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L'illusione di Dio
Un saggio più che valido dedicato ad evidenziare quanto siano forti, quasi patetiche, le contraddizioni delle religioni. Un libro dedicato a chi è capace di ragionare con la propria testa e non secondo idee inculcaltegli da piccolo.
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Severgnini deludente
Un libro davvero deludente. Sia per le tesi sostenute, sia per lo stile di basso livello. Severgnini enfatizza la bontà di un linguaggio minimalista, ma finisce davvero per esagerare, il suo sembra più che altro un manuale adatto ai ragazzi che vanno alle scuole elementari.
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Una stupidaggine
Libro penoso e, se confrontato con il resto della Sua produzione, davvero deludente. Monotematico, monocromatico, ripetitivo nella narrazione. Un misto di robaccia di serie b vista al cinema o in tivù. Manca totalmente la dimensione spirituale. Peccato.
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Da nonno a nipote
In fatto di precocità non c’è dubbio che a scrivere un libro a 13 anni e a pubblicarlo a 15 rappresenti un po’ un record. E’ ovvio che però sorga spontaneo il dubbio sulla valenza di quest’opera, dal genere non facilmente determinabile.
Francesco Giubilei ha avuto la fortuna di avere un nonno che l’ha assecondato in questo lavoro, strutturato come un’intervista; infatti il signor Italo Giubilei è stato testimone, come tanti italiani dell’epoca, di un particolare periodo storico: il ventennio fascista.
E il nipote, avido di conoscere come tutti i ragazzini, ha posto all’avo delle domande, a cui sono state fornite risposte di opinione, ma che presentano un livello di equilibrio sicuramente encomiabile.
Non so se c’era nelle intenzioni la pretesa di scrivere una piccola storia del fascismo, ma ne dubito, perché allora l’impostazione sarebbe risultata diversa.
Resta comunque il tentativo di spiegare un fenomeno che ha visto il nostro paese sostanzialmente in accordo con il regime fascista fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, circostanza da non sottovalutare, perché denota certe caratteristiche di noi italiani, caratteristiche presenti anche in Benito Mussolini che le seppe sfruttare per un certo tempo nel migliore dei modi.
Questo l’essere il tutto e il contrario di tutto ci accomuna in maggior o minor misura ed emerge nel corso dell’intervista, con la popolazione contenta per un certo piccolo benessere, ma che mal sopporta il pre-militare del sabato fascista, o che apprezza la puntualità dei treni, ma condivide le iniziative politiche del suo duce solo fino a un certo punto.
Come ho scritto prima, però, le risposte formulate dal nonno sono frutto di un’opinione individuale e come tale finiscono con l’avere una valenza limitata, se pure in linea generale è possibile concordare con le stesse, sulla base di esperienze analoghe avute da parenti che hanno vissuto lo stesso periodo.
Pur nella buona volontà dell’autore, il libro non ha una valenza storica, ma eventualmente di cronaca.
Comunque, è piacevolmente scritto e, credetemi, considerando la giovane età, è già stato realizzato molto.
Chissà che un giorno non ci sia possibile leggere un bel saggio storico di Francesco Giubilei, ma è inevitabile che dovrà passare del tempo, dovranno essere completati gli studi con il successivo inevitabile tirocinio di chi cerca di affrontare questo difficile compito di ricerca di una verità che non sarà mai quella definitiva.
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Ottimo servizio
Sono stati proprio cortesi e gentili!
Molto meglio di altri siti!!

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Meglio de Il vecchio e il mare
Il racconto presenta due aspetti, opposti, ma inscindibili: la riaffermazione del diritto di essere se stessi in quanto individui dotati di propria autonomia intellettiva e quindi di personalità, e la grigia oppressione di un regime, del tutto avulso dalla realtà che ogni giorno vivono gli esseri umani che ne sono assoggettati.
Il protagonista, un vecchio pescatore, solo, che vive in una palafitta della Marina, non crede a nulla, non ha mai creduto, non è religioso e anche quando ha combattuto nella Sierra con i castristi contro Batista lo ha fatto per necessità. Tuttavia, là, fra tante battaglie e pericoli, la figura del suo capo, dell’esempio che ogni giorno portava ai suoi sottoposti, ha rappresentato un faro, una guida su cui contare e di cui avere fiducia.
Ancora una volta è quindi l’uomo che emerge prepotente sulla spersonalizzazione del regime politico, tanto più vero ove si consideri che per il resto della sua vita il pescatore ha creduto in una sola persona: sua moglie.
Parallelamente alle acute osservazioni sul dualismo fra individuo e regime, il ricordo di quest’uomo, che non si aspetta più nulla dalla vita, va alla consorte, che tanto ha amato e che per un male incurabile lo ha lasciato.
In verità ci sarebbero le figlie, ma una si è sposata con un italiano e vive nel nostro paese, e dell’ altra, rimasta a Cuba, si è persa la traccia. Non è che il nostro protagonista non ami chi gli rimane della famiglia, ma questi rappresentano un’entità autonoma, elementi di un futuro di cui non potrà mai essere partecipe, perché lui non crede più a nulla.
Così trascorre il tempo fra la pesca, che gli consente di raggiungere il minimo di sussistenza, vendendo le aragoste ai ricchi turisti stranieri, con il pericolo di essere scoperto, in quanto il pescato per legge è di proprietà dello stato, e il riposo seduto sulla veranda, con davanti agli occhi l’oceano, uno schermo immenso sul quale si proiettano tutti i ricordi di una vita, magari grazie anche ai suggerimenti del suo vicino, vecchio come lui e pure solo, ma per libera scelta.
Entrambi sono senza speranze, perché per loro non c’è futuro ed è solo la memoria del passato che li tiene in vita, ma in una sorta di desolata rassegnazione, con la certezza che il domani non sarà diverso dall’oggi.
Le pagine di questo racconto sono tutte belle, ma le ultime sono addirittura sublimi, a tal punto da generare un’autentica intensa commozione.
La figura dell’anziano pescatore e il suo rapporto con l’oceano può indurre a qualche accostamento con “Il vecchio e il mare” di Hemingway, ma assicuro che si tratta di un’opera ben diversa, più malinconica e, in alcuni elementi, forse migliore (in particolare per quanto concerne la descrizione del paesaggio e dell’ambiente, realizzata con poche appropriate parole e perciò mai greve, pur in presenza di un sottofondo emozionale lasciato abilmente trasparire solo quando strettamente necessario).
Ruiz è un giovane scrittore, ma di indubbio talento, che nell’isola in cui vive, e che ama, ben difficilmente potrà emergere. In questo senso è doveroso un ringraziamento a Gordiano Lupi, che lo ha tradotto e lo ha fatto conoscere nel nostro paese.
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deludente
Il libro mi ha lasciato questa impressione: McCarthy è ormai uno scrittore di moda che ha incassato un sacco di quattrini. Chi non ha le spalle coperte come lui non ce la farebbe mai a scrivere un simile incubo senza uscir di senno. Non credo inoltre che McCarthy abbia mai dormito all'addiaccio d'inverno. Alcuni miei conoscenti sono morti in una sola notte. Preferisco di gran lunga Oltre il confine.
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Capolavoro di Simenon
Grande romanzo, questo "Il Presidente" di Simenon. Libro del 1958, la sua lettura mi ha dato una grande soddisfazione. Simenon riesce ad indagare nell'animo umano meglio che mai, questa volta per mezzo di questo personaggio, ex presidente francese ora ritiratosi nella sua villa in Normandia. Conserva numerose carte che potrebbero danneggiare potenti personaggi, ma ora si rende conto di quanto tutto sia vano, ridicolo. Un romanzo che lascia una forte sensazione di vuoto. Bellissima la descrizione dei personaggi.
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Non il miglior Torreguitart Ruiz
Ho letto questo breve romanzo di Torreguitart Ruiz, giovane scrittore cubano, dopo altre sue opere più recenti. Il testo è piacevole, si legge in meno di un'ora, lascia una profonda sensazione di tristezza e malinconia (si tratta del racconto di un anziano rimasto che ha perso in modi diversi moglie e figlie e ora vive da solo). Però non ne consiglio la lettura in quanto ritengo che gli altri titoli in commercio di questo scrittore siano preferibili.
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Finale deludente
La storia è scritta in modo stupendo, e i rari dialoghi dicono molto più di quello che può essere espresso nel doppio di pagine. Però... la narrazione è ripetitiva e non arriva ad una conclusione di qualsiasi specie. Puoi saltare interi capitoli senza perdere niente di indispensabile. Alla fine, la squallida ambientazione che dà luogo all'idea di questo romanzo sembra non portarti da nessuna parte. Desumo che il punto di vista dell'autore sia che la vita è un combattimento privo di senso.
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La Strada, romanzo di qualità
In un arido e grigio paesaggio, che una volta era quello degli Stati Uniti, un uomo affaticato e suo figlio si stanno muovendo verso sud in cerca dell'oceano. Devono lottare per cibo e rifugi e difendersi da bande di sopravissuti. L'unica cosa che li sostiene è il profondo amore che li lega l'uno all'altro... La Strada è la storia di questo straziante viaggio. Rramente sono stato colpito nel profondo da un'opera letteraria, ma questo è successo leggendo questo romanzo. Assolutamente imperdibile... aspetto altri commenti.
Luca
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Viaggio verso l'eternità
Occorrono capacità e coraggio per scrivere un libro simile. Per la prima mi dilungherò più avanti, per il secondo invece preferisco parlarne subito.
Premetto che, nella mia ignoranza, non avevo mai letto nulla di questo autore e se ho provveduto in parte a riparare questa negligenza lo devo soprattutto a Gian Paolo Serino, il cui articolo in proposito apparso su Satisfiction mi ha convinto della necessità di acquistare e leggere questo romanzo, ma non perché ha vinto il premio Viareggio, bensì per l’entusiastico consiglio di lettura del critico milanese, di cui condivido spesso i giudizi.
Ho parlato prima di coraggio e in effetti ne occorre per proporre una storia, vera, di esplorazione, genere stranamente non tenuto in considerazione dai lettori italiani; inoltre è un’opera di elevato livello culturale che cozza contro il generale appiattimento dell’attuale narrativa italiana, portata, nel migliore dei casi, a una lettura d’evasione adatta a un pubblico da tempo abituato a fiction e a reality che, di certo, non costringono a spremere le meningi.
Di ciò l’autore è ben consapevole perché altrimenti non avrebbe usato un linguaggio erudito, non avrebbe approfondito certi aspetti della vicenda, indifferente quindi alla ricerca di un eventuale successo commerciale.
Filippo Tuena ha inteso scrivere un prodotto culturalmente molto valido, ben sapendo che ciò da diverso tempo è negletto e il risultato è stato un’opera che senza ombra di dubbio può essere definita un capolavoro, alla stregua di quelle dei grandi classici.
La vicenda trattata è abbastanza conosciuta ed è la tragica spedizione del 1911, condotta dal britannico Robert Falcon Scott nell’Antartide, per la conquista del Polo Sud.
Però, non solo non se ne era scritto mai in modo così dettagliato ed esauriente, ma addirittura nessuno aveva pensato di ricavarne un romanzo.
