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Opinione inserita da gianni palermo    13 Novembre, 2007

Rampini

Un saggio interessante sull'India, scritto con il solito ottimo stile di Rampini, l'inviato di Repubblica in Asia. Il livello di approfondimento è un po' scarso, l'autore usa alcuni esempi specifici per analizzare i temi principali dell'economia e della società indiana, ma mancano ricerche dettagliate. Consigliato a chi vuole farsi un'idea sulla crescita dell'India, chi è già esperto del tema deve rivolgersi ad altri testi.

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I saggi o gli articoli/reportage su Repubblica di Rampini
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Opinione inserita da Manuela    12 Novembre, 2007

La camera viola

La prima volta l'ho letto tutto d'un fiato, in una notte, catturata dalla scrittura pulita e scorrevole, innamorandomi del protagonista maschile (sarà il mio istinto di crocerossina!) Poi l'ho riletto e certe pagine, soprattutto nella seconda parte, mi hanno fatto riflettere parecchio, a volte con amarezza, anche se alla fine un filo di speranza forse c'è. Un libro sincero.

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"La forza del passato" di Sandro Veronesi ma anche Richard Ford e "Da dove sto chiamando" di Carver.
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luiggino Opinione inserita da luiggino    12 Novembre, 2007
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Sensazionale!

Ho scoperto questo scrittore leggendo un romanzo di uno scrittore italiano, Lorenzo Licalzi e... sono stato rapito!

Ho trovato nel suo modo di scrivere tutta la sensualità che i libri, spesso, non riescono a sprigionare. La rudezza nell'esprimere un atto d'amore, la cruda realtà della passione, del fuoco che divora. L'imperfezione dei personaggi. La loro umanità. E Murakami, non a caso, incarna in pieno il narratore ideale. Il romanzo è una storia d'amore. Una storia di folle determinazione; "amare a tutti i costi". Tradendo, impazzendo, soffrendo, combattendo. La morte, è vera protagonista della storia, che aleggia sopra ogni personaggio. Il ricordo di qualcosa perso per sempre e la perdita, sempre più densa, di ciò che si crede di possedere.

Questo libro merita di essere letto nella vita. Perchè mai nessuno, come Murakami, è riuscito ad imprimere in fatti quotidiani, condannabili e deplorevoli, il segno indelebile del sentimento più puro, e più indecente. Quello che unisce due esseri umani per sempre.

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"Non So" di Lorenzo Licalzi
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Opinione inserita da enrico    11 Novembre, 2007

Coelho il santone

E' veramente triste vedere le ultime pubblicazioni di Coelho. Dopo aver raggiunto il successo con i romanzi, ormai vengono pubblicate riflessioni e miserie di ogni genere, purchè contengano il suo nome come autore. Lo stesso libro pubblicato con altro nome sarebbe ricordato come uno dei peggiori esempi nella letteratura mondiale. Da evitare.

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Consigliato solo a chi appartiene alla setta dei coelhiani
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knut Opinione inserita da knut    09 Novembre, 2007
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Macabro

Avevo grandi aspettative su questo romanzo di esordio di Jonny Glynn. Devo dire che dalle presentazioni che avevo letto sulla stampa credevo si trattasse di un libro sul tema del suicidio e che quindi fossero presenti riflessioni filosofiche profonde... in realtà si tratta del racconto di come un uomo, impazzito e disperato per aver perso una figlia per mano di un omicida, decide di compiere ogni follia prima di togliersi la vita. Le riflessioni sono ben poche, il romanzo racconta con particolari spesso macabri e fin troppo realistici scende di omicidi e violenze. Originale, ma direi soprattutto che si tratta di una grande occasione mancata.

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Storia e biografie
 
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Opinione inserita da Andrea    07 Novembre, 2007

la memoria non ha guardiani, nemmeno Pansa.

Pansa scrive bene. E' capace ed è preparato. Sa quel che dice, legge, ed è informato sul dibattito storiografico contemporaneo. Però non riesce a mettere tutte queste cose insieme (e può anche darsi che questo in fondo non sia un difetto).

La cosa però che colpisce nei suoi ultimi libri, rispetto ai quali non penso affatto che ci sia un complotto contro la resistenza (e non credo ce ne siano neppure ai suoi danni)è il tono e l'atteggiamento assolutamente autistico del discorso. Pansa legge tanto, spesso colpisce anche nel segno, ma non sembra riuscire ad uscire da una lettura su se stesso. E questo libro, rispetto ai precedenti, davvero assume l'aspetto di esplosione dell'IO. Penso che avrebbe usato gli stessi toni per sostenere che con il cacciucco si deve bere grappa e non vino perché così la pensa lui.

Questo lo stile. I contenuti sono, oggettivamente, quelli di un libro "revisionista" alla De Felice (quindi per Pansa non credo sia un'offesa). Purtroppo, in alcuni punti usa l'arma dei negazionisti (alla Mattogno per intenderci ). Ad esempio quando attacca Capogreco perché nel citare il suo libro "Il Sangue dei Viti" commette un evidente errore di battitura (quel che accadde dopo il 2005 invece che dopo il 1945) e su questo errore imbastisce tutto un ragionamento (alla Holmes: da questo deriva che....). Ricordo che i negazionisti utilizzano le inevitabili incongruenze nei ricordi dei sopravvissuti per inficiare tutto l'impianto (cataste di 30 metri di morti? impossibile etc...).

Quello però che colpisce nelle ricostruzioni di Pansa (le quali sono vere così come è vero che il PCI ha lavorato spesso per il silenzio) è che la "mattanza" come la chiama lui del dopo 1945 non avviene in un paese normale. Non è l'Italia del 1978 e del rapimento Moro. E' un Italia distrutta dalla guerra e la guerra la iniziarono i fascisti alleati con Hitler (Bisognerà pur dare i nomi alle cose). E'un Europa distrutta dalla guerra! Una guerra totale con 60 milioni di morti, dove civili e militari erano considerati alla stessa stregua. Una guerra totale ed ideologica, di sterminio. In una tale temperie selezionare alcuni episodi estrapolandoli da un terribile clima di sangue e odio è del tutto fuorviante, soprattutto raccontandolo ad una platea di persone che vivono (per fortuna) in pace da 60anni.

Tuttavia, tuttavia, sarei ben contento che Pansa proseguisse nella sua storia "completa" che in Italia che viene sempre taciuta, sempre messa fra parentesi (o, peggio, deliberatamente ignorata).

Le foibe, le stragi, i bombardamenti. Le rappresaglie (oppure Perlasca etc...) in tutto questo manca qualcosa in quello che ci (o ci si) racconta. Cosa manca? il fatto che ci si rappresenta sempre come vittime. Che l'Italiano medio, anche se di destra (anche se fascista) ma anche del PD o di chi cavolo volete voi, si trova d'accordissimo nel condannare le stragi in Italia (e come non potrebbe). Ma le stragi che i nazisti insieme ai fascisti (o molto spesso questi ultimi da soli) hanno commesso in Italia sono identiche a quelle che gli Italiani hanno commesso all'estero: Jugoslavia, Libia, Etc....

L'Italia non è stata una vittima del fascismo ma ideatrice e allo stesso livello del nazionalsocialismo. Noi chiediamo la condanna, giustamente,dei criminali di guerra nazisti, ma i nostri??Graziani, Badoglio, Roatta... proprio ieri l'altro ho rivisto Fascist Legacy ( un documentario MAI visto nelle reti in chiaro pur se acquistato dalla RAI) ed i criminali di guerra italiani ricercati dopo la 2° guerra Mondiale erano oltre 1200!!!!. E, per chi lo deve vedere, vi assicuro che fa un certo effetto sentirsi descrivere (sì come italiani dico) esattamente come noi abbiamo descritto i criminali nazisti.

Ecco questo tema chissà quanta benevolenza porterebbe a Pansa dalla destra che oggi gli si dimostra tanto amica, come se le stragi e le uccisioni del dopo 1945 venissero dal nulla e si dissolvessero nella nebbia. Ma tant'è questo è il clima liquido e incolore (ma persistente) che ci tocca ai giorni nostri,

In ultimo vorrei segnalare a Pansa che contestare di fronte a Montecitorio per la presentazione di un libro (Ichino) in un paese democratico (come quello che vorrebbe Pansa, spero) è assai diverso dal non far parlare le persone e, spero, è ancora lecito.

Leggetelo, ma il tempo è prezioso.

