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Si legge tutto di un fiato
Segnalo questo libro perché è un romanzo fresco, forte e che si legge tutto di un fiato.
Scritto in prima persona da un adolescente che porta dentro di sé un grosso peso, apre al lettore uno spaccato di vita molto realistico. Un mondo fatto di adolescenti con passioni vere, con sentimenti veri vissuti con l'ansia ed il senso di ineluttabilità tipici di quell'età.
Nello stile, l'autore a me ha ricordato Dostoevskij, non a caso citato prima del romanzo.
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cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni
Storia d’amore. Scordatevi fronzoli, canzonette, lacrime.
Qua si parla di amore forte, tenace, di un amore raro, che sa aspettare e nutrire la propria attesa-
C’è il protagonista che è finito in una di quelle storie adolescenziali che di solito popolano i nostri ricordi, ci fanno sorridere per la loro superficialità, innocenza, leggerezza ma nulla più. Invece per Florentino Ariza non è cosi, lui sa che Ferminia Daza è La Storia, lo sa per istinto e sa resistere ed aspettare la sua nuova occasione,negli anni, come un soldato in guerra. E ci sarà un lieto fine, che però non è forzato, ma giunge con leggerezza, quasi a compimento del cammino del protaginista, più simile alla morte che non al classico happy end.
Mentre lei si sposa e lui vive innumerevoli avventure carnali, amorose, o solamente mentali, scalate sociali ed economiche (non è la storia di un innamoratio alla deriva) noi riusciamo anche a lasciarci affascinare insolita atmoisfera dei caraibi.
Grazie Garcia Marquez per questo capolavoro.
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la corsa all'abisso- dominique fernandez
Rivive in un dualismo con la realtà michelangelo merisi detto il caravaggio una personalità tanto affascinante quanto misteriosa...ma al riguardo basta guardare i suoi quadri. Nonostante si conosca poco della sua vita, Fernandez ci dà luci e ombre del suo essere. Chissà quanto è reale...?
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Impegno politico ed estro poetico
Il percorso poetico di Gabriel Impaglione, dopo Spiegazioni con mare ed altri elementi, si arricchisce di questa silloge che si riallaccia in fondo alla precedente.
L’autore argentino ha una naturale propensione a esaminare le storture del mondo, soprattutto quelle diseguaglianze marcate che opprimono i più, e nell’ambito di una filosofia di stampo marxista, ma interpretata in modo umanistico personale, trasla nei versi il suo messaggio politico di libertador, quasi una sorta di poetica epico-popolare, dove l’epico ha una funzione di solennità del verbo, volta a rafforzare il concetto esposto, e il popolare, invece, è la forma usata, la più semplice possibile perché possa essere di immediata comprensione ai maggiori destinatari, cioè a tutti quegli uomini meno uguali degli altri.
La sua, però, non è una forma stilistica ed espressiva che possa eventualmente far rientrare la silloge fra le opere esclusivamente politiche, ma trae forza dalla base per espandersi in un crescendo di preziosità artistiche che la rendono poesia a tutti gli effetti. In questo noto una certa somiglianza con il famoso Ernesto Guevara, più conosciuto come combattente per la libertà, ma che è riuscito a trasfondere i suoi ideali in poesie, indubbiamente di carattere politico, ma di notevole bellezza.
La poesia che segue è un chiaro esempio di ciò che ho inteso dire. Qui, forse più che in altre, Gabriel Impaglione è riuscito a fondere mirabilmente il suo naturale impegno politico con il suo altrettanto naturale estro poetico.
Giustizia
Della morte s’imbandierano i boia.
I funebri bronzi che abbondano, gravi,
in piazze e musei e caserme.
(lì fanno giustizia le colombe)
per la morte ci sono oratori
brillanti, sbirri che si rovesciano
in seme nero col soltanto nominarla.
(lì fanno giustizia uditi sordi)
della morte si vantano i sicari
del serramanico, del zig zag dell’acciaio.
Loro si mettono medaglie tra loro
si spalleggiano con rivendicazioni
che danno schifo.
(lì fa giustizia la memoria)
io preferisco tentare mestieri con la vita,
colorare d’utopia la canzone imperfetta.
Mancare di rispetto alle sue Signorie
con l’amore esplodendo loro in faccia.
(lì fa giustizia la poesia)
Justicia
De la muerte se embanderan los verdugos.
Los fúnebres bronces que abundan, graves,
en plazas y museos y cuarteles.
(Allí hacen justicia las palomas)
Para la muerte hay oradores
brillantes, esbirros que se derraman
en semen negro con sólo nombrarla.
(Allí hacen justicia oídos sordos)
De la muerte se vanaglorian los sicarios
de la daga, del zigzag de acero.
Ellos se cuelgan medallas entre ellos
se palmean con reinvindicaciones
que dan asco.
(Allí hace justicia la memoria)
Yo prefiero intentar oficios con la vida,
teñir de utopía la canción imperfecta.
Faltar el respeto a sus señorías
con el amor reventándoles en la cara.
(Allí hace justicia la poesía)
E’ una bella silloge ed è un peccato che la traduzione nella nostra lingua non sia a livello delle migliori. Per fortuna, però, c’è il testo originale a fronte, che consente di apprezzare la cadenza, il ritmo, la forza di versi che consiglio senz’altro di leggere, indipendentemente dal proprio credo politico.
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La duplice natura dell'uomo
Isolamento dal mondo esterno e incapacità di far parte della società: questo è il grande tema de Il lupo della steppa, romanzo scritto dal grande autore tedesco nel 1927.
Nulla però in natura è completamente assoluto e quindi quella sorta di muraglia costruita a protezione dell’io interiore non è una difesa sufficiente e non è invalicabile.
Il protagonista, un intellettuale di cinquant’anni di nome Harry Haller, ha dei momenti in cui il mondo esterno lo attira, incuriosendolo. Inevitabile è quindi che riemerga la lotta fra i due “io” e che provochi uno stato di estremo disagio e incertezza tra giusto e sbagliato, tra essere razionale ed essere bestiale, istintivo, non ponderante.
In questa condizione Haller è assolutamente incapace di prendere qualsiasi decisione, perfino quella del risolutorio suicidio a cui tuttavia si approssima per ritrarsi sconvolto e incerto. Non è più nulla, la razionalità e l’irrazionalità in contrasto finiscono semplicemente con l’annientare il protagonista.
Ma allora perché come titolo Il lupo della steppa?
L’uomo ha una duplice natura, come anche ho scritto sopra; al suo interno convivono l’aspetto umano che lo porta a coesistere con i suoi simili e l’aspetto “lupino” che lo conduce a isolarsi, a chiudersi al mondo.
Sarà solo alla fine di questo splendido romanzo che, nel teatro magico, una sorta di rappresentazione del puro inconscio, un saggio dell’oriente rivelerà che nell’uomo non esiste un’unica personalità, ma ne esistono molteplici, in perenne contrasto.
E’un’opera di rilevante valore, ma non di facile lettura, perché presuppone l’abitudine di guardare continuamente dentro di sé, in linea con quella che può essere considerata una vocazione all’introspezione psicologica.
Può sembrare di primo acchito un tema di estrema malinconia e per nulla positivo, ma così non è perché Hesse, pur ammettendo l’esistenza del problema, meditato e rimeditato nel corso di un periodo di profondo grigiore che lo afflisse, alla fine fornisce un antidoto, una soluzione all’apparenza illogica, ma di profonda e concreta realtà: per superare il dolore di vivere non c’è che l’umorismo, la risata immortale. Quindi, mai prendere troppo sul serio se stessi e i propri sentimenti, perché dietro l’angolo inevitabile si cela la follia di vivere.
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era da un po' di tempo..
... che non trovavo un libro capace di tenermi sveglia fino alle quattro del mattino. Lisbeth e Mikael sono personaggi indimenticabili: ho visto che Marsilio pubblicherà il secondo episodio della serie nel giugno 2008. Non vedo l'ora!