Che cos’è il Polo Sud, se non un punto ideale sulla calotta di ghiaccio che ricopre un continente dell’emisfero australe?
Battuto da venti impetuosi, gelido, completamente deserto è una terra del tutto inospitale, ma per molti anni ha rappresentato una meta agognata, il desiderio intenso e ossessivo di tanti intrepidi esploratori.
Raggiungere il polo non era solo una sfida fra uomini e una natura inclemente, ma era molto di più, era la ricerca di se stessi, un tentativo di conoscere il proprio io misurandosi con forze impari.
Sappiamo dalla storia che il primo a raggiungere il Polo Sud fu il grande esploratore norvegese Roald Amundsen, ma, benché il suo nome appaia in questo libro, non ci è mai dato di vederlo, anzi l’autore lo circonda di un alone da divinità vichinga, sì che ci pare di vedere la sua slitta, trainata dai cani, correre sul ghiaccio veloce come un fulmine e dritta alla meta.
Lui è il vincitore, è l’uomo che ha sconfitto la natura, ma lo scopo di Filippo Tuena non è di parlare di eroi trionfanti, ma di ipotetici eroi ritornati nei ranghi della debolezza umana di fronte a fatti e a circostanze che, nonostante l’insuccesso, hanno destinato i lori nomi all’eternità.
Ecco, allora, perchè in questo libro si narra solo della infausta spedizione inglese guidata da Robert Falcon Scott, il cui esito è a tutti noto, ma che nelle parole dello scrittore assurge a dimensioni titaniche, a una sorta di sacrificio umano, quasi il destino degli uomini che perdono la sfida con gli dei.
E’ stata una lettura sofferta, perché Tuena ha la rara capacità di coinvolgere chi si sofferma sulle sue parole, e così mi sono immerso in immense distese ghiacciate, ho visto uomini stremati che a braccia trainavano le slitte, ho avvertito il gelo entrarmi nelle ossa, mi sono amareggiato con la delusione di essere arrivato al polo non per primo, ho sofferto pene intense lungo la via di un ritorno che non ci sarà, mi sono rinchiuso in una fragile tenda convinto di essere senza futuro, mi sono accorto della presenza ossessiva, giorno dopo giorno, di un uomo in più.
E questa sensazione dell’uomo in più, che in effetti hanno provato diversi esploratori nei momenti in cui la fatica sembrava insormontabile, tale da esaurire ogni energia residua, ed espressa in una sorta di visione incerta di un altro incappucciato e avvolto in un mantello bruno, è stata abilmente sfruttata da Tuena.
Infatti, Scott non parla in prima persona, e nemmeno l’autore, ma a rendere estremamente coinvolgente il testo ci pensa l’uomo in più e così è attraverso i suoi occhi che seguiamo l’intera vicenda.
Al riguardo apro un’ideale parentesi, perché mi sono posto il problema di chi fosse mai questo essere che si crede di vedere, avvertendone la presenza.
Inizialmente ho pensato alla morte, ma, per quanto non improbabile, non mi convinceva questa soluzione e allora ho interpellato l’autore, al fine di confrontarmi e di avere un’interpretazione autentica.
In merito, di seguito riporto le precisazioni dell’autore:
“ Non pensavo necessariamente alla morte, piuttosto a una divinità antartica che si desta con la presenza degli esploratori e si spegne con la loro partenza. Credo che non esistano divinità dove non vivono uomini che le possono vivificare. Più precisamente, riguardo al libro, lo spirito che accompagna gli esploratori, è di volta in volta lo scrittore che ne scrive e il lettore che ne legge perché che cosa siamo noi, quando scriviamo e leggiamo, se non coloro che accompagnano silenziosamente i personaggi di un libro nel loro andare?”.
Ecco, quindi, un ulteriore elemento che dimostra l’intenzionalità dell’autore di coinvolgere attivamente il lettore e posso dire che ci riesce benissimo.
Chiudo l’ideale parentesi e ritorno alla trama.
Demoralizzati per non essere arrivati primi, esausti, sfibrati da mesi di marcia, Scott e i suoi quattro compagni prendono la via per l’eternità, un calvario senza testimoni, ma in parte ritrovato in due diari e in una macchina fotografica, una sorta di epitaffio mancante solo dell’evento finale, di quel trapasso, per stenti e freddo, ormai quasi desiderato come la soluzione migliore per chi ha fallito e sta soffrendo le pene dell’inferno.
Se nella fase preparatoria della spedizione e nell’avvicinamento alla meta la mano felice di Tuena non solo ha evitato di annoiare il lettore, ma anzi lo ha progressivamente reso partecipe, è proprio nel dramma finale che lo stile, la misurata pacatezza coinvolgono oltre ogni misura, in un lento, crescente, angoscioso stillicidio di eventi, di riflessioni, di tormenti interiori.
Non scrivo altro, perché Ultimo parallelo, come tutti i capolavori, ha bisogno di essere meditato, assimilato a gradi, con il trascorrere del tempo, per scoprire ogni volta qualche nuova traccia preziosa.
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I palazzi lontani di Abilio Estevez
Sono un appassionato di letteratura cubana e quando ho visto questo romanzo di Abilio Estevez, autore cubano del quale non avevo ancora letto niente, ho comprato con entusiasmo l'opera. Purtroppo però la lettura è stata deludente. La storia è troppo irreale, lo stile non abbastanza scorrevole. Belle solo alcune descrizioni di L'Avana, città in cui è ambientato il romanzo. Decisamente meglio Gutierrez.
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Un gotico spagnolo
Nei primi giorni dell’estate del 1945 il proprietario di un piccolo negozio di libri usati porta il figlio undicenne al Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo sito nel cuore della città vecchia di Barcellona e in cui migliaia di libri di cui non si ha più nemmeno memoria vengono sottratti all’oblio. Daniel, così si chiama il fanciullo, entra in possesso di un libro intitolato L’ombra del vento, che cambierà tutto il corso della sua vita.
La storia di Daniel, dalla pubertà fino alla maturità, si svolge in una Barcellona tetra e piovosa, oppressa da una cappa di nebbia e immersa nel cemento e nello smog. Di pari passo con la lettura del libro procede la vita del personaggio principale con strette analogie fra realtà e fantasia, fino a un punto in cui l’esistenza di Daniel si confonderà con la trama del volume che potremmo anche definire “maledetto”, perché tutta una serie di elementi, quali antiche dimore con segreti inconfessabili e con spiriti che le animano, palazzi fatiscenti popolati da mostri finiscono con il richiamare la grande tradizione del romanzo gotico.
La grande abilità di Zafón è di illuminarci su quella che doveva essere la vita negli anni cinquanta in Spagna, sotto il regime franchista, una vera e propria cappa di piombo in cui la popolazione si aggira incerta, in un misto, non esattamente divisibile, di amore e odio per il Generalissimo.
L’intenzione dell’autore, però, non è quella di delineare un periodo politico, anche se calza a pennello con il gotico, ma di tributare un omaggio alla scrittura, alla creatività che le è insita, realizzando un romanzo in un romanzo, in una sorta di gioco indubbiamente complesso, ma di grande efficacia.
Se qualcuno può storcere il naso pensando a un romanzo gotico scritto non da un inglese o da un tedesco, ma da uno spagnolo, sbaglia certamente, perché Zafón non fa altro che appropriarsi di tematiche che sono proprie della cultura europea, impreziosendole con caratterizzazioni del tutto iberiche. Al riguardo, significativo è il riuscitissimo personaggio di Fermin Romero, con la sua morale superiore a quella della classe dominante, nonostante una vita vissuta quasi da emarginato, e che richiama in modo perfetto la figura del picaro, con quello spirito d’avventura animato da un’ideale e con la miseria esteriore che cela un animo ricco di altruismo.
Dell’altra caratterizzazione, cioè la cupa dittatura franchista ho già accennato prima, anche se ritengo opportuno aggiungere che non mancano le frecciate alla Chiesa per la sua complicità con un regime che si professa difensore della cultura cattolica, ma che in nome di questa compie ogni genere di nefandezze.
Il mistero, in questo contesto, appare quindi quasi naturale e di mistero si tratta, perché pagina dopo pagina, nel mentre ci verrà svelato il perché di tante cose, altre ne sorgeranno di enigmatiche, anche se non del tutto incomprensibili.
L’aspetto più straordinario è che il ritmo e la tensione non vengono mai meno; inoltre, tanto è il desiderio del lettore di arrivare alla fine per scoprire la soluzione del tutto, ma altrettanto è il timore che l’ultima pagina chiuda per sempre quell’atmosfera magica e sospesa che lentamente, senza ce ne accorgessimo, è scesa su di noi.
Indubbiamente si può parlare di un testo avvincente, di rara potenza ed efficacia, scritto con uno stile misurato e suadente. Certo, l’invenzione di cui ho già accennato e che alla fine di questo periodo ripeterò, attribuisce un’originalità fuori dal comune e che, resa con maestria, mi induce ad affermare che questo libro nel libro, questa storia nella storia, costituiscono un’opera di tale qualità da renderne consigliabile vivamente la lettura.
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Un amore nel ricordo
L’amore è un sentimento che si presenta sotto molteplici aspetti, andando dall’emotività intensa, palpitante di quando nasce, alla malinconia appena frenata di quando non costituisce che un ricordo. In quest’ultimo caso si può parlare più di rimpianto, cioè di una sensazione che da un lato tende ad esaltare momenti di intimità e dall’altro subito frena un entusiasmo che già si rivela irripetibile.
La lettura delle 57 liriche di Gaspare Armato, Charlette Itinerario di un amore, mi ha indotto alla riflessione di cui sopra, perché, secondo me, è chiaramente avvertibile una rimembranza accentuata tipica dell’idealizzazione di un evento passato, lontano nel tempo, ma che è rimasto indelebile nella memoria.
Le poesie, strutturate a versi liberi, presentano comunque un’armonicità riflessiva, cadenzata da spazi precedenti parte del periodo, quasi a invitare il lettore a soffermarsi su situazioni emotive che nascono d’impulso dall’animo (Charlette proprio tu/ ancora tu/ premi il cuore/della brughiera/del fantasma mio).
E in questa rievocazione si passa dall’entusiasmo per riassaporati momenti di felicità a una progressiva constatazione che è solo sogno e che nulla sarà ripetibile ( Piove amica mia/ è una pioggia/che cade triste triste/ come me/nel lento sciupio/ delle giornate).
In questo percorso la conclusione, logica, è annunciata dall’avviarsi della rassegnazione (I mesi passano/gli anni scorrono/le righe/di questo quaderno/
si riempiono/col sudore/dei sogni).
Il tutto finisce, come una mano stanca di scrivere, con l’ultima poesia, giustamente breve, per troncare un residuo di sogno e di speranza in un ritorno alla realtà consapevole sintetizzata con un aforisma (Si è troppo felici/per accorgersi/che la felicità/durerà un attimo).
Con questa silloge, di piacevole lettura, Gaspare Armato si conferma poeta dai sentimenti delicati espressi con tonalità tenue, quasi un sussurro della sua anima.