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Almeno un bel manuale di storia contemporanea e a di che cosa si sta parlando.
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Opinione inserita da cristina    04 Novembre, 2007

bello

Credo che questo ragazzo sia uno degli scrittori più bravi. E' un libro che consiglio. Ancora una volta sceglie sport poco comuni da cui trae gli insegnamenti per un modo di vivere, come se nel gioco si potesse ricostruire la vita. E viceversa. esistenze normali, al limite della banalità che diventano epiche.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Opinione inserita da paola brivio    02 Novembre, 2007

prima recensione

Piacevole, molto scorrevole e da leggere tutto di un fiato. Il Commissario Montalbano vanta esperienza e intuito geniali per scoprire intrighi e colpevoli, ma alla fine è un uomo, non piu' giovane e sempre lontano dalla sua Livia. Cade anche lui nel tranello di una giovane e bella donna che lo farà sentire ancora un ragazzo.

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Sicuramente gradevole lettura per chi ama il genere "Montalbano" , commissario fuori dai canoni abituato a districarsi da una non facile realtà siciliana.
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Opinione inserita da daniela    01 Novembre, 2007

come dio comanda

un testo terribilmente inutile, una forma che si involve su se stessa, compiaciuto e sardonico, voglio pensare, l' autore di un bel romanzo come "ti prendo e ti porto via" mi delude assai. Siamo alla laurea presa con cepu o vinta nelle patatine.

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...le varie storielle inutilmente manieriste delle cento santacroce, melissa p, ecc. ecc.
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Opinione inserita da kathe    31 Ottobre, 2007

per chi comprende la passione

le storie d'amore,più o meno,si assomigliano tutte,o almeno sono riconducibili ad alcune fila prestabilite che portano inevitabilmente a un finale lieto o tragico."cime tempestose",invece,si allontana dai clichè.l'amore che vivono i due protagonisti è al limite dell'immaginabile:una passione così forte e profonda da essere a un passo dall'odio o dalla follia più pura.un canto lirico struggente e violento,la testimonianza di cosa possa essere capace l'uomo se spinto da sentimenti più grandi di quanto possa essere capace di sopportare.da leggere,assolutamente.

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Opinione inserita da kathe    31 Ottobre, 2007

balzac e la piccola sarta cinese

un libro delicato,particolare,in cui l'incontro tra oriente e occidente avviene con i toni sfumati e teneri di una storia d'amore su uno sfondo rosso sangue.il contrasto tra collettivo e individuale,tra cultura e buio,si dispiegano quasi per incanto tra queste pagine leggere,evocative,da non perdere.

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Opinione inserita da tiziana leone    29 Ottobre, 2007

credo che...

Credo che Anne Tyler sia una dei migliori scrittori, cioè non restringo il campo alle cd scritticrici al femminile, contemporanei, per stile, profodità di pensiero, emozioni e capacità di descrizione della vita e degli ambienti attuali, nonchè delle "filosofie" sottese che guidano i nostri pensieri e le nostre azioni.

La sua capacità analitica, sintetica e descrittiva, le permette di farci entrare con passo felpato in tutti gli aspetti della vita, e ci consente, senza pretenderlo, una riflessione su vizi, virtù, stili di filofie ed economie che pervadono tutte le nostre società e come entrano nella vita personale quotidiana.

I suoi libri sono "quadri" di vita quotidiana, sono come la pittura fiamminga, esprimono dettagliamente la filosia del secolo in semplici quadri pieni di bellezza da tutti godibili.

Tiziana Leone

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Opinione inserita da toni    28 Ottobre, 2007

un romanzo scarso ma un grande saggio di storia de

il romanzo in se è abbastanza noioso e ripetitivo. il personaggio centrale un po insulso una sorta di forest gump del nazismo. la sua storia e le sue pulsioni molto noiose gia' dalle prime pagine. detto questo il libro di littel è un'evocazione maniacale e fantastica di un clima di una mentalita' con una quantita' di dettagli che sarebbero credo andati persi. ha fatto un lavoro incredibile. una sorta di Raul Hilberg alla rovescia. alcuni personaggi sono tratteggiati in modo interessantissimo. da ohlendorf a blobel. ne consiglio la lettura storica..

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lo consiglio a tutti gli appassionati di storia e di olocausto in particolare
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Opinione inserita da giovanna    27 Ottobre, 2007

Troppo cupo...

Il libro mi ha appassionata, e molto anche. Però l'apprezzabile realismo (molto aspro)del quotidiano, nel momento in cui si mescolava con inquietanti tensioni onirico-simboliche (e quindi spesso!!!) perdeva il suo fascino per me. La passione amorosa descritta è bellissima, lo stile molto efficace, ma troppa atmosfera gotica a parer mio. Certo, è per questo che il libro è unico, ma a ognuno ha i suoi gusti!!

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Opinione inserita da ale76    27 Ottobre, 2007

Romanzo meraviglioso

Romanzo bellissimo, pieno di sentimento ed introspezione. L'ho letto tanti anni fa, ma lo ricordo ancora, per le emozioni che mi ha dato, per i pianti scroscianti quando l'ho terminato, per tutte le sensazioni vibranti che sa trasmettere. Oltre ad un elevato coinvolgimento, che quasi " ti impone" di leggerlo tutto d'un fiato!!

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L'innocente di D'Annunzio
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    24 Ottobre, 2007
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Per una possibilità di pace

Non nascondo che era tanta la curiosità di leggere questo libro, scritto a quattro mani da due amiche virtuali.

In cuor mio, però, avevo il timore di restare deluso, insomma di trovarmi fra le mani un’opera appena accettabile, e ciò non tanto per sfiducia nei confronti delle autrici, quanto per la difficile tematica affrontata, con quell’eterna guerra fra israeliani e palestinesi, di cui molti, anzi troppi, hanno scritto, sovente abbracciando la causa di una delle parti in conflitto.

Aggiungo, poi, che mi destava perplessità l’ambientazione in un territorio ove le due scrittrici non erano mai state; anche il fatto che i due protagonisti principali fossero un palestinese e un’ebrea poteva lasciar intendere più una narrazione di una vicenda d’amore che un vero e proprio approfondimento delle cause di questo conflitto.

Diciamo, pure, per farla breve che temevo che ci fosse una diffusa superficialità.

Quindi ho preso fra le mani il libro con curiosità, ma anche con la riserva mentale di leggere qualche cosa di non piacevole, il che avrebbe provocato una mia mancata recensione, evento che avrei voluto evitare alle mie amiche.

Dibattuto in questi sentimenti, con un pensiero costante a come uscire dall’impasse di un eventuale mancato gradimento, ho iniziato a leggere.

Non racconto la vicenda per ovvi motivi, perché c’è una tensione, quasi da thriller, che porta all’epilogo e svelare, sia pure per sommi capi, la trama mi sembra francamente una mancanza di riguardo nei confronti delle autrici e, soprattutto, dei lettori.

Dopo questo lungo, ma indispensabile preambolo, verrà naturale chiedersi come ho trovato questo romanzo, il giudizio insomma che è maturato dentro di me.

Già il fatto che io sia qui a scriverne dovrebbe essere indicativo, perché La guerra dei sordi è un ottimo libro, per diversi motivi che delineo di seguito.

La trama è innanzitutto molto azzeccata, perché presenta tutto quanto può interessare un lettore: una zona di conflitto permanente, un amore fra due che dovrebbero essere nemici, una serie di colpi di scena mai ingiustificati e una stupenda conclusione.

Aggiungo che i riferimenti storici degli eventi sono precisi, la descrizione dei luoghi convincente, come se chi ha scritto vi avesse soggiornato a lungo, ma quello che più mi ha colpito è stata l’atmosfera di tensione e di insicurezza che le autrici sono riuscite a ricreare senza rendere cupo il tutto e lasciando quindi adito a delle possibili speranze.

Laura Costantini e Loredana Falcone, inoltre, hanno avuto la capacità di non cadere nel tranello di prendere le difese dell’uno o dell’altro contendente, evitando proprio l’aspetto politico della questione e invece evidenziandone le caratteristiche umane.

Non si sono poste in alto a osservare, ma hanno guardato dal basso, quasi mescolandosi fra gli ebrei da una parte e i palestinesi dall’altra, avvertendo le loro paure, l’insicurezza costante che accompagna da più di mezzo secolo la vita di due popoli, cercando di comprendere le ragioni dell’uno e dell’altro.

E la conclusione, le ultime pagine sono quanto di meglio potessero offrire come contributo per risolvere una situazione apparentemente insanabile.

C’è tanta umanità, tanto rispetto per gli altri in questo libro, ma soprattutto c’è la speranza che se gli uomini di tutti i giorni dell’una e dell’altra parte abbandonassero le motivazioni distorte della politica e delle religioni potrebbe nascere finalmente la pace.