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troppo troppo pseudo intellettuale
Carina l'idea, ma scontata. Non è nemmeno capace di catturare l'attenzione del lettore
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i newyorkesi
Cathleen Shine dall’esordio in Italia nel 1996 con “La lettera d’amore”, ha trovato terreno fertile. Una buona porzione di pubblico la segue dilettandosi nella lettura dei romanzi scritti negli anni a seguire. Le disavventure di Margaret, L’evoluzione di Jane, Il letto di Alice, L’ossessione di Brenda; i testi già nel titolo esprimono la predilezione di temi femminili nel comporre. Vive a New York, sposata , ha due figli; di recente ha avvicinato a sé un cucciolo per ovviare alla separazione dal marito. Ciò avra senz’altro contribuito alla redazione del suo ultimo romanzo. L’ambientazione in Upper West Side in prossimità di Central Park, rende l’idea di una nicchia pacifica, lontana dal caos cittadino in cui si può instaurare un clima di amicizia avvicendevole. La multiforme schiera di personaggi dapprima inquieti, indolenti, arcigni, smarriti, sono soggetti all’influsso rigenerante manifestato da un eventuale amico a quattro zampe. I cani, colonna portante del racconto,segnano quei punti di svolta necessaria a mantenere costante l’attenzione del lettore: un inaspettato ritrovamento, una morte per quanto agoniata imprevedibile. Pertanto sono da considerare come i veri protagonisti induttori alla dimensione animalesca, in cui la razionalità lascia spazio alla spontaneità delle azioni. Non a caso l’ autrice ripete per ben tre volte per bocca di Jody, Polly ed Everett “in fondo non sono altro che un uomo”, come se nella condizione di umanità è insito un impedimento, un’eccessiva scrupolosità, che limita nell’agire. La critica ha ben accolto il settimo libro della Shine, ha giudicato lo stile elegante e sofisticato, soffuso da una vena malinconica. La maniera ideale per raccontare della società del terzo millennio, contrapponendosi alla massa, privata ormai del calore dei rapporti umani. Troppo intenta a digitare sui tasti di una tastiera di un cellulare o di un PC, inerme rispetto alla vita che scorre e ci vede invecchiare bambini. Presenta in questo senso una sorte di pet-therapy generale, guaritrice dei mali del nostro tempo stress, nevrosi e solitudine. Il tutto celato dietro le vicissitudini amorose di una single quarantenne, nel topos che molto si accosta allo stile telenovelas.
L’approccio iniziale alla lettura non è stato dei migliori, per l’impressione immediata che si trattasse di una banale storiella. Poi la stima si è evoluta a distanza di alcuni giorni, quando ho preso in esame la narrazione nell’insieme. L’affiorare di molteplici rimandi alla realtà del moderno vivere, sono stati spunto di una riflessione ed hanno arricchito la mia personale interpretazione del romanzo. Sicchè pur considerandolo leggero e ludico, ne riconosco una certa legittimità quale cronistoria della vita ai giorni nostri.
R B
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mondo senza fine
Lo stile è all'altezza della fama dell'autore, così come la ricostruzione dello stile di vita medioevale, evidente frutto di una accurata ricerca sugli usi e costumi dell'epoca, invenzioni ed innovazioni comprese. Troppo prevedibile e scontata la divisione dei personaggi principali in buoni e cattivi, con la corte dei comprimari pronta ad oscillare ora da una parte ora dall'altra senza una logica apparente e come se le popolazioni di allora fossero veramente pronte a dare ascolto al primo venuto. A fronte di due terzi del libro accurati e dettagliati, la terza parte appare frettolosa e sciatta, come se l'autore, resosi conto della eccessiva lunghezza dell'opera, avesse deciso di porvi un rimedio. Deludente il finale (anzi, i "finali" relativi ai tre personaggi "buoni" principali) forzatamente a lieto fine, con il trionfo dei buoni sentimenti e la condanna dei cattivi. Poco o scarso l'approfondimento psicologico dei personaggi e dei loro tormenti, spesso troppo piegato alle esigenze di sviluppo della trama. Peccato, perchè gli spunti sarebbero stati moltissimi. Nel complesso un libro comunque piacevole che tiene viva l'attenzione fino alla fine. Ma da Ken Follet ci si poteva aspettare di più. Nulla a che vedere, il confronto pare scontato, con i Pilastri della terra.
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Il principe mezzosangue
Splendido. La maturazione definitiva della saga, dove Voldemort non è più il male personificato, ma viene raccontato anche il suo passato. Il libro è avvincente come sempre, anche se i momenti in cui i personaggi della Rowling muoiono sono sempre insoddisfacenti. Un po' prevedibile anche l'identità del principe mezzosangue, ma era presumibilmente voluto.
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Piacevole e sopravvalutato
è un libro acerbo, in cui bei passaggi si mescolano a incertezze stilistiche e momenti di noia. è uno di quei libri che girano attorno a un segreto che quando si svela delude. Finale insoddisfacende. Comunque piacevole, utile per la conoscenza dell'attualità e della storia recente.
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Inevitabile conclusione
Prima o poi doveva finire. Putroppo. E dare una degna conclusione a Harry Potter non era cosa facile. è Harry Potter, di conseguenza è coinvolgente fino a essere un'ossessione, ma senza Hogwarts è strano. E inferiore ai precedenti. Quello che lascia perplessi è l'infinita stupidità dei personaggi (Harry soprattutto), e il fatto che il protagonista sopravviva è molto forzato. Adorabile l'epilogo... in conclusione indispensabile per chi ha amato la saga, bello ma non quanto gli altri
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Idea originale, romanzo comune
La trama del libro si basa su un'idea originale: la storia d'amore tra un uomo che viaggia avanti e indietro nel tempo per un difetto genetico che non può controllare e la donna a cui è legato a causa di questo stesso problema. Difficile da sviluppare senza confondere, e ancora più difficile da sfruttare appieno. L'autrice riesce a narrare una bella storia senza lasciarsi andare a troppi sentimentalismi e senza peccare di poca chiarezza, ma il libro risulta comunque piuttosto comune, sia come scrittura che comecoinvolgimento emotivo.
Poteva risultare migliore ma è comunque una lettura piacevole e consigliabile.
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Il punto debole
Indubbiamente il libro più debole della serie... utile più che altro come passaggio per arrivare al magnifico principe mezzosangue. Sempre coinvolgente e piacevole, ha come punto di forza l'entrata in scena della favolosa Luna Lovegood
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Bravo Buttafuoco
Ho comprato il libro tre giorni fa e l'ho terminato ieri!! Fantastico, Buttafuoco non solo intriga nella scrittura ma ha costruito un plot decisamente originale e coraggioso. Finalmente un romanzo fuori dagli schemi.
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Per conoscere l'evento più importante del nostro
Ne La repubblica di Mussolini Giorgio Bocca ha esaminato con grande spirito critico la realtà del rinnovato partito fascista dopo l’8 settembre, non tralasciando connessioni, accadimenti ed eventi della parte italiana antitetica all’occupante tedesco e alla vassalla repubblica sociale.
In questo voluminoso ed esauriente testo, invece, l’autore rivolge la sua attenzione al grande movimento partigiano non trascurando raffronti con i suoi oppositori.
E’ un’opera di grande valore, perché condotta con rigore storico e in grado di offrire a chi non era presente un quadro di ampio respiro e aderente in modo plausibile alla realtà.
Si potrà obiettare che Bocca è stato un partigiano, ma non si potrà negare che l’affetto per questo grande moto popolare, pur trasparendo fra le righe, non esime l’autore dall’effettuare osservazioni, dall’evidenziare aspetti ed elementi negativi, dando così la prova di una valida imparzialità che è sempre caratteristica dominante nelle sue opere.
L’autore, infatti, riesce a fondere in modo ammirevole la passione di ha partecipato in prima persona agli eventi con la lucidità dello storico.
E’ così che l’armistizio dell’8 settembre, la liberazione di Roma, gli scioperi di Milano, Torino e Genova, il proclama di Alexander, l’epilogo dell’aprile 1945 con l’esecuzione di Mussolini rivivono nell’ampia ricostruzione di una guerra di popolo che si manifestò ai più svariati livelli e nei diversi censi.
Quel cercare poi di comprendere le ragioni degli altri finisce con il meglio delineare anche i motivi che indussero non pochi italiani a preferire la dura realtà della macchia opponendosi prima all’invasore tedesco e poi anche al suo alleato-subordinato fascista.
Come ne La Repubblica di Mussolini la storia assume nella trasposizione letteraria una trasformazione in narrazione di eventi, precisi, puntuali, ma senza mai giungere a stancare il lettore, con il risultato che si apprendono elementi caratterizzanti di uno dei più importanti periodi della nostra storia senza nessuna fatica, anzi con il piacere di scoprire pagina dopo pagina un nostro passato ancor recente.
E’ inutile che dica che quest’opera è assolutamente imperdibile.
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Parole e immagini
Una raccolta di poesie, accompagnata da schizzi a matita a opera dello stesso autore, costituisce un’omnia artistica che riflette comuni caratteristiche sia nell’immagine che nel verso.