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Vergogne
Colgo l’occasione della bella trasmissione su Rai3 in prima serata del 2 settembre 2007, condotta in modo egregio da Lucarelli, per parlare di questo libro di cui più volte si accennato nel corso dell’ esauriente svolgimento di questo argomento, dove la prima vergogna è di chi ha commesso crimini di inaudita ferocia e la seconda, altrettanto grave, è di coloro che hanno imboscato tutta la documentazione di tali misfatti, onde evitare di rinviare a giudizio i colpevoli. Si è parlato di ragion di stato, di opportunità politica, ma resta il fatto che nessuna giustificazione, dico nessuna, può trovare fondamento quando si tratta di punire chi si è macchiato di infamie contro l’umanità.
Fra il 1943 e il 1945 decine di migliaia di civili furono vittime di stragi orrende compiute dai nazisti e dai fascisti in tutta l'Italia. Nei mesi che seguirono la Liberazione furono individuati molti dei colpevoli e a loro carico si aprirono procedimenti penali. Dal 1947, però, ignoti hanno messo tutto a tacere, rinchiudendo in un armadio della Procura generale militare ben 695 fascicoli; e non fu una dimenticanza, ma un atto voluto. Dal 1994 la Procura ha riaperto i processi a carico degli ormai pochi superstiti che, al termine dei procedimenti, benché riconosciuti colpevoli e condannati a lunghe pene detentive, sono rimasti in libertà, avendo tutti già superato gli ottant’anni di età.
Franco Giustolisi, che ha portato alla luce l'esistenza di questo armadio della vergogna, tratteggia nel volume in modo inequivocabile l'intera vicenda dell'insabbiamento delle prove e ricostruisce, sulla base dei documenti e delle indagini a suo tempo esperite, quelle stragi, infami per efferatezza e crudeltà.
La commissione parlamentare d'inchiesta, indetta per stabilire i colpevoli di questa criminale decisione di lasciare impuniti i crimini di guerra, ha concluso lo scorso anno i lavori con una duplice relazione, una di maggioranza tendente ad escludere dalla colpa i politici dell’epoca e una di minoranza, che invece ne ha ribadito il coinvolgimento. In buona sostanza le cose hanno finito per rimanere come erano, nel pieno rispetto di un disegno volto al raggiungimento di questo scellerato fine, che non ammette scusanti.
E' un libro che dovrebbe essere diffuso anche nelle scuole, affinché i giovani sappiano dell'orrore che ha caratterizzato la storia del nostro paese negli ultimi anni di guerra e che traggano le dovute considerazioni dal comportamento di una certa classe politica che ha cercato di nascondere la verità alla giustizia per così tanti anni.
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commedia dell'assurdo
"Amici miei, miei amori" sembra un pò una commedia dell'assurdo, tra amori infranti da tradimenti ma mai svaniti, salmoni cotti in lavastoviglie e dessert salvati dalle trovate geniali della giovane giornalista Audrey... L'autore riesce a descrivere senza far cadere nel ridicolo il tentativo di due padri single di convivere sotto uno stesso tetto, di dare ai propri figli la parvenza di una famiglia tradizionale, di superare litigi che li fanno sempre più assomigliare ad una vecchia coppia sposata... E' un libro piacevole, a volte si sofferma poco sullo stato d'animo dei protagonisti ma rende bene i sentimenti. Solo un ultimo problema irrisolto -ma si sà che a Levy i finali sospesi, come in "Se fosse vero", piacciono molto- : Mathias, uno dei protagonisti, non riuscirà mai a capire perchè il vecchio proprietario della libreria da lui rilevata continua a chiamarlo Popinot... Levy non lo svela nemmeno al lettore. Un indizio?? Nella "Commedia Umana" di Honore De Balzac.. Buona lettura!!!
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L'Italiano
Non ho letto tutta la produzione di Sebastiano Vassalli, ma sicuramente una buona parte e devo dire che generalmente l'ho apprezzata tanto da acquistare a scatola chiusa le novità che sono uscite negli ultimi anni e così quando ho sentito in una puntata di Fahreinheit, su Radio Tre, presente lo stesso autore la presentazione del volume "L'Italiano", l'ho acquistato per leggerlo in treno e ci sono rimasto malissimo poiché in buona parte è una "antologia" con una presentazione e un epilogo "furbi". I tanto decantati personaggi che dovrebbero delineare l'italiano sono già stati separatamente presentati in altri volumi del nsr. autore a cominciare dal primo Il Doge, rielaborato e ampliato fino a diventare racconto è presente in "Marco e Mattio" ed.tascabile pg.301; Il Commendatore e Il Padre della patria sono riportati da "Il Cigno" ed. tascabile ripettivamente pp5-15 e pgg123-134; Il Tenore da "Cuore di Pietra" ed.tascabile pgg176-181; Il Trasformista e il Carabiniere da "L'Oro del mondo" ed. tascabile, per il primo una rielaborazione e un ampliamento delle pgg50-51, 157-158 e altre sparse qua e la e per il secondo la riproposizione delle pgg43-44. Non ho a portata di mano gli strumenti per verificare gli altri personaggi del libro, ma di qualcun altro mi pare di avere sentore e quindi a mio modesto avviso onestà intellettuale dell'autore ed onestà dell'editore avrebbe dovuto correttamente segnalare che trattasi, in buona parte di un testo antologico, con alcuni ampliamenti e rielaborazioni, rimandando il lettore con esplicite citazioni alle opere del Vassalli.
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Molto originale
La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo è un romanzo di amore particolarmente originale. Si tratta di una delle opere più originali che abbia mai letto. Tralascio la descrizione della trama perchè è riportata nella scheda, mi preme invece evidenziare la bontà dello stile e la piacevolezza della lettura. Il finale è molto commovente, una bellissima storia d'amore...
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Una storia cubana
Juliana è una bella ragazza che vive con la madre e con il figlio Daglis, avuto da un marito tanto desiderato prima, quanto odiato poi per la sua violenza e da cui è fuggita.
Una situazione, quindi, quasi normale, se non fosse per il fatto che, per vivere, fa la jinetera, né più né meno che la nostra prostituta.
Ovviamente, non è una vocazione, ma una necessità quella di esercitare il mestiere più vecchio del mondo per poter mantenere la famiglia, per crescere il figlio, per farlo studiare nella speranza che un giorno, lui, si trovi in una Cuba diversa dall’attuale, dove un popolo è costretto ad arrangiarsi per mettere qualche cosa in tavola.
In pratica il romanzo è costituito dal racconto che fa Juliana della sua vita, fra episodi passati e presenti, ed è lei a parlare in prima persona, a narrare fatti e vicende all’autore che si è messo in testa di scrivere la sua storia.
L’escamotage dell’io narrante del protagonista e della presenza dello scrittore quale personaggio non è nuovo, ma nel caso specifico è reso con straordinaria abilità, conferendo alla vicenda un realismo quasi palpabile.
Juliana non è una figura negativa e non è nemmeno un’eroina, ma rappresenta la tragedia di un normale essere umano costretto a fare una vita che sicuramente, se i presupposti fossero stati diversi, non avrebbe nemmeno immaginato.
E così ci sono racconti di amplessi senza amore, di incontri occasionali che si rivelano poi delle colossali fregature, ma in un’atmosfera stanca, senza palpiti, perchè in assenza di speranze per l’avvenire Juliana accetta, accetta tutto come i normali incerti del mestiere.
Eppure è una donna viva, che ama il figlio, che saprebbe anche amare un uomo che non c’è, che sa accontentarsi di quelle piccole gioie che la vita, quella vita, può dare.
Fra queste ci sono anche i colloqui con Alejandro, lo scrittore, quasi una sorta di confessione liberatoria, perché lei ama parlare, ma soprattutto ama essere ascoltata, desidera che le sue parole assumano il significato di una piccola ribellione a un potere che la sovrasta e che solo pretende da lei, sia che si tratti del regime, sia che siano gli uomini dei suoi incontri, perché ha ancora una dignità, svilita certamente, ma non tanto da non riuscire a comprendere che gli inermi, gli indifesi sono sempre in balia dei più forti.
In questo senso penso che l’autore sia ben riuscito a rendere la rassegnata desolazione di un popolo che, perdendo l’oggi, non vede il domani.
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Alla ricerca di noi stessi
Dopo le prime pagine avevo tratto la convinzione di trovarmi di fronte a un romanzo che aveva attinto ispirazione dal celeberrimo Moby Dick o da qualche narrazione di Joseph Conrad. In effetti sono presenti elementi che convaliderebbero questa mia impressione: la ricerca spasmodica di un’isola misteriosa, un sogno/incubo del capitano Beltramino divorato da questa ossessione, le lunghe giornate a bordo, ripetitive, tranne quando le forze della natura si scatenano, la descrizione intensa dell’equipaggio, di rudi uomini di mare visti dagli occhi stupiti del giovane mozzo al suo primo imbarco.
E invece Istanbul Bound è un romanzo dotato di propria autonomia ed è la descrizione di un viaggio, effettuato nell’imminenza della seconda guerra mondiale, da Massa a Istanbul, località a cui la nave non arriverà mai in un finale del tutto imprevedibile, ma frutto di una geniale invenzione dell’autore che, nelle ultime pagine, ha profuso a piene mani un’indubbia eccellente creatività. Del resto, anche prima, ci sono delle felici intuizioni, una sorta di stacchi temporali che evitano che la narrazione possa appiattire, così che il lettore abbia a godere un po’ di rilassamento, astraendolo momentaneamente da una lenta, ma crescente suspence. In effetti, come ne Il deserto dei tartari, si ha viva l’impressione che da un momento all’altro la quasi noiosa calma apparente possa subire un’improvvisa lacerazione, come accade poi alla fine.
Ben scritto, con un’analisi accurata dei personaggi, con delle riflessioni e approfondimenti di pregevole livello (raccomando di leggere con attenzione quella relativa alla guerra), Istanbul Bound è un romanzo che merita di essere letto.
