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La letteratura in pericolo La letteratura in pericolo

La letteratura in pericolo

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Questo piccolo e sferzante saggio, il trentacinquesimo nella lunga carriera di uno degli intellettuali europei più autorevoli, prende di mira l'insegnamento scolastico della letteratura, che anziché accostare i testi si ferma alle metodologie interpretative, e in generale la critica letteraria, che privilegia testi autoreferenziali e di scarso interesse per il pubblico più vasto dei lettori. Insomma, secondo Todorov la letteratura moderna sarebbe stata inaridita dai tecnici della materia e soffrirebbe oggi di un distacco con il mondo reale. È tempo, dunque, di restituire alla letteratura la sua funzione, ovvero quella di offrire ai lettori un senso alla loro esistenza. Contro i professori, gli scrittori che scrivono solo di sé e i critici che predicano una letteratura autoreferenziale e che insegna solo la disperazione, devono sollevarsi i lettori comuni, che continuano a cercare nei libri la possibilità di riflettere sulla propria vita e sulle proprie esperienze.



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La letteratura in pericolo 2008-08-01 04:09:35 vitosantoro
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vitosantoro Opinione inserita da vitosantoro    01 Agosto, 2008
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Il neo-umanesimo di Todorov

Parigi. Anni dell’occupazione nazista. Una giovane donna, Charlotte Delbo, accusata di aver cospirato contro gli occupanti, viene arrestata. In carcere non ha diritto a libri, al contrario della sua compagna, reclusa al piano di sotto. È costei che per mezzo di una corda (realizzata intrecciando fili tirati via dalla coperta) calata giù dalla finestra, le fa pervenire una copia della Certosa di Parma di Stendhal. Da questo momento Fabrizio del Dongo diventa il compagno inseparabile di prigionia della donna. In seguito, durante il viaggio in un carro bestiame alla volta di Auschwitz, Charlotte ascolta la voce dell’eroe euripideo Alcesti, che le spiega in che cosa consiste l’inferno verso il quale si dirige e le offre l’esempio della solidarietà. Poi altri eroi, tutti «assetati di assoluto», come Elettra, don Giovanni, Antigone, le fanno visita nel lager.

Anni dopo, ripercorrendo à rebours la sua esperienza di deportata in Spectre, mes compagnons, Charlotte finirà con lo scrivere che «le creature del poeta sono più vere di quelle in carne e ossa, perché sono inesauribili. Ecco perché sono miei amici, miei compagni, grazie ai quali siamo legati agli altri uomini, nella catena degli esseri umani e della storia».

Più di un secolo prima della Delbo, John Stuart Mill era guarito dalla depressione, aiutato dalla lettura dei poemi di Wordsworth. Grazie a loro aveva raggiunto quella felicità vera e continua che può derivare soltanto dalla contemplazione tranquilla delle bellezze della natura.

Dunque, «la letteratura può molto. Può tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere». La letteratura ‘serve alla vita’. Sempre. Anche in situazioni normali, lontanissime dai casi estremi prima citati.

È questa la tesi di fondo dell’ultimo lavoro di Tzvetan Todorov, La letteratura in pericolo, breve saggio (84 pagine), in cui il celebre studioso franco-bulgaro racconta in chiave autobiografica la crisi della critica strutturalista per poi perorare un ritorno ad un umanesimo attento ai contenuti umani dell’arte e avverso a qualsiasi pratica critica autoreferenziale.

Infatti, quella che ‘serve alla vita’ è soltanto la letteratura intesa «nell’accezione ampia e pregnante che è prevalsa in Europa fino alla fine del XIX secolo», secondo cui esiste un rapporto biunivoco tra la realtà e l’arte: la seconda aiuta a conoscere la prima, che al tempo stesso agisce su di essa. E Todorov ricorda a questo proposito, Oscar Wilde, sostenitore di una idea di letteratura come creazione di un mondo a partire dalla «materia bruta dell’esistenza reale»; come creazione di «un mondo nuovo che sarà più meraviglioso, più duraturo e più vero di quello che vedono gli occhi della folla».

Questa concenzione dell’arte, e in senso lato della letteratura, ha iniziato a subire un lento ma inesorabile processo di sgretolamento con la messa in discussione da parte di Nietzsche, dell’esistenza stessa dei fatti indipendenti dalle loro interpretazioni e quindi, dell’esistenza stessa della verità, qualunque essa sia.

