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Cuori di pietra.
Davanti alla penisola sorrentina, su un isolotto, si trova una strana villa, Villa Genziana: quattro piani e un susseguirsi di corridoi angusti, sale, salette, discese che portano al nulla o che calano a mare. La Villa è un posto malfamato, bordello di lusso e covo di fuggitivi, da una vita grana o dalla polizia, ma anche rifugio di personaggi eccentrici. Su tutto e tutti comanda una maitresse d'alto bordo, Gada di Spagna, una abituata al comando e ad ogni efferatezza. Capita che la donna scompaia, probabilmente fatta fuori non si sa come e per mano di chi. Ed ecco entrare in gioco le due protagoniste del giallo in veste di investigatrici, la Signora, di cognome Vincenzi, una bellezza matronale sempre elegantissima e un pò sfiorita, e la sua pupilla Andrea, di cognome Di Cosmo, una giovane di rara beltà che ama travestirsi da maschio, salvata anni prima dalla Signora da una vita travagliata. Le due sono abitualmente accompagnate da Donna Achille, uno strano animale a loro fedelissimo, simile a un grosso sorcio, scappato da un Circo. L'incarico è stato loro affidato da un tale, Marzio Mansi, probabile boss dalla vita spericolata con precedenti in polizia. Andrea si fingerà prostituta e la Signora sua manager. In Villa sono alloggiati strani personaggi: un docente universitario tedesco, facoltoso, che ha già prenotato Andrea per tutte le sere, limitandosi a guardarla dopo averla drogata con un inganno, un medico noto per intrallazzi con case farmaceutiche, colleghi e direzioni sanitarie, una mediocre cantante sudamericana, innamorata cotta del sopraccitato medico, una prostituta d'alto bordo dall'età indefinibile... Ed è tutto un susseguirsi, tra i personaggi citati, di un andare e venire di sussurri, bisbigli, scenate di gelosia, tradimenti, sproloqui e confessioni: animano la vicenda, oltre a comprimari che vanno e vengono tra isola e terraferma, anche un infido maitre che ha sostituito la maitresse fatta fuori e una cuoca, l'unica che si attiva per dare una mano alle due investigatrici e metterle al corrente dei possibili rischi ai quali potrebbero andare incontro. Unico indizio è il ritrovamento di una sciarpa insanguinata: i sospettati si tradiscono a vicenda, si consuma nel frattempo un altro delitto, ma, alla fine, il colpevole confesserà portando alla luce abissi di malvagità, compreso un traffico di neonati sottratti alle madri e destinati a un turpe mercato.
La Signora, Andrea e Donna Achille, dopo un incontro risolutivo con l'ambiguo e sfuggente Mansi, tra l'altro innamorato corrisposto di Andrea, lasceranno l'isolotto e torneranno finalmente rilassate alla loro amata "cabina a mare", lontane da pericolosi coinvolgimenti
Tutta la trama si dimostra fragile, è tutta un susseguirsi di incontri e scontri, priva di veri colpi di scena e di vere emozioni. Le indagini, di fatto, si riducono a ben poco, lasciando con l'amaro in bocca il lettore che, pagina dopo pagina, attende uno scatto, un evento che finalmente incuriosisca e stimoli il prosieguo della lettura.
Lodevole è invece lo stile narrativo, particolarmente quando tratta delle vicende personali delle protagoniste con animale al seguito: il periodare diventa ironico, brillante, con argute riflessioni sull'amore, sul matrimonio, sulla nostalgia di tempi passati. I capitoli poi dedicati ad una figura di secondo piano, una ragazza nera con un passato angoscioso che partorisce clandestinamente due gemelli, hanno accenti di tenerezza e di toccante umana comprensione.
Tutto sommato una lettura da ombrellone, poco impegnativa, un'esibizione di figure eccentriche, più fantasiose che reali, descritte con la consapevolezza di calcare la mano (vorrei dire la penna) per lasciare un segno.
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Accusa e difesa
L’avvocato Guerrieri è un personaggio speciale. Solitario, problematico, intelligente, acuto. Grazie ad un amico bibliotecario insonne si trova ad assistere una donna che si è trovata nelle condizioni di uccidere un uomo, l’ex compagno della sorella, e che, dopo l’evento, è in una fase di anestesia emotiva. Contemporaneamente al disegno della linea difensiva, assistiamo anche a delle sedute di psicoanalisi dell’avvocato, che ci aprono un pochino le porte sulla sua mente, facendoci conoscere aspetti umanamente molto interessanti. Impariamo poi i trucchi dell’arte dell’investigazione, che spesso è efficace se si è capaci di osservare lentamente. Impariamo l’importanza del silenzio, che è un’arma molto utile che un investigatore può usare. Ma soprattutto impariamo a conoscere alcuni meccanismi dei nostri tribunali, dell’accusa e della difesa. Perché l’accusa deve proporre l’unica spiegazione accettabile dei fatti, mentre alla difesa basta proporre una spiegazione possibile per instillare un dubbio, un’ombra, un punto interrogativo, perché si può condannare solo se l’imputato è giudicato colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. E così, nella lettura, ci ritroviamo a non essere più così presi dal voler capire a tutti i costi se l’imputata è effettivamente colpevole o no, perché a noi interessa la strategia dell’avvocato, interessa seguire il suo percorso logico e riuscire a leggere fino a quell’orizzonte che lui dipinge.
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Better Call Saul (Goldman)
Sono passati diversi anni da quando lessi "La verità sul caso Harry Quebert", senza dubbio alcuno il titolo più popolare di Dicker; e pur avendo dei ricordi abbastanza nebulosi riguardo alla trama (a memoria, posso solo dire ci fossero una quantità enorme di personaggi e colpi di scena), ripenso ancora con piacere a quel romanzo per merito della prosa del caro Joël. Prosa che si conferma il suo principale punto di forza ne "Il libro dei Baltimore", una sorta di prequel/sequel del volume precedente.
A raccontare la vicenda ritroviamo infatti lo scrittore Marcus "Markie" Goldman, appena trasferitosi a Boca Raton per cercare l'ispirazione per il suo prossimo romanzo in un ambiente quieto. In questa località, Marcus si imbatte però nella sua ex Alexandra "Alex" Neville -ora affermatissima cantante- e questo incontro riporta a galla una misteriosa Tragedia avvenuta anni prima, che coinvolse i suoi cugini Hillel "Hill" e Woodrow "Woody". Marcus decide quindi di dedicare il suo nuovo libro al ramo della famiglia denominato Baltimore (in quanto residenti nell'omonima città del Maryland), partendo dai felici giorni dell'infanzia trascorsi nella casa di zio Saul e zia Anita.
Come accennato, lo stile rimane un importante pregio in questa narrazione: risulta sempre piacevolmente scorrevole, senza però scadere nel raffazzonato oppure diventare noioso nei passaggi più carenti in quanto ad azione. Mi è inoltre piaciuta la capacità di Dicker nel tenere viva la curiosità dei suoi lettori verso il mistero di fondo, pur non trattando una storia mystery di tipo canonico: Marcus è già in possesso della maggior parte delle informazioni (e recupera con facilità quelle mancanti), eppure si rimane incollati alle pagine per seguire fino in fondo la sua disamina degli eventi.
Tra gli aspetti che ho apprezzato, mi sento di includere poi il tema della gelosia -nonostante in un secondo momento diventi un filino ridondante nella sua esposizione- e la particolare struttura temporale data alla narrazione. A dispetto di quanto indicato all'inizio delle diverse parti e dei singoli capitoli, nel ricostruire le vicende Marcus non procede infatti in ordine cronologico, ma balza spesso tra avvenimenti lontani nel passato (arrivando ad analizzare le dinamiche all'interno della sua famiglia anni prima della sua stessa nascita), aneddoti relativi alla sua giovinezza ed eventi del presente. Nel complesso, si genera a tratti un po' di confusione, ma il tutto trasmette bene la sensazione di una persona impegnata in un percorso di ricerca.
Tutto ciò non è stato purtroppo abbastanza a portare il libro oltre una risicata sufficienza. I problemi partono già dai primi dialoghi, ai quali l'autore affida il compito di caratterizzare i suoi personaggi, senza però includere alcun cenno all'intonazione o alle loro emozioni individuali. Di conseguenza, si fatica ad affezionarsi al cast, specie quando una buona parte di esso dimostra un'idiozia immotivata, e solo al fine di direzionare la trama in un certo modo; è il caso delle moltissime informazioni che vengono taciute per decenni allo stesso Marcus. Non che lui si impegni troppo per scoprire la verità, comunque!
Questa scelta mi ha trasmesso in più punti della frustrazione, ma questa è davvero l'unica emozione che io abbia provato: l'intero romanzo è privo di qualunque genere di tensione narrativa, assente perfino nelle scene più drammatiche. La ragione è da ricercarsi nelle tante esagerazioni -legate al lato economico, ma anche alle reazioni tra i personaggi-, che creano un triste distacco emotivo dalle vicende messe in scena.
Un altro elemento che non ho particolarmente apprezzato è stata la designazione di Marcus come voce narrante, in primo luogo perché racconta in più punti eventi ai quali non assiste e dei quali nessuno gli riferisce: come può mai sapere nel dettaglio cosa faccia zia Anita per salvare il rapporto con il marito? chi gli ha riferito nei particolari la fuga che porta alla Tragedia? Inoltre, si assegna così un'attenzione eccessiva alla relazione romantica tra lui ed Alexandra, togliendo molto spazio al rapporto tra i cugini Goldman che mi illudevo fosse invece il vero cuore della storia.