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Il grigio della noia
Non so se succede anche a voi, ma a me capita sempre così. Prendo in mano una silloge e comincio a leggere; all’inizio trovo sempre un po’ di difficoltà, una sorta di atteggiamento di cauto approccio che, per fortuna, viene superato con un semplice ragionamento, che consiste poi in un atto di umiltà, quasi una sottomissione al messaggio del poeta di turno. Per comprendere e apprezzare la poesia si deve necessariamente avere la massima disponibilità ad ascoltare quanto l’autore ci dice. La stessa cosa è accaduta con Grigie distese e, lirica dopo lirica (in totale sono 101), sono arrivato alla fine con la piena consapevolezza di aver letto un’opera di notevole gradimento. Di norma, in questi casi, esce spontaneo un aggettivo, che può essere bella, magnifica, stupenda, ma che in questo caso è stato il frutto di un nuovo conio, e così mi è sfuggito dalle labbra un’intensa, quasi a voler qualificare, più che la soddisfazione, l’intera sua costruzione. Preciso che intensa è stato il primo della serie, perché poi è seguito un mirabile e infine un realistica. Subito dopo, scatta l’inevitabile domanda: perché? Questa volta, complice il caldo afoso, che rallenta i riflessi e impigrisce la mente, prima di rispondere con le mie considerazioni a questo quesito di rito, quasi inavvertitamente ho incautamente letto, cosa che invece di solito faccio solo dopo aver scritto la recensione, l’introduzione di Taylor Grant Hawkes, poeta e saggista americano. Ebbene, queste poche righe sono state scritte in modo talmente esauriente che ho finito con il pormi un’altra domanda: che scriverò ora? Per farla breve, ho deciso, nella circostanza, di mutare completamente il mio modus operandi e dopo questa premessa, forse un po’ lunga, anche barbosa, ma a mio avviso indispensabile, di seguito potrete leggere la mia recensione. La noia, non quella che ci prende ogni tanto, quando siamo insoddisfatti temporaneamente della nostra esistenza, è alla base di questa silloge. E’ una noia che trova origine in un contesto esistenziale: Anche oggi/chiude gli occhi/chi non trova posto/nel tacito patto/di esistenza/fra il milite ignoto/e la trincea del nulla. (NOIA I). Del resto già il titolo dell’intera raccolta è di per sé esplicativo. Fra tutti i colori quello più opprimente è il grigio, un colore non colore, una massa uniforme che ci isola dagli altri e che separa noi dalla realtà, come una nebbia persistente. Se poi aggiungiamo una distesa di questo colore, possiamo comprendere come l’isolamento sia totale, come profondo e insanabile sia il senso di solitudine di chi riesce a vedere oltre le immagini, a differenza di chi opera sulle apparenze. E’ un rifiuto insanabile di fare parte di qualche cosa in cui non si crede, è una lenta presa di coscienza di ciò che si è, di quello che non si è e di nient’altro. A un eroe inutile/è concessa solo/ la forza di odiare/i giorni che si ripetono (da Noia LXXXIII). In un trauma interno, in un conflitto fra la comprensione del proprio stato e il ripudio della possibilità di essere parte del mondo omologandosi, scaturisce un’ emozione catartica quale l’odio. E’ il passo indispensabile nell’enfasi cosciente della sensazione, ossessiva, del tempo che scorre per giungere a un lucido stato di pazzia, con cui si finisce con l’accettare quel destino, quel fardello che altri portano senza sapere. La silloge termina con una lirica stupenda, un omaggio di un essere rassegnato alla nemica, ma in fondo amica, perché propria del suo sentire: sempre, eternamente la noia. E così, con la splendida Ballata della noia si conclude un’opera non solo di elevato livello stilistico, ma di pregnante, rilevante analisi psico-filosofica, dove le risultanze dell’introspezione diventano una visione più generale della vita, di quello che gli altri sono incapaci di avvertire.
Una silloge di indubbio elevato valore e, peraltro, di gradevolissima lettura.
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Un titolo che non si può scordare...
Devo essere sincero e perciò vi dico il motivo per cui ho lasciato questo libro a giacere un po' sul comodino: il titolo.Infatti quelle parole messe una dietro l'altra a significare qualche cosa di inequivocabile mi provocavano una duplice sensazione: una di naturale curiosità, l'altra di repulsione, perché mi balzava subito agli occhi l'immagine di una vecchietta, magari una povera pensionata, mentre veniva brutalizzata sul marciapiedi della metropolitana.Poi, una sera mi sono deciso e mi sono detto che mal che vada, se dopo le prime righe capisco che è una vaccata, lo butto.E invece dalla prima pagina sono passato senza accorgermene all'ultima, nonostante un certo linguaggio trasgressivo che probabilmente è proprio dei giovani d'oggi. Anzi, direi che questa forma espressiva è essenziale in questo caso alla narrazione, costituita da una serie di episodi che trovano origine nell'adolescenza.Un filo comune, a parte il linguaggio, è dato dall'ironia e dal paradosso, caratteristiche che addirittura sono prorompenti, anzi dissacranti di molti aspetti del mondo degli adulti.In questo Vincenzo Trama riesce a dimostrare un'originale vitalità che sembra esulare dalla sua giovane età, perché osservare la nostra società con occhio critico non è difficile, ma riuscire a coglierne gli aspetti grotteschi per costruire sugli stessi una vicenda che porta a ridere, lasciando però un retrogusto amaro, è proprio di scrittori che hanno alle spalle una lunga esperienza non solo letteraria, ma anche umana.E nemmeno a farlo apposta il racconto che mi ha impressionato più favorevolmente è proprio quello che dà il titolo alla raccolta. Non preoccupatevi, perché non viene brutalizzata nessuna vecchietta, ma è una vicenda spassosa di un grafomane e delle cure per guarirlo, con un corollario di personaggi che rappresentano, all'estremo, comuni figure che ci stanno intorno.Se volete un libro da leggere in spiaggia, questo di Vincenzo Trama fa al caso vostro: scorre veloce e diverte, anche se alla fine vi sorgerà spontaneo un dubbio, una sorta di tarlo che vi farà pensare che quel che si è letto è la realtà di cui siamo parte, volutamente esagerata nelle caratteristiche, ma è la nostra vita attuale.
Una scrittura giovane, ma piacevole e questo non è di certo poco.
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Quando si può dire capolavoro
“Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiano insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…” Con i versi della poesia che Adriano scrisse lo stesso giorno della morte termina lo stupendo romanzo di Marguerite Yourcenar. Frutto di un lavoro di ricerca durato anni, di un’indagine attenta e laboriosa, rappresenta un ritratto di fulgida bellezza di questo imperatore. Come raccontare la storia di un uomo, del suo modo di vedere, di ascoltare, di sentire, dando un quadro della sua grandezza? Come riconoscergli l’immortalità, una vita oltre la morte? L’autrice parte da dati storici, da tracce, da scritti anche autografi e, anziché narrare la sua vita, fa parlare lo stesso Adriano, che ripercorre le tappe della sua esistenza, in una sorta di monologo interiore, per mezzo di una lunga lettera che scrive a Marco Aurelio. E’ un uomo vecchio, malato, ormai incapace di sopportare i pesi di governo quello che ci viene rappresentato, in una sorte di poema d’amore alla vita. E così Adriano racconta della sua ascesa agli alti gradi militari, le campagne di guerra condotte con capacità nonostante lui ami la pace, il rispetto per l’avversario mai definito nemico, il desiderio di conoscenza che non lo abbandonerà poi, il matrimonio di convenienza che lo lascerà insoddisfatto, le astuzie e gli intrallazzi per arrivare al trono, l’amore per il giovane Antinoo, il dolore disperato per la sua morte, sentimenti, emozioni e passioni di un uomo per il quale tuttavia il senso del dovere e dello stato vengono sopra ogni cosa, in quella responsabilità, che avverte sempre presente, della bellezza del mondo. E lui è uomo in tutto, anche nel vivere la sua morte, nelle profonde riflessioni del suo ultimo scorcio di vita, nell’accettazione rassegnata del destino, consapevole della gravità del suo stato, nei suoi sentimenti di riconoscenza per chi gli è sempre stato vicino e che non l’abbandonerà fino al momento fatale. In questo contesto l’autrice ha il merito di essersi messa al servizio del personaggio, quasi nella veste del messaggero che porterà la lettera; sempre fedele ai fatti, tutto il resto è affidato alla sua grande sensibilità. Ne esce un Adriano di grandissimo spessore, ma uomo come noi, alla continua ricerca di un modo per conciliare dovere e felicità, sentimenti e intelligenza, sogni e realtà. Così, mentre consegna le sue spoglie mortali all’Ade, l’autrice ne immortala il ricordo in un autentico capolavoro della letteratura, un libro da leggere e rileggere, un raro esempio del felice incontro di due grandi: Publio Elio Traiano Adriano e Marguerite Yourcenar. Seguono poi i Taccuini di appunti, con i quali si può verificare l’accurata meticolosità del lavoro intrapreso, nonché l’interessante resoconto della traduttrice Lidia Storoni Mazzolani.
Romanzo di rara bellezza e dai contenuti assai profondi, un'opera che si può tranquillamente inserire fra quelle dei grandi autori classici.
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Il capitano Achab però non c'è
Sabrina Campolongo, giovane autrice milanese, fa il suo esordio letterario con questa raccolta di racconti che parlano di amore, un amore non vissuto però, una sorta di inconsapevole attrazione che muove i personaggi, essenzialmente femminili, fatta eccezione per Michelino, un bambino in preda a un’infatuazione tipicamente infantile.Il tema non era certo facile, perché è meno arduo scrivere di qualche cosa di cui il personaggio è cosciente; e invece ci troviamo di fronte a quelle sensazioni non facilmente descrivibili che potremmo definire più proprie dell’innamoramento.La mano leggera della Campolongo riesce a trasmettere questa sorta di momento psicologico con lo svolgimento delle trame, i cui attori interpretano di volta in volta diverse tipologie dell’essere umano, passando dalla modella insoddisfatta all’anziana prostituta ormai rassegnata.Personalmente, fra i sette racconti le mie preferenze vanno a:Nora Nora Nora, una storia di emarginazione sociale, in cui la dimensione dello squallore viene mitigata da un affetto quasi materno della prostituta Nora per Samuele, un ragazzo anche lui segnato irrimediabilmente dalla vita;Lei deve essere Erica, in cui questo innamoramento lascia spazio a tante possibili soluzioni, non esclusa quella di un’infanzia che mai ritornerà;Le mani delle sante, dove il personaggio del bimbo Michelino riesce ad avere tutta l’innocenza della sua età di fronte a un turbamento di cui non riesce ancora a trovare una spiegazione logica.Lo stile non è involuto, anzi è funzionale al ritmo, volutamente calmo, della narrazione e contribuisce alla piacevole lettura di questa raccolta.Quello di Sabrina Campolongo è quindi un esordio positivo e ora è naturale attendersi da lei una conferma, magari con un romanzo.
Prova d'esordio nel complesso riuscita, un buon viatico per il futuro.
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Non solo ricette
Non è un libro di cucina, ma un volume che raccoglie racconti, più o meno brevi, dove la preparazione del cibo rappresenta un comune denominatore; poi, ci sono anche ricette, più o meno invitanti, a seconda dei gusti di ognuno, ma quel che conta è la gradevolezza, non al palato, delle storie che vengono rappresentate da Milvia Comastri con linguaggio fresco, con annotazioni argute, vicende anche semplici, ma raccontate con garbata partecipazione. Personalmente mi hanno favorevolmente impressionato due racconti, se pur antitetici e su questi intendo spendere una parola. Il compleanno di Amalia Gargiulo ha un sapore di cose antiche, di calore familiare che non può che coinvolgere; una vita di speranze di due emigranti, il ritorno al paese natale, la morte di lui, la sofferenza intima di lei - a cui darà una svolta imprevedibile - ancora adesso, mentre scrivo, mi provocano un brivido di emozione. Mi sembra di vedere Amalia intenta a cucinare e a ricordare, quasi sento la sua voce mentre conversa con il marito morto. Una vicenda triste, che non scivola però mai nel melodramma e che fa ben comprendere quanto ampio e potente sia il significato della parola amore. Buon anniversario, tesoro! L'amore fra due coniugi non c'è più, lui la tradisce, lei apparentemente ne soffre, ma continua a far finta di niente. L'apparentemente ha un senso perché invece la vendetta sarà un piatto di straordinaria efficacia. Scritto quasi con la cadenza di un thriller, anche se di morti ammazzati non ce ne saranno, è di una originalità incredibile e alla fine viene quasi spontaneo applaudire l'azione di rivalsa della donna nei confronti del marito. Ecco, sono solo due dei racconti; non è che gli altri non siano piacevoli, anzi si leggono volentieri e tutto d'un fiato. Ho voluto ricordare solo questi perché ritengo che possano rappresentare adeguatamente l'intera opera. Concludo con un'ultima annotazione: non credo che ci sarà bisogna di augurarvi buona lettura, perché sono certo che lo sarà e che magari vi soffermerete, come me, un po' di più sulle pagine in cui si parla di Amalia Gargiulo e del particolare anniversario di Eleonora e di Aldo. Sono personaggi che l’abile estro di Milvia ha saputo delineare in modo encomiabile e che sono sicuro sapranno restare dentro di voi.