In effetti, la stessa levità propria della poetica di Edio Vassalli è riscontrabile anche nei suoi delicati ritratti di figure femminili, volti mai aspri, anzi dai lineamenti dolci, abbozzati con ricercata finezza, oppure nella leggiadra figura di fanciulla intenta al cammino verso una meta sconosciuta e che impreziosisce in copertina l’ultimo lavoro di questo autore elvetico.
Non mi sembra che sia un caso se questa figura, ripresa di spalle, con incedere quasi a passo di danza, introduca all’opera vera e propria, una sorta di compendio poetico che va dall’analisi della natura, con espressioni di intima meraviglia, a temi sociali anche di notevole impatto emotivo, ma trasposti con pudica commozione, quasi un disagio per aver avvertito la necessità di parlarne, pur nella consapevolezza di non poter far altro.
Il titolo è ripreso da un verso di una tenue filastrocca dedicata alla figlia Sibilla e volta a esorcizzare le paure dei bimbi.
Ma la mezzanotte, orario fatidico specie in certa letteratura di genere, sta a rappresentare quel particolare momento in cui la riflessione dell’autore riesce a essere più incisiva, quello stato nel quale, in assenza della vita del giorno, meglio si riesce a coordinare sensazioni e a comprendere significati di esistenze che hanno una loro ragion d’essere nel quadro generale del grande ordinamento della vita.
E se aspetti del mondo che ci circonda privo della presenza modificatrice dell’uomo destano l’attenzione di Edio Vassalli, assai più definita appare la sua poetica quando si rivolge ai diseredati, agli ultimi, a chi soffre per colpe di altri uomini.
Figlia della miseria
Ti ho vista in un angolo di strada
Accatastata tra i rifiuti
Eri figlia della miseria
Un angelo dimenticato da Dio
…..
Cuba
Li ho visti giocare tra le vie
raccolti come stracci
in un giorno di follia
Facce sporche di vita
dagli occhi fradici di speranza.
…..
Sono bimbi queste vittime a cui l’autore rivolge il suo pensiero, gli esseri più indifesi, più deboli, a cui la prepotenza di alcuni uomini toglie ogni futuro.
Sono versi sommessi, quasi un sussurro in cui trova spazio un’amarezza, un tarlo silenzioso che giunge a segno più di parole urlate, più di proclami che l’animo sensibile di Edio Vassalli non può nemmeno ipotizzare.
E proprio per questo restano nell’animo del lettore, un seme che lentamente sviluppa una presa di coscienza a cui inconsapevolmente si finisce per arrivare.
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Un bel fantasy-horror
Considerato che non amo il fantastico, genere in cui ho anche ben poca competenza, quella che segue non deve essere intesa come una recensione, perché non ne ha assolutamente la pretesa. A essere onesti io preferisco che venga considerata l’impressione di lettura di un lettore profano.
Ci si chiederà, allora, perché mi sia avventurato in un’opera appartenente a un genere che non gradisco e la risposta che è si è trattato di pura e semplice curiosità, avendo letto non pochi giudizi, tutti positivi.
Dopo questa doverosa premessa, devo dire che penso che Il costruttore di biciclette abbia dei meriti e rappresenti, con la sua originalità, il segno che anche da noi si possa scrivere e creare senza scimmiottare i ben più famosi autori anglosassoni.
In questo concordo con Valerio Evangelisti che ne parla nella prefazione all’opera; in effetti riscontro pure io una novità creativa del tutto indipendente, senza trasposizioni nazionali di idee maturate in altri luoghi.
Se la vicenda è originale, io ho cercato di cogliere soprattutto le atmosfere, i personaggi di un paese, per niente degli stereotipi, ma delineati incisivamente con pochi e sicuri tratti di penna.
Magniverne è un borgo tipicamente italico, così come lo sono i suoi abitanti, anzi amo pensare che si tratti di una località delle Langhe, dove ancora esiste una convivenza equilibrata fra uomo e natura, due elementi che nel romanzo sono prioritari.
Non sto a cercare di fare un sunto della trama, anche perché finirei con il togliere il piacere della lettura, ma mi preme sottolineare l’abilità di Cometto di presentarci fenomeni del tutto improbabili come veritieri, quasi palpabili, con una progressione crescente scandita da un ipotetico orologio che accelera i suoi tempi.
Si comincia con un ritmo volutamente blando, ben calibrato per portarci all’attesa sempre più fremente del mistero di cui la vicenda è permeata, poi avviene un’accelerazione, dapprima costante e poi crescente, per non dire convulsa, che mi ha tenuto incollato al libro, incapace di riporlo se non dopo essere arrivato all’ultima parola.
Si tratta, quindi, di un’opera indubbiamente avvincente, anche se a onor del vero non ho capito molto il percorso fantastico e di ciò mi scuso, ma ripeto che in tema sono un profano e che ho preferito lasciarmi andare al puro piacere della lettura, senza pormi tante domande e senza cercare riflessioni.
Non importa, però, perché ogni tanto è bello anche evadere senza pensare.
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Inverosimile e disgustoso
Risparmiate il vostro tempo (e con quasi 1000 pagine il tempo risparmiato sarà parecchio) e dedicatelo a qualcosa di meglio!
L'unico pregio del libro è quello di tentare di fornire una visione dell'olocausto da parte dei carnefici, ma il risultato di questa operazione non sembra affatto convincente, anzi, a posteriori, sembra essenzialmente un'operazione calcolata e dettata da ragioni commerciali.
Il protagonista Max Aue e la trama sono inverosimili fino a risultare ridicoli e grotteschi: il finale poi con il morso dato al naso di Hitler dall'ineffabile Aue in attesa di essere decorato nel bunker della cancelleria si commenta da se....
Il tutto poi infarcito da un inesauribile campionario di gradi e galloni di ogni forza armata e di polizia del III Reich (tanto per far sfoggio di accurata ricerca storica), e di continui delirii a sfondo sessuale/incestuoso/coprofagico del protagonista che risultano stereotipati e ridicoli.
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bello
Non ho ancora finito di leggerlo, ma non riesco a smettere di girare pagina...ogni volta che non posso continuare la lettura non vedo l'ora di poterlo fare!
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le stanze del cielo
Riprendendo il suo discorso poetico iniziato mirabilmente con “ La gioia e il lutto, “ il Ruffilli
ci consegna un secondo capolavoro: “ Le stanze del cielo. “
Lasciato alle spalle il minimalismo delle sue prime raccolte poetiche, da un coraggioso colloquio a più voci sulla “ passione e morte per Aids, “ l’autore ampia gli spazi del suo discorso poetico e si addentra in un campo poco adusato ai poeti: la prigione e la tossicodipendenza.
Il Ruffilli diventa così sia un poeta di riferimento sia un poeta totale, che ha annullato la forma egocentrica che appartenne anche alle sue prime raccolte e rinnega una poesia capace unicamente di esprimere i sentimenti che toccano l’io e, invariabilmente, si consuma girando sempre attorno allo stesso perno.
Ma, soprattutto, il Ruffilli è un poeta civile come lo furono nell’ Ottocento i grandi vati dell’Unità italiana, il suo impegno però si rivolge ancora una volta agli sconfitti. Nella sua piena maturità al poeta interessa ogni realtà che circonda la società, indugia sul male e sulla sofferenza in ogni sua forma, ed il suo verso entra timido nelle mura protette dalle grate.
“ Si fa il possibile / per questa gente / (…) per farla stare meglio / da bere e da mangiare / più che sufficiente (…) “
Ma: “ grate e cancelli da ogni / parte, intorno, tetri cortili / dalle altissime mura. / Ovunque regna / un ordine di cose / che qui è del tutto inusuale (… )”
E ancora: “ Si cerca di alleviare “ / (…) la loro condizione / finché la si può alleviare. “
Il verso del poeta non è mutato, è il suo tipico verso breve, ma attento.
Verso che pare voglia deflagrare. “ Letti affiancati / letti sovrapposti / uno sull’altro / accatastati / (… ) “ la colpa / è mia la colpa / lo so, sono dannato. “ / (…)
Dannato senza speranza: “ E della libertà / che farne…/ la vita è un fiume / che scivola nel fango. ” (…) “ Lucida spada / che ti attraversi / e ti trafigga / che tagli il filo / portandoti via da tutto / ma, da te stesso, mai. “
Ma, da te stesso, mai…
Sino al quasi inevitabile verso che sigilla la stanza: “ vorrei scappare / a tutti i posti / della mia vita /andarmene perché / ho orrore di quello / che è accaduto. “
Concludo definendo il Ruffilli un grande poeta attuale, nella sua “ poetica “ inattualità.
