Antigone. Una riscrittura
Saggistica
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Non ci sono dèi, Ismene.
Ci sono forme narrative talmente feconde che sembrano architettate su misura per le successive contaminazioni; tra loro ricordiamo il mito, la leggenda, la fiaba. La tragedia greca classica, quasi immortale nella sua universalità, purificatrice grazie alla mimesi delle passioni pericolose, si può considerare portatrice sana di reincarnazione: Antigone, simbolo femminile di risolutezza ed eroismo, si conferma tra le icone più vitali di quest’arte antichissima.
In questa riscrittura, la catastrofe incombe fin dalle prime battute, implicita come l’aria. In questa riscrittura, non ci sono dei, non ci sono trascendenze. C’è il sacro, che implacabile e immanente scolpisce il principio di cui si nutre la giustizia autentica, superiore alle leggi, alle parole, alla spada.
Antigone, che conosce il sacro e incarna il principio, è una forza della natura in grado di oscurare il sole. La giustizia si manifesta in lei come amore libero e assoluto, tanto forte da smuovere la terra e il tuono. Un amore così non può escludere, non può scegliere, non può dar vita a una relazione. Un amore così, per esprimere la sua completezza, deve diventare sacrificio.
La ferocia di Creonte, il re, in confronto all’integrità di Antigone appare meschina, goffa nella sua crudeltà. Il potere di Creonte è fondato sul dolore, incatenato alla spada, succube del terrore, avviluppato da una logica fallace, perduto nella confusione delle parole. Creonte uccide per confermare la propria esistenza, distrugge la vita nel tentativo di dominarla. Creonte, che crede nella legge della spada, rappresenta un potere che riconosciamo bene nel nostro presente: il potere più fragile che esista.
Creonte mi ha ricordato tutt’altra incarnazione del potere, talmente pervasiva che obbliga non soltanto a obbedire o a credere, ma a essere. Questo potere, fondato sulla forza sovrumana del “solipsismo collettivo”, si costruisce attraverso una narrazione che si beffa della logica e rende sacro l’odio, consentendogli di assimilare perfino l’amore. Mi riferisco a O’Brien, l’indimenticabile aguzzino di George Orwell, incastonato nel totalitarismo di Millenovecentottantaquattro. Un altro tempo, un altro mondo, molto lontano. Eppure, il confronto mi pare irrinunciabile.
Antigone e Creonte sono gli estremi che dominano l’opera di Daniele Sannipoli, tessendo una tensione che, come di norma accade, suggerisce simmetrie inquietanti. Anche l’amore di Emone arriva al sacrificio, ma è limitato dalla scelta, quindi non può spezzare l’implosione finale. E Tiresia arriva tardi.
Una riscrittura confezionata con parole che cantano il ritmo della recitazione, in cui non si può percepire, ma soltanto immaginare, la pignoleria appassionata dell’autore.
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La sua legge è sbagliata, la mia regge il mondo
Avevo intuito la capacità drammaturgica di Daniele Sannipoli leggendo un suo breve dramma in atto unico (In sospeso): difficile rappresentare in una pagina la tragedia del covid, lui l’ha fatto con un’idea immaginifica e densa.
Conoscevo il suo amore per il teatro di Sarah Kane e per il Caligola di Camus.
Misurarsi con un’opera eterna – come l’Antigone di Sofocle, già tanto reinterpretata nel corso dei secoli - era una sfida ardita.
Questa riscrittura di Antigone, a mio parere, esprime in modo unitario amore per il teatro, passione e conoscenza della classicità, dialogo implicito con autori più vicini a noi per epoca e cultura.
In quest’opera c’è un nuovo modo di concepire il conflitto tra ragion del cuore (“La sua legge è sbagliata, la mia regge il mondo. Vive nelle piante, nell’acqua, nel soffio del vento, nel volo di un uccello e nel grido di una madre”) e ragion di stato (“Rispetta quello che sento, rispetta chi ha il comando. Non permetterò che lo stato rovini”). Ci sono sequenze spettacolari che rappresentano la schizofrenia di Creonte tra interiorità e ruolo pubblico. Ci sono scene mozzafiato che illustrano la crudeltà del potere (“Immagino che meriti di morire. Voglio che meriti di morire. Ordino che meriti di morire”) e diffondono il sapore cruento del dolore. C’è il gusto di variare la sorte di qualche personaggio. Ci sono monologhi che traboccano di pathos.
A questo punto aspettiamo che la pièce venga rappresentata, per essere in prima fila a rivivere la potenza della storia e delle soluzioni sceniche adottate da Daniele: alla faccia del coronavirus, the show must go on.
Bruno Elpis
Su www.brunoelpis.it nella sezione interviste potete leggere il dialogo con Daniele su quest’opera.
