L'anima buona del Sezuan
Saggistica
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I PARADOSSI DELL'ETICA
Intelligentemente didascalica (come del resto tutta l’opera di Bertolt Brecht), “L’anima buona del Sezuan” è una profonda riflessione sui rapporti tra il bene individuale e l’ambiente sociale in cui esso si esplica, tra la morale privata e l’interesse collettivo, e – in senso lato – sulla linea di demarcazione, così difficile da determinare, tra ciò che è buono e ciò che non lo è. La protagonista Shen-te, un personaggio che ricorda per candore la Cabiria felliniana (non a caso all’inizio dell’opera lei pure è una prostituta), viene prescelta per la sua bontà da tre dei discesi appositamente dal cielo con il compito di provare che non tutti al mondo sono cattivi ed egoisti, che almeno un’anima buona esiste sulla terra, e premiata con mille dollari. La sua vita può finalmente cambiare, e la donna aprire un piccolo esercizio commerciale, ma la sua disinteressata filantropia, che attira come mosche disoccupati, senzatetto e altra povera gente alla ricerca di un aiuto, finisce per mandare tutto in malora. La bontà di una sola persona non può cambiare il mondo, anzi produce degli effetti paradossalmente peggiori, alimentando parassitismo, improduttività e ingratitudine, quando non addirittura la rovina di persone in buona fede (come la coppia che presta a Shen-te i soldi dell’affitto, che lei usa invece per aiutare l’aviatore di cui è innamorata a “pagare” l’ambito posto di lavoro a Pechino). Di fronte a cotanto fallimento, e alla prospettiva che il figlio che porta in pancia possa un giorno essere costretto a procurarsi il cibo rovistando nella spazzatura come i bambini che vede intorno a sé, Shen-te è costretta a vestire i panni di Shui-ta, il cinico ed efficiente cugino senza scrupoli, dalla mentalità manageriale e capitalistica, e abiurare ai suoi buoni sentimenti. Messa di fronte ai tre dei, nella scena finale, Shen-te è costretta ad ammettere che le prescrizioni morali e i comandamenti sono troppo rigidi e ambigui per essere applicati tout court al mondo degli uomini, ma alla domanda su come è possibile rimediare a questo ossimoro etico (il bene che provoca il male, e quest’ultimo che risulta più utile del suo contrario), i tre dei se la danno a gambe, lasciando la donna sola con i propri interrogativi e con le proprie ineludibili responsabilità.
Brecht sa destreggiarsi molto bene tra i tanti paradossi dell’etica (che ben conoscono coloro che si occupano di filosofia e che si trovano di fronte a tante formulazioni diverse di etica, quella cristiana, quella kantiana, quella utilitaristica, ecc.) e, rispettando tanto le esigenze della favola quanto quelle dell’insegnamento pedagogico, cala le sue provocazioni in un contesto molto concreto, quello di una regione povera che assomiglia moltissimo alle tante periferie del mondo alle prese con la crisi economica attuale. Ciò permette di allargare l’angolo visuale ad altre importanti questioni, come quella sui sistemi economici maggiormente desiderabili (socialismo, capitalismo o solidarismo) o quella sull’influenza delle religioni sull’operato sociale degli uomini (qui si intuisce agevolmente l’allergia di Brecht per i fondamentalismi religiosi). Incongruamente sospeso, in apparenza, tra cineseria e opera a programma, “L’anima buona del Sezuan” è in realtà un testo del tutto coerente con il senso ultimo dell’arte brechtiana, sempre pronta ad affondare il bisturi della sua impietosa analisi teatrale nella realtà sociale contemporanea.