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l'idea è bella ma....
La trama è scontata, già nel prologo si capisce come andrà tutto il libro e vengono ripetute mille volte le stesse cose: una noia mortale!
L'unica cosa positiva è che il libro fa conoscere i lati nascosti di Manhattan e fa venire voglia di visitarla.
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La vittoria del Male
A Pirocha, nell’isola di Degnasàr, così come in tutto il mondo, una grande siccità inesorabilmente brucia la natura e consuma ogni passione negli animi umani. Improvvisamente arriva una pioggia risanatrice che sembra far rifermentare gli ardori e rifiorire una vitalità che si era staticizzata in un’agonia che appariva infinita. Ma la Terra e i suoi abitanti devono essere purificati dal Male e la Natura o Dio stesso trasformano quell’acqua, inizialmente provvidenziale, in un vero e proprio diluvio la cui azione devastante e incontrastabile tutto e tutti distruggerà. Solo cinque donne, ognuna con la propria storia sulle spalle, avvertite dalla visitazione del colombaccio messaggero, saranno le prescelte che usciranno indenni da quella terribile Apocalisse. Trovato rifugio nell’antico monastero di Taladdari, arroccato su un’impervia montagna, esse si nutriranno della speranza di una rinnovata primavera e vedranno crescere l’angoscia e l’inquietudine della fine della specie. Nell’unico uomo esistente, riportato in vita dalla fangosa terra liquefatta dall’acqua, riporranno la loro fede nel concepimento di un “salvatore del mondo”. Criccheddu, ultimo Adamo, rozzo bandito abbandonato da piccolo e svezzato dalle capre, che imparò prima a belare che a parlare, alla perpetua ricerca della propria madre e della propria identità, sarà in grado di mutare con il suo seme il destino degli uomini? O la Terra continuerà a dirigersi crudelmente verso il grande freddo del suo ultimo inverno?
Una storia aspra, crudelmente viscerale, incatenata ad una natura vestita di violenza e di forti contrasti, una storia che non regala neanche uno spicchio di futura prospettiva dove la morte, dopo aver attraversato quella sorta di brodo primordiale, prende il sopravvento lasciando cadere intorno a sé i salvifici brandelli di una creazione, di una annunciazione e di una resurrezione inutili e che con ateistica visione condurranno alla vittoria del Male incastonandola in un estremo ed eterno gelo.
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Il canto muto della poesia
La storia del “ viddrano che si maritò con una sirena”, Camilleri la ascoltò per la prima volta dalle labbra di Minicu, il mezzadro di suo nonno, che con i suoi fantastici racconti, esortava lo scrittore, allora bambino, a chiudere gli occhi per riuscire a scorgere la magia insita nelle cose( pi vidiri le cosi fatate), quella che non può essere vista con gli occhi dischiusi alla ragione.
Camilleri ora ci invita a sua volta a farlo, regalandoci questa bellissima favola, questo poetico “cuntu” che, con il suo dialetto armonioso e incantatore, ci trasporta in un mondo dove mito, storia, scienza, leggenda e verità si abbracciano e ci abbracciano strettamente in una terra magica che ci rapisce e si fonde con la parte bambina della nostra intima essenza.
La vicenda inizia a Vigata, a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento e finisce con lo sbarco degli Alleati in Sicilia . Gnazio, il nostro antieroe, l’antiulisse per eccellenza, non volendo essere considerato un “pidocchio” come quello che, dimenticato da Dio e dagli uomini dovette nascondersi tra i capelli del Patriarca Noè per poter sopravvivere, parte per l’America in cerca di fortuna, attraversando un mare che lo impaurisce e lo sgomenta. Ma il suo sogno è tornare nella terra natìa: vuole vivere e morire là, in quella sua meravigliosa isola e come Ulisse agogna il ritorno alla sua Itaca. Vi rientra dopo 25 anni di assenza e compra una lingua di terreno incolto e circondato dalle acque nella contrada Ninfa. Nonostante la sua avversione per il mare che circonda la proprietà, Gnazio viene affascinato da un grande ulivo secolare accanto al quale decide di costruire la sua casa. Sotto le sue abili cure la terra rifiorisce. Passati i quarant’anni Gnazio decide di prender moglie e si rivolge alla ‘gna Pina, erborista e sensale, che gli fa conoscere la bellissima Maruzza Musumeci che vive con la sua enigmatica e conturbante bisnonna Minica. Gnazio ne rimane folgorato. Maruzza e Minica, nonostante le femminee sembianze, appartengono al popolo del mare; sono le creature dal canto ammaliatore che mai dimenticarono l’affronto di Ulisse; sono sirene che ormai vivono in mezzo agli uomini senza mai scordare i loro riti ed i loro impellenti bisogni che sempre le legano fortemente alle profondità marine. Sono esseri capaci di produrre splendidi canti che non hanno parole e soffiare dentro le conchiglie musiche antiche che raggiungono solo i cuori di chi conserva la capacità d’amare. Posseggono una memoria remota, parlano il greco rifacendosi ai grandi versi dell’Odissea e bramano l’acqua che regala loro una vita al di là del tempo e dello spazio, al di là della morte. Dopo essersi vendicate dell’onta di Ulisse, in un’aura di premonizioni, di sospette morti e sparizioni e dopo la celebrazione di un fatato matrimonio notturno non scevro di arcaici e spesso cupi e misteriosi rituali, Gnazio, accogliendo la diversità della sua sposa, inizia con lei una nuova vita basata sulla serenità e la concordia, in una totale fusione delle loro molteplici differenze. Nascono quattro figli. Il primogenito Cola, con la mente completamente rivolta al cielo e agli astri e che diventerà un astronomo famoso, ha tutte le caratteristiche del padre. La sorella Resina (anagramma di Sirena) è una novella sirenetta, come la madre. Gli altri due figli, Calorio e Ciccina, appartengono totalmente al mondo degli umani. Tra Cola e Resina si formerà un legame talmente indissolubile che scavalcherà la morte e si imprigionerà in uno spazio atemporale dal quale sarà possibile, ancora, ricevere un messaggio di vita e di speranza.
Una favola deliziosa questa di Camilleri, una favola che attraversa lieve tanti temi importanti della vita: un libro sull’amore, anche quello che sembra inattuabile, un libro sulla diversità che può unire invece che disgiungere. Un libro commovente, che contiene l’esplicito invito alla comprensione e all’accettazione dell’altro. Anche il lettore, non può che restare ammaliato dalla scrittura e dalla liricità del romanzo, che trasuda un sogno dai contorni sfumati di realtà, realtà che appare e scompare come onda del mare sulla risacca, lasciando dentro il dolce canto muto della vera poesia.
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La bambina,il pugile,il canguro
Questo breve romanzo di Gian Antonio Stella, quasi un racconto, ha il sapore di una favola dolce e piena di emozioni che, affrontando un tema tanto delicato come l’handicap, riesce a smuovere le coscienze mettendole in grado di comprendere come la vita, anche in situazioni limite, è sempre capace di elargire momenti di gioia che scaturendo da sentimenti di totale purezza, giorno per giorno, creano la forza di camminare nel futuro, anche se lastricato di pregiudizi e di meschinità che tentano continuamente di intralciarlo.
Senza cadere nel pietismo o semplicemente in un banale buonismo, Stella raccoglie con garbo e sensibilità la storia di nonno Primo e di nonna Nora e del loro grande amore per la nipotina affetta da Sindrome di Down.
Giusto Babich, ex ”pugilista”, detto Primo per la sua somiglianza con il famoso gigante della boxe Primo Carnera, attende insieme alla moglie Nora il momento in cui sarà nonno. Ma la bimba nasce con gravi problemi che si sommano al problema principale: un cromosoma in più nel suo corredo genetico. La madre della bimba, figlia dei due anziani coniugi, non è in grado di reggere tutto questo dolore e la sua fragilità finirà per ucciderla; il padre, Nevio, un uomo alcolizzato e irresponsabile si allontanerà dal problema scomparendo per anni. Toccherà quindi ai due amorevoli nonni prendere in mano le redini della vita di Letizia (così il nonno ha voluto chiamarla per il suo sorriso contagioso che elargisce con generosità donando pienezza e calore a chi le vive accanto). Nonno Primo, anche lui con un passato “differente” in quanto profugo istriano, fuggito dalla cosiddetta “Zona B” che nel ‘54 passò definitivamente sotto il controllo della Jugoslavia, è un grande lottatore ma anche un grande incassatore, con un’ innata capacità di riuscire ad accettare le vittorie così come le sconfitte. Sa combattere con infaticabile coraggio, allo stesso modo che sul ring, nel crescere e difendere la sua adorata nipotina, scontrandosi con la fiumana di problemi quotidiani densi di errati preconcetti che l’esistenza di “un diverso” e di chi lo ama e lo aiuta, deve incessantemente affrontare e contrastare.