Il libro, quindi, mi è piaciuto e ne consiglio vivamente la lettura.

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Romanzi storici
 
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Opinione inserita da Un lettore    24 Ottobre, 2007

Sono un po' deluso...

Sono un po' deluso. La copertina, la trama e le righe iniziali del primo capitolo mi hanno ingolosito, senza poi mantenere la promessa! Più che di un romanzo, a dirla breve, si tratta di un dettagliato resoconto sul viaggio in Oriente nel XV secolo. Le vicende dei tre protagonisti si perdono in un labirinto di nozioni, incisi interminabili e precisazioni storiche che, sebbene interessanti, impoveriscono a mio avviso la storia. Per chi non è amante del genere, ridondanza e verbosità possono risultare una zavorra insostenibile. Con questo lavoro, il dotto Cardini si conferma per quel che è: un brillante saggista, che ama più scrivere di storia che di narrativa. Non facciamogliene tuttavia una colpa...

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Saggistica storica.
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Librerie online
 
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Opinione inserita da Leonardo    23 Ottobre, 2007

Ottimo!

Su Maremagnum sono riuscito ad acquistare un volume che in libreria non riuscivano a far arrivare! Sconto del 20% e consegna a casa mia tre giorni dopo aver effettuato l'ordine on-line!

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Poesia italiana
 
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Fattore Opinione inserita da Fattore    22 Ottobre, 2007
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Passato e presente

Il respiro è pagano. I versi s’aggirano nostalgici intorno alle statue degli antichi dei, ne blandiscono le sembianze umane, gonfi di rimpianto per l’umanità che accendeva quelle forme divine. Nella poesia-preghiera AL DIO MORENTE i versi enumerano i contrasti tra i Dei e l’unico Dio: “Scivolavi, allora, nel letto d’argilla, / riposavi le ore del buio, / ti assopivi insieme a noi.” Mentre il Dio che verrà è “un’immagine vuota / di cui non udirò il respiro, / né potrò toccare.” L’intangibilità divina è un postulato che soddisfa il filosofo o il teologo, il poeta, divinatore d’altri mondi, sente il bisogno d’un contatto carnale col creatore.

Ogni poesia ha la forza di ricreare mondi in cui il lettore può trovare suggestive sensazioni evocatrici di propri latenti stati d’animo. Queste poesie fanno rivivere i riti, i costumi e le divinità di un popolo dedito alla caccia più che alla pastorizia: i Celti, abitanti la pianura padana, terra del poeta. Risaltano nei versi i guerrieri orgogliosi, le scene di battaglie, la cruenta ferocia: “Scendevano la valle, / un’orda selvaggia, / le barbe irsute, / gli occhi iniettati di sangue.” (Da LA GUERRA). Ma anche l’intimo incanto di famiglie raccolte “Fra le ombre del fuoco / che lento si spegne nel camino / l’ascolto della voce del nonno / che racconta storie e leggende / di un tempo che fu.” (Da LA FAMIGLIA). Riviviamo usanze ed esistenze, come in un’epopea, che tuttavia predilige atmosfere brumose ed umide penombre. C’è poco sole in queste poesie, pochi svolazzi d’uccelli; abbondano invece le acque col loro scorrere notturno fra salici e canneti agitati da un vento “che scende dal nord”, fra “voci smorzate, / il tono sommesso, / quasi una preghiera / rivolta a Dei ormai sordi.”

La poesia che qui si legge ha toni smorzati, per ripetere le parole del poeta, evocatrice di un mondo perduto, rivisitato con quieto rimpianto e sentito in contrasto col mondo moderno rumoroso e caotico, “senza memoria”. E’ una poesia da godere così come si gode lo scorrere placido di un fiume in una notte di luna, fra canneti e armonie soffuse.



Luigi Panzardi

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Poesia italiana
 
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Opinione inserita da Carlo Alzani    22 Ottobre, 2007

Un poema stupendo

Un viaggio nel sogno, fra presente e passato, con visioni che sembrano quadri dei grandi della pittura. E' un'emozione continua, verso dopo verso. Non ho mai letto niente di simile, così bello che alla fine ti viene voglia di ricominciare dalla prima pagina.

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Fantascienza
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    21 Ottobre, 2007
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Per un mondo più umano

Quando mi appresto ad aprire un libro di Antonio Messina avverto già una trepidazione, perché so che sto per avventurarmi in un universo sconosciuto, in un mondo situato su un piano dove l’irrealtà è il riflesso, mediato dalla mente dell’autore, della realtà che ci circonda e in cui siamo immersi.

Leggere le storie di questo grande scrittore è come fare un viaggio nell’onirico e perciò al primo impatto può apparire anche incomprensibile, tanto che consiglio vivamente una preventiva lettura dell’eccellente nota introduttiva di Monica Cito.

Personalmente non trovo grandi difficoltà perché affronto il testo con lo stesso metodo che adotto con la poesia, nel senso che mi lascio andare, mi astraggo completamente da ciò che mi circonda e senza la necessità di soffermarmi sui vari punti proseguo la lettura in modo piuttosto rapido, tanto che assai alla svelta arrivo al termine del testo.

Ritengo anche doveroso precisare che i generi a cui ricorre Messina per mostrarci il suo mondo generalmente non rientrano fra i miei preferiti, passando dal fantasy de La memoria dell’acqua al fantascienza-fantasy, visti certi richiami mitologici, de Le vele di Astrabat. Tuttavia, affronto la lettura senza nessuna ritrosia e mi immergo completamente in un’altra dimensione.

Non sto a delineare la trama, fatta di apparenti discontinuità, ma ci tengo a precisare che il lavoro concettuale già avviato con l’eccellente La memoria dell’acqua qui è diventato più chiaro, in questa ricerca, che non è solo letteraria, di fuggire dall’estrema materialità della vita corrente per rifugiarsi in un sogno, dove elementi del passato si accavallano, si fondono, si dividono, implodono con visioni del futuro, quasi a dimostrare come sia vero che il concetto di tempo sia solo umano.

In questo senso l’autore ci prende per mano per accompagnarci nella sua realtà, senza tuttavia imporcela, perché le immagini caleidoscopiche che ci scorrono davanti possono essere viste a nostro piacimento, con la possibilità così di costruirci un nostro sogno, un rifugio a cui approdare dopo la tormentata esperienza di una vacuità morale del mondo in cui siamo.

L’abilità di Antonio Messina è di avere una scrittura in bilico fra la prosa e la poesia, con l’innegabile vantaggio, così, di poter far apparire come concrete cose che non lo sono, una tangibilità che aiuta il lettore nella completa immersione in un mondo che reale non è.

Astrabat è un pianeta di Sabbie e di Ombre, dove c’è un vento miracoloso che riesce a rigenerare le cellule, così da permettere agli uomini di rinascere. Ma è anche una metafora della storia umana, di una continua serie di apogei e di decadenze, di nascite e di morti, in un disegno i cui motivi non ci è dato di conoscere e che annulla di fatto il tempo.

Può venire in mente il bellissimo film di Kubrick 2001 Odissea nello spazio, ma non è così, perché Le vele di Astrabat ha una sua dignità autonoma, ha una forza che scaturisce dalle parole e che può consentire, a chi l’accolga pienamente, di rendersi conto di quanto potrebbe essere bella la vita solo che noi lo volessimo, solo che rinunciassimo all’egoismo per percorrere insieme, solidalmente, il viaggio terreno.

Non ci sono forzature, né imperativi nel procedere del testo, ma solo una sottile pacata malinconia che induce ad accogliere a braccia aperte il messaggio filosofico che lo permea.

Le vele di Astrabat è un’opera di elevato valore, da leggere, rileggere, assaporare prima con il cuore e poi con la mente.

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La memoria dell'acqua, di Antonio Messina
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    21 Ottobre, 2007
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Una lettura indispensabile

Pagano, abitante dell’isola di Pag, in Croazia, e come tale con quel senso di isolamento dal mondo esterno che è proprio di chi vive in un luogo circoscritto dal mare.

Ma Pagano anche secondo il vero senso della parola, cioè chi non segue la morale corrente, soprattutto quella religiosa.

In entrambi casi l’individuo è solo, isolato, una sorta di corpo avulso da una realtà rifiutata, da un mondo in cui l’omologazione è la costante a cui l’esistenza è finalizzata.

Chi non accetta il sistema, da chi lo presiede viene definito un sovversivo, o peggio ancora, secondo l’ottica spregiativa, un anarchico.