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LA CASA DEGLI SPIRITI
CONTIENE SPOILER
Come tutti i romanzi di Starnone, anche questa è una storia corale. La prima parte del racconto è affidata alla moglie Vanda, abbandonata insieme ai due figli dal marito Aldo, innamoratosi di un’altra donna. Questa sezione del romanzo è scritta in forma epistolare: il soliloquio di una donna distrutta, che in tutti i modi cerca di mostrarsi risoluta e forte di fronte all’uomo che l’ha lasciata, nonostante tenti disperatamente di riportare la situazione allo status quo.
La seconda parte, quella più consistente, è affidata alle parole di Aldo. Dopo un’apparente intrusione dei ladri nell’appartamento di famiglia, Aldo ritrova le lettere che la moglie gli inviò durante quegli anni di assenza dalla famiglia e con un lungo flashback ci informa di come, dal suo punto di vista, sono andate le cose.
L’immagine dell’uomo sposato, innamorato follemente di una donna molto più giovane, che lo fa sentire libero, felice, lontano dalle responsabilità e dai vincoli del matrimonio e della paternità; il senso di colpa che lo divorerà e lo spingerà a tornare nella casa coniugale quasi per inerzia, mosso dal desiderio di non nuocere più ai figli; la vita che scorre nel silenzio delle cose non dette, della guerra fredda tra i coniugi, mai realmente riappacificati: sono questi i temi che emergono dalla lunga confessione di un uomo settantenne che tira le somme della propria esistenza.
Infine, il terzo capitolo ci è raccontato dalla figlia Anna, una donna di mezza età dalla vita disordinata, il frutto del dolore e del rapporto malato tra i suoi genitori.
Su tutte, spicca la figura della casa di famiglia: la casa comprata in un momento di floridezza economica, il luogo del dolore, il sito del ritorno, il contenitore dei ricordi. La casa è lo specchio dei suoi abitanti, che hanno nascosto in bella vista i propri segreti, nella speranza che fossero scoperti per poter una volta per tutte smettere di fingere. Perfino il nome dato al gatto domestico, Labes (in latino “rovina”), risuona quotidianamente tra quelle mura come un sinistro presagio sulla bocca di tutti, senza che nessuno si accorga cosa significhi davvero.
Quando scopriamo che Anna e Sandro hanno messo ogni cosa a soqquadro in un atto di ribellione contro quel clima di menzogne, il caos esterno rappresenta finalmente ciò che è davvero stata quella dimora: un campo di battaglia tra persone irrisolte (la madre imperante, il padre ormai succube, i figli destabilizzati negli affetti e nelle finanze).
Il titolo, “lacci”, fa riferimento all’aneddoto che convince Aldo a tornare a casa dai suoi figli. Durante un loro incontro, Anna fa notare come Sandro si allacci le scarpe in un modo molto strano, lo stesso modo in cui le allaccia il padre. I lacci, quindi, sono il simbolo dell’eredità non genetica, bensì pedagogica ed emozionale dei genitori verso i figli. Un legame da cui non si può fuggire, soprattutto quando è causa ancestrale di ferite e traumi che ne condizioneranno tutta la vita.
Starnone racconta la storia ordinaria di una famiglia disfunzionale, come ce ne sono molte, e che ci rimanda alla celebre frase di Tolstoj: “tutte le famiglie felici si somigliano tra loro; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.
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Tre delitti nell'alta moda.
Un giallo intrigante, che ha come protagonista un personaggio ben noto agli amanti del genere: il pubblico ministero Manrico Spinori, detto "il contino", un eccentrico poliziotto di nobile casato, amante dell'opera lirica, gusti raffinati ed un formidabile intuito, tanto da essere chiamato dal suo capo Gaspare Melchiorri (detto "Volpe Argentata") a risolvere i casi più complessi. Ed è infatti molto complicato il caso trattato nel romanzo, un caso che accosta l'investigatore al mondo esclusivo dell'alta moda internazionale. Il tutto avviene al Teatro Costanzi di Roma, dopo l'esecuzione della Traviata: durante un party presso il laboratorio dei costumi del teatro, il titolare di una famosa maison di moda, Tito Cannelli, muore per probabile shock anafilattico dopo la puntura di un calabrone (la Vespa Mandarina, proveniente dal Giappone, come accerterà poi un entomologo universitario), infilatasi sotto la camicia. La morte appare subito poco chiara, Manrico inizia ad indagare: il probabile autore del delitto è tra i commensali, e non è certamente facile orientarsi tra personaggi tanto diversi. Tra questi, Luciano Righi, stilista di fama, che ama definirsi "creatore" di moda, l'affascinante Vera Grant, una firma della rivista Fashion, e poi Irina Zed, una donna altera ed originale, moglie di Cannelli, apparentemente ancora innamoratissima del marito... Ma non basta: sono indagati anche un famoso avvocato, Mainz, il legale di Cannelli, resosi irreperibile dopo la morte del suo cliente e sospettato di legami con un clan mafioso, e un giovane modello biondo, dotato di poco cervello ma ansioso di farsi strada nel mondo scivoloso e inquieto dell'alta moda. Questi due ultimi personaggi saranno le altre due vittime dell'assassino, che verrà alla fine scoperto: non sarà un gran colpo di scena, il lettore attento intuirà già dai primi capitoli l'identità del possibile autore dei delitti e, addirittura, la fine che farà. L'abilità di Giancarlo de Cataldo sarà quella di condurre il lettore nei meandri di due piste investigative, con momenti di suspense e con colpi di scena fuorvianti. Tutta la vicenda è comunque ben costruita, incentrata come accennato sul sorprendente ed equivoco mondo dell'alta moda: un mondo tutto particolare dove a sfilate scintillanti di modelle con creazioni esclusive e costose si contrappone un mondo sotterraneo dove corruzione, invidia e desiderio insopprimibile di emergere fanno da torbido sottofondo.
Emerge su tutto e tutti l'abilità del nostro amato protagonista: quel Manrico Spinori, pubblico ministero ben coadiuvato dalla sua principale collaboratrice, la poliziotta Deborah Cianchetti, una romanaccia grande e grossa, tutta muscoli ma con un cervello raffinato, sempre pronta a dire la sua con consigli utili e spesso risolutivi. Grande è la passione del nobile Spinori per la musica lirica: gran conoscitore di opere, cerca sempre nelle sue investigazioni di trovare somiglianze o affinità tra l'indagine in corso e la vicenda di un'opera lirica, perchè, afferma, " nell'opera si annidano i moti profondi dell'animo e i delitti, tutti i delitti da quello dipendono in ultima analisi: da un'alterazione dei moti dell'anima ... alla radice c'è sempre la più micidiale e pericolosa macchina assassina che sia mai stata concepita, l'essere umano".
L'opera lirica in questione per le vicende narrate nel giallo è la Tosca di Puccini: ed il lettore attento troverà più di un'affinità.
Lo stile narrativo è come sempre brillante e coinvolgente, l'ambiente della moda nel quale il protagonista deve muoversi nasconde sorprese, omertà, tranelli, personaggi che sanno ben nascondersi dietro facciate di rispetto e difficili da stanare.
Una vicenda particolare in un mondo particolare: ci vuole però ben altro per intimorire il nostro solerte e astuto pubblico ministero.
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Le declinazioni dell'amore
Nello svolgimento di questa indagine, il commissario Ricciardi e il suo braccio destro Maione sono distratti da loro difficoltà personali, la perdita della tata Rosa e la gelosia per la moglie. Intrecciate al giallo vero e proprio, si intrecciano e si snodano, come sempre, le vicende dei protagonisti anche minori, con una Lidia alle prese con la preparazione di una festa che è per lei un modo per rinascere, con una Enrica dal cuore sempre più combattuto. Prepotente emerge l’amore di Rosa per il suo “signorino”, ma forse ancora più forte l’attaccamento di lui nei suoi confronti. Lui che è sempre malinconico e sofferente, con un dolore di fondo che è la sua più grande compagnia. Ma l’inferno più grande in terra è proprio la solitudine, di cui il commissario è irrimediabilmente prigioniero, pur così circondato d’amore e di rispetto come è. Il giallo dell’indagine mi ha forse, rispetto agli altri, interessato un pochino meno. O forse è stato più bravo l’autore a portare in primo piano le storie e l’evoluzione dei singoli personaggi. Una prova narrativa sempre ottima.