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FORME NUOVE DI ANTICHI MITI
“Mi ripugna la vita, mi disgusta la morte […] Se solo qualcuno conoscesse il dolore che provo.”
L’”Antigone” è, tra tutte le tragedie dell’età classica, quella che, per la feconda complessità delle questioni etiche che in essa vengono affrontate, ha forse più influenzato il teatro moderno. E’ per questo motivo che l’opera di Sofocle è stata fatta oggetto negli ultimi secoli di un numero insolitamente copioso di interpretazioni e rivisitazioni. L’eroina tebana che, per onorare il fratello morto e dargli una pietosa sepoltura, sfida l’editto del re e per questo viene condannata a morte, è stata vista, di volta in volta, in maniera più o meno legittima, più o meno condivisibile, come una ribelle che sfida il potere statale per sancire la supremazia della libertà dell’individuo, oppure come una rivoluzionaria che si oppone strenuamente alla tirannide, o ancora come una femminista ante litteram, o come un emblema delle giovani generazioni insofferenti alle tradizioni di quelle più anziane, e perfino (nella rilettura di Valeria Parrella) come una paladina dell’eutanasia. Non è un caso che George Steiner abbia intitolato il suo saggio, dedicato alle varie interpretazioni del mito che si sono succedute nel tempo, “Le Antigoni”, perché in effetti non c’è, non c’è mai stata, e probabilmente continuerà a non esserci in futuro, un’unica Antigone, monolitica e immutabile.
L’ultima e recentissima versione della tragedia sofoclea ci è stata presentata dal giovane Daniele Sannipoli, già autore dell’interessante “A sua immagine e dissomiglianza” e qui all’esordio in un lavoro teatrale. La sua, come suggerisce il titolo, è una vera e propria “riscrittura”, in quanto rivendica fin dalle prime battute (affidate a Tiresia, laddove nell’originale greco l’indovino cieco interveniva in scena quando ormai tutto era già stato praticamente deciso e non più reversibile) lo status di opera autonoma e innovativa. Se Carmelo Bene diceva che “si riscrive perché non si può più scrivere”, Sannipoli smentisce questa aprioristica affermazione nella maniera più esemplare possibile. La sua “Antigone” è infatti piena di idee, di grazia, di ritmo, e non solo non sfigura nel confronto con l’archetipo (di cui, ovviamente, conserva l’impalcatura essenziale e le tematiche per cui è diventato celebre), ma vi innerva una sensibilità affatto moderna. Sannipoli è meno interessato di Sofocle al dissidio ideologico-politico tra Creonte ed Antigone, riassumibile nel dualismo tra il diritto positivo del primo e il diritto naturale della seconda, ma è affascinato soprattutto dall’interiorità dei personaggi, dalla loro innegabile natura di esseri fatti di carne e di sangue, spesso in passato sacrificata alla ineludibile necessità di dover rivestire un ben determinato ruolo, di dover rappresentare un simbolo. Si pensi al personaggio di Creonte, che qui assurge a protagonista assoluto e il cui nome avrebbe forse meritato di stare nel titolo al fianco di quello di Antigone. In questo re che, pubblicamente, rivendica la supremazia del potere statale, degli interessi della patria e della collettività, in nome di un ordine superiore che non può permettersi di soffermarsi sulle istanze del singolo cittadino (non diversamente dall’originale sofocleo), ma che poi, in privato, si strugge e si macera per il disgusto che la vita gli provoca, respira un’anima profondamente esistenzialista. Come il Caligola di Camus, Creonte è un uomo solo, disorientato, nauseato, schiacciato dal dolore ma più ancora dalla consapevolezza che neppure la sofferenza è destinata a durare, che cerca di ribellarsi all’insensatezza della vita ponendosi al di fuori di essa, facendosi destino della vita degli altri, nemesi odiosa che semina la morte e il terrore in chi gli sta intorno per puro arbitrio, per sfuggire a un paralizzante taedium vitae. Creonte è un personaggio che, nel corso dell’opera, viene appellato come “smembrato” (dalla moglie Euridice), “sdoppiato” (da Antigone), “sfibrato, lacerato” (da Tiresia). Nella bellissima scena in cui compare per la prima volta, Creonte ha addirittura un “doppelganger” che gli parla attraverso uno specchio e lo qualifica, per mezzo di una geniale sovrapposizione tra io e suo riflesso, come un uomo dissociato, diviso in due, vittima di una perturbante crisi di identità foriera di nefasti sviluppi.