Si tratta di una nozione che ha permeato le varie tendenze estetiche principali del XX secolo, tuttora influenti tanto nel campo della didattica quanto in quello del dibattito culturale. Tendenze che Todorov esemplifica nella triade formalismo (“la forma prima dell’essenza”) – nichilismo (“il mondo è abominevole”: solo la distruzione e la violenza svelano la verità della condizione umana) – solipsismo (“l’io è infinitamente interessante”). Triade che ha appunto messo la letteratura in pericolo.

Il formalismo infatti, ha esercitato subito dopo il 1968, una tale influenza sull’insegnamento scolastico, costringendolo ad inseguire una linea di equilibrio tra l’approccio alla letteratura attraverso dati esterni, biografici e aneddotici, e l’analisi più attenta delle opere stesse. In questo modo, a scuola si tende a porre maggiore attenzione sugli strumenti dell’analisi letteraria che sulle opere stesse. Tale concezione austera e limitativa è presente anche in buona parte della critica giornalistica e persino in numerosi scrittori, che sono come immobilizzati dal loro stesso desiderio di conformarsi alle teorie che ritengono essere alla moda.

E per uscire dal formalismo – nella ricostruzione dello studioso – si è pensato che non vi fosse altra scelta se non il nichilismo e il solipsismo, che solo in apparenza si oppongono al primo. Formalismo e nichilismo partono infatti, da una base comune. L’autore nichilista non partecipa del mondo che descrive, dato che lo sa vedere dall’esterno. Quello solipsista si attiene unicamente alla sua esperienza personale. Così finisce per dedicarsi principalmente all’autofiction, cioè al racconto caratterizzato da finzione e realtà autobiografica, in cui egli non solo riserva uno spazio amplissimo alla rappresentazione della propria interiorità, ma anche «si libera da ogni costrizione autoreferenziale, godendo così al tempo stesso della supposta indipendenza dell’invenzione e del piacere che deriva dalla valorizzazione di sé».

Ora, la letteratura, a detta di Todorov, può immensamente di più, perché, al contrario dei discorsi religiosi, morali o politici, «non formula un sistema di precetti; per questo motivo sfugge alle censure che vengono esercitate sulle tesi formulate a chiare lettere». Essa fornisce un contributo alla nostra comprensione del mondo.

Non solo. Il grande studioso della letteratura fantastica cita un recente studio del filosofo americano Richard Rorty (Redemption from egotism. James and Proust as spiritual exercises), in cui si sostiene che la letteratura, oltre a porre un qualche rimedio alla nostra ignoranza, ci guarisce anche dall’egotismo, inteso come illusione di autosufficienza. In questo senso, «i romanzi non ci forniscono una nuova forma di sapere, ma una nuova capacità di comunicare con esseri diversi da noi; da questo punto di vista riguardano la morale, più che la scienza. L’orizzonte ultimo di tale esperienza non è la verità, ma l’amore, forma suprema del rapporto umano».

Per questa ragione, la lettura va incoraggiata con ogni mezzo, «compresa quella di libri che il critico di professione considera con una certa condiscendenza, se non addirittura con disprezzo, dai Tre moschettieri a Harry Potter», romanzi popolari che offrono agli adolescenti «una prima immagine concreta del mondo che, possiamo esserne certi, le letture successive renderanno poco per volta più elaborata».

È evidente che il taglio divulgativo e pamphlettistico del libro costringano l’autore a semplificare spesso il discorso, soprattutto nei capitoletti in cui ricostruisce la storia dell’estetica, ponendo al centro il problema dell’autonomia e dell’eteronomia dell’arte, per arrivare ad una sorta di nuovo umanesimo permeato di una vera propria mistica della letteratura.

Un altro punto po’ tirato via, è, ad esempio, l’interpretazione dello sviluppo del formalismo nei paesi dell’Est come necessità di difendere l’autonomia del fatto artistico in un contesto ideologico e autoritario. Qui Todorov ha certamente ragione, ma glissa sul successo di questa tendenza nelle nazioni occidentali, dove la situazione politica era molto diversa.

Al di là di questi aspetti, La letteratura in pericolo ha, tuttavia, il merito di porre l’accento su due questioni essenziali. Innanzitutto fa emergere il ruolo preminente della letteratura nell’educazione interculturale, grazie alla sua capacità di fare vivere come nostri i sentimenti, i punti di vista e i pensieri dell’altro. In altre parole, l'esperienza letteraria ci consente di coniugare consapevolezza e inconsapevolezza, rigore realistico e immaginazione, di trasferirci in una zona franca, dove vivere emozioni intense, lasciando contemporaneamente aperta la possibilità di dire a noi stessi: «tanto questo è un gioco».

