Saggistica Arte e Spettacolo L'occhio rapace
 

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La presentazione e le recensioni di L’occhio rapace, opera di Andrea Molesini edita da Cafoscarina. C'è, se non proprio un'affinità stilistica, un amore per poeti come la Dickinson e la Bishop e, in misura minore, Frost e Lowell; ma non mancano nemmeno punti di contatto con alcuni guizzi intuitivi di Cummings e certa visionarietà sudamericana. E nel momento in cui prende le distanze dal Williams più lirico Simic allude, arguto e sfrontato, a una qualche inconfessata amicizia: "Ars poetica: I ate the white chickens and left the red wheelbarrow out in the rain". Senza volerlo, il lettore italiano lo accosterà ai grandi slavi a lui familiari: Herbert, Milosz e, in particolare, la Szymborska. Accostamenti arbitrari, certo, ma non del tutto impropri, perché l'anima slava ha lasciato il segno anche qui: il marchio del profugo.



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L'occhio rapace 2014-09-23 18:57:31 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    23 Settembre, 2014
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Fra recensioni e saggi

Andrea Molesini, scrittore, poeta, traduttore, saggista, nonché anche docente di Letterature comparate presso l’Università di Padova, noto per i suoi romanzi Non tutti i bastardi sono di Vienna, La primavera del lupo e Presagio, ha raccolto in questo corposo volume di 484 pagine numerose sue recensioni, che ne costituiscono la prima parte chiamata Letture, e alcuni dei suoi saggi, che occupano la seconda e ultima parte, denominata Interventi. Considerata la corposità dell’opera, sarebbe arduo parlare di tutto e di conseguenza mi limiterò solo a un paio di articoli, che, a mio giudizio, appaiono particolarmente significativi.
Per quanto concerne le recensioni non poche, anzi tante, riguardano libri di poesia e la cosa appare più che giustificata essendo Molesini anche poeta e autore di diverse raccolte pubblicate da varie case editrici. Peraltro, ma la circostanza non mi sorprende più di tanto, vi è da notare che la presenza di opere di poeti italiani è pressoché sporadica, mentre massiccia è di quelle di autori di lingua inglese.
Sono scritti abbastanza brevi, quasi dei flash che vanno a illuminare, giusto per il potenziale lettore, l’opera esaminata, in una capacità di sintesi non certo comune. Particolarmente riuscita quella di I racconti di Robert Louis Stevenson, narratore inglese che stimo in modo particolare e a cui molto deve la letteratura. Il mare, che sempre è presente nelle sue opere e che esercita un fascino dell’avventura, dell’elemento abitato da mostri orrendi e sconosciuti che altri non sono se non i timori del nostro inconscio, per quanto accennato da Molesini, è allocato nel testo nel momento migliore, tanto che pare quasi di avvertire la presenza di Stevenson stesso. E tutto esemplarmente in poche pagine (solo quattro) per uno di quei narratori che assai raramente, e comunque pochi in un secolo, si affacciano, illuminandolo, sul palcoscenico della letteratura.
Ci sarebbe altro, ma fra gli Interventi, cioè i veri e propri saggi, ce n’è uno di cui non solo è opportuno, ma doveroso parlare. L’impersonalità del terrore, questa volta non di poche pagine, mira a una disamina attenta di quell’immane tragedia che è stata l’olocausto e viene fatta con razionalità, senza enfasi e retorica, come uno studio psicologico e sociologico di quel che è stato – e spero non se ne debbano avere altri – il più grande terrore di tutti i tempi. Forse qualcuno potrà storcere il naso, perché tanti hanno scritto in proposito, ma il saggio di Molesini ha il pregio di un compendio approfondito e anche comprensibile di una materia difficile. Si parte dalle facile presa delle idee razziste di Adolf Hitler su un popolo, come quello tedesco, su cui invece non avrebbero dovuto avere effetto, stante i contenuti liberali, di pluralismo, di tolleranza della letteratura popolare germanica di prima e dopo la Grande Guerra, di cui si erano nutriti milioni di massaie e lavoratori. E al riguardo viene riportata un’illuminante interpretazione di G.L. Mosse “A mio avviso la risposta è che molta gente riteneva di star leggendo racconti di fate, e che per tradurre nella realtà la favola ci voleva un Hitler. In altre parole, c’è, io credo, in tutti i fascismi (e non già soltanto nel nazismo) il senso di una porta che introduce ad un’utopia di tolleranza, di felicità, di produttività e di ogni altra cosa cui la gente aspra. Per quanto ne so, nessun fascismo ( e certamente non il nazismo) menò vanto del suo carattere oppressivo; tutti sostennero invece che l’oppressione era una fase transitoria, necessaria per realizzare una sorta di utopia.”. C’è logica in questa opinione, anche se vi è da precisare che per concretizzare la fase di indottrinamento occorrevano, e occorsero, altre circostanze, fra le quali ricordo la crisi economica di cui i veri responsabili non vollero mai accollarsi la colpa e fu così più facile propinare alla folla il tradizionale capro espiatorio: l’ebreo. L’abilità di mettere in atto il terrore a piccoli passi, l’incredulità degli stessi ebrei, l’organizzazione burocratica con cui fu messa in atto la Shoah, ben diversa dagli improvvisati pogrom, concretizzarono questa immane tragedia. Le reazioni spirituali dei deportati si suddivisero in tre fasi. La prima fu lo choc dell’accettazione, comprensiva appunto della cattura, della deportazione e dell’avvicinamento al lager stipati come bestie in vagoni piombati; la seconda è stata quella della relativa apatia verso il dolore, il proprio e quello degli altri; la terza e ultima fu relativa alle reazioni psichiche successive alla liberazione. L’articolo poi affronta il tema della razionalità e morale, cioè la nota difesa dei persecutori una volta arrestati: “eseguivo solo degli ordini”, come se gassare migliaia di persone fosse del tutto naturale, come se quegli esseri umani fossero del bestiame portato al macello. La responsabilità però non è solo degli aguzzini, ma investe anche il disinteresse al riguardo di milioni di cittadini dei paesi conquistati dalla Germania. E i nazisti sapevano cosa stavano facendo? Se ne vergognavano? Nutrivano timori per le conseguenze dei loro atti? Forse delle tre domande, l’ultima è quella pertinente, perché altrimenti non si spiegherebbe come abbiano sempre cercato di nascondere il loro misfatto, così che se qualcuno si fosse salvato non sarebbe stato creduto. Fu un’epoca di orrore criminale, che però ha proiettato alcuni effetti anche sui nostri anni. I revisionisti, i negazionisti fanno leva sul fatto che non esista un registro del terrore, fornendo spiegazioni fantasiose sulla scomparsa di milioni di ebrei. E’ evidente che anche questa panzana fa parte dei sogni malati di questi neo-nazisti e neo-fascisti, indispensabile per poter riproporre l’originale utopia.
A questo bellissimo articolo sono di supporto opinioni e opere di due grandi pensatori, due ebrei, di cui il primo ha sperimentato sulla propria pelle l’Olocausto: Primo Levi e Zygmunt Bauman.
Questo libro è veramente bello e il saggio su L’impersonalità del terrore già da solo ne giustifica l’acquisto.
Da leggere, pertanto.

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