Ciononostante Penteo non si lascia convincere anzi, fa imprigionare il dio Dioniso, travestito da un giovane che dice di esser stato mandato dal dio per introdurre il culto di Bacco. Questo tuttavia si libera agevolmente; intanto dal Citerone giunge un messaggero a riferire le sconvolgenti azioni delle Baccanti, che al segnale divino, come prese da follia, lo celebrano con danze e canti sfrenati, bevono vino sgorgato dalle rocce, squartano a mani nude delle bestie e si aggirano per i villaggi vicini distruggendoli e rapendo bambini. Dioniso convince dunque Penteo a recarsi sul monte per osservare da vicino quanto ascoltato travestito da donna; una volta lì, issatolo su un ramo perché potesse veder bene, istiga le Baccanti che con inaudita violenza lo aggrediscono e la sua stessa madre, Agave, lo sgozza e torna trionfalmente al palazzo con la sua testa su un bastone, pensando di aver ucciso un cucciolo di leone. L’anziano Cadmo, padre di Agave e nonno di Penteo, che aveva appreso tutto da un messaggero, dissolve l’obnubilazione della donna, che così riconosce inorridita il figlio ucciso. Appare dunque ex machina il dio Dioniso, che annuncia di aver progettato ciò come punizione per l’empia città di Tebe che non ne ha riconosciuto la natura divina e condanna Agave e Cadmo ad allontanarsi dalla città; i due dunque si separano, in preda al lancinante dolore.

Dominante nel dramma è il tema della conoscenza. Vengono contrapposte la sapienza antica tradizionale e la saggezza reale razionale: affermata la scarsa attendibilità della prima, legata a modelli predefiniti e poco legati all’evidenza della realtà quotidiana, è tuttavia messa in discussione anche l’utilità di una ricerca della verità, umanamente inattingibile. Questo atteggiamento è un netto contrapporsi alla razionalità socratica e sofistica. Ma chi è dunque il sapiente? Come più volte evidenziato sapiente è colui che, raggiunta la consapevolezza della sua incapacità di conoscere, accetta l’incompletezza della dimensione razionale, dedicando pertanto la sua vita a occupazioni comuni e non a impossibili indagini. Sapiente è colui che non conosce, che non conosce la sua infelicità o la reprime abbandonandosi ai piaceri, ben rappresentati dal vino. Ecco dunque il ruolo del dio Dioniso, universalmente simbolo dell’irrazionale e della follia, come ben evidenziato dai suoi riti misterici e dal furore prodigioso ed inspiegabile delle Baccanti. Penteo, sovrano privo di leggi (poiché contrario al culto dionisiaco), si pone dunque in netta antitesi con Dioniso, alla cui figura si uniformerà secondo un graduale processo in cui rilevanti sono in particolare i due dialoghi serrati col dio stesso, prima e dopo il suo arresto. Nel primo, estremamente significativo ai fini del senso globale della tragedia è l’affermazione del dio secondo cui i barbari che hanno già accolto il suo culto si sono dimostrati in questo più razionali dei Greci; è evidente la tesi di fondo: l’accettazione dell’irrazionalità è quanto di più razionale un uomo possa fare, riconoscendone l’inevitabilità e la dirompente e incontrastabile potenza. Dimostrazione di ciò è quindi il secondo dialogo tra i due, successivo al resoconto del messaggero, in cui Penteo comincia a risentire degli effetti della follia vedendo doppio e iniziando a intravvedere i segni caratteristici di Dioniso (le corna di un toro). Nella contraddizione universale, Dioniso e Penteo si rivelano dunque speculari: Penteo diventerà Baccante e Dioniso assume i tratti di uno spietato despota. Nella sua morte violenta si può a ragione vedere anche la sconfitta ultima del sapere, a ribadire nuovamente che sapiente e felice è chi vive giorno per giorno, non curandosi di capire ciò che non è in grado di conoscere. Inoltre la tragica fine di un eroe tragico come Penteo rappresenta simbolicamente il nefasto destino di chiunque osi sfidare la legge non quella civile ma quella divina. E che a mettere in atto tale punizione sia Dioniso, apparentemente sovvertitore dell’ordine e dell’equilibrio, evidenzia chiaramente la sua parità rispetto agli dei olimpici, colpevolmente non riconosciuta dal sovrano di Tebe: l’irrazionalità va riconosciuta come parte integrante dell’esistere umano. La follia instillata dal dio viene dunque tratteggiata come elemento necessario per una vita beata e si manifesta in modo cruento per coloro che la rifiutano e nella serenità per chi la accetta. Il trionfo del dionisiaco sull’apollineo, in questa tragedia più che mai lampante, sarà uno dei motivi che spingerà Nietzsche a considerare Euripide il momento di morte della tragedia, che perde il suo valore di indagine sulla razionalità dell’uomo: l'irrazionale è divenuto razionale e la vita inconoscibile.

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