Gianfranco Franchi è un pagano, perché rivendica la libertà insita nell’individuo al momento della nascita, perché non accetta che ci sia un mondo di tanti uguali omogenei condotti per mano da alcuni diseguali che si avocano il diritto di determinare il corso della nostra vita.

E’ sempre stato un “ribelle”, fin dalla scuola, ma ora la sua protesta è più universale, e spazia in tutti i campi, ivi compresa la cultura, rivendicando quell’autonomia di giudizio propria di ogni essere libero e non di un suddito inconsapevole o accondiscendente.

Non sto a spiegare la trama, se di trama si può parlare in un libro che è una via di mezzo fra un lungo monologo, una riflessione e anche un’autobiografia.

Che le pecche del sistema evidenziate siano note non costituisce certo motivo di originalità, ma il punto di vista su cui basa l’osservazione rientra nel puro spirito anarchico, senza che però ci sia da temere un’irrazionalità nell’affrontare le varie tematiche.

Franchi è sincero e si proclama seguace di Max Stirner, uno dei padri dell’anarchismo, le cui idee possono essere o meno condivisibili, ma che non escludono l’esattezza della valutazione della situazione.

E’ uno scenario, in cui la consapevolezza di non poter accettare uno stato di fatto che non può che peggiorare, porta l’autore a quell’isolamento che lo fa sentire straniero, anzi pagano, in mezzo ai suoi simili, ombre che si agitano convulsamente per realizzare fini che non sono loro.

E’ un mondo che ancora riesco a vedere in modo distaccato, perché ciò che ho fatto ho fatto, nel senso che la mia vita si avvia verso quella fase discendente della parabola che conduce alla meta comune che tutti cerchiamo di ignorare.

Ma un giovane, perché Franchi è giovane, che aspettative può avere da un mondo senza futuro?

Non può pertanto osservare in modo distaccato, perché la sua esistenza come uomo e intellettuale è totalmente sbarrata dal muro di convenzioni, dall’incapacità e dall’ignoranza dilaganti, dall’atteggiamento dei più che, credendo di vivere al meglio, vegetano.

E’ giovane Franchi, è disilluso, si sente isolato e allora escono dalle pagine del suo libro tutte le rabbie accumulate e che si vanno accumulando. Ce n’è per tutti, anche nella ricerca storica dei motivi per cui si è arrivati a tanto, e spesso ho avuto modo di concordare con le cause da lui identificate, ma soprattutto rimpiango di non avere più quella forza interiore che lui tramuta in un grido lancinante nel grigiore del silenzio, un urlo di libertà, fermo e al tempo stesso inerme, di chi dell’anarchismo ha fatto uno sbocco esistenziale.

Pagano non è un libro da leggere come tutti gli altri, non sono pagine che servono per trascorrere il tempo, non sarà certamente osannato dai critici asserviti al sistema, ma è una grande riflessione sul destino di questa umanità, e pertanto richiede prima di tutto l’umiltà di accostarvisi come a una verità rivelata, e poi la ponderazione dei vari passi, il riconoscersi in ciò che siamo diventati, cioè sudditi inconsci di un mondo in cui la legge naturale dell’uomo che nasce libero è violata a favore chi nasce più libero degli altri.

Dopo queste premesse, è lecito chiedersi se Pagano sia un bel libro e la mia risposta è che Pagano è un libro necessario, anzi indispensabile se l’uomo vuole ancora sperare in un mondo diverso.

Leggetelo, ma soprattutto meditatelo, perché la vita è solo nostra e non possiamo permetterci il lusso di devolverla agli interessi altrui.

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Canti celtici, di Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    20 Ottobre, 2007
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Sulle orme di François Villon

Della produzione poetica di Fabrizio Manini, di notevole pregio (al riguardo prego il lettore di leggersi le mie recensioni a Grigie distese e a Voglio che dio mi mostri il suo volto), fa parte anche un’opera di più ridotte dimensioni, ma sicuramente atipica sia per l’autore che per le produzioni correnti.



La ballata era un tempo molto diffusa e la sua ritmicità permetteva ai cantastorie di cantarla; spesso erano lavori che parlavano di vicende amorose o anche storiche, ma adatti soprattutto ad ascoltatori di poche pretese, quali potevano essere soprattutto i servi della gleba di almeno sette secoli fa.



Ciò non toglie che vi si siano cimentati, con opere di diverso e maggior valore, anche poeti famosi, fra i quali Petrarca e in tempi meno remoti Carducci, Pascoli, D’Annunzio.



In queste composizioni la tecnica è essenziale e quindi occorre non solo conoscere bene la metrica, ma esserne padroni. Infatti i versi sciolti e liberi mal si adattano al ritmo richiesto e soprattutto a quella sorta di ritornello armonico che è sempre presente.



Al riguardo Manini dimostra consapevolezza dei propri mezzi, ricorrendo a quartine a rime pure, talvolta baciate, altre più spesso alternate; tuttavia non si rifa alla tradizione italiana della ballata, cioè alle opere dei citati Petrarca, Carducci, ecc., di carattere più elegiaco, ma ai grandi specialisti francesi, fra i quali spicca quel François Villon, scapestrato e mezzo delinquente, al punto tale che, al di là del valore, è anche noto per la sua vita turbolenta.



Fabrizio Manini ha intitolato queste dodici ballate “Ballate di vita di morte e d’amore”, perché in effetti ha inteso tracciare alcuni aspetti caratteristici dell’esistenza, con un occhio però di favore più per la morte che per la vita e per l’amore.



E indubbiamente Villon ha avuto un grande ascendente su di lui, ove si consideri che la fonte ispiratrice sono proprio le opere dell’autore francese.



Non a caso il riferimento è addirittura la famosa Ballade des pendus e anche nella silloge di Manini troviamo La ballata dell’impiccato (…dal cappio pietà/ brunito d’attesa/la tua fune saprà/che il mio culo pesa.).



Poi ci sono altre ballate che hanno tematiche diverse, ma nella maggior parte delle quali è presente la morte.



Del resto, nell’epoca d’oro di questa forma poetica, la morte, vista come figura, era quasi sempre presente, perché in fondo serviva anche a umanizzarla. Questa tendenza smitizzante era ripetuta anche nelle arti figurative, come nelle famose Danze Macabre che affrescavano le pareti di molte chiese con annesso cimitero.



E anche in Manini questa smitizzazione è presente, perché in fondo l’autore sembra volerci dire che la morte è una certezza, mentre la vita non lo è.



Peraltro l’opera ha una sua valenza anche perché prefigura quella che sarà la successiva produzione poetica dell’autore, e non tanto per la forma, quanto per i contenuti.



In particolare si ravvisa quelle tematica esistenziale propria di Grigie distese nella Ballata della noia, successivamente ripresa con alcune modifiche nella silloge testé citata, nonché nella Ballata della solitudine, segno evidente dell’evoluzione artistica e filosofica che l’autore nel tempo va portando avanti.



Del resto i prodromi di Voglio che dio mi mostri il suo volto si riscontrano, sia pure abbozzati, nella Ballata dell’amore e della morte, dove il concetto, che sarà in seguito più ampiamente espresso, qui è delineato in modo diverso, ma è pur sempre presente la contestualità fra l’amore affettivo e quello erotico, il primo rientrante con il pentimento nella raffigurazione divina e il secondo, con l’espiazione nella morte, simbolizzato da una sorta di diavolo salvificatore (…cerco l’oblio/dell’alito nero/ e invoco il mio/ destino e spero…;… baciarti la bocca/ a labbra di seta/ salvezza mi tocca/ in morte discreta…).



E’ opera di facile e gradevole lettura, dove la tecnica, come precisato agli inizi, la fa da padrona, ma scorrendo le righe, quartina dopo quartina, se riuscirete a essere partecipi, non potrà non venire in voi il desiderio di canticchiarle, magari immaginandovi di essere su una piazza del ‘500, contornati da mocciosi che si accapigliano e da gente del popolo, che, estasiata, batte il tempo con i piedi.

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Fiori e fulmini, di Cristina Bove;<br />
Canti celtici, di Renzo Montagnoli;<br />
Voglio che dio mi mostri il suo volto, di Fabrizio Manini
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    20 Ottobre, 2007
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Il mondo negli occhi del poeta

Nel Poeta è sempre presente una solitudine interiore che lo spinge a comunicare con gli altri tramite i versi. E’ un secondo io, sempre presente, ma che in momenti di particolare tensione emotiva trova un suo sfogo guidando la mano a comporre riflessioni, urla di sdegno, silenzi che parlano più di qualsiasi voce.