Più che consigliabile, anzi raccomandabile.
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Un fantasy filosofico
“L’armonia è quella sensazione di elevazione dello spirito che ci rende quasi invincibili; è una forma d’amore, la forma d’amore più completa che esista in tutto l’universo. Per arrivare a questa forma d’elevazione spirituale ci sono voluti parecchi secoli, e l’istinto è fondamentale per attivare il processo.
Avevamo compreso che solo con la ragione non si arrivava a nulla, a parte vivere un’esistenza materiale e per certi versi fragile e misera. Con l’armonia, invece, tramite la memoria dell’acqua, si poteva sondare un mondo che appariva lontano, quel mondo che la tua amica scrittrice aveva giustamente definito Ottembre: una realtà percepibile solo con l’immaginazione…”
Questa raccolta di racconti di Antonio Messina è un’opera di alto impatto filosofico, il cui messaggio appare chiaramente sintetizzato nella parte sopra riportata.
In un mondo quale il nostro, dominato dalle ferree regole della logica e del pragmatismo, i nostri occhi non riescono a vedere oltre le immagini che per la nostra mente rappresentano la realtà, una limitazione che anziché fortificarci ci indebolisce, ci toglie il piacere di vivere, ci rende schiavi della nostra limitata conoscenza.
Per vivere un’esistenza degna di essere chiamata tale occorre perciò che convivano, in perfetto equilibrio, l’istinto, l’armonia e il sogno.
E questo libro, infatti, non è da leggere con gli occhi, con quella razionalità che nel passare dei tempi si è radicata a tal punto dal farci diventare incapaci di comprendere se non nei ristretti termini di regole che ci siamo create.
E’ da leggere invece con il cuore, istintivamente, immergendoci nei mondi senza tempo che l’autore utilizza per ambientare le vicende di supporto al suo concetto filosofico. Apparentemente, si potrebbe dire che i racconti fanno parte del genere fantasy, ma non è proprio così, perché invece ci troviamo di fronte a delle raffinate metafore, perfettamente integrate in una prosa poetica che fa scorrere dolcemente le pagine, riga dopo riga.
E il ritorno all’istinto è imprescindibile dal rientrare in umiltà a far parte della natura, di smettere quella superbia che ci illude di essere a conoscenza dei suoi segreti.
E’ una natura, quella dipinta da Messina, che è personaggio nei racconti, che crea quell’atmosfera di sogno a cui lasciarsi andare e così troviamo venti che serpeggiano fra i dirupi innevati, cieli che sembrano coperte di raso, una magica luna che nella notte immobile cambia il colore ai gerani, periodi di alto lirismo, visioni oniriche che conducono all’estasi.
Se il messaggio è filosofico, la forma utilizzata è di una apparente lievità, una sorta di carezza che scende dritta fino al cuore, ottenuta anche con il ricorso agli ossimori, che in un mondo vagheggiato di sogno e di irrazionalità trovano una loro precisa collocazione, come un riflesso di luce in un quadro surrealistico (la quiete che agita il cuore; il silenzio urlante).
Preciso che fino a ora ho scritto solo del primo racconto, di quella Memoria dell’acqua che dà il titolo alla raccolta, oltre a essere quella portante del messaggio.
L’opera però comprende altri due racconti lunghi: La piuma degli angeli, a tema religioso, e Polvere nel vento, dedicato al valore della scrittura.
In verità, poi, ci sono altre sei prose, assai più brevi, ma dei veri e propri squarci su stati d’animo, espressi prevalentemente tramite dialoghi, quasi degli incipit di eventuali successivi lavori.
Se ho preferito soffermarmi sul primo racconto, non è perché gli altri siano qualitativamente inferiori, ma solo perché in questo il pensiero di Antonio Messina finisce con l’essere di introduzione ai successivi e dilaga, nella sua concettualità, in modo chiaramente esplicativo, conducendoci per mano alla scoperta di un mondo che ignoravamo.
Quindi è un’opera innovativa, di elevato valore, che, ripeto, richiede per essere compresa solo lo sforzo di abbandonare il nostro pragmatismo, lasciandoci andare, senza remore e timori, al fluire delle parole.
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Casse pipe di Celine
Casse-pipe chiude idealmente la prima triologia di Celine, che nasce con Viaggio al termine della Notte e prosegue con Morte a Credito. Seguiranno i capolavori di Guignol's Band e la triologia del Nord. Molto semplicemente, Casse-pipe non è all'altezza dei due precedenti romanzi. Sarebbe un buon libro, ma Celine ha prodotto ben altri capolavori.
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Un romanzo non solo sulla resistenza
Confesso che quando l’amico Remo Bassini mi ha parlato di questo libro e anche del suo autore è sorta immediata una naturale curiosità, cioè quella di conoscere che ne pensa un sacerdote, e Luisito Bianchi lo è, di un fenomeno di assoluta rilevanza quale è stata la Resistenza. A onor del vero, questo trepido desiderio è rimasto un po’ frenato quando, in possesso del libro, mi sono accorto della sua mole. Al momento l’ho accantonato, perché 860 pagine mi spaventavano, e così è rimasto per una ventina di giorni sul comodino, quasi a vegliare la mia notte. Ogni volta che mi coricavo buttavo un’occhiata e quel bel campo di grano in copertina accresceva di più il senso di incertezza; poi, una sera, non ho resistito e l’ho preso fra le mani, ripromettendomi di iniziare con un paio di pagine. Se non avessi guardato l’orologio avrei fatto l’alba, perché quei piccoli fogli di carta fluivano fra le mia dita come le fresche acque di un ruscello e la lettura, oltre che gratificante, risultava lieve. C’è voluto il suo tempo, ma poi sono arrivato alla fine, non con un’aria di trionfo, ma con il dispiacere che non vi fossero altre pagine.
Questo preambolo mi sembra doveroso, proprio per evidenziare il fatto che, quando un’opera è di valore, non dobbiamo lasciarci influenzare dalla sua dimensione ed è quindi un invito a leggere questo romanzo, senza preconcetti, perché, al di là del suo elevato pregio. riesce a infondere nell’animo un senso di serenità, una quiete interiore sempre più difficile a trovarsi.
E’ stato anche definito un romanzo sulla Resistenza e in questo senso è vero, perché ha saputo cogliere l’autentico significato di questo periodo storico che prima ancora che un fatto bellico è stato un evento umano, con quel ritrovamento di una dignità da tempo sepolta.
La messa dell’uomo disarmato non è però solo questo, ma molto di più. E’ un romanzo sulla vita cristiana, sul rapporto fra uomo e natura, fra uomo ed Ente Superiore, sulle relazioni fra gli uomini. La visione di Luisito Bianchi non è cattolica, ma cristiana, nel senso che si è spogliato degli abiti talari quando si è accinto a metter mano alla penna e così del suo ufficio è rimasta solo la sostanza, quel continuo dialogo fra il razionale e il trascendentale che può benissimo essere sintetizzato nella frase di Franco, il narratore del romanzo: “Credi in Dio? Non so, come una volta, ma credo alla Parola annichilita e risorta per dare un unico senso alla morte e alla vita”.
L’origine contadina dell’autore si riflette poi nell’amore viscerale per la terra che permea tutto il libro, quella terra da coltivare con mani amorevoli, quasi fosse un essere vivente, con i ritmi di vita propri delle attività connesse e disancorati da quelli fissati dall’uomo.
La terra è una grande madre a cui i figli attendono con i lavori agricoli come pargoli che succhiano il latte dal seno e a cui, alla fine di una vita, ritornano, per formare con essa un’unica entità, in un ciclo costante che dura da millenni, in una simbiosi che da un senso a tutta l’esistenza.
La messa dell’uomo disarmato è anche il romanzo della pietà, non una pietà di comodo, ma quel gesto amorevole che deriva da una radicata umanità.
E così anche le tragiche pagine centrali del volume, quelle che parlano degli anni della resistenza, con tutti gli episodi di scontri bellici, di eccidi, di bestialità, finiscono con il diventare un messaggio di pace di rara bellezza ed efficacia.
Questo romanzo ha tanti personaggi, talmente vivi che sembra di vederli, e questo nonostante manchino le classiche descrizioni, perché per delineare le figure Bianchi si avvale delle loro azioni. L’autore non dimostra una spiccata preferenzialità per l’uno o per l’altro, però un po’ più di attenzione c’è per i poveri e puri di cuore. Personaggi come Balilla, Giuliano e, soprattutto, Rondine sono di struggente bellezza, entrano nel lettore in punta di piedi e non escono più dal suo cuore.
Aggiungo, poi, che ci sono pagine in cui la capacità poetica di Bianchi si esprime ai massimi livelli: “Come al solito, quel lunedì 26 luglio 1943 l’avemaria suonò alle cinque e mezzo, saltellò sui tetti delle case, s’incontrò con la mano di porporina dorata che il sole s’era affrettato a pennellare sulle cime degli alberi,…”.
E di periodi come questo, di una dolcezza senza pari, ce ne sono altri, ma non sono un esercizio di stile, in quanto funzionali al massimo alla vicenda.
Bianchi ha scritto tante pagine, ma non ha usato una parola più del necessario, e anche se la prima parte può sembrare troppo lunga e l’ultima troppo breve, quasi affrettata, restando il corposo nucleo centrale l’essenza vitale del romanzo, sono dell’opinione che l’autore abbia agito per il meglio, componendo la sua opera come un grande concerto di musica sinfonica, dove il preludio è l’indispensabile base per comprendere il tutto e la fine è la naturale risposta a tanti perché.
La messa dell’uomo disarmato, secondo il mio giudizio, è un romanzo di una bellezza sublime, un autentico e raro capolavoro come pochi se ne trovano nella letteratura mondiale.
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Dialogo
E’ difficile scrivere un commento critico di un testo di così elevata portata, ma anche per sua natura estremamente complesso, perché sinceramente parlare di entità supreme al di fuori dei canoni dogmatici istituiti dagli uomini di chiesa può apparire, oltre che profano, anche eretico.
Del resto quando un uomo rivendica una propria autonoma interpretazione di qualsiasi cosa di questo mondo finisce inevitabilmente per essere bollato con l’infamia propria di chi non vuol far parte delle regole rigide di un ordine costituito.
Ritengo, però, opportuno chiarire subito un concetto, sgombrando così quel dubbio che si potrebbe insinuare in un credente leggendo le prime poesie: l’autore non ha inteso innalzare un ode all’ateismo, anzi il poeta, per quel modo di vedere e di sentire del tutto autonomo, intende rivendicare una propria specifica visione della spiritualità.