Attraverso la figura di Primo, che con grande attenzione si documenta per assistere la bimba nel miglior modo possibile, l’autore traccia un ampio quadro del trattamento riservato ai bambini “ imperfetti” nella mitologia e nella storia sollevando contemporaneamente una grande quantità di temi di grande e sempre attuale rilevanza etica. Ma sono l’affetto e l’amore incondizionato la forza trainante di questo racconto, di chi con il cuore viaggia con semplicità e schiettezza attraversando instancabilmente ostacoli e barriere, sorretto da risorse impensabili dispensate con prodigalità da un vissuto quotidiano che, con illimitata semplicità e sconfinato candore riconduce al senso più vero della vita. Perché il sorriso, lo stupore, la sincera innocenza, le grandi conquiste di Letizia e dei bambini come lei, hanno lo straordinario potere di riempire il mondo di chi è capace di scorgere con intelligenza e cuore la via che conduce all’assoluto disegno dell’esistenza.
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un nuovo memorabile romanzo di Ian McEwan
Ian McEwan è senza dubbio uno dei maggiori scrittori viventi. L’uscita di ogni sua opera rappresenta sempre una festa per il lettore. Ne è una prova Chesil beach, romanzo breve e bellissimo (ottimamente tradotto da Susanna Basso), incentrato (come è ormai noto a tutti visto che di questo libro si sono occupate non solo le cronache culturali dei giornali ma anche quelle di costume) sulla prima notte di nozze, in un albergo lussuoso nell’amena località di Chesil beach, di due ventiduenni inglesi, Florence ed Edward, che, come capitava spesso in quegli anni, siamo nel 1962, arrivano vergini al matrimonio.
«Erano giovani, freschi di studi - recita l’incipit - e tutti e due ancora vergini in quella loro prima notte di nozze, nonché figli di un tempo in cui affrontare a voce problemi sessuali risultava semplicemente impossibile». Lei è una giovane violinista molto promettente, di buona famiglia, cresciuta in una grande casa elegante e per così dire, decadente. Lui è uno storico, che proviene invece da una famiglia piuttosto modesta e disastrata, dalla casa disordinata e sciatta. Lei si scopre sostanzialmente frigida. Lui è tanto impaziente di dare prova della sua virilità quanto imbranato nel rapporto.
Con precisione implacabile, intrecciando con abilità i punti di vista di lui e di lei, McEwan descrive i fatti di quella notte fatidica, abbandonandosi a qualche flashback necessario per descrivere il background familiare dei due protagonisti. E offre l’ennesimo saggio della sua straordinaria capacità di calarsi nella psicologica dei personaggi, in una sorta di metempsicosi, ricostruendone in maniera quanto mai minuziosa l’intima esperienza di una cultura sentimentale e sessuale, che egli - nato nel ’48 e che quindi ha avuto venti anni in quel ’68 che molte cose ha cambiato - non ha avuto la sfortuna di conoscere e vivere.
Ma Chesil beach non è un romanzo 'storico': non mira a offrire semplicemente uno spaccato della vita sessuale prima della rivoluzione sessantottina. E nemmeno un romanzo sul problema delle dinamiche di potere che spesso si sviluppano in un rapporto di coppia. Piuttosto è un romanzo sul presente, che mira a porre in relazione - e questo avviene nel quinto e conclusivo capitolo - i tabù di ieri con la finta-libertà di oggi. Se i due giovani sposini - sembra dirci McEwan - saranno destinati a vivere trascinando con sé il pesantissimo fardello del fallimento iniziale, non meno diverso è il destino delle generazioni del presente, impastoiate come sono nel moralismo e nel perbenismo catto-protestante teo-con che innerva e pervade la società.
Un destino di insoddisfazione e di frigidità.
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OTTIMO
Grande libro! Uno dei migliori scritti sul fenomeno nazista, stile asciutto ma allo stesso tempo denso ed intenso. Di non facile lettura, ottima la descrizione della burocrazia dello sterminio, senza "disumanizzare" gli assassini (rischio sempre presente in questa tipologia di testo), rendendo ancor più tragica la descrizione dell'essere umano.
Grande opera prima.
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La spiritualità in trasparenza
Un saggio che preliminarmente chiarisce aspetti quali il senso della fede, della religiosità ateismo, dubbio... per poi passare ad un'analisi dei testi profonda ed onesta. Io sono una patita di questo Saggio, non conosco l'autore, ma sento il dovere di segnalarlo
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Prima di Romanzo criminale
Il grande successo di Romanzo criminale (2002), bissato - sia pure parzialmente - dal relativo sequel Nelle mani giuste (2007), ha reso, e con pieno merito, Giancarlo De Cataldo uno delle star della narrativa italiana, non solo di genere. Da qui la ristampa dei suoi primi lavori, passati all’epoca inosservati, come, solo per citarne alcuni, il romanzo d’esordio Nero come il cuore e quel magnifico esercizio di new journalism che è Terroni. Ora è la volta di Onora il padre. Quarto comandamento, che Einaudi ripropone all’attenzione dei lettori italiani dopo l’iniziale, e unico, passaggio, firmato con il nom de plume John Giudice, otto anni fa nei Gialli Mondadori.
Va detto che questo libro è la novelization della sceneggiatura di una miniserie televisiva - Leo Gullotta e Marco Bonini i protagonisti; Giampaolo Tescari il regista -, che il magistrato-scrittore tarantino scrisse all'inizio del 2000 con Fausto Brizzi e Marco Martani, proprio la coppia che ha curato lo script e la regia dei due Notte prima degli esami (Brizzi) e di Cemento armato (Martani). «Giudicato forse troppo “forte” - si legge nella Nota dell’autore del libro - il film fu trasmesso nel 2003 su Retequattro, in coincidenza con una partita di Coppa della Roma».
Onora il padre contiene, fatta salva l’ambientazione riminese, tutti gli ingredienti dello psyco-thriller anglosassone, genere in auge negli anni Novanta grazie ai due capolavori di Thomas Harris, Red dragon e Il silenzio degli innocenti. Infatti, secondo la migliore tradizione del genere, ci troviamo dinanzi a omicidi cruenti (donne seviziate e uccise, ma senza mai violenza sessuale), a un serial killer che sembra inafferrabile, e a un investigatore solitario che si occupa del caso grazie alla sua capacità di penetrare nella criminal mind.
Analogamente, la tecnica di scrittura si fonda sullo sdoppiamento del punto di vista e della voce narrante, evidenziato anche dall’utilizzo di un diverso carattere tipografico. Nella parte in tondo, il narratore è esterno alla diegesi e racconta al passato la storia delle indagini e della caccia al “mostro”, le dinamiche umane e sentimentali che si stabiliscono tra i componenti dell’unità investigativa, oltre a darci uno spaccato della psicologia del detective grazie al sapiente uso del discorso indiretto libero.
Nei corsivi, invece, il racconto è in prima persona e in contemporanea con gli eventi. Qui è il maniaco ad esprimere le sue elucubrazioni, in cui Nietzsche e l’Antico Testamento si mescolano; elucubrazioni dominate da quella «legge dei padri» di cui si sente esecutore e in nome della quale deve uccidere chi trasgredisce alle regole, secondo un vero e proprio rituale che contempla la presenza vicino alla vittima di bastoncini di incenso e di una canzone primi anni 70, molto hippy (Silence dei Flying Objects, ma tanto il brano quanto il gruppo non esistono, sono una invenzione dello scrittore) a fungere da colonna sonora degli omicidi.
Naturalmente, come è tradizione di questo tipo di romanzi, si scoprirà che le donne uccise hanno tutte un tratto in comune e che le torture fino alla morte di cui sono vittime, hanno il carattere di un vero e proprio contrappasso dantesco.
Ma il romanzo racconta anche un’altra indagine. Quando la vittima del Figlio dei fiori - questo è il nome che viene affibbiato al killer - è Francesca Maltese, ragazza ricca e conosciuta, la polizia manda a Rimini Matteo Colonna, giovane criminologo, già allievo dell’Accademia dell’Fbi di Quantico (come Lucy, l’insopportabile nipote di Kay Scarpetta…). Sarà lui a scoprire che questo delitto si collega con altri avvenuti negli anni precedenti.