Ritroviamo questo pathos anche nella raccolta poetica di Luigi Panzardi, caratterizzata da una quarantina di liriche dalle tematiche più disparate, dall’osservazione della natura alla dolorosa immagine dei diseredati.

In ogni caso è sempre presente la consapevolezza della caducità della vita, della conclusione di un ciclo con la morte, un evento accettato con una rassegnazione stanca.

Al di fuori di canoni stilistici ben precisi, si può far rientrare tuttavia questo modo di poetare nel post-ermetismo, riprendendo da quest’ultimo alcune caratteristiche che impongono al lettore un’attenta lettura e rilettura, onde comprendere, peraltro senza soverchie difficoltà, il senso del messaggio.

Aggiungo che c’è una costante linearità dell’esposizione, a volte accompagnata da incisi in funzione rafforzativa, in una stesura dal lessico non complesso, quasi comune, che non impedisce tuttavia il raggiungimento di un’armonia semplice, ma funzionale.

Valga un esempio per tutti quella che, a mio parere, è la lirica più riuscita, dove il contrasto fra il desiderio di una donna emarginata e la realtà del mondo è espresso senza enfasi, e proprio per questo induce a una più ampia e serena riflessione.



Davanti allo specchio di una vetrina



Paralizzata, guarda la vetrina,

gode per la lussuria dei colori esposta.

Un fragore di luci bianche

avvolge il nero vestito di seta giacente,

imperlato, come un cielo gremito di stelle.



Raspa con le mani il vuoto della borsetta,

ha l’animo agghiacciato dalla fame,

ha il cuore dentro che urla stupito,

chiede di sapere perché non può

correre sull’azzurro del mare.



Alle spalle il fiume gonfio e lento sta,

della folla di uomini e macchine,

scorre sullo schermo a due dimensioni:

una è ricchezza, l’altra è povertà.



Ecco, in questi versi c’è tutto lo sdegno per un mondo che accetta solo se stesso, c’è il naturale desiderio, il sogno di una donna per un abito che non può comprare, con quella mano che inconsciamente cerca quello che non c’è nella borsetta. Come tutti i sogni lo scontro con la realtà impone la domanda del perché altri sì e lei no.

E la risposta è nell’ultima quartina, con quel fiume di un’altra umanità che scorre insensibile, lasciando sulle sponde chi non può percorrerlo.



Basterebbe questa lirica a dare valore a una raccolta che ne presenta altre di significativo rilevo.

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Fiori e fulmini, di Cristina Bove;<br />
Canti celtici, di Renzo Montagnoli.
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    19 Ottobre, 2007
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Primavera hitleriana

In un caldo maggio del 1938 a Firenze ci sono la visita di Hitler, i frenetici preparativi della città per il memorabile evento, due omicidi di prostitute assai giovani, un capitano dei Reali Carabinieri dotato di notevole intuito, la sua fidanzata, ebrea, che vuole dare un senso alla vita con un gesto clamoroso, un giovane gerarca di primissimo piano e tutto un contorno di personaggi di assoluta credibilità.

Il ricorso a una ricostruzione storica esemplare conferisce una dignità letteraria di notevole livello a un romanzo giallo, ben congegnato e con una trama avvincente, densa di pathos che resiste benissimo fino alla soluzione finale.

L’impressione che ho avuto è che l’autore sia ricorso al thriller come un pretesto, per descrivere invece atmosfere e personaggi di un epoca nemmeno tanto lontana e questo è il pregio principale dell’opera.

Fra l’altro è addirittura superlativa la capacità che ha avuto nel delineare la figura dell’alto gerarca fiorentino, nel romanzo senza nome, ma facilmente identificabile in Alessandro Pavolini, il più nazista dei fascisti, uomo colto, brillante, costantemente in preda a un delirio di rinnovamento accompagnato da uno spietato cinismo.

I dialoghi fra Bruno Arcieri, l’abile capitano dei Reali Carabinieri e questo personaggio di primo piano, affabile, ma anche crudele, sono la parte migliore di un romanzo in cui l’aspetto storico è a mio avviso predominante.

La meticolosa ed esatta ricostruzione del corteo che porta dalla stazione ferroviaria al centro Hitler e Mussolini è stupefacente per il coinvolgimento del lettore, a cui pare addirittura di trovarsi presente, fra la folla assiepata ai lati delle strade.

Un altro elemento da non sottovalutare è poi il conflitto fra il profondo senso di giustizia del capitano Arcieri e il concetto della stessa, del tutto personale e delirante, del gerarca.

Quindi, non solo un bel giallo, avvincente e ricco di tensione, ma anche un grande affresco storico che riesce a darci una visione di un’Italia alla vigilia della seconda guerra mondiale, un paese che inizia ad avvertire i primi sintomi di un piccolo benessere, senza accorgersi che è il miglioramento, apparente, del moribondo prima del decesso.

Del resto l’apparenza domina su tutto, ogni cosa deve sembrare fulgida anche se non lo è e i problemi non esistono, perché basta non parlarne, caratteristiche che, purtroppo, ricompaiono anche ai nostri giorni.

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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    19 Ottobre, 2007
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Più fiori che fulmini

Il poeta riesce a guardare il mondo che lo circonda, trascendendo ciò che gli occhi vedono, e in questo Cristina Bove non si smentisce, perché in lei è presente questa straordinaria virtù ed è coeva con la capacità di trasmettere in modo chiaro, direi limpido, le sensazioni del suo animo.

Questa raccolta comprende un centinaio di poesie, solo una parte delle numerose che nel corso della sua vita ha saputo creare, senza mai essere ripetitiva.

In “Fiori e fulmini”, pur nelle molteplici tematiche affrontate, riluce la mano sensibile che riesce a trasferire nel verso, con ammirevole semplicità, le più svariate emozioni, dal tormento di un ricordo allo sdegno per la sorte riservata ai più deboli.

L’animo di Cristina è uno specchio in cui si riflettono visioni che rimbalzano sulla carta pregne di intime considerazioni, una presa di coscienza che solo il confronto fra la realtà e il sentimento trasfigura in messaggi, ora soffusi, spesso silenziosi, e quasi mai in urla liberatorie.

C’è una visione dell’esistenza, anche nei suoi aspetti più tragici, che lascia alla speranza dell’amore, inteso nella sua accezione più ampia, quel dare spontaneo che gratifica anche senza risposta e che fa sentire più vivi, come in Amo le voci “ Amo le voci che parlano sommesse che sanno dire senza farti male che scelgono il silenzio quando è bene tacere “, oppure in Brulicava di luci , una lirica di ispirazione quasi bucolica, dove il richiamo alla morte va a sottolineare l’amore per la vita, una sorta di antitesi che ne esalta il valore.

Ci sono liriche intimiste, dove il volgere gli occhi dentro di sé è il cercare di conoscere la risposta a tanti perché e al riguardo ritengo opportuno sottolineare il particolare spirito religioso presente in tanti versi, una visione della vita che esula dai dogmi delle religioni per sfociare nella dubbiosa consapevolezza che qualche entità a noi ignota presieda ai destini del mondo, ai passi che percorriamo ogni giorno, a fatti ed eventi a cui partecipiamo secondo un copione che non conosciamo, ma che qualcuno ha ben definito.

Domande logiche che tutti ci poniamo, ma che la sensibilità dell’autore sa volgere in possibili risposte che alla luce della ragione hanno un senso senza essere certe, perché l’unica realtà tangibile è la vita, è quel fluire del tempo che ci accompagna dalla nascita fino al distacco, un distacco che può anche essere mediato, come quando qualcuno a noi caro ci lascia senza che possiamo far nulla, un’improvvisa consapevolezza della nostra impotenza di uomini che crediamo di saper tutto, ma che ignoriamo il perché esistiamo.

Al riguardo struggente è A mia madre, laddove Cristina scrive “ Mentre la vita che donasti a me non consentiva di donarla a te “, una traslazione di pensiero che porta dal pathos individuale a quello universale, una drammatica consapevolezza che il ciclo vitale non può essere modificato.

Più fiori che fulmini, perché anche nell’uso sapiente e mai ridondante delle metafore il verso, fluido, cristallino è al servizio della filosofia dell’autore, un concetto semplice, ma dalla grande portata per il bene del mondo: la vita è una sola, con aspetti negativi e altri positivi, ma merita in ogni caso di essere condotta fino in fondo, di amarla con tutte le proprie forze, il che non è un atto di egoismo, poiché ciò a cui si deve effettivamente aspirare sono gli autentici valori a fondamento di ogni civiltà, perché in essa innati e che l’umanità si è portata appresso nei secoli, ogni tanto dimenticandosene, nella rincorsa vana di feticci della felicità.