In questo contesto, invece, emerge un evidente anticlericalismo, rivolto non tanto alla Chiesa, ma agli uomini della chiesa, nel senso che l’istituzione in sé non è criticabile, mentre altra cosa è il comportamento di chi la rappresenta.
Del resto, il rivendicare una propria religiosità individuale, al di fuori degli schemi rigidi creati da chi rappresenta la chiesa, se da un lato costituisce un’eresia, dall’altro realizza quell’identità spirituale fra uomo e divinità che è propria di una religione monoteista volta ad essere compresa dall’animo di ogni individuo.
La visione di Fabrizio Manini si attua attraverso un’evoluzione che dapprima porta a considerare Dio e il Diavolo due facce della stessa medaglia, ma poi finisce con il considerarli elementi che non riescono a trovare una collocazione logica nella mente umana proprio perché non è possibile dimostrare la loro esistenza.
A questo punto sembrerebbe scattare l’ipotesi di un testo ateo, ma subito viene fugata da un raziocinio che riesce a individuare come ragion d’essere l’Amore, in ambo i suoi significati, cioè quello puramente affettivo e quello erotico. Anche in questo caso sono due facce della stessa medaglia; però se il primo è l’amore di Dio e il secondo è quello del Diavolo, la visione percepibile concretamente dalla mente umana non è la contrapposizione a cui ci ha abituato la rigida e, per molti versi, illogica morale cattolica, ma la loro contemporanea presenza, una perfetta unione in mancanza della quale non può sussistere un concetto di vita salvifico.
Quindi, più che per lo stile, peraltro assai funzionale e piacevole, questa silloge assume una valenza per il concetto espresso, tanto da pensare che un filosofo si sia dilettato a esporre il suo pensiero con la poesia.
Il titolo della silloge, oltre che essere tratto da due versi di una delle liriche (MIODIO), riassume bene il significato di libertà di interpretazione, di dialogo muto fra uomo e spirito che solo può portare a una concezione religiosa in funzione dell’individuo che la vive, quindi lungi da dogmatismi, frutto di imposizioni di altri uomini.
A mio avviso, questa è un opera che conferma il talento di questo autore, capace di rendere in poesia concetti filosofici di notevole profondità.
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Il silenzio che parla
Il silenzio
Affretta
I passi del tempo
E
Inghiotte parole
Infreddolito
Ornato di neve
Si è dissolto
Muto
Non avevo mai letto una lirica di Patrizia Garofalo, ma aprendo quasi per caso, come un segno del destino, il volume contente la sua silloge alla pagina 53, laddove il mio dito si è inserito senza nessuna volontà, quasi attratto, ho trovato la poesia di cui sopra.
Sarebbe riduttivo dire che questi pochi versi mi hanno fortemente impressionato, perché in effetti è stata una piacevolissima sorpresa il constatare la straordinaria vena creativa e stilistica.
Poche, pochissime parole composte in perfetto equilibrio, in una sintesi di raro effetto che mi ha condotto a un giudizio positivo e che ha trovato poi conferma anche nelle altre liriche, pur se questa mi sembra, ma è ovviamente solo la mia opinione, la più riuscita.
Del resto, Il silenzio, è citato anche in chiusura della esauriente prefazione di Attilio Mauro Caproni, come un passo necessario per l’autore, una volta che ha svelato a se stesso e agli altri l’inconscio del suo animo, una sorta di abbandono che non è rifiuto, ma autonomia di realizzazione concreta di ciò che è il proprio pensiero.
La silloge si dipana in una sorta di diario, in un susseguirsi di puntualizzazioni, di trasposizioni della propria vita interiore, una sorta di autoanalisi da cui scaturisce l’immagine che, pur dentro di noi, ci è sconosciuta prima di intraprendere questo lavoro di indagine.
In effetti, tutto quanto non appare esteriormente ci è spesso ignoto, è una sorta di silenzio che occupa l’animo e che attende solo la nostra verifica per risuonare, quasi un grido di liberazione del nostro io.
Una tematica quindi complessa, non facilmente sviluppabile, e ciò nonostante l’autrice è riuscita nel compito e in modo anche egregio.
Per quanto concerne l’aspetto stilistico mi limito ad osservare come nell’essenzialità del verso assumano rilevanza, anche formale, le parole, studiate, meditate e infine armonizzate al fine di giungere a un equilibrio di sonorità e di tempi.
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La donna dello scandalo
Un libro scritto con uno stile semplice e scorrevole che narra della relazione tra una insegnante e un alunno. Considerando che avevo deciso di comprare questo romanzo dopo aver letto che era divenuto un caso editoriale in Inghilterra, confesso di essere rimasto alquanto deluso. La storia è originale, ma in alcuni casi grottesca (un po' mi ha ricordato certe scene della trasposizione cinematografica de La macchia umana...). C'è di meglio.
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Cuba particular di Alejandro Ruiz Torreguitart
Cuba particular di Alejandro Ruiz Torreguitart è un romanzo capace di esprimere in modo diretto ed efficace uno degli aspetti più evidenti sull'isola ma meno discussi all'estero dell'attuale società cubana: il rapporto tra cubani e stranieri. La varietà di situazioni e di incontri che avvengono nella casa particular che fa da scenografia all'intero romanzo permette di capire che spesso le relazioni sono di puro interesse (l'europeo che trova un partner dalle caratteristiche fisiche che in Italia si scorderebbe, il cubano che accetta la relazione per denaro mantenedo nel contempo una storia parallela con un connazionale), ma che non sono rare le eccezioni. In questo caso però sono numerosi gli altri problemi da affrontare: lontananza, difficoltà burocratiche... Un buon romanzo di questo giovane scrittore cubano che merita di essere scoperto dagli amanti della letteratura dell'isola caraibica.
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Machi di carta di Alejandro Ruiz Torreguitart
Ho scoperto con grande piacere questo giovane autore cubano, Alejandro Ruiz Torreguitart, grazie al romanzo da poco pubblicato in Italia "Cuba particular. Sesso all'Avana". Essendo rimasto soddisfatto di quella lettura, ho comprato anche questo "Machi di carta" e devo dire che si tratta di un'opera ancora migliore. Lo stile è essenziale ma ben curato, la storia interessante in quanto permette di conoscere o approfondire molti aspetti della società cubana. Dopo Pedro Juan Gutierrez, Alejandro Ruiz Torreguitart rappresenta l'autore cubano che preferisco. Consigliato.
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Il gioco delle parti
Già conosciuta in campo letterario (sua l’ottima raccolta di racconti “Dall’ultimo leggio”), Cinzia Pierangelini fa il suo esordio nel difficile ramo dei romanzi con “Eraclito e il muro” ed è una prima di classe, a conferma delle eccellenti qualità dell’autrice.
Ambientato in un tipico paese siciliano, è la storia di un critico musicale votato a stroncare artisti e musicisti del locale teatro lirico. La sua non è solo una vocazione che trova origine in un carattere chiuso e misogino, ma è una ribellione alle chiuse regole di un mondo dominato dall’ipocrisia. Quando la sua attività si scontra con gli oscuri interessi del potente del luogo, in concomitanza con una depressione insorta per effetto di uno scherzo, viene rinchiuso in una clinica per malati mentali dove, di fronte al comportamento fuori dalle regole degli altri ricoverati, ritrova il piacere di vivere e anche l’amore che, per motivi del tutto abietti, viene stroncato. Dimesso perché apparentemente guarito cercherà una vendetta che solo in parte si realizzerà e finirà in carcere.
Al pari del principe Salina del Gattopardo Cinzia Pierangelini riafferma che in questo mondo tutto cambia, pur restando alla fine sempre uguale, e chi è disposto a contrastarne le regole finirà per essere rinchiuso in una solitudine senza speranza, come il grande filosofo greco Eraclito.
E il muro del titolo?
E’ quello del teatro, dove ignoti si divertono ad annotare maldicenze, di tanto in tanto ricoperte da una mano di bianco, prontamente e nuovamente imbrattato, a riprova dell’immutabilità della vita.
Scritto in modo scorrevole, accattivante, con la tensione di un thriller, anche se non lo è, è un libro che si legge tutto d’un fiato, pur se più di una volta è opportuno e salutare soffermarsi su certe riflessioni, come la chicca filosofica del consueto ritardo del treno da Palermo.
Lo stile è quello solito e piacevole dell’autrice, in questo testo ancor più perfezionato, con descrizioni mirabili del paese, quasi dei quadri di armonia figurativa. Interessante poi è l’inserimento di parole e di frasi in dialetto siciliano, utilizzate soprattutto come incisi, con il preciso scopo di rafforzare il concetto senza sovrabbondare.
Inutile che dica che ne consiglio vivamente la lettura.
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Un gotico tropicale
Già leggendo Nero tropicale avevo colto, pur se in forma embrionale, una caratteristica del tutto particolare di Gordiano Lupi e che in questa raccolta di racconti trova piena conferma.
Mi riferisco al fatto che questo autore scrive testi con finalità che vanno oltre i brividi e le tensioni proprie del genere horror, nel senso che tale struttura narrativa è un mezzo per riaffermare la dignità di ogni essere umano di essere liberato da qualsiasi potere, sia esso rappresentato da forze oscure e trascendenti, sia quello che deriva da un governo opprimente e dispotico.
I personaggi diventano quindi un emblema della volontà di riscatto del singolo di fronte a forze più grandi di lui.
Al riguardo Il mistero di Encrucijada, il romanzo breve che fa parte della raccolta, ne è un tipico esempio, dove non è difficile scorgere nella strega, che cerca di tornare in vita sottomettendo psicologicamente una ragazzina quindicenne, un regime che condiziona fin dall’infanzia e che solo con un atto di estremo coraggio di individui che cercano di capire con la loro testa potrà essere sconfitto. Non solo, ma anche il ricorso ad altri poteri costituiti, come nel caso specifico la chiesa cattolica, non può essere una soluzione, perché anche quello religioso è un regime e come tale non può capire ciò che è al di fuori della sua rigida struttura.
Come in Nero Tropicale l’ambientazione e l’atmosfera sono resi in modo esemplare e anche la tensione non è mai spasmodica, come se fatti al di fuori dell’umana comprensione in certi posti possano essere quasi una costante, addirittura un’abitudine.
Chi pensa di trovare un gotico tenebroso, dalle tinte forti, forse rimarrà deluso, ma personalmente preferisco questa versione sudamericana più ariosa, dove all’azione è preferita l’introspezione dei personaggi, con le loro reazioni e le loro angosce che finiscono con il conferire credibilità a vicende di fantasia.
Da solo Il mistero di Encrucijada vale già tutto il libro e, senza togliere nulla agli altri racconti presenti, questo romanzo ha il pregio non comune, pur in presenza di un ritmo blando, di centellinare accortamente fatti e situazioni, tenendo in tal modo sempre vivo l’interesse, e ciò dalla prima all’ultima pagina.
Gli altri brani, più corti, spaziano un po’ in tutti i campi dell’horror, e così si va dalla moglie vampira de La pelle bruciata agli zombie di Un terribile rimpianto. Quest’ultimo è un autentico capolavoro, dove sprigiona in tutta la sua evidenza la caratteristica che ho evidenziato sopra, una sorta di parabola che stigmatizza chi si serve del suo potere per schiavizzare gli esseri umani. Credetemi, mai come leggendo questo racconto avvertirete un senso di profonda pietà per i morti viventi.