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La lotta contro l'antica morale
In un Giappone ridotto alla miseria dalla cocente sconfitta subita nella Seconda Guerra Mondiale, seguiamo le tragiche vicende di una famiglia aristocratica alle prese con la decadenza dell'antica nobiltà. La società nipponica sta attraversando una profonda trasformazione, gli antichi valori si scontrano con un desiderio di modernità, "cambiamento" sembra essere la parola d'ordine per uscire dal buco nero generato dalla disfatta. Lo sa bene Kazuko, tornata nella casa dei genitori in seguito al divorzio che ha messo fine al suo matrimonio senza figli con Yamaki. Lo sa bene sua madre, ormai vedova e malata, che vede sfiorire di giorno in giorno la salute fisica, ma sembra l'unica ancora in grado, nonostante tutto, di mantenere viva quella sua naturale nobiltà, quell'innata essenza aristocratica che tanto la caratterizza. Le donne sono costrette a lasciare la loro lussuosa residenza di Tokio per trasferirsi in un'umile casetta di provincia, vivendo in simbiosi e arrancando economicamente, in attesa del ritorno di Naoji, il figlio scapestrato, non ancora rientrato dal fronte, sorta di alter ego dell'autore. Al suo ritorno il ragazzo si troverà, come spiegherà in una commovente e drammatica lettera di commiato alla sorella che rappresenta forse il miglior momento letterario dell'opera e ha una valenza fortemente autobiografica (Dazai morirà suicida poco dopo la pubblicazione), in una situazione di forte disagio verso il mondo, incapace di identificarsi con la sua classe sociale, ma anche, per quanti sforzi faccia, di avvicinarsi al popolo, cercando conforto nell'alcool, nelle droghe, nella totale dissolutezza. Tra una madre morente, un fratello che ha imboccato la strada senza ritorno dell'autodistruzione, Kazuko sfogherà il suo bisogno di vita, di amore e di rinascita sfidando la morale e umiliando se stessa, per buttarsi tra le braccia di un artista vizioso ed immorale. Il frutto del suo peccato sarà la spinta definitiva verso una nuova vita, il motivo di speranza che la spingerà ad andare avanti, a trasformare se stessa e uscire dal baratro in cui si ritrova, allo stesso modo in cui si trasforma la società giapponese per spingersi fuori dal buco nero in cui è stata risucchiata, entrambi disposti a qualsiasi sforzo pur di tenere vivo quel sole che sembra spegnersi ogni giorno di più. "Sono fiera di te e farò in modo che lo sia anche il bambino che nascerà. Un bastardo e sua madre. Eppure vivremo con lo splendore del sole lottando sempre e ancora contro l'antica morale. Anche tu però, ti scongiuro, continua a portare avanti la tua battaglia. La rivoluzione è ancora molto lontana. Esigerà ancora molte nobili vittime di valore. Nel mondo attuale le vittime sono la cosa più bella."
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Senza lode, senza infamia molto Shirley Jackson
«[…] Siamo diventati un gregge detestabile di piccoli esseri narcisisti sballottati su un battello sull’orlo del naufragio.»
Siamo in Costa Azzurra ed è la primavera del 2023. A largo di Cannes si trova ormeggiato uno yatch, su questo si trova Oriana Di Pietro, editrice ed erede di origine milanese coniugata con Adrien Delaunay, famoso pianista jazz. La sua fama è tale da far sì che il suo nome lo preceda. Mentre è a bordo la donna viene aggredita e presa a sprangate. Le condizioni di salute appaiono subito ben gravi. Viene ricoverata in ospedale d’urgenza, resta dieci giorni in coma, sembra stabilizzarsi ma in realtà dopo questo periodo, muore. Ogni sospetto ricade sul marito che sembra avere un alibi inattaccabile. L’uomo, inoltre, non cede di un millimetro. Anche quando a distanza di un anno viene fermato dalla polizia e interrogato da Justine Taillandier, poliziotta di grande acume che sta attraversando un momento complesso nella sua vita a causa della separazione dal compagno, la sua versione resta perfettamente la stessa. Trovandosi a casa con la febbre ed essendo stato avvistato dal giardiniere alle 19.10, è materialmente impossibile che potesse trovarsi lontano dalla costa e in prossimità dello yatch per commettere il delitto. La polizia è però convinta che la colpa sia sua, che l’assassino sia lui, pressa Justine affinché lo inchiodi. Ma cosa nascondeva Oriana? Il suo passato è costellato da un segreto, la morte della madre a causa dell’incidente in auto che lei si auto-convince di aver arrecato è un qualcosa che la accompagna tutta la vita. Sente ancora la sua voce dirle di non aprire lo zainetto dove è custodito il gatto Gufetto. Al tempo la bambina aveva 7 anni, era il 1991 e la stessa dovette subire una serie di trattamenti motori e neurologici per riprendersi dal sinistro e dalle conseguenze psicologiche.
È in questo scenario che subentra la figura di Adèle Keller, una ragazza che è capace di apparire come scomparire, che fa un lavoro modesto ma che ha un ruolo determinante nella narrazione. Un uomo per tre donne, un mistero in perfetto stile Musso dove nessuno mente, nessuno dice la verità.
«[…] Non era possibile ridurre l’anima umana a un coefficiente d’equazione. L’anima era un materiale complesso, un intreccio inafferrabile costituito da strati differenti e contraddittori, un autentico labirinto a quattro dimensioni, per il quale non esisteva via d’uscita.»
Guillame Musso realizza in “Qualcun altro” un giallo ben articolato e dove il presente si somma al passato in una narrazione che alterna fasi temporali. Il testo si presenta ben strutturato, il mistero incuriosisce e trattiene, i personaggi sono ben caratterizzati. L’indagine in alcuni punti sembra forzata, probabilmente questa era una delle varie volontà dell’autore. Tuttavia, il lettore non manca di percepirlo e resta in parte interdetto. L’epilogo che delinea le sorti e ricompone la matassa cade un po’ nello scontato e, sinceramente, se si sono letti romanzi quali quelli di Shirley Jackson, non stupisce, anzi. La soluzione può starci ma, francamente, è da un lato facilmente intuibile, dall’altro un po’ forzata. Comunque, nel complesso, “Qualcun altro” è un romanzo godibile per l’estate. Non può definirsi il miglior titolo dell’autore ma certamente si presta a ore liete con cui trascorrere un pomeriggio. Senza lode né infamia.
«[…] La credevano forte, ma non era vero. Oriana era soltanto tenace. Fin dai sei anni, la sua vita era stata una lotta permanente, un rifiuto della rassegnazione alla malasorte. Era capace di sopportare il dolore e di volgergli le spalle per lungo tempo. Aveva imparato molto presto che non si possono evitare i colpi che la vita ci riserva. Occorre contrastarli con gli scarsi mezzi che abbiamo a disposizione. Superare la prova per risorgere.»
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Sulla pietra di un Dolmen
Fred Vargas torna , dopo 7 anni, con un giallo della serie del commissario Adamsberg.
Il commissario,un po’ svagato, dotato di un forte intuito, generoso, animalista (nel precedente Il Morso della Reclusa salva un piccione, qui un riccio) e difensore dei poveri, viene incaricato di seguire un caso, lontano dal suo distretto parigino, nelle ombre della Bretagna. Così, lasciando a capo del suo commissariato il fido Danglard, Adamsberg si sposta con tutta la sua squadra a Louviec, dove avvengono inaspettatamente una serie di omicidi, tutti annunciati dal Fantasma dello Zoppo che si aggira per il paese, con la sua camminata claudicante, poco prima che avvengano i delitti.
Questa volta ad Adamsberg toccherà dipanare una matassa intricata, e si affiderà come al solito alla sua perspicacia, e alle sue “bolle”, che come arrivano devono subito essere prese in considerazione altrimenti velocemente spariscono.
“Sono le bolle, le idee vaghe. Stanno risalendo dal fondo melmoso. Si muovono, si incrociano, si scontrano. Non posso permettermi di trascurarle troppo a lungo, altrimenti torneranno a rintanarsi in fondo al lago.”
E in questo caso così difficile anch’esse “erano numerose, scisse, a tratti quasi ostili tra loro o, al contrario, troppo unite per vederci chiaro, gli davano del filo da torcere.”
E Adamsberg, riflettendo disteso al sole “sulla pietra” di un dolmen che sorge nei pressi di Louviec, spende buona parte del suo tempo ad analizzarle e rimetterle in ordine, perchè abbiano un senso logico.
E di filo da torcere non gli manca, tanto che, durante l’indagine, viene messa in pericolo la sua vita e soprattutto quella dell’unica donna della sua squadra, il tenente Retancourt, un colosso di femmina difficile da sopraffare.
Tra i soliti personaggi che i lettori di Vargas conoscono bene, qui se ne aggiungono anche altri molto caratteristici, Mael “il gobbo” , Josselin de Chautebriand, sosia e forse pronipote del nobile visconte e famoso scrittore, e Jonas, il proprietario di una locanda sempre disponibile a cucinare per tutti gli avventori e soprattutto per la squadra di Adamsberg.
Nonostante il thriller e i colpi di scena, il romanzo procede lentamente, e i dettagli sono così tanti, forse troppi, che spesso sfuggono al lettore. L’assassino, nonostante la fitta trama, è facilmente intuibile e il movente, il rancore, verosimile, ma fragile.
Mescolando leggenda e realtà, l’atmosfera misteriosa ci cattura fino alla fine, in una lettura tutto sommato piacevole, anche se, personalmente, trovo che manchi quel tocco di originalità che ha sempre distinto i romanzi di Vargas.
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How to Customize your Dragon
Dopo aver trovato risposta a diverse domande ed essermi fatta sorgere altrettanti interrogativi nuovi di zecca con le novelle prequel, ritorno al presente del mondo creato da Maas in Throne of Glass con il terzo romanzo dal discutibile titolo italiano "La corona di fuoco", per fortuna corretto nella più recente edizione. Un ritorno caratterizzato dalla comparsa di un gran numero di nuovi personaggi, che trasformano la lettura in una sorta di zapping cartaceo.
Partiamo quindi dalla città di Rifthold, dove si trovano il principe Dorian, la guaritrice Sorscha, il capitano delle guardie Chaol ed il generale Aedion Ashryver, impegnati rispettivamente a tenere sotto controllo dei poteri in stile Frozen, fare gli occhi a cuoricino all'erede al trono, indagare sulla scomparsa della magia dall'Erilea ed organizzare feste farlocche. Dopo la conclusione de "La corona di mezzanotte", Celaena si è invece trasferita nel continente di Wendlyn -dove incrocia la strada del guerriero fatato Rowan Biancospino-, teoricamente la sua missione sarebbe eliminare la famiglia reale nemica del re di Adarlan, ma nella pratica è determinata ad incontrare la regina dei Fae Maeve ed ottenere da lei informazioni da utilizzare proprio contro il sovrano. Il quarto POV inedito è quello della strega Manon Becconero, per decenni cacciatrice di Crochan ed ora apprendista cavallerizza di draghi, come le sue simili Denti di Ferro.