Un’ultima, doverosa annotazione: leggere le poesie di Cristina Bove è come entrare in un’altra dimensione, in un’atmosfera dolcemente sospesa che infonde una grande serenità.

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Cristina Bove Opinione inserita da Cristina Bove    18 Ottobre, 2007
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Un'opera sinfonica

Nel suono di un’ arpa ho letto i “Canti celtici” di Renzo Montagnoli, vibranti della stessa intensa musicalità.

E’ l’anima del poeta che risuona in una sorta di incantamento, attraverso le voci che Renzo riesce a dare ai personaggi di un antico mondo affascinante, pervaso di mistero.

Ciò che il poeta riesce a comunicare con i suoi versi ricchi di lirismo e carica emotiva, travalica lo spazio ed il tempo, trasporta su ali di pura poesia.

Già dal primo canto si viene catturati dagli arpeggi che sembrano provenire dalle parole…

“Guerrieri sull’ acqua” evoca un paese notturno popolato di elfi e silfidi.

“Il lungo fiume” con la sua malinconica rassegnazione all’oltraggio di questa nostra attuale, cosiddetta, civiltà, ci sorprende assorti nel suo fluire.

“La fonte amica” è una vera fonte di rapimento, quasi ci si può specchiare nella luce del plenilunio, quasi vi ci si può immergere.

E come non restare ammaliati da “In mezzo scorre il fiume”?, La figura risaltante, che parla in prima persona, partecipe della natura, consapevole del breve arco che si percorre vivendo. Bellissima la chiusa.

“Il mormorio del vento” così evocativa, “…erano genti che calcavano quest’ umida terra…Non uomini, oggi, ma spettri.” Anche qui splendida chiusa.

E che dire della suggestiva, in qualche maniera visiva, “La ninfa del lago”? Si rimane in attesa, sperando nella fantastica, possibile riapparizione all’alba…”che già si annunciava con frecce di luce”.

“Musica e polvere”, qui Renzo riesce letteralmente a trascinarci nello scorrere del tempo, che tutto sgretola fino alla chiusa, formidabile, come tutte le altre di questo immaginifico poeta.

“Posteri già nati senza memoria” è addirittura una raffica che coglie in pieno petto. E un senso di smarrimento pervade, con rassegnata malinconia, di fronte alla ineluttabile cancellazione delle umane radici.

“Eternità“ senza memoria, riflesso di un pensiero che abbraccia secoli e che, malgrado la polvere di ogni fine, non può che arrendersi alla forza dell’ amore che supera anche il tempo.

“Al Dio morente”, è una descrizione precisa e dolente di quella perdita di numi che, secoli addietro, erano percepiti vicini, a fare da tramite fra gli uomini e la natura, nei cicli ricorrenti e ineludibili della vita sulla terra, mentre oggi ci vede sempre più distanti, proni davanti a un Dio che abita i cieli ma nemmeno sa della nostra esistenza.

”Il Testamento” è un’ altra sentita e sottile interpretazione del poeta, è quasi scandita con i tempi del teatro tragico greco, immette nel monologo interiore dell’ uomo smarrito e impotente rispetto al mistero.

“Polvere”, e “Il futuro nel passato”, offrono, nell’ ossimorica visione, una scia di sogno, di nostalgica memoria.

La musica continua, con “Il sogno del vecchio”, per

“…Una cavalcata, l’ ultima, per un saluto,

un definitivo commiato,

mentre cessa del tutto il vento del tempo.

Ancor domani sorgerà il sole,

per altri riprenderà il cammino

per dove il vecchio è alfine arrivato.”

Qui finisce la musica e la lettura, ma si è ancora rapiti dalle pagine appena finite di leggere, non si riesce ad abbandonare la fatata atmosfera lunare, stillante di parole che fluiscono con l’ acqua.

La poesia di Renzo Montagnoli è contagiosa, ci si ammala di voglia di leggerne ancora, e se ne porta dentro, per sempre, l’ eco sospesa e sognante.

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Opinione inserita da giovanni    17 Ottobre, 2007

la banalità del male

Raccontare il delirio e trasmetterlo per intero al lettore non è impresa facile. Pagine e pagine di scrittura lirica ed intensissima, dolorosa e penetrante. Una descrizione del male assoluto che diventa routine e banalità. Un grande libro, un grande viaggio oltre il termine della notte.

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Opinione inserita da Paolo Martini    17 Ottobre, 2007

Non il miglior Updike

Ho letto più volte commenti più che favorevoli su Coppie. Devo dire che personalmente sono rimasto deluso. Lo stile di Updike è buono come sempre, ma la narrazione mi sembra troppo lenta e noiosa. Il tema trattato dal romanzo, le difficoltà della vita di coppia, è tra i miei preferiti in letteratura (in questo senso consiglio il capolavoro di Richard Yates: Revolutionary Road), ma ho preferito gli altri romanzi di John Updike.

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Revolutionary Road di Richard Yates
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Opinione inserita da Alex Cunsolo    16 Ottobre, 2007

Fino ad arrivare là dove nessuno è mai giunto

Tra tutti i Romanzi precedentemente scritti da Guido Cervo è sicuramente il più avventuroso.
L'autore riesce come sempre a trasportare il lettore in un mondo passato, ma questa volta, a differenza delle sue precedenti opere, Cervo riesce a portarci in una dimensione non solo storica ma addirittura scientifico/avventurosa, insomma immaginate come si doveva sentire un manipolo di Romani del I sec. nell'affrontare un viaggio che li avrebbe portati ad esplorare terre inesplorate abitate da animali mai visti e sopratutto uomini mai visti...

Guido Cervo con grande maestria riesce sempre a raccontarci così bene gli avvenimenti, che il lettore riesce quasi a percepire i suoni, gli odori e le emozioni che i protagonisti del Romanzo vivono.
Insomma un Romanzo un po' diverso dagli altri, dove il lettore si pone fondamentalmente questa domanda: “Cosa c'è al di là del mondo conosciuto?”
Complimenti quindi all'autore che come sempre, Romanzo dopo Romanzo ci fa innamorare della Storia.

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Romanzi Storici- Avventurosi e di Fantascienza
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knut Opinione inserita da knut    14 Ottobre, 2007
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Capolavoro

Da tempo non leggevo un romanzo di questo spessore che non fosse una riedizione di un autore del passato. Tra i contemporanei, Jonathan Littell si propone come uno dei migliori scrittori in assoluto. Parlare dell'età del nazismo ovviamente in sè non è un'idea originale, ma la prospettiva con cui lo fa l'autore è fortemente innovativa. In sostanza si rivolge al lettore dicendo: io sono un essere umano, come lo sei tu. E quindi le stesse cose che ho fatto io avresti potuto farle anche tu al mio posto...

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I romanzi di Celine
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knut Opinione inserita da knut    14 Ottobre, 2007
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Diego De Silva

Un romanzo che si fa leggere senza problemi. Non siamo di fronte ad un capolavoro della letteratura, ma lo stile e l'ironia dell'autore sono piacevoli. La storia in sè non ha spessore, ma permette all'autore di compiere numerose riflessioni, spesso interessanti. Promosso

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Economia e finanza
 
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Opinione inserita da Luca    14 Ottobre, 2007

Doppia personalità di Greenspan

Aspettavo con grande curiosità l'uscita di questo saggio di Greenspan, ex presidente della Fed. Il libro è ben fatto e discretamente approfondito. Mi sono ritrovato in quasi tutte le argomentazioni sostenute dall'autore, che sembra un liberal... numerose le critiche alla politica di Bush... tutto bene, peccato che la stessa persona, quando era alla presidenza della Fed, agiva in modo quasi opposto, senza mai il coraggio di una seppur minima critica a Bush.

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elenafirenze Opinione inserita da elenafirenze    13 Ottobre, 2007
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Banale e deludente

Avevo acquistato Rossovermiglio di Benedetta Cibrario perchè nella libreria fnac in cui ero stata lo scorso fine settimana questo romanzo era segnalato con il bollino "Attenzione: talento". Mmm... dovrei suggerire ai responsabili della libreria di cambiare l'addetto a questi bollini... Una delusione totale. Una storia banale, a tratti scontata, di una bella ragazza cresciuta in una famiglia sobria e severa ma dall'animo di sognatrice. Così si sposa il classico ricco della situazione ma si scoglie per il bellone di turno. Da qui scontati tradimenti e miserie conseguenti. Assolutamente da evitare.