In contrapposizione a Creonte, Antigone è la deuteragonista che, in nome della irrinunciabile sacralità della vita, sceglie di sacrificare se stessa preferendo morire piuttosto che rinnegare i propri valori. I due personaggi, trincerati ognuno in una posizione che rinuncia a priori ad ogni tentativo di ricomposizione dialettica, agiscono per un puntiglio, per partito preso, e non è per caso che sia Ismene, nel suo dialogo con Antigone, che il servo, quando dice giustamente a Creonte che non si può condannare un uomo per colpe che non ha commesso, imputano loro di agire per puro capriccio. Essi si rivelano in fondo, al di là di una apparentemente irriducibile dicotomia, più uguali di quello che si possa pensare, due facce della stessa medaglia (l’orgogliosa durezza del martire che per perseguire la giustizia non si accorge del male che provoca in chi lo circonda, da una parte, e la proterva arroganza di chi, per combattere la mancanza di senso dell’esistenza, non vede altro rimedio, avendo in mano il potere, che farsi padrone della vita degli altri con dispotica arbitrarietà), due persone logiche fino all’assurdo, che perseguono una purezza che non può dare sollievo e lenire i mali del mondo, ma solo accrescere la sofferenza altrui, due esseri che abdicano alla vita per diventare sterili princìpi (Creonte: “Diventare un principio che agisce. Questa è la massima esaltazione”; Antigone: “Io sono una legge che non conosce riposo… Io sono come un principio”). Il risultato finale è la solitudine, una solitudine assoluta che si fa paradigma della condizione dell’uomo moderno, dovuta a una ontologica capacità di comunicare da parte di coloro che sono come due rette parallele destinate a non incontrarsi mai, perché non vogliono e non possono deviare dalla loro traiettoria destinata all’autodistruzione (proprio come le falene di cui parla Creonte nella scena quarta dell’atto primo, le quali volano incontro alla luce pur sapendo di finire bruciate vive). C’è una scena emblematica nel secondo atto che rappresenta in maniera inequivocabile questa totale incapacità di stabilire un qualsiasi rapporto con l’altro, ed è quella in cui Creonte ed Emone, il quale si è recato dal padre per cercare di far revocare la condanna della fidanzata, finiscono per parlare ognuno per conto proprio, come se le loro parole non avessero più un destinatario che potesse ascoltarle.
Uno dei maggiori punti di discrimine rispetto a Sofocle è l’assenza degli dei che trapela dall’opera di Sannipoli. Laddove nella tragedia greca c’era un destino in cui i personaggi si riconoscevano e che li faceva agire come espressione terrena di un’istanza trascendente, magari sbagliata, opinabile, ma chiara e coerente, qui i personaggi o brancolano nell’oscurità e si fanno strumento di arbitrio e di ingiustizia (Creonte) o si ergono a fautori, altrettanto discrezionalmente, di una purezza fanatica e intransigente (Antigone), entrambi a loro modo incarnando posizioni totalitarie o integraliste per cui è difficile parteggiare. Il posto degli dei (“Il cielo è muto”, “Muta la bocca degli dei”) è stato preso da una religiosità naturale, panteista, in cui terra, acqua e vento reclamano una esistenza che è anteriore a quella delle divinità. La tragedia di Sannipoli è percorsa da versi in cui gli dei sono pregati, invocati e chiamati in causa un po’ da tutti, ma a cui nessuno in fondo crede più veramente. Il senso del sacro si è trasferito in un altrove che non la fredda logica può afferrare, ma forse solo un cuore ardente. E per questo che Emone (il personaggio che più di tutti ha probabilmente beneficiato del maggior spazio scenico concessogli dall’autore) si appella alla natura nell’estremo tentativo di far recedere Antigone dai suoi propositi suicidi (“E siamo di terra e di aria e di acqua e di fuoco e siamo luce e siamo noi, in un secondo infinito che non conosce il minuto”), intuendo l’afflato panico che pervade la ragazza (“La mia legge regge il mondo. Vive nelle piante, nell’acqua, nel soffio del vento, nel volo di un uccello”, aveva confessato all’inizio Antigone alla sorella). E’ una scena meravigliosa, piena di immagini di straziante poesia (“Scende il cielo, ci lambisce i piedi e si libra in alto la luna, ancora più su, un lago argentato, ci allaga e disperde, siamo alghe marine”), che fa degnamente corona al sorprendente monologo, tutto costruito in ardite paratassi, con cui si apre il secondo atto e che mi ha suscitato più volte la sensazione che i personaggi di Sannipoli, come negli antichi miti, potessero in qualsiasi istante metamorfizzarsi, Antigone magari trasformandosi come Niobe in una roccia. Non è secondo me un caso che la tragedia si chiuda con l’immagine simbolica di un amaranto che, al dissolversi della nebbia, compare sul palcoscenico là dove prima erano stesi i corpi dei due giovani suicidi.