Come potrete ben immaginare, nuove prospettive e nuove ambientazioni portano ad un ulteriore ampliamento del world building, che arriva a comprende luoghi di due diversi continenti, nonché inedite tipologie di creature magiche. Il solo neo in questo senso è rappresentato dalle informazioni fornite sui Fae -prima soltanto menzionati e qui finalmente presenti in carne ed ossa-, che vengono descritti con tratti quasi animaleschi soprattutto quando si parla dei maschi della specie: il lettore deve di conseguenza assistere con rassegnazione a comportamenti violenti ed abusanti solo perché è parte della loro natura. Dopo tante recensioni, potrete ben immaginare come la sottoscritta abbia faticato nel tollerarli.
Ritornando sui punti di forza, abbiamo poi un interessante (e direi anche doveroso) approfondimento sull'elaborazione del lutto necessaria a Celaena dopo la conclusione del secondo capitolo; sarà che questa Celaena è nettamente superiore a quella delle novelle, ma ho apprezzato il suo personaggio molto più del solito. Anche nell'evoluzione di Chaol penso siano stati fatti dei decisi passi in avanti, mentre non sono troppo convinta del ruolo ricoperto in questo volume da Dorian: ho apprezzato i suoi confronti con l'amico, ma l'intera parentesi romance è raffazzonata e tende a mostrarlo ancora una volta come un grande egoista.
Per quanto riguarda i nuovi personaggi POV provo sentimenti altalenanti, sia perché non ho apprezzato troppo il modo in cui la cara Sarah li ha introdotti -tanto frettoloso da farmi pensare di aver perso qualche scena di collegamento tra "La corona di mezzanotte" e questo libro-, sia per i ruoli ben diversi dei quattro caratteri, che mi hanno portato ad esprimere una preferenza tanto netta quanto inaspettata verso Aedion. Manon sembra promettente ma rimane troppo scollegata dagli altri, Rowan potrebbe piacermi non fosse per la già citata natura Fae, mentre Sorscha è risultata per me davvero dimenticabile.
A prescindere dalle preferenze personali, si tratta di un numero considerevole di POV, che rendono purtroppo la narrazione dispersiva, cosicché non è sempre chiaro quale sia la trama principale. L'intreccio non viene aiutato neppure dai sempre meno sensati piani dell'antagonista e dall'indesiderabile ritorno di tropes cari all'autrice (come il torneo senza capo né coda ed il mostro della settimana da scovare e battere). A coronare il tutto troviamo la solita traduzione approssimativa, che dà vita a frasi incomprensibili specie nei dialoghi dove spesso non si riesce a cogliere il nesso in un semplice botta e risposta.
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Un tormento che non conosce oblio
Come scrive la curatrice dell’edizione di Utopia del romanzo di Grazia Deledda intitolato Elias Portolu, «chiunque abbia desiderato ciò che non si può desiderare, e amato una persona che non si può amare, conosce il tormento di Elias Portolu». La grandezza dell’autrice sarda, premio Nobel per la letteratura nel 1926, sta nel rendere questo tormento nitido e potente come tutte le emozioni universali anche a distanza di un secolo. Il romanzo è del 1903, appena successivo a Cenere, e come Cenere risente ancora di una certa ridondanza stilistica e soprattutto in alcuni passaggi appare stucchevole il continuo parallelismo tra i protagonisti umani e il mondo animale, soprattutto quello dei pennuti (colombi e uccelli sono costanti termini di paragone). Dal punto di vista della pulizia di scrittura, in Elias Portolu siamo ancora lontani dal capolavoro di Canne al vento. Però, proprio come Cenere, è un libro nel quale le passioni divampano e la Deledda è un’abile pittrice in grado di mettere su tela le innumerevoli sfaccettature emotive del protagonista. Ne esce un lavoro davvero pregevole in grado di suscitare una certa vicinanza nei confronti di Elias, il cui dramma muove le fila del discorso. Eppure il lettore incontra Elias nel momento in cui sembra essersi salvato dalla disgrazia peggiore in assoluto: è appena stato scarcerato e torna nella sua Nuoro, in Sardegna, dopo aver scontato la pena in continente. Né il luogo della prigionia né i motivi della condanna sono esplicitati, restano piuttosto nebulosi perché l’intento dell’autrice non è quello di disvelarli. Elias torna nelle primissime pagine del primo capitolo (il romanzo ne conta dieci) e viene accolto dai familiari e dalla comunità nuorese con una frase che riletta al termine della narrazione stride enormemente; la frase in questione è «un’altra disgrazia simile fra cento anni». Come detto, la disavventura di Elias sembra finita, invece siamo soltanto all’inizio di un’ancor più ardua lotta contro se stesso.
La fotografia iniziale è molto semplice: Elias è figlio di zia Annedda e di zio Berte, ha due fratelli (Pietro il maggiore, contadino, e Mattia, pastore come il padre e lo stesso Elias) e vive a Nuoro. Al suo ritorno dal penitenziario in continente, è un ragazzo nuovo: non è più il ragazzo incauto che si era lasciato corrompere da amici e sconsiderati; ha riscoperto sé e anche il suo modo di presentarsi richiama alle tonalità chiare del candore, ben lontane da quelle ruvide, aspre e scure dei suoi fratelli e di suo padre, costretti alle fatiche della campagna. A rompere l’equilibrio che sembrava ritrovato ci pensa Maria Maddalena, promessa in sposa a Pietro. È stata consegnata da sua madre, vedova, a zio Berte Portolu che in cambio ha giurato massima protezione della figlia. Il matrimonio che ne scaturisce tra Pietro e Maria Maddalena è il classico matrimonio senza amore, mentre la scintilla amorosa scatta come un colpo di fulmine tra Elias e la ragazza. «Io mi sono innamorato di lei; perché me ne sono innamorato San Francesco mio?»: questa è la domanda che si pone Elias. Il protagonista è molto devoto a San Francesco, crede in Dio ed è atterrito dal demonio. Con l’ingresso di Maria Maddalena è il furor più che la ratio a dominare la scena, c’è la tentazione al massimo grado. La ragazza non può essere di Elias perché è già di suo fratello Pietro, eppure alla passione non si comanda ed ecco che comincia il calvario personale del protagonista, ancor più insidioso e profondo della carcerazione perché è a spirale e sembra continuare in eterno. La ricaduta è la parola chiave e ogni ricaduta si ripresenta diversa ma ugualmente divampante. E in una simile condizione non c’è voto che tenga («Pietro, fratello mio, anche se ella venisse a gettarmisi fra le braccia, io la respingerei»: il voto verrà contraddetto dallo scorrere della narrazione).
In questa discesa Elias Portolu cerca di ricevere consiglio da due persone agli antipodi: prete Porcheddu e zio Martinu, padre della selva, paragonato a un cinghiale per il suo sguardo. Ciò che ne ricava sono due pareri naturalmente opposti: da una parte l’ecclesiastico invita il protagonista a combattere le tentazioni, dall’altra zio Martinu invita alla confessione del suo amore perché «la tentazione si vince oggi, si vince domani, ma posdomani finisce col vincere lei». Zio Martinu pronuncia una frase che poi diventerà cardine nel pensiero della Deledda: «Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne». Il padre della selva, uomo che si è macchiato dei peggiori crimini ma ha avuto la forza di redimersi, non viene ascoltato da Elias e il rifuggire dalla tentazione al protagonista riesce ma, come pronosticato, non in eterno, sebbene ricerchi delle soluzioni che all’apparenza possono rimandare all’eternità; infatti, Elias in più circostanze dice di volersi fare prete perché, come detto, crede in Dio e perché vuole «vincere le tentazioni del mondo». La sua motivazione è per lungo tempo scarsa: vuole farsi prete per sé, non per gli altri, vuole farsi prete perché sentiva un ribelle desiderio di vita comoda, un bisogno di tregua, vedeva il suo unico scampo nel cambiare stato e zio Martinu lo ammonisce con parole inequivocabili, dicendogli che è «meglio essere uomo del mondo abile del bene, che uomo del Signore portato al male». Ma quello di Elias è un tira e molla tormentoso. Alla fine, il furor farà il suo corso e, durante i festeggiamenti carnevaleschi in maschera, il protagonista si troverà a ballare con Maria Maddalena in un concentrato di desideri folli animati dalla passione per la ragazza, dalla pietà per il fratello, dalla paura per le sue debolezze carnali, dal dolore inflitto alla sua famiglia per il tradimento e dal piacere per quel contatto con il corpo dell’amata. Al termine del sesto capitolo Elias cederà definitivamente alla tentazione: «Egli entrò e chiuse l’uscio: ed ella, che avrebbe potuto gridare e salvarsi, tacque e non si mosse». Il resto viene da sé, non servono altre parole e per questo la narratrice tronca il discorso con una forte ellissi. Nonostante il concretizzarsi del primo rapporto extraconiugale, quasi incestuoso, il tira e molla in Elias non si dirada, anzi se possibile si accentua tra tentativi di fuga dalla realtà (ritorna l’idea di farsi prete) e nuove cadute. Il nuovo colpo di scena al termine del settimo capitolo: Maria Maddalena è incinta non del violento marito Pietro, bensì dell’amante, di Elias.