Ombroso e solitario, poco avvezzo al gioco di squadra e per questo da subito in distonia con il vicequestore Prosperi, Matteo nasconde un segreto: nato a Rimini da un padre che non lo ha riconosciuto, è cresciuto a Milano in un orfanotrofio. Così la trasferta romagnola è anche occasione di un ritorno alle origini e di un incontro con un genitore che non ha mai conosciuto, il giocattolaio Davide Zanetti, che si rivela non del tutto estraneo ai fatti delittuosi.
Già da queste note si evince come il plot di Onora il padre presenta un che di meccanico nella sovrapposizione francamente forzata delle due ricerche, quella dell'assassino e quella del padre. Inoltre, la derivazione del romanzo da una sceneggiatura per una miniserie tv fa sì che questo presenti tutta una serie di situazioni topiche - come la visita nella colonia abbandonata, classico luogo spettrale, dove nel ’72 è avvenuto il delitto che ha dato origine alla macabra serie, o come la morte del poliziotto collaboratore di Matteo, subito dopo la scoperta dell’identità dell’assassino - che nell’economia di un film thriller possono essere accettabili, a patto che il regista sappia gestire al meglio le riprese, dosando saggiamente i tempi di attesa e il ritmo del montaggio (come il Dario Argento dei bei tempi andati). Molto meno in un romanzo, uscito per giunta nel 2008, buon ultimo di una sfilza enorme di titoli incetrati sullo stesso argomento, dove con la loro prevedibilità erodono pesantemente la sospensione dell'incredulità da parte del lettore (è poi, davvero difficile pensare che nessuno prima dell’arrivo a Rimini di Colonna non avesse colto il fatto che tutte le vittime avevano affidato il padre vecchio e malato alla stessa casa di riposo).
Così, riletto oggi, Onora il padre il padre può essere considerato come un esercizio di preparazione al capolavoro, a quel Romanzo criminale, cui De Cataldo stava già allora lavorando. Troviamo infatti, quel gusto per la descrizione quanto mai essenziale dell’ambiente, nonché l’uso nel corso della narrazione dei verbali di polizia, secondo la lezione della migliore crime novel americana. Ma soprattutto, qui lo scrittore inizia la messa a punto di quella strategia narrativa a focalizzazione interna ai personaggi, che porterà alla perfezione nel dittico sulla banda della Magliana, dove il racconto si presenterà magistralmente strutturato come un mosaico polifonico di tanti “io”, psicologizzati ai massimi livelli, con il ricorso a un parlato mimetico, alla lingua gergale e dialettale, in una efficace “soggettiva” che ci fa vedere il mondo con gli occhi dei vari Libanese, Freddo, Dandi, Scialoja e Stalin Rossetti. Ma questa è un'altra storia.
vito santoro
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il romanzo della zona grigia
Nella sterminata produzione di Georges Simenon - oltre 400 titoli - Il treno, scritto nell’arco di pochi giorni, dal 18 al 25 marzo del 1961, secondo i consueti ritmi frenetici dello scrittore belga, ora riproposto da Adelphi, che lo riporta nelle librerie italiane dopo una lunghissima assenza (risale infatti, al 1966 la precedente edizione mondadoriana), è l’unico libro - insieme al giallo Il clan degli Ostendesi - a raccontare una vicenda completamente calata nello scenario della Seconda Guerra mondiale. Furono dunque, necessari più di venti anni al creatore di Maigret, accusato di collaborazionismo e responsabile nel 1940 di un campo profughi a La Rochelle, per fissare sulla pagina i suoi ricordi di guerra, argomento per lui «terribile e magnifico».
La vicenda è ambientata proprio nel maggio ’40. Il treno del titolo è un lungo convoglio che trasporta profughi attraverso la Francia, dalle Ardenne evacuate davanti all’avanzare implacabile delle armate tedesche fino a La Rochelle: i vecchi, le donne incinte, i bambini piccoli e malati nelle carrozze viaggiatori, tutti gi altri in quelle destinate al trasporto del bestiame. Tra gli sfollati troviamo Marcel Féron, piccolo commerciante di apparecchi radiofonici di Fermay, uomo senza qualità, pesantemente miope e dalla salute cagionevole. Una gioventù la sua, trascorsa - negli anni della Grande Guerra - in sanatorio a causa della tubercolosi e segnata dal trauma familiare rappresentato dal ritorno a casa una sera della madre, nuda e con i capelli rapati a zero, punizione destinata alle donne collaborazioniste.
L’uomo è serenamente sposato con Jeanne, che sta per dargli un altro figlio, dopo la piccola Sophie. Serenamente ma non si sa a che punto felicemente sposato, perché quella di Marcel è un’esistenza mediocre, totalmente priva di sussulti.
Questo tran tran quotidiano è travolto dalla guerra che lo strappa dalla sua casa e dalle sue abitudini e lo costringe a compiere un vero e proprio salto nel vuoto.
Separato dalla moglie e dalla figlia, Marcel incontra nel treno Anna, una ebrea praghese, dal passato misterioso e segnato dal carcere, da cui è appena uscita. Nel corso del lungo viaggio - caratterizzato dalle mitragliate degli aerei tedeschi, da soste dalla durata imprecisata fino alla definitiva sistemazione nel campo di raccolta - i due iniziano ad attrarsi l’uno all’altra sempre più fino a diventare inseparabili e ad amarsi di una passione tanto irresistibile quanto destinata fin dal principio alla caducità, all’essere senza futuro: «Né passato, né avvenire. Solo un fragile presente, che dirovamo e assaporavamo al tempo stesso»; «Non ci pensavo mai, non solo perché mi rifiutavo di pensarci, ma perché non mi veniva in mente: la nostra vita in comune non aveva futuro».
È una vitalità disperata, una furiosa smania di sesso quella che la guerra offre a Marcel e ad Anna, nonché ai numerosi uomini e alle numerose donne stipate nel tendone da circo del campo. Una vitalità disperata che, tuttavia, non investe la sfera ideale, che non determina alcuna presa di coscienza politica, che non ha alcuna proiezione nel futuro, cristallizzata com'è in una sorta di eterno presente.
Non a caso, dopo l’armistizio con i tedeschi firmato dal governo Pétain, la vita riprende subito normale in tutto tranne che «per la presenza dei tedeschi e per l’approvigionamento di viveri che diventava sempre più difficile». Marcel ritrova la moglie, che nel frattempo ha partorito Jean François, e la figlia, perse nello sfollamento, «quasi deluso che tutto si sistemasse così facilmente» e torna alla sua grigia esistenza. Così, anni dopo, non gli resta che scrivere un memoriale per lasciare al figlio una immagine diversa di sé, quella di un uomo che «per alcune settimane è stato capace di provare una passione». Passione che si è presto consumata con la stabilizzazione dell’occupazione tedesca, il ritorno alla routine quotidiana e alla tutela del proprio particulare. «Ripresi la mia vita dal punto in cui l’avevo lasciata, com’era destino, perché non avevo mai pensato che ce ne potesse essere un altro».
Ne è prova il fatto che Marcel non darà alcun aiuto ad Anna, mentre scappa da una retata della Gestapo, scortando da partigiana un pilota inglese, e si renderà così complice, a tutti gli effetti, della sua fucilazione.
Romanzo terribile e crudele, capace di ricostruire con una scrittura geometrica ed essenziale quello che era lo stato psicologico di quella maggioritaria zona grigia che era scesa a patti durante la guerra, con l’invasore. Zona grigia che è anche e soprattutto, condizione eterna dell’umana natura; stato dell’anima, che non può essere, secondo Simenon , in alcun modo modificato, tranne che in situazioni tanto brevi quanto eccezionali.
È questo il peccato originario che rende tragica la condizione dell’uomo; peccato che, magari attraverso la scrittura, deve essere svelato, quanto meno per per essere onesti con se stessi e con il mondo.
Vito Santoro
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la solitudine dei numeri primi
ho letto il libro come si dice.. tutto d'un fiato e l'ho trovato profondamente malinconico per tutte le pagine fin quando, alla fine finalmente, i protagonisti capiscono che per loro vivere significa accettare davvero questa solitudine che certo, per la stessa natura umana è angosciante, ma che nel libro acquista una tale profondità da risultare indispensabile ai protagonisti; mi è molto piaciuto verificare come tutti i piccoli atti mancati abbiano scatenato tutte le conseguenze perchè è poi davvero così anche nella vita. comunque, ho trovato il libro splendido!