L’altro punto centrale sta nel farci riflettere sul ruolo della critica. Todorov definisce lo scrittore come «colui che osserva e comprende il mondo in cui vive, prima di rappresentare questa conoscenza attraverso storie, personaggi, sceneggiature, immagini, suoni». Ciò implica il delinearsi della figura del critico come colui che, a prescindere dalle metodologie usate, è in grado di «trasformare significato e pensiero nel linguaggio comune del suo tempo».

Dunque, la critica non può avere un metodo. E Todorov cita a questo proposito, l’esempio del monumentale studio di Joseph Frank su Dostoevskij, scritto senza alcun pregiudizio metodologico, anzi pronto ad accogliere qualsivoglia input, vuoi strutturale vuoi storico. In questo modo, «permettendo che il pensiero dell’autore sia incluso nel dibattito infinito di cui è oggetto la condizione umana, lo studio letterario di Frank diventa una lezione di vita».

È, dunque, una accezione ‘politica’ della funzione critica quella che sembra emergere dalle pagine del libretto di Todorov, quasi una ripresa della formula benjaminiana del critico come «stratega nella battaglia letteraria». Un’idea di critica dagli obiettivi pragmatici e dallo scopo politico concreto, al di fuori del territorio delle arti: senza un qualche rapporto con l’azione, con la prassi, la critica non ha senso, gira a vuoto. Solo così potrebbe creare nuove sensibilità, aprire nuovi spazi di coscienza, suscitare altre visioni, magari più audaci.



Vito Santoro

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La letteratura in pericolo 2008-05-29 00:10:19 galloway
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galloway Opinione inserita da galloway    29 Mag, 2008
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Recensire libri senza leggerli

Questo libro dovrebbero leggerlo tutti, almeno questo! Anzi i libri sono due. Dovrebbero leggerli chi si occupa di libri: in rete, sui giornali, in TV, alla radio, nelle parrocchie, nei cinema, nei circoli, nelle scuole, nelle università, insomma ovunque si possa incontrare chi con i libri ci lavora, ci vive, li pensa, li scrive, li legge, li stampa, li pubblica, li colleziona, insomma li conosce, o almeno così crede. La domanda, anzi le domande sono due: ma è vero che i libri, ormai, non si leggono più perché è inutile e perché comunque è una perdita di tempo? Se la risposta è, in entrambi i casi, sì, allora siamo a posto. Io, questo dubbio ce l’avevo da diverso tempo, cioè da quando navigo, leggo e scrivo, avendo più tempo a disposizione perché non leggo più altri libri, cioè quelli che dovevo leggere per forza quando lavoravo a scuola. Già allora, durante i miei anni di insegnamento, avevo avuto questo dubbio. Mi domandavo spesso: ma qui dentro, dentro le mura della scuola, i libri si leggono davvero o è tutta una turlupinatura? La mia era una intuizione corretta. Ora lo so. C’è chi sostiene che nessuno legge, perché ormai è inutile. Ma tutti voglio parlare di libri. Io credo invece che, sui libri, tutti ci vogliano soltanto “campare”. Un verbo, “campare”, che si usa a Napoli e che è ben diverso da “vivere”. Leggetevi questo articolo e fatemi sapere. Poi compratevi anche i due libri che trovate al link. Io non li ho letti, ma credo a quello che scrive l’autore dell’articolo. Tanto per cambiare!



«Una concezione eccessivamente ristretta della letteratura, che la esula dal mondo nel quale viviamo, si è imposta nell'insegnamento, nella critica e anche a numerosi scrittori. Il lettore, lui, cerca nelle opere qualcosa che possa dare un senso alla sua esistenza. Ed è lui ad avere ragione». In questo passaggio si può riassumere la tesi del semiologo franco-bulgaro Tzvetan Todorov che in un agile pamphlet, "La littérature en péril" (Flammarion, 12 euro), ragiona sulla necessità di uscire da quella che definisce la triade formalismonichilismo-solipsismo. Il formalismo, scrive Todorov, ha portato a trascurare il contenuto di un'opera privilegiando l'analisi della sua forma e della sua struttura. L'analessi, la prolessi, la metonimia, la poetica, la retorica e così via sono certo «oggetti di conoscenza» ma rimangono delle «costruzioni astratte, dei concetti costruiti dall'analisi letteraria per affrontare un'opera». Da soli, questi concetti non permettono di capire il senso delle opere, «il mondo che evocano». All'esame di maturità si chiede così agli allievi quale sia «la funzione di un elemento del libro in rapporto alla sua struttura d'insieme. (...) Il ruolo di tal personaggio, di tal episodio, di tal dettaglio nella ricerca del Graal» ma niente «sul significato stesso di quella ricerca». Si vorrà sapere se «Il Processo appartiene al registro comico o a quello dell'assurdo» come se il contributo di Kafka nella storia del pensiero europeo non fosse che un inutile dettaglio. Arte e negazione