È una notizia capovolgente per Elias: l’incendio della passione sembra smorzarsi, non può essere padre ma può avere un ruolo privilegiato da zio e decide davvero di farsi prete, seguendo i consigli di prete Porcheddu. Il nono capitolo si apre con un’altra ellissi, temporalmente forte: sono infatti trascorsi due anni e ormai nessuno si sorprende più nel vedere Elias Portolu con i panni del seminarista. Eppure, in fondo al cuore del giovane ecclesiastico il fuoco non si è spento e i fatti lo confermano. Pietro si ammala e muore, il primo pensiero di Elias è «se morrà, io potrò sposare Maddalena», un pensiero che poco si addice a un seminarista e a una persona in procinto di perdere il fratello. Lo sa anche lui che resterà sempre uomo e soggetto alle passioni: «no, la salvezza non è negli ostacoli fra noi ed il peccato, ma nella forza nostra e nella nostra volontà». E la benzina a rendere ancor più ardente il falò del furor è la gelosia, che subentra sul finire dell’opera quando in casa Portolu, dopo la morte di Pietro, subentra Jacu Farre, possessore di armenti, terre, cavalli e alveari; è lui che si mette a caccia di Maria Maddalena, è lui che si pone a protezione del figlio di Maria Maddalena (ed Elias). Il protagonista potrebbe ancora una volta, per l’ultima volta, invertire la sua storia, invece riceve gli ordini sacerdotali e rinuncia definitivamente a Maddalena e a suo figlio. Ci rinuncia nei fatti, non nei pensieri e non riesce ad accettare la vicinanza di Jacu Farre al suo bambino. Anche il pargolo si ammala e solo nel momento in cui muore prete Elias Portolu può avvicinarsi e stare solo con la creatura, nessuno più può toglierglielo, nessuno più può mettersi fra loro. E sul suo infinito accoramento sentiva calare un «tenue velo di pace e quasi di gioia perché l’anima sua si trovava finalmente sola, purificata dal dolore, sola e libera da ogni umana passione, davanti al Signore grande e misericordioso». La morte del figlioletto mai riconosciuto è il simbolo della redenzione umana, il cui tormento non conosce l’oblio nemmeno a cent’anni di distanza.
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La Boscaiola
Vanina Guarrasi ha un passato che ha segnato il corso della sua vita: Il padre, l'ispettore Giovanni Guarrasi, viene ucciso da un commando mafioso, davanti ai suoi occhi, quando lei aveva solo quattordici anni.
Per questo motivo lei entra in polizia e fa carriera nell’ antimafia di Palermo. Alla procura di Palermo conosce e s’ innamora del magistrato Paolo Malfitano, ma quando anch’egli subisce un attentato, nel quale Vanina gli salva la vita, lei decide di cambiare vita. Si allontana da Palermo, dall’antimafia e da Paolo e si trasferisce a Catania come vice questore nell’ anticrimine.
In realtà Vanina si illude di chiudere col suo passato e non rinuncia però a vendicare suo padre, cercando di catturare fino all’ultimo i responsabili, e non rinuncia a Paolo per il quale nutre un forte sentimento che non vuole ammettere neanche a se stessa.
Vanina è una donna forte, coraggiosa, intelligente e intuitiva. Per risolvere gli omicidi ha una squadra che la stima e la rispetta, dal commissario Spanò, l’ispettore Marta, Nunnari allo stesso Lo Faro, un agente un po’ sui generis, che solo la Guarrasi riesce a mettere in riga. Insieme a loro, il vice questore si avvale anche dell’aiuto prezioso dell’ex commissario, ormai in pensione, Vincenzo Patanè.
Alle pendici dell’Etna, sotto l’ombra di un Castagno secolare, viene ritrovato il corpo di una donna mutilato e ricomposto. Un delitto orribile e all’apparenza insensato, per cui Vanina avrà bisogno di tutti i suoi soliti collaboratori per venirne a capo, in un momento poi, in cui la sua vita privata la richiama sempre a Palermo e il motivo per cui è fuggita da quella città le diventa sempre più sfocato.
Un caso difficile e complicato da svelare, così come un po’ tutta la vita della Guarrasi, una donna avvolta da un’apparente impenetrabile corazza, così facile invece da penetrare, la cui chiave per entrare sono solo i sentimenti. I sentimenti che la legano ai luoghi, e alle persone amate, le radici profonde con la sua terra.
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Ubi Sunt
Grandioso affresco sull'esistenza umana.
La Fortezza incastrata su vette invalicabili, un deserto inquietante di fronte all'ultimo avamposto dimenticato. Un nemico invisibile, presente ossessivamente nella mente del protagonista e dei suoi compari di sventura.
La solitudine in mezzo alla moltitudine, la Natura avversa e ignara del destino degli uomini.
Il trascorrere del tempo inesorabile.
Arriverà la gloria per il Drogo Tenente? se lo chiede il protagonista mentre attende che le ombre che attraversano la valle sterminata e che forse da un momento si trasformeranno nel nemico tanto agognato.
Ho ravvisato elementi similari con "viaggio al termine della notte" di Celine e " il cappotto" di Gogol.
Da una parte il rifiuto totale dell'accettazione della legge marziale, la legge del Dio Marte, e dall'altra l'arrivo dell'agognato regalo del mantello per ripararsi dalle intemperie, che però sarà anche il primo passo di sventura del protagonista, che non appena lo indossa, orgoglioso e fiero sente subito dei sinistri presagi profondersi nella mente.
E' giusto immolarsi per il proprio lavoro?? per rivendicare un ideale?? perchè nel momento del bisogno i più si allontanano?? (e qui ci sono elementi espliciti alla grandiosa "la morte di Ivan Ilic" del Tostoj).
La gioventù come bene più prezioso che non andrebbe barattata con nulla se non con la propria ricerca profonda di felicità.
Il Drogo è li che attende sul bastione, scruta l'orizzonte, osserva il proprio voluto esilio, ha inseguito la felicità ha trovato tanta amarezza. Ma poi sorride al destino, il finale è ineluttabile.
IL Trionfo di Bacco e Arianna - Il Magnifico Lorenzo"
Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza
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Grave
Due ragazzi, opposti ma vicini, due giovani che si respingono e che si attraggono, un orfanotrofio, due solitudini. Ed ancora, un segreto da nascondere, amori, gelosie, nuovi inizi e legami sempre più difficili da gestire. Lei è Nica e porta il nome di una farfalla. Fa della gentilezza la sua più grande caratteristica. Lui è Rigel, porta il nome di una stella, suona il pianoforte, è il bello e tenebroso ma, soprattutto, è “il fabbricante di lacrime”. Una leggenda, forse, un mito, ma in realtà all’interno del Grave, l’orfanotrofio ove sono rinchiusi, è legge. “Il fabbricante di lacrime” sarebbe un misterioso artigiano dagli occhi chiari come il vetro la cui colpa sarebbe quella di aver forgiato tutte le paure e le angosce che abitano il cuore degli uomini. Rigel è il protetto della maitresse del collegio e al tempo stesso è colui che più ha un carattere duro e schivo, freddo e tagliente. Quando ormai Nica ha perso ogni speranza di essere adottata, ecco che una famiglia decide di prenderla in affido. Tuttavia, non sarà sola perché con lei, ad essere adottato, ci sarà anche Rigel. Per lei avere una famiglia è la cosa più importante. Da quando ha perso i suoi genitori e si è trovata in quella prigione senza sbarre apparenti ma tanti castighi e punizioni sotterranee, non sogna altro. Lui no. Lui non ha mai voluto essere adottato. Perché ora sì? Perché sceglie di farsi prendere in affido?
Da qui ha inizio una storia di riscoperta e nuovi legami. Lei è infantile e ingenua, le dita sono sempre coperte da cerotti, è bravissima nelle materie scientifiche e non vede l’ora di iniziare il suo percorso familiare e scolastico. Ha paura di lui. È ancora molto immatura, non si pone domande sui perché di un agire, lo teme ma non cerca un modo per approcciarsi a lui. Almeno all’inizio. Tra i due poi sboccerà un amore profondo e intenso.
«[…] è la delicatezza, Nica. La delicatezza, sempre… Ricordatelo.»
“Fabbricante di lacrime” di Erin Doom è uno di quei libri che se rivolto al suo target di età ha tutti gli ingredienti per riuscire (a maggior ragione se si tratta di un primo approccio al genere). Usciti però da questo, vacilla e non poco. Tante le crepe che lo caratterizzano e che, man mano che si va avanti nella lettura, emergono. Tra cliché, scarse caratterizzazioni dei personaggi, incongruenze e uno stile narrativo pedante e prolisso, che si perde e arrovella su se stesso, si fa fatica e restare tra le pagine e se si va avanti, con coraggio e determinazione, lo si fa solo perché si vuol capire dove vuole andare a parare. E purtroppo il risultato cui ci conduce non è niente di così originale da dire che ne è valsa la pena. A volte, come nel mio caso, ci avviciniamo a un testo per curiosità, perché semplicemente ne sentiamo parlare. Narrativa per ragazzi ne abbiamo anche letta e apprezzata, non ci aspettiamo niente di che ma almeno un qualcosa che si regga sulle “sue gambe”, sì.
Purtroppo in questo testo cose che funzionano ce ne sono poche. Gli ingredienti ci sarebbero ma la ricetta non è riuscita e ha lasciato un retrogusto amaro al lettore.
«[…] Coltivavo le mie stranezze come un giardino segreto di cui solo io avevo la chiave, perché sapevo che tanti non avrebbero potuto capirmi.»