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Qualsiasi noiosa storia d'amore
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elenafirenze Opinione inserita da elenafirenze    13 Ottobre, 2007
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I newyorkesi (noiosi)

I newyorkesi di Cathleen Schine, l'autrice di "La lettera d'amore", è un romanzo che mi ha delusa. L'ambientazione è nelle vicinanze di Central Park, i protagonisti sono uomini e donne quasi tutti possessori di un cane. E così vengono narrate le vicende di questi personaggi, amori, tristezze, solitudini... ma il romanzo non coinvolge, e alla fine ti restano in ricordo solo i cani dei newyorkesi...

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Opinione inserita da Luca    11 Ottobre, 2007

W. brutta copia del Codice da Vinci

W. di Jennifer Lee Carrell ha rappresentato una grande delusione. Ero rimasto affascinato dal fatto che l'autrice dice di aver impiegato 10 anni per scrivere questo thriller, ma in realtà ho trovato solo una copia (spudorata e mal riuscita) della struttura del capolavoro di Dan Brown. Inoltre i colpi di scena sono veramente limitati e di scarso impatto, niente di buono per un libro che si spaccia come thriller.

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Il Codice da Vinci di Dan Brown (ma non aspettatevi niente di paragonabile)
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Opinione inserita da Luca    11 Ottobre, 2007

I sette vizi capitali

"Le porte del peccato. I sette vizi capitali" è un saggio che si propone di analizzare i sette vizi capitali. Ho acquistato il libro essendo interessato al tema. Lo stile è pulito e di buon livello, ma sono rimasto complessivamente deluso: troppi i riferimenti storici, poche le riflessioni personali dell'autore. Consigliato solo a chi cerca un manuale sull'argomento.

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Cinzia Opinione inserita da Cinzia    10 Ottobre, 2007
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Un mondo di sconfitti

Nella solitudine di una stanza, tra le mani il libro di Ammaniti, avverti intorno a te la presenza di Rino e Cristiano Zena, vedi i muscoli tatuati dell’uno ed i capelli crespi dell’altro, senti Quattro Formaggi parlare a scatti e nell’aria l’odore dell’ultimo goccio di grappa appena trangugiato da Danilo Aprea. Sono tutti là, non ti lasciano neanche quando chiudi il libro e ti appresti a trascorrere la tua serata in compagnia.

Creature che si materializzano nella tua mente, nella tua stanza e non vanno via neanche cacciandole in malo modo. Ti rimangono dentro per la loro tristezza, per la loro grande, infinita debolezza celata nelle esplosioni di rabbia di Rino, nei silenzi sofferti di Cristiano, nell’ingenua follia di Quattro Formaggi, nell’ansia di riscatto di Danilo.

Personaggi sconfitti in partenza dalla vita, che se la vita non ha ancora abbattuto totalmente, ci pensano loro a fare il resto. Un senso di impotenza, di ineluttabilità ti accompagna per tutta la lettura e non c’è spazio per la speranza, neanche dopo la parola Fine.

In nessun modo le loro vite deviate possono ritrovarsi sul sentiero della ricerca della felicità, perché è una strada, una possibilità, loro bandita. Nemmeno l’amore, in tutte le sue forme (padre-figlio, verso una donna, verso un amico) si rivela condizione sufficiente per la salvezza.

Non è solo inettitudine, per quanto il romanzo ci regali esempi di mediocrità umana perfettamente riusciti, come Beppe Trecca. Forse è inadeguatezza, incapacità di adattarsi, aggravate da una forza sovrannaturale e beffarda che pilota le vicende, il destino.

Ammaniti riesce ad insinuare un senso di irreversibile angoscia anche nel lettore più spensierato, lasciandogli in bocca e nell’animo un’amarezza sapientemente acuita da una scelta di brani musicali a scandire le vicende, colonna sonora egregiamente orchestrata dallo scrittore.

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Ti prendo e ti porto via dello stesso autore
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Cinzia Opinione inserita da Cinzia    10 Ottobre, 2007
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Vergogna

Era da anni che non mi capitava di leggere un libro così intenso, struggente, paradossale.

Ammetto che di Coetzee non avevo letto alcunchè prima; sono stata attratta da una copertina arancio con due secchi profili di alberi su un orizzonte di deserto, che faceva capolino su uno scaffale di una libreria e l'ho comprato. Mea culpa! Non è sicuramente questo il criterio di scelta di un libro da leggere! Ma mi piace pensare che oltre alla sensazione estetica provocatami dal contrasto nero-arancio, sia stato un moto viscerale, quasi un'attrazione magnetica a farmi scegliere il volume.

E non ho sbagliato.

Vergogna ha a che fare con le pulsioni più istintive, più animali della natura umana. E' il ritratto di un Sudafrica selvaggio e "civilizzato" insieme, dove però i termini dell'equazione non sono sempre così ovvi. Alla fine del romanzo è davvero difficile dire se "noi occidentali" siamo tanto diversi da loro, da quei tre energumeni che usurpano il corpo di Lucy e la sua libertà di essere omosessuale; dall'ambizioso Petrus che costruisce la sua tenuta ed applica alla lettera la legge del più forte. David Lurie, professore ed aspirante compositore di opera, si ritrova nel fango per aver dato sfogo alla sua passionalità, alla sua ricerca di perpetuazione attraverso l'atto sessuale. Intanto decanta i versi del preludio di Wordsworth all'università e sogna di dare immortalità alle vicende di Byron. Lucy, sua figlia, "rigetta" - per così dire - il mondo "civilizzato", vive da contadina in una fattoria ed è costretta a fare i conti con una brutalità ed una violenza che rappresentano il compromesso da pagare per continuare a vivere nella sua casa, tra i suoi cani ed i suoi fiori da vendere al mercato del sabato. Le colpe dei padri ricadono sui figli, verrebbe da pensare, leggendo questo romanzo. Ma non è così. E' il caso, il paradosso che fa sì che a Lucy capiti quello di cui la giovane Melanie, vivace e maliziosa, accusa David. E questa violenza lascerà traccia visibile nella vita di Lucy, nel destino di David. Ricominciare? Sì, ma da dove? Il destino sembra segnato, come quello del cane zoppo che David accompagna a morire, mentre questo scodinzola e gli lecca il viso.

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Opinione inserita da Cinzia    10 Ottobre, 2007

le ragioni dell'odio

Un romanzo che ti spiazza per l'ironia, l'amarezza, le riflessioni che induce su quanto siano inutili ed infondate tutte le forme di estremismo religioso e politico.

In una Belfast cupa e ammalata di odio e vendetta, Chuckie, protestante, e Jake, cattolico, sono amici di lunga data che l'odio radicato tra le due fazioni religiose e politiche non riesce a dividere, neanche quando una bomba dell'IRA esplode in un bar affollatto nel cuore della città e stronca innocenti vite umane in nome di una sanguinaria rivendicazione di giustizia e libertà.

Ma come si fa a parlare di giustizia e libertà, se questo significa solo gratuito spargimento di sangue e violenza?

Una domanda che si pongono i due amici, lo scrittore stesso (cattolico di Belfast), i lettori.

Una domanda che ci si dovrebbe porre anche riconducendola ad altri contesti ancora travagliati da odio e guerra civile.

La lettura è piacevole, lo stile arguto ed amaro insieme. Un libro che non si dimentica

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Opinione inserita da Cinzia    10 Ottobre, 2007

Una vecchia storia

Grande capacità di affabulazione, di attrazione verso il lettore, soprattutto se quei paesaggi, quelle atmosfere sono le stesse che conosci da una vita o da mille anni.

Un Sud vero, vivo, quello della Venezia, che riesce a dare un'anima talmente profonda ai personaggi da farceli immaginare di fronte a noi, e poterne osservare i gesti, sentire l'odore, ascoltare la voce.

Finisce qui la magia di Mille anni che sto qui.

La trama, il motivo della saga familiare, con una predominante presenza femminile, l'elemento magico e superstiziono fanno del romanzo qualcosa di già letto, quasi un esercizio di stile per emulare scrittori latino-americani di fama più radicata.

Il che non sarebbe un limite, se un finale troppo scontato, da manuale, non conferisse alla storia quell'aura di artefazione che ne fa perdere gli aspetti più realistici.

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Consigliato sì, ma a chi non ha letto Garcìa Màrquez e la Allende. <br />
Troppi richiami e similitudini gettano ombra sull'originalità del romanzo.
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Opinione inserita da pedro    10 Ottobre, 2007

kitsch

McCarthy era riuscito a fondere la freddezza con il kitsch alla faccia di tutti gli altri scrittori viventi, che cercano disperatamente di mantenere l'equilibrio tra queste due sponde. Questa volta non ci è riuscito, perché ha voluto mostrare un lato compassionevole e buonista. Nel deserto che attraversano, l'uomo trova il tempo di dire al bambino parole finto-dimesse, in realtà troppo pompose per riuscire a fondersi con il deserto. E come il "Vecchio e il mare" di Hemingway (da cui sembra aver preso spunto), "La strada" è un tentativo di puntare al sublime che scade inevitabilmente nel kitsch. Un gran peccato che McCarthy sia diventato un predicatore.