Per Todorov «la via intrapresa oggi dall'insegnamento letterario», privilegiando il formalismo, «potrà difficilmente portare a un amore della letteratura» il cui oggetto è «la condizione umana». Chi legge e capisce la letteratura, continua Todorov, «diventerà non uno specialista dell'analisi letteraria ma un conoscitore dell'essere umano. (...) Quale migliore preparazione a tutte le professioni fondate sui rapporti umani ?». Una letteratura che, per Todorov, dovrebbe permettere «di meglio capire l'uomo e il mondo, per scoprirvi una bellezza che arricchisca l'esistenza; così facendo [l'uomo] capisce meglio se stesso». Una bellezza esclusa dal secondo elemento della triade evocata da Todorov, il nichilismo, che nega la consistenza di qualsiasi valore, l'esistenza di qualsiasi realtà e che dominerebbe «la letteratura e la critica giornalistica in Francia, in questo inizio di XXI secolo». «Una visione del mondo - scrive Todorov - secondo la quale gli uomini sono stupidi e cattivi, le distruzioni e le violenze dicono la verità della condizione umana e la vita è l'avvenimento di un disastro». La letteratura, e l'arte più in generale, diventa allora la rappresentazione della negazione. Per non essere considerata «insopportabilmente sciocca» un'opera deve lasciar perdere i «buoni sentimenti» e «rivelare l'orrore definitivo della vita». L'ultimo elemento di quella triade che starebbe portando al disastro la letteratura in Francia è il solipsismo, tesi filosofica che fa di se stessi la sola realtà e del resto solo una propria percezione. Un individualismo estremo che si concretizza nella pratica letteraria «compiacente e narcisistica che conduce l'autore a descrivere nei dettagli le sue più piccole emozioni, le sue più insignificanti esperienze sessuali, le sue più futili reminiscenze». Un'attitudine complementare al nichilismo: «Più il mondo è ripugnante, più il "sé" è affascinante!». Meglio non leggere



Una conclusione alla quale arriva per altre vie anche Pierre Bayard che scrive nel suo libro "Comment parler des livres que l'on a pas lus" (nella collana Paradoxe delle Editions de Minuit, 15 Euro): «L'insieme della cultura si apre a coloro che testimoniano della loro capacità (...) a tagliare i legami tra il discorso e il suo oggetto e a parlare di sé». Professore di letteratura francese all'università Paris VIII, Bayard cerca di dimostrare attraverso alcuni paradossi che parlare di un libro senza averlo letto, forse sorvolato, è in fondo un atto creativo e addirittura la cosa migliore che si possa fare se davvero si ama la letteratura. Così del bibliotecario de "L'uomo senza qualità", di Robert Musil: «Volete sapere come posso conoscere ognuno di questi libri ? (...) è perché non ne leggo nessuno!». Solo una visione d'insieme infatti, approva Bayard, permette la comprensione e quindi, non potendo leggere tutto quello che viene pubblicato, dei libri si devono leggere solamente i titoli e l'indice. Bayard cita tra gli altri, a sostegno della sua dimostrazione, Valery, Balzac e Oscar Wilde («non leggo mai un libro prima di recensirlo per non restarne influenzato»). E pensando alla scuola spiega che insegnare a parlare di libri non letti deve essere «una responsabilità particolare» per «tutti gli insegnanti», che dovrebbero «valorizzare questa pratica», «singolarmente assente dai programmi, come se non fosse mai rimesso in causa il postulato secondo il quale è necessario aver letto un libro per parlarne». Brillante davvero. TESI PARADOSSALE Fanno discutere in Francia i saggi di Pierre Bayard "Comment parler des livres que l'on a pas lus" (Paradoxe delle Editions de Minuit, 15 Euro) sull'arte di recensire un libro senza averlo letto; e "La littérature en péril" di Tzvetan Todorov (Flammarion, 12 euro) sul tramonto della letteratura, causato da una concezione dell'arte troppo compiacente e narcisistica.



(Gianluca Arrigoni: Libero, martedì 6/2/2007)

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