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Storia di una donna coraggiosa
Il romanzo è dedicato a tutti gli africani strappati alla loro terra e dalle loro origini per essere trasportati nel Nuovo Mondo: nei primo anni del XVIII secolo , incatenati e caricati su velieri fatiscenti, approdavano sulle coste americane, carne da macello, senza diritti nè speranze, per lavorare nelle piantagioni in stato di schiavitù Una nave, il Venus, fa naufragio nei pressi di una piccola isola, Dark Isle (chiamata poi l'Isola degli Schiavi) nel 1750: centinaia di schiavi morti, pochi si salvano ,tra questi una ragazza coraggiosa, Nalla, e pochi altri, che poco alla volta daranno inizio ad una piccola comunità, che si organizzerà anno dopo anno fino poi a ridursi nei decenni a seguire a poche unità ed a scomparire.
Veniamo ai nostri giorni. A Camino Island, vicino a Dark Isle ed alla costa della Florida, famoso luogo di ritrovo di scrittori e intellettuali, vive Lovely Jackson, una nera ottantenne, ultima discendente degli schiavi: nata nel 1940, a 15 anni ha lasciato da ultima l'isola degli schiavi, che ha sempre considerato terra di sua proprietà, la terra dei suoi avi e della sua gente. Ha scritto molto sull'argomento, è una donna coraggiosa e indomita, e si sente perduta quando una Società Immobiliare priva di scrupoli intende occupare l'isola, con il progetto di costruire un casinò gigantesco, con campi da golf, ville e centri commerciali, nonostante il luogo sia stato sempre circondato da un alone di mistero e sia stato nei secoli centro di eventi sinistri: oltre alla presenza di pantere e serpenti velenosi, alcuni bianchi massacrati per vendetta alla fine del 1700 , esploratori colpiti da batteri necrotizzanti rarissimi, un aereo scomparso dopo aver sorvolato l'isola, studenti sbarcati e scomparsi nel 1970 ...
La Jackson è decisa a battersi, aiutata da una coppia della Florida, un importante libraio di Camino Island e una giovane e promettente scrittrice, e via via da sempre nuovi simpatizzanti. Ha inizio intanto la causa civile tra la Jackson, che si ritiene padrona dell'isola per usucapione, cioè per occupazione dell'isola per lungo tempo, e gli immobiliaristi che si oppongono sostenendo che Lovely vive ormai da troppi anni lontano dalla terra dove è nata. Viene organizzata una spedizione per trovare gli antenati sepolti su Dark Isle, spedizione guidata dalla stessa Jackson che conosce il posto ed i luoghi di sepoltura : intenso e commovente il momento in cui Lovely, appena sbarcata, si raccoglie in preghiera per sciogliere la maledizione che sembra aver colpito da secoli l'isola. Le ossa trovate non danno una risposta risolutiva per quanto riguarda la corrispondenza del DNA, ma la protagonista della vicenda ha ormai tanti amici schierati dalla sua parte, che ne apprezzano tenacia, coraggio e soprattutto costanza nel sostenere il suo convincimento, a tal punto da versare costantemente nel corso degli anni, sua sponte, una cospicua cifra allo Stato, una sorta di tassa (sempre rifiutata) per testimoniare la proprietà di quella terra. La conclusione è serena e gratificante: verrà addirittura istituita una Fondazione, con il compito di ristrutturare i luoghi di sepoltura degli avi, costruire un Memoriale e ottenere finanziamenti per la conservazione di Dark Isle e la promozione della sua lunga storia.
John Grisham. specialista in legal thriller, questa volta ha raccontato con abbondanza di particolari e di personaggi ben caratterizzati una battaglia legale di tipo diverso: una lotta per la sopravvivenza di un ricordo, nello stesso tempo storia americana e tragedia, il ricordo di un passato schiavista ormai sepolto simboleggiato da un sito, quell'isola degli schiavi diventata terra di fantasmi, elevata quasi a sacrario, dove, finalmente, anche Lovely Jackson troverà una pace meritata.
Che dire? Difficile recensire un romanzo così particolare, che potrebbe anche non piacere agli amanti del thriller: difficile parlarne, se non raccontando per sommi capi la storia, piena di personaggi che si contrappongono in un susseguirsi di eventi e di capovolgimenti di fronte: imprenditori senza scrupoli pronti a tutto da una parte, un'ottantenne discendente da un gruppo di schiavi sopravvissuti ad un naufragio dall'altra. Ha vinto l'etica del diritto contro la volontà di un gruppo di speculatori di cementificare un luogo sacro. E Grisham ce lo racconta molto bene, con il suo stile essenziale, senza fronzoli, uno stile fatto di eventi, persone, un racconto stringato e coerente che guida sapientemente il lettore verso una conclusione non del tutto scontata.
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Intrigo senza volto
…”New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine, che lo lasciava con la sensazione di essersi perduto, non solo nella città, ma anche dentro di se”…
Una metropoli abietta e miserabile in cui vagare senza meta, un nessun luogo in cui perdersi con la sensazione di essere se stessi in quel niente, questo il respiro definente i tre brevi romanzi che compongono la “ La Trilogia di New York “, uno stato di precarietà e solitudine persistente, all’ inseguimento di una flebile traccia nel soffio impercettibile di un reale enigmatico.
Uno scrittore sotto pseudonimo vestito da detective sulle tracce di un soggetto potenzialmente pericoloso si immedesima nel protagonista della propria invenzione letteraria, l’ estenuante pedinamento di un uomo seduto in una stanza impegnato nella compilazione di un taccuino, con la sensazione di essere a propria volta spiati e sorvegliati, uno scrittore scomparso riabilitato dall’amico d’ infanzia e da lui sostituito in seno alla propria famiglia.
Ciascuno dei protagonisti intrattiene con se stesso un dialogo esteso a un senso di vuoto e di non appartenenza, una ricerca che indossa panni diversi invertendone i ruoli, una camaleontica attesa di niente per ribadire l’ ovvio, verità amare, acque torbide, prosciugati silenzi, dubbi ingravescenti, soffermandosi su un’identità smarrita, immagini difformi create e allocate all’ interno di se’.
Tra reale e immaginario incombono un rimugino malinconico in una frammentarietà evidente, una ricerca focalizzata su se stessi e la propria storia, mentre c’è chi ci ricorda chi siamo.
A distanza di anni riemergono volti, protagonisti ignari l’ uno dell’ altro, che hanno soggiornato altrove, fluttuando all’ interno delle parole nell’immagine di un finale diverso, sostituendosi ai personaggi stessi
…” fingendoci capaci di comprenderli perché comprendiamo noi stessi”...
La solitudine li investe arrivando a
…” non pensare più a se stessi come a qualcosa di reale”…
vivi ma senza più amici, sopravvissuti a se stessi, una parte già morta, quella
…” parte che non non si vuole che torni a tormentarci”...
E allora un prima e un dopo incombono, una trasformazione che porta in nessun luogo, privati di tutto, a non essere niente, quante cose scompaiono senza lasciare traccia.
Può succedere che l’ osservazione prolungata dell’ altro rifletta se stessi come in uno specchio, che la frequentazione a distanza avvicini carpendo i segreti altrui, anticipandone le mosse, come se appartenessero un poco a se’, perché
…” entrare nell’ altro è un po’ come entrare in se stessi”...
Ciascuno può continuare a dialogare con il proprio se’, a rievocare l’ altro ricostruendone la storia, costruendone un’ altra, convivere in un silenzio necessario per vivere, trasferirlo in una sorta di traslato di se stesso, ma
…” Nessuno può sconfinare in un altro, per il semplice motivo che nessuno può accedere a se stesso”…
In questo stato protratto di non evidenza tutto quello che è stato si riduce a una piccola frazione di nulla, il silenzio obbligato, la morte necessaria, uno stato di finzione per raccontarsi una narrazione che prevede il silenzio, altrove ci si ritrova in nessun luogo
…” era giunto alla fine di se stesso, adesso lo sentiva, era come se in lui si fosse manifestata una grande verità, non restava più niente. Quante cose stavano scomparendo, era difficile conservarne traccia”…
“ La trilogia di New York “ è un ‘opera costruita su un filo sottile, le tre storie, seguendo il modello delle detective-stories, sconfinano in un giuoco di specchi e di incastri con escursioni metaletterarie su scrittura e letteratura ed evidenti influenze del postmodernismo in una narrazione che abbandona la semplice trama per dissertare su destino, solitudine, arte, letteratura, identità, smarrimento, tratti autobiografici, sconfinando nell’ allucinogeno e nel surreale in una metropoli senza volto popolata da oggetti e persone infrante.
La lettura si popola d’ altro, sensazioni, emozioni, riferimenti, una scrittura densa, limpida nella proprio mostrarsi e complessa nel significato d’ insieme.
Ciò che pare non è, ciò che è potrebbe non essere o risiedere altrove, il reale assume contorni diversi, molteplici volti che riportano a un unico volto .
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Padre e figlia
Ogni volta che abbiamo occasione di avvicinarci a un nuovo titolo, siamo mossi dalla curiosità, dall’istinto, dal desiderio di conoscere. Non sempre sappiamo cosa effettivamente ci troveremo davanti ma ne siamo catturati, affascinati, rapiti. Ed è un po’ questo ciò che accade con “Chiudi gli occhi, Nina”, opera ultima di Paolo Mascheri, edita per Edizioni Clichy che ci conduce per mano in quella che è una storia di profonda e grande attualità.
«[…] Ma è quel verbo – mancare – con la sua concavità sterminata a non poter essere riempito di nessuna illusione né attenzione né sorpresa. Non posso dimenticarlo.»