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Opinione inserita da armando    08 Ottobre, 2007

Interessante ... malgrado tutto

Libro sull'olocausto visto dalla parte di un nazista ma scritto da un autore di origine ebraica. Interessante il testo per varie ragioni, anzitutto un esercizio letterario di freddezza, il racconto procede con un atteggiamento "anatomico", "settorio". E' decisamente il racconto di chi queste cose le immagina soltanto, senza averle vissute, "Se questo è un uomo" è terribile, anche se racconta poco, è vero, non questo romanzo che ricorda molto i film di Tarantino, violenza stilizzata in fondo. Questo spiega il successo probabilmente, sulla scia di racconti "pulp", l'effetto finale è estraniante. Ma questo aspetto ha due corollari, entrambi terribili. Da un lato l'assuefazione alla violenza onirica, come quella dei film, delle serie su CSI, di corpi sbuzzati, la classica violenza infantile di Kill Bill, eccetera, la curiosità morbosa da "tavolo settorio". Dall'altro mette bene in evidenza la normalità del male, ma in questo senso forse preferisco i pugni in faccia di Cattelan (Hitler che prega) che fanno pensare forse anche di più, e sono però il risultato di un filtro più complesso. Terribilmente, in senso proprio, emerge prepotente l'assoluta normalità del male, molto ben descritta sia dall'autore, in questo senso forse voluta, sia dal successo del libro che dimostra in due modi come gli "olocausti" siano sempre dietro l'angolo.

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Opinione inserita da Jo March    06 Ottobre, 2007

Verdetto negativo

Un'esagerazione definire questo scritto "romanzo": saranno quattro cartelle in tutto. La storia è quella del mito greco di Clitemnestra che, con la complicità dell'amante Egisto, uccide il marito Agamennone di ritorno da Troia con la schiava Cassandra. La vicenda classica è innestata su una Napoli camorristica e popolare.

Clitemnestra, rivolgendosi ad una Corte, racconta la propria storia d'amore e morte. Il verdoetto del titolo in realtà non arriva, è solo evocato nell'ultima frase.

Il monologo di Clitemnestra ha poca profondità, scivola facilmente nel clichè.Suona meglio come canovaccio di un'opera teatrale (che è effettivamente la destinazione iniziale di questo testo); come prodotto editoriale risulta invece affrettato e bisognoso di maggiori cure.

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- Peppe Lanzetta<br />
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Opinione inserita da Giovanni Paris    03 Ottobre, 2007

Le benevole, ottimo

Le benevole è un romanzo assolutamente innovativo. Ho letto la versione francese l'ultima settimana di settembre, nel paese transalpino tutti ne parlavano. Il nazismo viene raccontato da Maximilian Aue, ex ufficiale delle SS. La sapienza dell'autore sta nel non aver scritto un saggio: il romanzo è appetibile e la storia assolutamente coinvolgente. Vi assicuro che iniziate le primissime pagina sarà impossibile staccarsi da questo libro. Al termine della quasi mille pagine ero davvero dispiaciuto che fosse già finito. Imperdibile, un vero e proprio capolavoro della letteratura contemporanea.

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Opinione inserita da Valentina    01 Ottobre, 2007

Sottile delusione...

Diciamo che il voto positivo è indirizzato più alla Vargas come scrittrice eccellente e fuori dall'ordinario, che al suo ultimo libro edito in Italia "L'uomo dei cerchi blu", che è invece piuttosto deludente.

Delude la trama: il finale si intuisce a partire da metà libro, non c'è suspance ed è anche troppo introspettivo, troppo incentrato sulla figura evanescente del commissario Adamsberg e sulle sue tortuosità interiori.

Delude lo stile: meno limpido, meno diretto e meno ironico del solito. Sembra quasi che non sia la stessa Vargas dei libri - magnifici - sugli "evangelisti"... In effetti, questo nuovo libro (benché sia il primo della serie-Adamsberg) non aggiunge nulla a quello che già si sapeva e si intuiva sul carattere e sulla personalità del celebre commissario.

Speriamo nell'uscita di un altro libro! Di questo ne consiglio la lettura perché è comunque piacevole, ma quasi quasi si potrebbe fare a meno...

V

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    29 Settembre, 2007
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Viva la libertà

Ha quasi il ritmo di una ballata questo romanzo tutto centrato sulla figura di Sante Pollastro, per le cronache un bandito di Novi che ha imperversato, soprattutto fra le due guerre, ma per la realtà storica un ribelle.

Luigi Balocchi con uno stile del tutto particolare, che ricorre con misura al dialetto, con frasi brevi, incalzanti, riesce a fornirci un quadro completo di questa meteora dei diseredati.

Sì, perché le gesta di quest’uomo, indubbiamente contro la legge, sono animate da uno spirito di rivolta contro un sistema che opprime l’individuo, negandogli quella libertà che è suo diritto di nascita.

Sante Pollastro, il bel Santéin è anarchico senza saperlo, lo è per un istinto naturale che lo porta quasi in un gioco-sfida con se stesso a violare leggi che sembrano fatte apposta per consentire il predominio di alcuni uomini sugli altri.

Ha simpatie per il movimento anarchico, perché lo considera la testimonianza che il suo modo di condurre la vita ha un fondamento che non lo rende dissimile da altri che si battono e muoiono per un’ideale di libertà prima di tutto individuale.

Nel testo lo si definisce uno stirneriano naturale, ma lui di Max Stirner forse ha solo udito il nome, perché la base culturale per comprendere l’anarchismo non è presente. Lui è così, perché è nato così, in ciò confermando praticamente la teoria del filosofo tedesco.

Anche gli uomini della sua banda, pur riconoscendolo capo, appaiono come dei discepoli, soggiogati dalla sua forte personalità, ma con l’analoga predisposizione a rifiutare vincoli imposti dalle istituzioni, apparati creati per limitare la libertà degli uomini.

E’ tutta una serie di avventure picaresche che si susseguono nelle pagine, con l’immagine memorabile del bel Santéin che corre a perdifiato in bicicletta e spara con mira infallibile ai lampioni, con gli assalti ai treni, con le rapine, ma anche con le feste fra amici, con gli amori rapidi e intensi, con parte dei bottini destinati a chi più ne ha bisogno.

Si delinea così la figura di un uomo a metà fra Robin Hood e Don Chisciotte, una miscela amalgamata in modo perfetto, che ne fa un personaggio a se stante, un mito anche per le polizie italiane e francesi che lo rincorrono, un avversario pericoloso, ma leale.

Un concetto di vita inteso come avventura permanente, dove forte e predominante è il vincolo dell’amicizia, dove bravate e allegria si alternano anche alla tristezza per la morte di un compagno.

Così, se esilarante appare il bel Santéin tutto nudo d’inverno quando si presenta per il servizio di leva, in modo da farsi passare per matto ed evitare quindi la certa destinazione per la fornace di morte del Carso (siamo durante la prima guerra mondiale), i ricordi del fido Emilio, ucciso dai Regi Carabinieri in un agguato in cui lui è scampato per miracolo, danno la misura di un uomo complesso, dotato di grande temerarietà, di slanci impetuosi, ma anche di malinconica nostalgia.

In un ambiente descritto in modo magistrale, con nebbie che sembrano avvolgerti, con il freddo di cui hai il sentore, Il diavolo custode è assai di più di un romanzo noir, di una riuscita biografia, è un intenso, vibrante, e per certi versi struggente, canto di libertà.

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Opinione inserita da Elena79    29 Settembre, 2007

Fred Vargas

Personalmente ho preferito altri romanzi di Fred Vargas, della quale ho letto l'intera opera disponibile in italiano, ma sono comunque rimasta soddisfatta dalla lettura di questa nuova uscita, L'uomo dei cerchi azzurri. Nuova in realtà solo per l'Italia, perchè il romanzo, che avevo già letto nella versione francese è di ben 11 anni fa. E' il romanzo dell'esordio del commissario Jean-Baptiste Adamsberg, il protagonista preferito della Vargas. La storia è avvincente, con i 3 cadaveri che finiscono dentro ai cerchi azzurri... non ne parlo oltre per non rovinare la lettura:-) Stile impeccabile. Consigliato a chi ama i gialli "psicologici".

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