E per finire c’è Sangue tropicale, testo riuscito e già facente parte di Nero tropicale, ma qui è in versione fumetto, ad opera della capacità creativa e della mano artistica di Oscar Celestini.
Quindi i motivi per leggere questo libro sono tanti, ma ce n’è anche un altro, che ho lasciato per ultimo, ma non è da sottovalutare: il piacere di arrivare all’ultima pagina e il dispiacere che il libro sia terminato.
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Brividi reali
Gli assassini seriali sono sempre esistiti e non sono quindi un fenomeno recente. Questo bel saggio di Gordiano Lupi conferma che gli omicidi in serie per opera di uno stesso individuo non erano sconosciuti nemmeno nel XIX secolo, come testimoniato dalla vicenda di Antonio Boggia, il mostro di Milano. E quel che è peggio è che, se si sono più accentuati negli ultimi decenni, frutto anche di indagini più accurate che hanno portato a evidenziare la presenza di un'unica mano dietro delitti apparentemente senza punti di contatto, il futuro non potrà che confermarci che non si tratta di un fenomeno di moda, ma di un pericolo sempre presente. Non a caso l'ultimo capitoletto porta un titolo chiaro e lampante: i killer che verranno.
Ciò premesso, il saggio in questione presenta più di un punto d'interesse che tende a differenziarlo da altre opere analoghe più frequenti in periodi recenti.
L'autore non ha volutamente cercato di suscitare emozioni forti, intense, quasi angoscianti nel lettore; il tono distaccato della narrazione è infatti sempre imperniato su tre cardini fondamentali: quando, come e perché.
Quando accadde, anzi accaddero gli eventi delittuosi; come avvennero e infine il perché ebbero a succedere.
Questo percorso logico farebbe presupporre una certa noiosità nell'esposizione che invece non si riscontra perchè giustamente l'autore ha inteso delineare razionalmente un quadro della situazione senza eccessivi approfondimenti, tipici di un criminologo, ma con risposte basate sul comune senso della logica, lavoro non certo facile, considerato che la quasi totalità degli omicidi seriali presentano accentuati disturbi psichici.
Da questo lavoro di indagine nasce così una sorta di resoconto giornalistico, compassato, che potremmo definire all'inglese, in cui si lascia ampio margine alla fantasia del lettore per immaginare scene che altrimenti potrebbero, pur nella loro drammaticità, gravare eccessivamente sulla struttura, di fatto impedendo lo scopo dell'opera.
Il saggio, infatti, ha come obiettivo quello di rendere edotti di un fenomeno ricorrente, al di là di miti e leggende, affinché si abbia sempre ben presente che certi fatti esistono e che traggono origine, prevalentemente, da traumi giovanili che, associati a un'indubbia predisposizione, posso diventare scatenanti di comportamenti illogici e violenti. Insomma, non si può parlare di comuni delinquenti, visto che, salvo rari casi, lo scopo di questi omicidi seriali non è l'arricchimento attraverso l'azione delittuosa.
Il tutto, e non è poco, perché il volume conta 291 pagine, è riportato con lo stile mai greve di Gordiano Lupi che sempre si è potuto apprezzare.
Si arriva così velocemente all'ultima pagina attraverso una piacevole lettura che offre altresì il pregio di un'acquisizione di conoscenza in un campo che costituisce florido supporto per gli autori di romanzi noir, in cui spesso la fantasia è assai inferiore alla realtà descritta così bene in quest’opera.
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Un grido di libertà
Da un po’ di tempo leggo opere di qualità, cioè che lasciano il segno sia per lo stile che per la tematica.
Sono libri editi dalla Casa Editrice Il Foglio, a cui mi pare giusto tributare un piccolo plauso per la capacità di selezione e per la politica editoriale volta a privilegiare prodotti di ottimo livello, quando non addirittura eccellente.
Una vita negata di Franca Maria Bagnoli è un romanzo scritto come si deve e, soprattutto, parla di valori soffocati nell’antichità, ma che non trionfano neppure nell’epoca odierna.
Abbiamo sempre considerato - perché così ci è sempre stato raccontato - che Santippe, la moglie di Socrate, tediasse il marito con le sue continue sfuriate, che insomma il povero filosofo fosse una vittima di una donna bisbetica e insopportabile.
Il testo della Bagnoli, nel narrarci di questa vita di coppia, ribalta questo concetto che si è perpetuato nel tempo, vestendo Santippe di una nuova dignità che ne fa un personaggio di importanza ben superiore a quella del marito.
Per far ciò si basa proprio su quella storia che viene ora ad essere confutata e in particolare sulle abitudini di vita, sull’aspetto sociologico della società ateniese.
Premetto che ci sono tutti i motivi per credere che Santippe in effetti fosse la vittima di un sistema che vedeva il matrimonio come un negozio giuridico volto a rafforzare la struttura sociale della democratica Atene, con la moglie destinata solo a procreare per la continuazione della specie e il rafforzamento dello stato, oltre a provvedere alle normali faccende domestiche. Quindi, un rapporto basato su una convivenza totale, sul principio che le decisioni comuni spettavano a entrambi i coniugi, non solo non esisteva, ma era addirittura impensabile.
Sarebbe riduttivo, però, limitare l’analisi di quest’opera alla sola condizione della donna in quella società, perché Franca Maria Bagnoli, attraverso Santippe, va ben oltre, contesta la mancanza di libertà di una civiltà, pur fulgida, ma estremamente classista, tanto da considerare normale la condizione della schiavitù, con un’inclinazione tuttavia a mostrare più tolleranza per l’uomo, al punto che solo il maschio schiavo poteva affrancarsi.
Quindi una struttura sociale rigida, ferrea, dove perfino la religione aveva la funzione di conservare lo status quo, imponendo Dei creati secondo le esigenze dei dominanti.
Il riscatto di Santippe, che riceve schiave come amiche, diventa un emblema della dignità umana laddove sostituisce alle divinità correnti un Dio costruito secondo il suo modo di sentire, un amico che non ha bisogno di cruenti sacrifici per essere benevolo, ma che è dentro l’individuo e che assume sempre di più le caratteristiche della coscienza di una donna che ama il suo uomo a tal punto da giustificarlo per il suo comportamento verso di lei, perché anche lui è parte di quel sistema che ha sempre accettato e che lo condurrà alla morte, senza ribellione, da perfetto integrato in un meccanismo di cui è contemporaneamente artefice e vittima.
Scritto in modo assolutamente delizioso, con una scorrevolezza che impone la lettura quasi d’un fiato, misurato nelle descrizioni - pur splendide - al fine di lasciare ampio spazio di immaginazione, Una vita negata è molto di più di un testo che si propone di riabilitare la figura di una donna, ma è un commosso, stupendo grido di libertà.
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Prima della notte
Long Evening Shadows (Lunghe ombre della sera) è una raccolta di 16 liriche scritte dal grande poeta britannico dal 21 febbraio al 21 luglio 2001. E’ un titolo che ha un valore metaforico, perché l’approssimarsi della sera è inteso come il progressivo decadimento fisico della vecchiaia, ed è anche profetico, considerato che l’autore, in precarie condizioni di salute e quasi cieco, morirà nel 2003.
Accanto a versi dedicati ai temi propri della malattia risaltano, di fulgida luce, quelli propri della splendida bellezza della vita e del mondo.
Questo dualismo, fra il sentore di essere prossimi alla fine dell’esistenza e il compiacimento per quanto di meraviglioso offre la natura, mi hanno richiamato subito l’immagine di una grande figura della storia, quella dell’imperatore romano Publio Valerio Traiano Adriano.
Anche là, immortalato nelle celebri pagine della Yourcenar, c’è un uomo conscio dell’imminente fine e
che tuttavia si estasia ancora alle bellezze di un mondo che è prossimo a lasciare.
Direi che c’è anche una corrispondenza nel concetto di spiritualità, quasi a dimostrare che l’essenza dell’essere umano è rimasta inalterata nel tempo.
Là è sintetizzata nell’emozionante Animula Blandula Vagula, qua invece in Dunque, che succede?
Diversa è la concezione religiosa, con un Russell cristiano, ma con una visione tutta sua di carattere filosofico più che teologico, che finisce con l’accostarlo inevitabilmente ad Adriano: il Paradiso esiste, ma non è dove viene canonicamente situato; è invece uno stato particolare della mente, il massimo dell’estasi.
Ebbene questa sorta di trascendenza, che separa lo spirito dal corpo, non è propria del momento della morte, ma può avvenire anche in vita e questo grazie alla poesia.
Il mistero della musica
Il mistero della musica, il mistero della poesia,
La Bellezza, trono latente del Paradiso,
La capacità di riconoscerla, nota solo al saggio.
E’ un dono, come la Grazia che non si può comprare
Col denaro, la cultura o l’esperienza, il potere,
O le preghiere o le sante omelie,
Ma spogliandosi d’ogni egoistica finzione,
Una rimembranza di immortalità.
……..
E’ fuor di dubbio che il Saggio è il lettore che, spogliandosi di se stesso, accoglie il seme della parola coltivato nella terra fertile dell’animo dell’autore.
Scritto così può sembrar complesso, ma Peter Russell ha tremendamente ragione.
Infatti quando, dimentico di me stesso e del mondo che mi circonda, leggo una lirica di notevole bellezza avverto sempre una soffusa sensazione di profondo e sereno appagamento, un vero e proprio stato di estasi.
E anche nei versi di cosciente cognizione del proprio decadimento (Divento vecchio, senile insomma, e rimbambito) trovo che quel flusso dinamico di emozioni raggiunge la mia mente, con una nota malinconica che infonde comunque serenità, perché tutto è nell’ordine delle cose e basta saper cogliere il poco che ci è offerto perché la vita continui a stupirci (…Sebbene disperato (annaspo per la mia tazza) Ho tirato fuori sette sonetti, davvero ben fatti, oggi).
E il dolore per la perdita della vita è inteso più come l’impossibilità di continuare a creare (…Spenta ormai la luce della fantasia…).
Rimiriamo, allora, ancora una volta il bello che ci circonda, diamo spazio alla fantasia per trasmettere l’emozione di certe visioni, affinché palpitino nel cuore del lettore (Campi e campi di margherite gialle – Il fuso verde – Luce solare).
Definire poesie queste composizioni sembra quasi riduttivo, perché sono musica, genialità, acute e profonde riflessioni; sono lo spirito di un uomo fatto parola.
Un doveroso cenno alla traduttrice mi sembra necessario, perché il suo è un lavoro spesso oscuro, ma trasporre in un'altra lingua delle poesie implica anche una sintonia con l’autore, un immedesimarsi che non è certo facile e, considerato che l’armonia strutturale della versione originale è rimasta inalterata anche in italiano, Franca Alaimo merita un particolare plauso.
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Benedetti calcoli renali!
Mal di pietre è quasi una saga familiare di tre generazioni e ruota tutto intorno alla figura della nonna, sofferente di calcoli renali, il cosiddetto mal di pietre, che però finisce con l’essere più un mal d’amore.