Andrea è un giardiniere, è un uomo come tanti, è un padre. È il padre di Nina, la undicenne figlia della compagna Chiara che in un certo senso “eredita” dalla relazione. Andrea vuole un bene sincero alla piccola, la cresce come se fosse sua anche dal punto di vista biologico e non solo affettivo, è una figura presente e costante, una figura che non manca di amore come di rimproveri ove necessario. Nina sta affrontando una delle fasi più difficili della sua vita: quella della perdita della madre. Perché Chiara è venuta a mancare in apparenza a causa di una morte naturale ed è il compagno ad averla ritrovata. Le ragioni che l’hanno condotta alla morte sono molteplici, ella era affetta da depressione e nel paradosso della vita, era lei la prima ad occuparsi con problematiche simili di pazienti per lavoro. Soltanto Andrea conosce i veri particolari della sua dipartita e fa di tutto per celarlo alla piccola che sta vivendo un momento complesso, è chiusa in sé, si trova in piena adolescenza, fatica a darsi una spiegazione e ancora di più a trovarne una che sia anche solo minimamente plausibile. Nina sente tantissimo il peso della mancanza. Vuol bene ad Andrea anche se è consapevole che lui non è il suo vero padre. Quello biologico, Giovanni, si trova in Venezuela, luogo dove si è rifatto una vita con una nuova compagna. È preciso nell’adempimento dei doveri formali, nel mantenimento da erogare, ma è distante dal punto di vista affettivo. Non sarà semplice per Andrea ricostruire un equilibrio con la figlia e proprio quando sembrerà essere riuscito a ricostruire con lei un piccolo ponte, ecco che Giovanni millanterà il suo ritorno. Tante, ancora, le emozioni contrastanti. Andrea non può impedire a Nina di avere un rapporto con il padre naturale, ma al tempo stesso è lui che l’ha cresciuta, la sente sua figlia in tutto e per tutto e a tutti gli effetti. Ha paura di perderla, ha paura di perdere anche quell’ultimo appiglio al mondo che aveva costruito con Chiara.
«E in questo patto per Nina io e Chiara siamo legati come il vischio e la quercia. Ma se la quercia è morta nessuno può impedire al vischio di abbandonarla, trovarsi un altro ospite e rinnegare tutto.»
Paolo Mascheri con “Chiudi gli occhi, Nina” offre ai suoi lettori uno scritto non solo di profonda attualità ma anche estremamente eterogeneo. Si tratta di una lettura che offre una perfetta fotografia della nostra realtà familiare, delle dinamiche spesso complesse che oggi la caratterizzano e che si distanziano dal modello precostituito cui siamo abituati.
Soffermando lo sguardo sulla scena proposta, Mascheri ricostruisce dinamiche stratificate, fatte di dolore e perdita, sentimenti puri e devastanti la cui forza sa essere spesso devastante. Il ritratto che emerge dalle pagine è quello di un volto vivido, cristallino, veritiero del nostro vivere in questa epoca.
Al tutto si aggiunge uno stile narrativo fluido, pungente, pulito e depauperato di ogni fronzolo. La penna è tanto poetica quanto incisiva, non si perde e non lascia il lettore nemmeno per un istante. Da leggere.
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In cui Miss Marple eclissa Poirot
Più di un anno dopo la lettura di "Hercule Poirot indaga", mi sono cimentata in una nuova (ma soltanto per me!) antologia scritta dalla cara Agatha, ossia "Appuntamento con la paura". Ho scelto di affrontare questo volume come tappa intermedia nel mio percorso di recupero di tutte le storie in cui compare Miss Jane Marple, nonostante questa raccolta non sia dedicata unicamente alla placida appassionata di lavoro a maglia; oltre a non essere neppure un compendio riservato ai soli racconti gialli.
L'antologia è formata infatti da otto narrazioni, due delle quali rientrano chiaramente nel genere horror, per quanto in versione molto leggera. Le altre sei sono ripartite tra i più celebri risolutori di Christie: in due compare la già citata Miss Marple ed in quattro l'immodesto detective belga, per due volte affiancato e raccontato dal capitano Arthur Hastings. Dal momento che si tratta di narrazioni brevi se non brevissime, non posso dire nulla per quanto riguarda gli intrecci, però desidero precisare che non è presente nessun collegamento tra i vari racconti, nonostante in alcuni vengano menzionati in modo alquanto palese personaggi ed eventi relativi alle precedenti opere christieane, come la figura di Raymond West, ignoto scrittore e notissimo nipote di Miss Marple.
Per quanto riguarda il buon Hercule, ho trovato purtroppo le sue indagini soltanto carine. A mio avviso hanno faticato ad andare oltre la sufficienza principalmente perché poggiano su svolte abbastanza palesi ad un lettore affezionato della cara Agatha; un buon esempio in questo senso è rappresentato dal primo racconto "Doppia colpa". I successivi "Nido di vespe" e "Doppio indizio" mi sono sembrati meglio riusciti a livello di trama, ma privi dello spazio necessario per risultare del tutto soddisfacenti. Lo spazio non manca invece ne "L'avventura del dolce di Natale", forse la miglior avventura di Poirot tra queste quattro; peccato che la risoluzione finale sia così frettolosa e conveniente.
Dei racconti incentrati su Miss Marple invece non posso che essere soddisfatta: non c'è da urlare al capolavoro, ma "Asilo" rivela un intreccio abbastanza complesso nel suo piccolo mentre "La follia di Greenshaw" è a mani basse la miglior storia dell'intera raccolta: un'ambientazione peculiare, personaggi validi (nei limiti delle poche pagine concesse loro) ed un giallo ben presentato, nel quale l'arguta vecchina inglese si inserisce ottimamente per illustrare con chiarezza un piano criminoso a dir poco contorto.
Rimangono quindi i due racconti dalle vibes paranormali, e sono stati proprio questi ad avermi fortemente deluso. Non che avessi chissà quali aspettative sul talento di Christie nello scrivere delle storie dalle tinte fantastiche, ma "La bambola della sarta" e "L'ultima séance" non mi hanno trasmesso nessun tipo di tensione. A dispetto della presenza di elementi classici del genere horror -come le bambole possedute e le sedute spiritiche- queste narrazioni mancano di qualsiasi guizzo sia sul piano contenutistico che su quello emozionale. Avranno forse fatto effetto sui lettori di sessant'anni fa, ma a quelli contemporanei non credo proprio possano risultare appetibili.
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APPRENDISTATO DI UN NICHILISTA
“L’emozione è tutto nella vita
Quando siete morti è finita”
(Vinicio Capossela, “Bardamu”)
“Morte a credito” racconta gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Ferdinand Bardamu, l’alter ego letterario di Céline, ed è quindi una sorta di prequel del “Viaggio al termine della notte”. Chi si aspettasse però, in virtù di questo semplice dato cronologico, una narrazione meno disturbante e disperata, più leggera e disimpegnata, del suo precedente, più famoso, capolavoro resterebbe profondamente sconcertato e deluso. Dietro la scrittura irriverente, iconoclasta e scandalosamente divertente di Céline si avverte infatti anche qui, non meno che nel “Viaggio”, un inconfondibile sentore di solitudine, di acredine e di dolore. La “morte” del titolo si affaccia in scena fin dalle prime righe: “Eccoci qui, ancora soli. C’è un’inerzia, in tutto questo, una tristezza… Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta”. E poi, inopinatamente: “Ieri alle otto di sera la signora Bérenge, la portinaia, è morta”. Bisogna sempre tenere presente questo retrogusto amaro (“l’incredibile acre gusto… non se ne andrà mai più”), perché la morte è sempre dietro l’angolo e, a dispetto di tutte le picaresche avventure di Ferdinand, è proprio lei la vera protagonista del romanzo, pronta a prendersi, con macabri colpi di scena, il primissimo piano, come dimostrano gli sconvolgenti suicidi di Nora Merrywin e di Courtial de Pereires, che segnano repentinamente la fine dei rari, quanto mai provvisori momenti di tregua nell’esistenza di Ferdinand. Quella di Bardamu è un’infanzia “dickensiana”, intrisa di povertà e di violenza, popolata di esseri pusillanimi e meschini, insensibili ed egoisti, ma, a differenza che in un “David Copperfield” o in un “Oliver Twist”, qui manca del tutto non solo il lieto fine, ma anche la semplice speranza che la vita possa migliorare, ancorché impercettibilmente, in un prossimo futuro, e non essere semplicemente una crudele e spietata scuola di nichilismo. Il mondo familiare di Ferdinand, caratterizzato da miseria nera, da piccoli commerci che rendono meno della fatica che si è costretti a sobbarcarsi, da liti domestiche e rancori con il vicinato, e poi quello esterno, fatto di lavori mal pagati o non pagati affatto, di soprusi e di truffe, di promiscuità e di guai con la legge, sono tuttavia descritti senza alcun pathos drammatico, e soprattutto senza una vera e propria partecipazione emotiva da parte dell’autore, in grado di trasformare Ferdinand nel protagonista sfortunato di un’opera di critica sociale, ma al contrario con quel distacco cinico, con quella ironia caustica, così tipicamente céliniani, che non portano mai al riso liberatorio, benché le vicende narrate siano sotto certi punti di vista sommamente spassose, ma fanno semmai sogghignare il lettore a denti stretti, giacché l’umanità di Céline è una versione non edulcorata di quella a noi contemporanea, grottescamente deformata – è vero – eppure lo stesso riconoscibilissima. Gli strali dello scrittore francese non risparmiano praticamente niente e nessuno: l’istituzione familiare, la giustizia, la religione, la scienza ed il progresso (quegli inventori che assillano senza tregua Courtial e che assomigliano a un esaltato manipolo di pazzi fanatici…). Perfino il linguaggio è messo in discussione, come dimostra la profonda sfiducia che nutre nei suoi confronti Ferdinand, il quale, nel corso del suo soggiorno inglese, conscio che le parole vengono quasi sempre usate da quelli più grandi di lui per ingannare e per mentire, per circonvenire e per raggirare, si chiude in un impenetrabile mutismo: curioso atteggiamento da parte di chi, da grande, deciderà di intraprendere la carriera di romanziere!