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Bellissimo
Bellissimo: fare della vita di un poeta così importante ( come di qualunque personaggio storico) un romanzo non era cosa facile. Il rischio di cadere nella biografia romanzata o nel saggio era altissimo. Invece Berbotto ha realizzato un grande lavoro: d'altra parte dall'autore di Concerto Rosso c'era da aspettarselo. L'invenzione di una donna amica di Gozzano che anziana racconta le sue vicende a un giornalista alle prime armi apre le porte e libera i freni della narrazione, che è ambientata principalmente nell'Europa Belle Epoque: Agliè dove c'è il Meleto di Gozzano, Torino, Parigi principalmente. Anche se il romanzo si apre negli anni 30 o giu di lì, e già dalle prime righe in modo sorprendente, e poi intorno agli anni '60 epoca dell'incontro tra la donna e il giornalista. Ma il vero autentico protagonista e lui: Guido Gozzano. Leggere questo romanzo ha fatto sì che io sia andato a rileggermi le sue poesie, e me lo abbia fatto amare un po di più. Se mai era possibile. Bravissimo Berbotto! LEGGERE E CONSIGLIARE!
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Da ridere (e da piangere)
Quando si tratta di recensire un giallo, purtroppo non si può dire molto ( a parte l'assassino eheh): nel caso di Giallo Polenta invece si può e si deve . Il tema principale, sul quale si incardinano le scene più grottesche e divertenti del libro, è il GIUSTIZIALISMO MEDIATICO. Questo malcostume, questa violazione dei diritti di ogni cittadino, che si vede ancora come semplice indagato messo alla gogna, e con lui tutta la sua famiglia e la sua vita, è stata descritta con ilare precisione, con penna graffiante, con puntuale presa in giro dei burattinai di questa televisione trash. Vi dico solo che Gambarotta e Capelletto hanno inventato la trasmissione "Gomito a Gomito", che nulla ha a che vedere con Porta a Porta , condotta da uno spassoso Franco Moscon, che con la Vespa non ha nulla ha che fare...
Da leggere da propagandare perchè che io sappia è l'unico romanzo denuncia di questo sporco gioco. Lo dimostra anche l'intervento del Garante a vietare i processi televisivi: peccato si riferisse solo a quelli che hanno per vittime i soliti potenti, invece per il comune cittadino... Ricordate il dj di Perugia? prima "assassino assassino!" poi completamente estraneo ai fatti? peccato che non abbiano dedicato alla sua innocenza la stessa attenzione mediatica data alla sua presunta colpevolezza. E poi Cogne con gli schizzi di sangue...
E Rignano...
E...
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finalmente un libro di altri tempi
L'ho acquistato alla sua presentazione dove erano presenti l'autrice, l'attrice Rosaria De Cicco che ne ha letto dei brani e Peppino Di Capri.Sono stato incuriosito dalle parti ascoltate in tale occasione, dal modo con cui ne ha parlato Peppino di Capri e dalla marea di gente accorsa. L'ho subito letto e devo dire è veramente bello, i dettagli con cui si raccontano le situazioni, la passione e l'amore con cui è scritto traspaiono inevitabilmente....un libro secondo me di altri tempi
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Le benevole
Libro splendido, di non facile lettura ma ricco non solo nella ricerca storica, ma nell'introspezione dei personaggi, che prorpio nelle loro insensate operazioni "burocratiche" estrinsecano la loro "umanità", altra ma da conoscere e non banalizzare ponendola nella categoria del "non descrivibile".
Grande opera prima.
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Il ritorno del maestro di danza
Il commissario Kurt Wallander è andato in pensione? Viva l’ispettore Stefan Lindman! Siamo sempre in Svezia ovviamente ma non più nella Scania, regione che ormai ci è familiare dopo aver letto i nove romanzi con protagonista K.W. Al trentasettenne S.L. viene diagnosticato un cancro alla lingua e, prima di iniziare le cure del caso, gli viene concesso un mese di congedo per malattia. Appreso da giornali la notizia che un suo ex-collega, da anni in pensione, è stato barbaramente ucciso nei boschi a nord della Svezia, decide, invece di andare in vacanza prima di affrontare la chemioterapia, di recarsi nello Härjedalen per indagare su questo misterioso delitto, apparentemente senza movente, anche se non è la sua giurisdizione. Ma tutto questo, anche se con altre parole sicuramente meglio assemblate di quanto abbia fatto io, lo potete trovare nel frontespizio del libro. Quello che sorprende in questo romanzo è l’umanità dell’ispettore S.L. che, pur gettatosi a capofitto nell’indagine sul delitto, spesso viene preso dallo sconforto e dal timore di non poter sconfiggere la malattia. È uno di noi, Stefan, un uomo, dato le circostanze, preso da mille dubbi: a volte e lì lì per abbandonare l’indagine (in fondo non è obbligato, il caso è di competenza dei colleghi di À?stersund) per andare in qualche località di villeggiatura e un momento dopo l’amicizia che lo legava alla vittima, la voglia di collaborare e la passione per il proprio lavoro lo trattengono in questo piccolo paese. Positiva la figura del collega Giuseppe e anche degli altri poliziotti che indagano sul delitto: verrà accolto tutto sommato bene e un prezioso aiuto lo riceverà dalla sua compagna che, se pur lontana, con la sua comprensione riuscirà a fargli superere i momenti più critici. La trama si sviluppa con altri delitti che tengono l’attenzione del lettore sempre viva. Si scoprirà che le motivazioni che spingono l’assassino, [spoiler ] che proviene da una terra molto lontana, [/spoiler] sono più che valide e non mi sento di condannarlo anche perché dimostrerà di avere una sua morale. Trama intrigante che solleva tematiche su un certo modo di pensare e di agire di alcuni gruppi di persone nostalgiche di un passato oscuro e pieno di nefandezze che l’Umanità non ha ancora, per fortuna, dimenticato perché, anche se oggi giorno i bersagli sono altri rispetto a ieri, bisogna essere sempre pronti a combattere queste ideologie malsane.
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un'operazione di mercato
Ho trovato il libro pesante, infarcito di inutili sigle e gradi; il racconto è eccessivamente lungo e non aggiunge nulla a quello che già si sa della shoà. Se l'intento dell'autore era quello di descrivere il nazista medio ha decisamente fallito, molto meglio Arendt e la banalità del male. Aue è solo uno psicopatico che cerca giustificazioni, anche quando accenna al disgusto per quel che vede e quel che fa non risulta credibile. Per quanto concerne poi i cosiddetti momenti erotici, raramente ho letto qualcosa di meno coinvolgente in tal senso e non in quanto Max è omosessuale, ma in quanto è pazzo. Francamente, ho trovato maggior spessore nelle descrizioni dei serial killer di Deaver e negli psicopatici di King che in questo romanzone pesante e inutile che non saprei definire che inutile e pomposamente autoreferenziale
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il distruttore
Uno dei libri più sconvolgenti del dopoguerra italiano, un romanzo magma ambientato durante al crisi di suez, dove un correttore di bozze, brutto e povero, sogna la distruzione del genere umano.Lui, che collaborò con le SS...
Unico romanzo italiano di tematica nazista dell'epoca, è un 'opera potente, commovente e blasfema quanto LE BENEVOLE di Littel non riesce ad essere.
Da leggere e da vedere insieme ad APPUNTI PER LA DISTRUZIONE, interessantissimo documentario ( sempe edito dalla pequod) su Virgili ( autore di cui non esiste nemmeno una foto!!!)
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pasolini
Come si fabbrica il terrorismo nel terzo millennio
Negli ultimi mesi stiamo assistendo a un proliferare di teorie cospirative e controcospirative sull’11 settembre. Fra le critiche più comuni che vengono rivolte alle teorie cospirative c'è quella per cui due o più persone non possono tenere un segreto, e quindi una cospirazione che coinvolga due o più persone sarebbe impossibile. Eppure, a pensarci bene, la versione ufficiale vuole che l’11/9 sia una cospirazione che coinvolge almeno una ventina di persone. Quindi se ne dovrebbe dedurre, come minimo, che il governo sapeva e non ha fatto nulla per fermarli. E così è stato, infatti: parti di istituzioni governative come l’FBI sapevano che alcuni terroristi (che peraltro hanno risieduto presso basi militari statunitensi) stavano per preparare qualcosa di grosso, e non hanno alzato un dito. Questi fatti, assodati, stanno scritti anche nel “Time”, che ha posto come persona dell’anno la "spifferatrice" dell'FBI Colleen Rowley. Ciò, e un immensa mole di fatti documentati la troviamo nell'importantissimo libro di Webster Griffin Tarpley, "La fabbrica del terrore" (Arianna editrice, 2007). Le indagini condotte da Tarpley lasciano pensare che una rete canaglia di terroristi, che tagliano trasversalmente le istituzioni governative statunitensi, abbia fabbricato appositamente varie operazioni facenti parte dell’11 settembre, per ottenere quella “Nuova Pearl Harbour” che alcuni strateghi americani (come Brzezinski e i membri del PNAC) attendevano con trepidazione.