Borges ha scritto che “non si può più esprimere, ma solo citare”. Anche Sannipoli, come il grande maestro argentino (una sorta di Tiresia della letteratura moderna), nella sua “Antigone” dà sfoggio di un ampio e variegato apparato di riferimenti culturali. In primo luogo, ovviamente, c’è il “Caligola” di Camus, che viene più volte omaggiato (e bene ha fatto l’autore a evidenziarlo nella prefazione), ad esempio nella scena dell’uccisione di Euridice (che echeggia quella di Cesonia), in quella in cui Creonte schernisce e sbeffeggia il vecchio tebano facendolo abbaiare e saltare su una gamba sola, o in battute come quella sul dolore (“Finchè c’è dolore c’è vita […] ma il tempo sgretola anche il dolore!”; Camus: “La vera pena è di accorgersi che neanche il dolore dura; e che, allora, neanche il dolore ha più un senso”), sulla necessità di essere logici (“Logico, Creonte, sii logico; Camus: “Logica, Caligola, logica. Bisogna seguire la logica”) e sulla irreversibilità della sofferenza che prescinde anche dall’impossibile ritorno in vita dell’essere amato (“Se anche tornasse in vita, per morire di nuovo, proverei lo stesso disgusto”; Camus: “Anche se i morti tornassero a fremere sotto la carezza del sole, non per questo rientrerebbe sotto terra l’assassinio”). C’è una comune sensibilità, che Sannipoli aveva già in qualche modo fatto balenare nel suo libro d’esordio, con il pensiero di Camus, e questa conduce la tragedia a esiti ancora più drammatici e irreparabili rispetto all’originale greco. Nell’”Antigone” di Sannipoli si percepiscono anche echi della Virginia Woolf de “Le onde” (soprattutto nei già citati parallelismi uomo-natura, che nel capolavoro woolfiano trovano espressione in personaggi come Rhoda o Susan), di Clarice Lispector (quando Tiresia afferma che “la luce disvela il vero, ma acceca anche con l’inganno della sua trasparenza” sembra di leggere la scrittrice brasiliana che in “Vicino al cuore selvaggio” asserisce che “per poter discernere determinate cose è necessario un certo grado di cecità… Proprio quelle determinate cose sfuggono alla luce accesa”) e perfino di Buchner (il vaneggiante monologo di Creonte, uno stream of consciousness di eccezionale potenza espressiva, mi ha fatto pensare al farneticante farfugliare di Woyzeck, la cui insensata gelosia lo conduce inesorabilmente alla follia omicida). Non si deve comunque cadere nella fuorviante convinzione che Sannipoli sia solamente abile nell’esibire la sua indubbiamente vasta e profonda cultura letteraria. La sua opera è infatti, sotto molteplici aspetti, estremamente personale: egli fa uno scrupoloso, pregevolissimo lavoro sulle parole, che sembrano essere pensate a lungo, approfondite e quasi distillate con una cura meticolosissima, e soprattutto sul ritmo narrativo, che, aulico e ancora classicheggiante in Tiresia, si fa frammentato e delirante in Creonte, sognatore e romantico in Emone, lucido ed esaltato in Antigone. Sannipoli divide la sua opera in tre atti via via più brevi, e a quella lunghezza progressivamente decrescente fa corrispondere, creando una suggestiva simmetria compositiva, una prosa sempre più febbrile e concitata, come se i personaggi fossero coscienti che il tempo a loro disposizione sta per scadere. L’”Antigone” di Sannipoli è un’opera densa, stratificata, polisemica, incredibilmente e in un certo senso (considerata l’età dell’autore) inaspettatamente matura, che rivela un’ammirevole urgenza espressiva, con scene di una bellezza quasi insostenibile ed indicazioni sceniche (ad esempio, il dialogo tra Eumone ed Antigone, con la scena divisa in due dalla parete della grotta) che ne accrescono ulteriormente la suggestione; un’opera di una purezza accecante, che non teme però di sporcarsi di fango e di sangue (alcune scene grandguignolesche mi hanno riportato alla mente il “Tito Andronico” di Shakespeare) e che fa sembrare il capolavoro di Sofocle come un film in bianco e nero degli anni ’20 in confronto a una pellicola dai colori romanticamente violenti di Wong Kar-wai. E’ un testo che non solo merita una lettura attenta e partecipe, ma spero possa trovare presto anche la via del palcoscenico: sarebbe il giusto riconoscimento per quella che mi sentirei di definire, senza tema di essere smentito, come una delle voci più promettenti e sincere del panorama teatrale (e letterario) italiano.
Indicazioni utili
"Caligola" di Albert Camus