In questa storia c’è una freschezza, una lievità con cui si spazia dalla realtà al sogno in modo accattivante, raccogliendo l’immediata simpatia del lettore che corre sulle righe per arrivare a una conclusione, che non anticipo, ma che è un vero e proprio tocco di genialità.
La vicenda si svolge prevalentemente in una Cagliari dominata dal sole e dal vento, tranne un breve excursus in una Milano nebbiosa e di abitazioni degradate. In questa ambientazione regna sovrana la figura della nonna paterna (l’io narrante è la nipote), una bellissima donna che cerca l’amore in tutti gli uomini di cui viene a conoscenza, senza però che questi corrispondano al sentimento. Le delusioni, poco a poco, diventano ossessioni e la donna finisce, nei momenti di crisi, per rinchiudersi in soffitta, dove si strappa i capelli e si ferisce alle braccia, quasi a voler sfogare contro il suo bel corpo l’angoscia di non essere riamata.
Per quanto ovvio, nella gente che la circonda, incapace di discernere fra pazzia e sofferenza dell’animo, finisce per l’essere considerata una che non ci sta con la testa e quasi non par vero ai genitori della donna quando uno sfollato (siamo durante la guerra), vedovo, la chiede in sposa, per sdebitarsi dell’ospitalità ricevuta.
E’ un’unione senza amore, una sorta di vincolo di coniugio imposto dalla legge e dagli usi, con i due sposi che se ne stanno nel letto l’uno distante dall’altro. Il marito soddisfa le sue esigenze sessuali nel bordello e allora la moglie, al solo fine di risparmiare i soldi delle marchette per comprare il tabacco della pipa che lui fuma, si sostituisce alle prostitute, come loro senza amore.
Il gesto della donna non è inconsulto, ma una forma di ringraziamento per un uomo che la stima e la tratta nel migliore dei modi, ma ancora manca l’amore, quello che troverà, durante un periodo di cure termali sul continente, in un reduce, mutilato di una gamba.
Nove mesi dopo nascerà un bambino e ci si chiede giustamente di chi è figlio. Il legittimo marito non viene nemmeno sfiorato dal dubbio e riversa nel bimbo quell’amore che ha fatto mancare alla moglie, a cui arriva, tuttavia, per il tramite di quella creatura.
Il ricordo del reduce, però, è sempre nella mente della donna, una sorta di sogno che l’accompagnerà fino alla morte, quasi a voler significare che l’unico modo per accettare la realtà è quello di trovare una via di sfogo nell’idealizzazione di ciò che è il nostro massimo desiderio.
Quindi, la trama è quanto mai variegata e tale da interessare il lettore che, peraltro, si trova agevolato nella fase di assimilazione dalla particolare forma di scrittura dell’autrice, una specie di lingua parlata di grande efficacia, anche se, a mio avviso, può nuocere il frequente ricorso a vocaboli in dialetto sardo che, obbligando ad andare a vedere la nota esplicativa, finisce con il creare un po’ di fastidio.
E’ un po’ una moda quella di utilizzare ogni tanto il vernacolo, ma la logica dice che è da farsi solo quando la sua resa è sensibilmente migliore di quella della lingua italiana.
Ecco, questo è l’unico appunto che mi permetto di fare a un’opera che è un autentico gioiellino.
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Una Cuba reale
Di Alejandro Torreguitart Ruiz, giovane autore cubano, avevo già letto il racconto lungo La marina del mio passato, che mi aveva impressionato favorevolmente per la capacità di creare un’atmosfera di malinconica esistenza con un esplicita riaffermazione della libertà individuale contro ogni imposizione del regime.
Là era una narrazione dove l’elemento centrale era un vecchio rassegnato che trovava rifugio solo nel suo mare, con pagine finali di intensa commozione e di un lirismo che forse per questo l’ha fatto accostare al ben più noto Il vecchio e il mare di Hemingway.
Con Cuba Particular Ruiz cambia completamente registro, fornendoci una cronaca nuda e cruda della realtà del suo paese, una sorta di verismo che non può lasciare indifferente il lettore.
Le case particular, a Cuba, sono quelle autorizzate dal governo a ospitare turisti stranieri e quella di Isabel, ex comunista che ha perso ogni fiducia in ciò che credeva, è ancora più particular, perché la vecchia villa di calle veintitrés è una sorta di alcova, dove vanno e vengono personaggi di varia natura, ma tutti legati da un unico scopo: fare sesso.
C’è così un ampio campionario di turisti, ben delineati nelle loro caratteristiche, che si alternano a occupare le stanze della casa.
L’occhio di Torreguitart ce li descrive anche impietosamente, nella loro veste di colonizzatori del sesso, ma non c’è mai disprezzo e solo fra le righe si può intuire un certo sdegno per chi in fondo non è capace di amare.
Su un livello diverso si trovano le occasionali, o anche fisse, compagne di questi uomini; sono ragazze cubane costrette dalla necessità a vendersi, con la speranza per qualcuna di arrivare anche a sposarsi, per lasciare quel mondo di giorni sempre uguali, dove incontrastata domina la rassegnazione.
Come nelle telenovela nascono rapporti, sbocciano speranze, crescono illusioni, crollano certezze, e poi tutto ricomincia, in un’atmosfera in cui i sentimenti veri, quando ci sono, vengono impietosamente mortificati da paure per il passo che si vuol compiere, da quel desiderio inconscio di preferire il pressoché certo niente a un futuro forse migliore, ma più spesso brumoso.
Isabel, la proprietaria, osserva, consiglia, organizza come una regista e finisce con il diventare il fulcro di tutto il romanzo, la voce fuori campo che commenta.
Sua è la frase “Questo ha prodotto la rivoluzione. Ai tempi di Batista Cuba era il casino degli americani. Adesso è il casino del mondo.”, suoi sono certi atteggiamenti e giudizi come il fatto che solo lei possa criticare il regime, perché presente e perché ha creduto a una rivoluzione che nel tempo si è tramutata in una dittatura da caudillo sudamericano.
Torreguitart ha un occhio di riguardo per questa donna che ha vissuto gli anni pieni di speranza del regime castrista e che ora si limita a gestire la casa particular, per sopravvivere, anche se lei, a differenza delle ragazze che la frequentano, nate dopo, può contare sul ricordo di un ideale, pur se tradito, e questo le permette di vivere, in uno con l’amore, non interessato, per il suo compagno Paco.
Per chi è venuto al mondo nel periodo speciale, quello della ristrettezza economica, non c’è memoria di un passato, ogni giorno si apre solo con la certezza che nulla cambierà e che se si vuol sopravvivere bisogna gettare in fondo al pozzo la propria dignità di essere umano.
In fin dei conti, il romanzo di Torreguitart, pur nel suo drammatico realismo, finisce con il diventare un omaggio alla rivoluzione cubana, ai suoi ideali, che nel tempo un regime dispotico, lontano dai suoi stessi cittadini, ha per primo tradito.
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A Est dell'Avana, buona testimonianza di Cuba
A Est dell'Avana è un romanzo meritevole in quanto, seppur scritto da un autore certamente non maestro dell'arte letteraria (lo stile lascia spesso a desiderare e le volgarità da romanaccio nel finale fanno cascare le braccia), rappresenta una valida testimonianza della realtà cubana. La povertà, il turismo sessuale, la burocrazia. Certamente da consigliare a tutti coloro che hanno viaggiato a Cuba.
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Poesia cubana
Un interessante libro di poesie del romanziere cubano Pedro Juan Gutierrez. La lettura è piacevole, le riflessioni profonde, traspare l'atmosfera di Cuba, la voglia di sognare che contrasta con le difficoltà della quotidianità. A differenza dei romanzi, qui il tema del sesso è secondario, quasi assente.
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Discreto
Personalmente sono rimasto soddisfatto dalla lettura di questo romanzo, ma credo che tale sensazione possa valere solo per chi è stato a Cuba e vuole leggere un libri ambientato nell'isola. La storia di per sè infatti non è eccezionale, più che di avventure parla di tante paranoie mentali di un giovane ragazzo. Buono lo stile
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Emerson: il realismo della gioia, oltre il nichili
A volte, quando si legge un autore, succede che tutte le idee che ci eravamo fatti su di lui, tutti gli stereotipi, d’improvviso cadano non appena si legga qualche pagina del suo testo. Quando ho preso in mano “Realizzare la vita” di Emerson (Il Prato, 2007), immaginavo di trovare gli scritti del leader del trascendentalismo, del mistico un po’ new age della Superanima e di chissà quali altre vagheggiate “anime universali”, un etereo e un po’ svampito filosofo naturalista. Mi sono dovuto ricredere. Non sono riuscito a trovare quasi nulla di tutto questo. In questi otto saggi pubblicati per la prima volta nel 1870, chi non sia digiuno di filosofia si trova spesso come catapultato già nel grande pensiero del ventesimo secolo. In questa, che è una vera perla editoriale, ci viene offerto un pensiero che fa i conti con i problemi fondamentali dell’occidente, tanto da evocare immediatamente i nomi di Nietzsche (che amò Emerson alla follia) e anche Heidegger (che forse non lo lesse, perché aborriva quasi tutti gli anglofoni, ma che è sorprendentemente emersoniano). Emerson si rivela un colosso del pensiero e della letteratura. La sua lingua non ha nulla dell’oscura lingua heideggeriana; e la sua penna si fa beffe dell’America del suo e del nostro tempo, con la sua smania di successo effimero e con il parossismo dell’agire strumentale e utilitaristico. Ma Emerson resta anche un protopragmatista: non disdegna l’uso, ma distingue il basso e l’alto uso delle cose. E analizza la sua America anche nelle sue paure, come nel suo saggio, sempreverde e ormai classico, “Coraggio”. Questo libro è un viaggio lungo la vita quotidiana della civiltà occidentale, sempre sulla soglia della barbarie, ma in direzione di un’esistenza piena. Nel contempo si è costretti a volgersi verso le vette del filosofare, come quando Emerson discure il problema abissale della tecnica, del fare e del tempo, nel saggio cruciale di questa raccolta: “Le opere e i giorni”. Questa raccolta è una bella impresa tentata da Emerson per superare la soglia del nichilismo, verso una libertà che non è né libertinaggio né misticismo né idealismo, ma lo scriversi della vita nel viaggio, nella storia e nel tempo ininterrotti, e con ciò l’estendersi di ogni orizzonte vitale.
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Bel romanzo
Un bel romanzo di Senel Paz ambientanto nella Cuba degli anni '70. Inizialmente in provincia, quindi nella capitale l'Avana. Il romanzo è raccontato a due voci, quelle dei due protagonisti assoluti, David e Arnaldo. L'espediente risulta piacevole e ben riuscito. Lo stile è leggero e scorrevole, la storia interessante. Non un capolavoro ma sicuramente un buon romanzo, consigliatissimo a chi ama Cuba e il suo mondo...
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Assolutamente da leggere
Un bellissimo libro che consiglio a tutti. Leggere "Dio non è grande" mi è sembrato come respirare una boccata d'aria fresca: in questo periodo l'ingerenza della chiesa ha raggiunto livelli intollerabili e sembra che nessuno abbia il coraggio di rispondere. Hitchens dimostra a fondo come le religioni causino più mali dei benefici che portano all'umanità.
Da leggere
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