Figli di un dio minore
Saggistica
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Vedere voci, sentire immagini
Di cosa parla questo libro, ed il film e le varie versioni teatrali da esso tratto, ce lo dice direttamente la protagonista, una ragazza sordomuta:
“…il mio cervello capisce molte cose, e i miei occhi sono le mie orecchie.
Le mie mani sono la mia voce e la mia lingua.
Il mio modo di esprimermi, la mia capacità di comunicare, sono notevoli quanto i vostri. Forse di più, perché io posso comunicarvi con un’immagine un’idea più complessa di quella che voi potreste spiegarvi reciprocamente con cinquanta parole…”
Almeno per sentito dire, questo titolo, questa definizione: “Figli di un Dio minore”, è entrato nell'uso comune, ma non tutti ne conoscono la genesi.
Sicuramente la conoscono tutte le persone sordomute: “Figli di un dio minore”, libro e film, è stata il punto più alto dell’orbita raggiunto dal pianeta delle persone diminuite nell'udito e nella parola.
Nei primi anni ’80, dopo l’exploit seguito al successo di critica e di pubblico registrato dal film, non si è mai più discusso così a lungo e diffusamente, in pubblico ed in privato, sui sordi, sull'essere sordi, sulla lingua dei segni, sulla sordità: definizioni, modalità di insorgenza, piani operativi di recupero, welfare apposito, leggi ad hoc.
I sordi erano l’attualità, erano trendy, erano l’argomento di discussione perenne, sui giornali ed in tv, dovunque si parlava di sordi.
Non so quanti degli stessi sordi in effetti conoscono il romanzo, in realtà è un testo teatrale, a firma di Mark Medoff, edito nel 1980: devo dire che sarebbe rimasto un testo sconosciuto ai più, relegato nel giro delle compagnie teatrali dei circuiti underground, nei tour artistici – culturali d’avanguardia americani, non fosse stato per l’apoteosi succeduta al successo del film.
Perché è un libro tosto, difficile da leggere, da digerire.
Parla di sordi, parla della difficile condizione di sordo, parla di come sia arduo per il sordo recuperare la propria autonomia, realizzare la propria personalità, ritrovare la propria identità di persona.
L’input primitivo, il punto iniziale, la linea di partenza, è data dalla fiducia in sé stessi, dal proprio livello di autostima, dalla cieca e ostinata ricerca di un equilibrio interiore, che permetta di spiccare non dico il volo, ma almeno superare con un balzo iniziale la palude, il divario tra la condizione negletta, svantaggiata, arretrata di partenza, per approdare felicemente su una lingua di solida terra sotto i piedi.
La società linguistica dominante invece non solo non agevola, ma in nome di un pregiudizio tanto infondato quanto diffuso, aizza la disistima nel sordo, potenzia le barriere comunicative anziché allentarle, è mono comunicativa e mono culturale, cieca e sorda ad ogni lasciapassare, rafforza gli ostacoli sul cammino dei sordi.
Non costruisce ponti, non agevola il traffico per i sordi, ma blocca, devia, obbliga su percorsi considerati a priori gli unici adeguati alla condizione di sordo.
I sordi li lascia indietro.
I sordi non li reputa all’altezza, anzi peggio, i sordi sono definiti minorati mentali, tout court, e quindi un fastidio, più da assistere, tollerare e tenere a bada, che supportare all'integrazione.
Libro e film, insieme, sono stati un testo miliare, una tappa fondamentale nel cammino dei sordi di tutto il mondo verso l’autonomia, hanno incentivato all'autostima, hanno spronato i sordi a credere maggiormente in sé stessi, sono stati la “madre” di tutti i libri e di tutti i film a seguire sulla condizione sorda.
Il film tratto dal libro, poi, è un vero e proprio cult per la generazione sorda a cui io stesso appartengo.
Per quelli della mia generazione, all’epoca dell’uscita del film baldi 20nni o poco più, costretti nelle scuole dirette ai fini speciali per sordomuti, alcuni di questi poco più di ghetti, se non veri e propri lager e luoghi di tortura, dolore e sfruttamento, poco istruiti per non dire del tutto ignoranti, costretti spesso a ripetere a sproposito gli anni delle scuole dell’obbligo, “Figli di un Dio minore” è stato il riscatto, la rivalsa, la vendetta covata per decenni e mai pienamente realizzata, è stata la rinascita, la resurrezione, l’idea stessa di riabilitazione completa del nostro onore e della nostra intelligenza, mortificata, calpestata ed umiliata dall'inizio della nostra storia.
Il testo in sé si riduce ad una tenera, delicata e “diversa” storia d’amore tra il professore udente di un liceo per sordi James Leeds, interpretato sullo schermo da William Hurt, e la ragazza sorda Sarah Norman, sempre sullo schermo magistralmente interpretata da Marlee Matlin, attrice sorda per davvero e non per finta.
Sarah, pur essendo dotata di intelligenza e capacità “normali”, si occupa delle pulizie, è relegata, e con il proprio avallo, in un ruolo inferiore, umile, dimesso, anche se con la sua intelligenza e preparazione potrebbe aspirare a ben altro.
Le hanno inculcato a forza il concetto che una persona sorda semplicemente “non può” e basta, per definizione.
Il professore si accorge delle “normali “potenzialità della ragazza, ne intuisce la ritrosia ad evidenziarle perché da sempre le è stata negata la validità della sua intelligenza, a cominciare dalla sua stessa famiglia. Sarà l’amore sorto tra i due, la dedizione sincera del suo compagno, a darle la forza di credere maggiormente in sé stessa e nelle sue capacità, e di estrinsecare al meglio le sue notevoli possibilità: perché in fondo la ragazza sa benissimo qual è la verità, e lo dice chiaro.
La ragazza ha capito perfettamente tutto: sa che i meno fortunati che sono stati, per così dire, creati male, da un Dio meno capace, sono in realtà tutti gli ignoranti di questo mondo, udenti e sordi insieme, arrogantemente chiusi nella bolla della propria ottusità.
Sono loro i veri emarginati, trattati peggio degli altri perché considerati diversi, inferiori, meno degni degli altri. I sordi, invece, sono costretti ad “ignorare”, ed è ben diverso, non è una loro scelta.
Riesce davvero difficile separare il testo di Mark Medoff dal film omonimo, come è sempre impossibile non accostare il romanzo “Via col vento” di Margareth Mitchell con il film omonimo della coppia Clark Gable-Vivien Leigh
Con questa interpretazione, la splendida attrice sorda Marlee Matlin vinse l’oscar, l’oscar di Hollywood, quello vero, quello degli udenti, e divenne un simbolo, l’icona mondiale dell’orgoglio sordo.
Tutti noi sordi, maschi o femmine, ci innamorammo di lei, ci rivedemmo in lei, con tutto il rispetto affermo qui e ora che per i sordi di tutto il mondo ha fatto molto più Marlee Matlin che tanti altri.
Ed infine, me lo chiedo spesso: noi sordi siamo ancora figli di un Dio minore?
Questo Dio si è deciso a crescere e a diventare maggiore, o siamo almeno cresciuti noi, affrancandoci dalla sua, a volte ingombrante, presenza?
Personalmente, mi rispondo così: se solo lo vogliamo, noi sordi non abbiamo bisogno di alcun Dio.
E lo affermo con il massimo rispetto del sentimento religioso di tutti.