Il modello teorico offerto da Webster Tarpley nel suo nuovo libro contempla tre rami della rete canaglia: talpe, zimbelli e tecnici. Le talpe sono individui infiltrati in punti cardine delle istituzioni o elementi corrotti delle stesse: come Blair, Cheney). Gli zimbelli, o patsies, sono le “teste di turco” e i capri espiatori della situazione, abbindolati dai servizi segreti, come Lee Harvey Oswald. Nell’11/9: Mohammad Atta, Moussaoui lo stesso Bin Laden e gli altri. Tarpley li considera sì come terroristi tout court, ma anche come terroristi “da supermercato”, ossia terroristi deboli, e in sostanza controllati e manipolati dall’alto. Infine ci sono i professionisti (killer, tecnici, esperti mercenari, che magari provengono da altri paesi, vanno in USA, fanno il loro sporco lavoro e se ne tornano a casa).
Non si può leggere questo libro da cima a fondo senza smettere di credere al mito ufficiale tramandato con i media e con il rapporto della commissione nazionale USA.
Tarpley ormai è riconosciuto come il ricercatore di punta sul terrorismo di Stato e in particolare sull’11 settembre, e le 653 pagine del suo La fabbrica del terrore sono la punta di un iceberg che sta di nuovo spaccando l’America in due. Tarpley è l’autore che con un solo libro, e con la sua partecipazione a una trasmissione della CNN con Charlie Sheen, aveva messo in fibrillazione milioni di americani. Con le sue seguitissime conferenze per tutti gli States (ma di recente ha svolto un tour anche in Italia) sta riunendo un grande gruppo di persone che andranno presto a fondare un nuovo partito, il quale avrà al suo centro la discussione pubblica della questione cruciale del ventunesimo secolo: l’11 settembre. Tarpley ha offerto con il suo libro una mole di dati enormi, gli atti di un autentico processo indiziario. Gli indizi che offre sono moltissimi, quasi tutti degni della massima attenzione, e più che sufficienti per cestinare il rapporto ufficiale della commissione governativa. Purtroppo restano indizi, e Tarpley ne è consapevole. Per questo egli chiede la creazione di una nuova commissione, stavolta internazionale, sul modello del Tribunale Russell-Sartre creato negli anni dei crimini di guerra del Vietnam. Quello può essere veramente il punto da cui ripartire per ridare l’America nelle mani degli americani. E già sono numerosi i gruppi che fioriscono intorno a questo ideale di un’indagine davvero indipendente. Questi comprendono ricercatori, scienziati, architetti, ingegneri di primo livello nelle migliori università statunitensi.
L’ascesa al potere dei neocon, di Bush, e in sostanza dell’apparato militar-industriale legato agli USA, rischia di essere, e forse è già, una caduta senza ritorno non solo verso le disfatte dissennate del Vietnam, non solo verso un nuovo maccartismo e una caccia alle streghe, ma verso la barbarie culturale e politica, se non alla catastrofe termonucleare.
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Denuncia al precariato
Vorrei consigliare la lettura di questo romanzo per diversi motivi.
Scorrevolezza: le 236 pagine si lasciano leggere in un giorno, facendo entrare il lettore in uno stato di dipendenza.
Stile: scrittura forte, diretta, ironica
Contenuto: argomento di grande attualità e di sicuro interesse, il precariato. Inoltre troviamo una avvincente storia d'amore che fa pensare se le scelte che si prendono nella vita, siano quelle giuste.
In conclusione, ho trovato anche commovente il finale; credo sia il secondo libro che mi ha commosso tra tutti i libi che ho letto...e il primo è stato La Zona Morta di S. King
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Non di mio gradimento
Purtroppo non sono dello stesso avviso della lettrice precedente. Anche se la scrittura è notevole, per essere un'opera prima e per un autore così giovane, ho provato solo angoscia. E questa angoscia mi è rimasta dentro per diversi giorni. La descrizione dei personaggi non mi è parsa molto credibile; nel senso che i disagi mentali che viaggiano sullo sfondo ma che allo stesso tempo sono i protagonisti, secondo me, non avrebbero portato i due ragazzi ad una vita tanto lunga. Inoltre, tanta negatività ed un finale veramente molto deludente che lascia un grande vuoto oltre all'amaro in bocca.
Non mi è piaciuto. Mi spiace.
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Ballata ignorante per destini comuni
Grande intensità, scorrevolezza e colpi di scena inaspettati per due autori emergenti come gli scrittori. Davvero complimenti.
Alessandro
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Dove cominciarono i guai!!
DOVE COMINCIARONO I GUAI!!
A volte noncapisci perchèl'Italia è fatta così...basta leggere illibro di Del Boca per capireche i guai vengonodamoltolontano...
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"Grande guerra piccoli generali" è unalettura che ti coinvolge
Si può dare di più
Attenersi ai fatti: questo dev'essere stato il faro di riferimento di Bianconi nello scrivere un libro che risulta al tempo stesso interessante e inutile.
Inutile, almeno per chi, come tanti, è convinto che l'affaire Moro sia lo snodo principe della brutta politica italiana del dopoguerra.
Attenersi ai fatti, dicevamo.
Ma ciò che oggi serve, oltre il raccogliere e ordinare materiale,deve essere saperlo interpretare e integrare con tutte le componenti e i contributi che via via negli anni si sono accumulati su questa vicenda tragica e cruciale, distillando, separando il grano della verità dal loglio dei depistaggi tentando infine,per quanto possibile, di diradare il polverone immenso che ancora la avvolge, e non per caso.
Compito improbo, certo.
Ma a uno come Bianconi, autore di libri come "A mano armata", fondamentale per capire come sia maturata la lucida follia dell'estremismo armato di destra, si può e si deve chiedere di più.
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Statico e involuto
Una scrittura di sentimenti pregevoli ma questo non basta a farla diventare poesia. La poesia è ben altro e non penso sia giusto far credere il contrario. Per questo non mi sento onestamente di consigliare il libro nonostante provi una forte simpatia per l'autore. Se avessi scritto un libro io preferirei una brutta verità ad una bella bugia.
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come fasci di luce che non riscaldano
Evidentemente il momento era propizio per gli scrittori napoletani e il libro "doveva" uscire, ma come esordio mi aspettavo qualcosa di meglio. Ho apprezzato molto di più "Vendetta" della stessa scrittrice, sia per contenuto che per stile. "Lo spazio bianco" sembra fatto di tanti fasci di luce gettati quà e là su vari aspetti della vita della protagonista, ma che non riscaldano, infine, nessuno di questi.
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Il codice Buttafuoco
A pagina 2 di questo libro si legge:
"I raggi scivolano dalla feritoia della solida porta in noce come detenuti in fila indiana: evaporano liberi dal parquet alla foresta di kenzie e così mettono a frutto la loro evasione."
Si tratta evidentemente di un messaggio cifrato indirizzato agli adepti della setta che da decenni si batte per la liberazione dei tubi innocenti.
Se invece volesse dire che il sole filtra da sotto la porta, allora anziché spendere 18 euro per questo libro ne offro 20 ad ogni editore che si rifiuti in futuro di pubblicare Buttafuoco.
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Come in uno specchio
Quante volte pensiamo che non è tutto vero quello ci dicono, che forse vogliono farci credere qualcosa perchè è meglio così, ma ci accorgiamo che c'è qualcosa che non va, che forse non siamo così stupidi come ci credono. Che tutto sommato c'è rimasto un bagliore piccolissimo che ancora ci richiama. Forse molti vorrebbero seguire l'invito di V (V per vendetta)
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La promessa, la svolta, il prestigio
Questo libro è un blob di affermazioni e documenti riguardanti una interpretazione "alternativa" del testo del Terzo Segreto. Una interpretazione che la Chiesa Ufficiale non avrebbe ovviamente potuto accettare.
Non mette la parola fine alla vexata quaestio ma pone sicuramente un mare di dubbi...
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