Ci sono scrittori che andrebbero sempre letti a voce alta, per apprezzare meglio il ritmo, la musicalità della loro prosa. Si pensi ad esempio a Saramago, a Bernhard, a Guimaraes Rosa, a Gadda, le cui opere guadagnano enormemente da una lettura che dia forma sonora a quelle particolarissime architetture lessicali, con le loro pause ariose o i loro vorticosi crescendo, le loro poetiche sospensioni o le loro ossessive iterazioni, le loro inconfondibili cadenze o i loro dialettali neologismi. Louis-Ferdinand Céline è a tutti gli effetti uno di questi autori, abilissimo com’è a usare le parole come le note su uno spartito, quasi fosse una sorta di Paganini del romanzo. La sua scrittura è infatti pirotecnica e strabiliante, spiazzante e provocatoria, un curioso e originalissimo mélange di argot vernacolare e di linguaggio colto, che fa di Céline un bizzarro ircocervo: autore popolare da una parte, fino a sfiorare la volgarità e la blasfemia (quante frasi, espunte dalla censura nell’edizione originale, sono state solo in seguito reintrodotte tra parentesi quadre), ed elitario, ostico e respingente per la grande maggioranza dei lettori, dall’altra. “Morte a credito” non possiede forse la forza espressiva e la carica innovativa del “Viaggio al termine della notte”, ma certe sue pagine sono comunque degli autentici tour de force stilistici: penso ad esempio ai febbrili deliri di Ferdinand, veri e propri capolavori dadaistici, o ancora a scene genialmente raccapriccianti, come l’omerica “vomitata” sul traghetto nel corso della turbolenta traversata della Manica, oppure la descrizione del ritrovamento del corpo di Courtial, con la sua faccia orrendamente devastata dallo sparo del fucile. E’ proprio per brani come questi che ritengo che Céline sia, al di là di ogni considerazione sulle sue discutibili opinioni politiche, uno dei più grandi scrittori del Novecento, capace di conquistare innumerevoli schiere di estimatori, ma talmente unico, come tutti i precursori troppo in anticipo sul loro tempo, da non aver lasciato dietro di sé alcun vero epigono in grado di accampare fondati diritti sulla sua peculiarissima, inimitabile eredità artistica.
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Un calabrone all'Opera
Il Pm Manrico Spinori, melomane, nobile decaduto, amante indomito, sempre alla ricerca di stimoli nuovi, questa volta nel laboratorio dei costumi del Teatro Costanzi di Roma, assiste in prima persona alla morte, sospetta, di Tito Cannelli , proprietario di una famosa casa di alta moda.
Si scoprirà in seguito che la morte sospetta è invece un omicidio davvero singolare, perchè Cannelli muore per shock anafilattico, per la puntura di un calabrone, e un calabrone in un teatro è assai raro da trovare, a meno che non venga introdotto furtivamente. Quando diventa chiaro che si trovano davanti a un omicidio premeditato, Manrico e la sua squadra di tutte donne, Cianchetti Orru e Vitale, avviano l’indagine che si indirizzerà tra familiari e affini di Cannelli, ma soprattutto nel campo della moda, sconosciuto a Spinori, ma che ben presto comprenderà che quel mondo fatto di orpelli e ornamenti, nasconde sporchi giochi di potere.
Manrico Spinori è bello e affascinante, non a caso il suo informatore, Lediosca, lo ha rinominato Marcello, per la sua somiglianza con Marcello Mastroianni e non a caso De Cataldo è un amante de La Dolce Vita e un assoluto felliniano.
Spinori è colto, sa di arte e di musica classica, e per lui ogni delitto è riconducibile a un’opera lirica, e in questo caso va in crisi proprio perchè non riesce a trovare attinenze con nessuna delle opere a lui conosciute.
Spinori è nobile, ma soprattutto nei modi e nell’animo. Vive insieme alla madre e a un fedele maggiordomo nell’unica casa che gli rimane di famiglia,dato che la madre, la contessa Spinori, ha dilapidato tutto perchè affetta da ludopatia.
Si innamora facilmente e allo stesso modo si disamora, perchè facilmente delude o rimane deluso.
Il tutto ovviamente è ambientato nelle strade di Roma, che De Cataldo conosce bene, pur essendo un adottivo, nato a Taranto.
Il giallo è intricato quanto basta e di piacevole lettura, perchè De Cataldo scrive bene, e questo è innegabile.
Consigliato sotto l’ombrellone.
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"Io faccio una magia. Passo attraverso i muri.”
Ahmet Altan è uno dei più grandi scrittori turchi contemporanei.
Ex direttore del quotidiano “Taraf, è stato processato molte volte per il contenuto politico dei suoi articoli e per il suo impegno a favore della democratizzazione in Turchia.
Numerosi i riconoscimenti internazionali, tra cui nel 2017 l’Instanbul Human Rights Association Freedom of Thought and Expression Prize, che non ha potuto ritirare perché in carcere.
È autore di saggi e romanzi tradotti in più di 10 lingue.
Condannato, insieme al fratello Mehmet, all’ergastolo senza condizionale, per complicità nel tentato golpe fallito contro Erdogan del 15 luglio 2016.
E’ rinchiuso nel carcere di Silivri dal 23 settembre 2016 per aver espresso le sue opinioni.
Questa breve testimonianza è un messaggio che l’autore lancia al mondo.
Ha inizio quando la polizia fa irruzione all’alba nella sua casa, fino alla notizia della condanna a vita in regime duro.
Ma è, oltre che un racconto della durissima vita in carcere, soprattutto un invito per ciascuno a non lasciarsi sopraffare dalle ingiustizie, a saper guardare oltre, per salvarsi e amarsi.
Altan, da dissidente nel suo paese, l’arrivo della polizia se lo aspetta ogni notte.
La stessa sorte, 45 anni prima, era toccata al padre.
E quando lo portano in carcere pensa che può farsi schiacciare dalla realtà oppure diventare lui più forte. Più forte anche di questo mondo sotterraneo di pietra puzzolente di sudore e umidità e morte e ferro. Così lontano da quello dei vivi. Eppure così affollato, tanto da non riuscire a vedere il pavimento.
“Sorrisi al poliziotto. Perché, questa, è solo la realtà in cui mi hanno rinchiuso.”
Superare il punto di non ritorno, quello in cui ti manca il respiro e vedi la follia così vicina, tanto che manca solo un passo per raggiungerla: ma Altan decide di voltarsi e tornare indietro.
Pensare alla morte è l’unica via di salvezza. Dalla paura sarebbe nato il coraggio perché la paura di impazzire supera tutto.
“Un giorno sarei morto, questo contava.”
Ci racconta dell’importanza di avere uno specchio, potersi guardare in volto. Non potere farlo e’un po’ come perdere se stessi, non riuscire più ad avere cognizione di esserci.
Ed io penso su quante cose non rifletto abbastanza, a quanto sono superficiale. Perché penso che tutto ci sia per esserci sempre.
Diamo tante cose per scontate.
“ Noi amiamo e ci abituiamo all’amore.
A volte è possibile capire com’è grande l’amore che sta sotto quella abitudine solo quando l’abitudine viene interrotta così violentemente.
Cominciai a sbracciarmi per farmi notare. Che mi vedessero in quel momento era la cosa più importante della mia vita…”
Quando ho letto che la lunghezza della cella è di 6 passi e la larghezza di 4, mi sono alzata e li ho fatti quei passi. E poi ho guardato lo spazio. E poi mi sono mancate le parole ed i pensieri. Poi ho letto che in questo spazio sono in tre “e ci scontriamo continuamente”. Due uomini profondamente religiosi e un non credente. Il più giovane ha 38 anni, la religione per lui è tutto ma è consapevole che ci sono anche i non credenti. L’altro ha 53 anni e poi c’è Altan che ne ha 68, non crede in Dio, ma trova l’idea di Dio interessante.
Gli sembra strano soprattutto vederli pregare così spesso ad alta voce il Corano.
Eppure quando una delle loro figlie, Meryem, verrà incarcerata e poi liberata, pregherà con loro in segno di ringraziamento.
Quando in tribunale il presidente legge loro la sentenza, gli torna in mente ciò che dice lo scrittore Elias Canetti: “Vivere tranquilli e sicuri in mezzo al benessere e sentire le preghiere di una persona avendo già deciso di non prestarvi ascolto… Che cosa potrebbe esserci di più vile?”
“Ergastolo senza condizionale”.
Non rivedrà più il mondo, non rivedrà più il cielo, non avrà mai la grazia, morirà nella cella di un carcere.
Quando tutto finisce e la speranza si spegne, sappiamo che nessuno è davvero pronto per la disperazione assoluta e sentiamo pienamente ciò che Saramago intendeva quando diceva “non esiste consolazione per gli umani”.
Altan capisce che deve lottare, non abbandonarsi alla tempesta. In quella cella lo hanno condannato a morire ma lui non è ancora morto.
Volersi bene è il comandamento, scrivere ne sarà la dimostrazione.
È il racconto di un dolore senza fine, di uno sprofondare nell'abisso, paura dell’ oblio di se stessi.
Racconta un dolore che la maggior parte di noi non proverà, perché non conosceremo la costrizione fisica, ma ciò che si legge tra le emozioni non nascoste è la paura ancestrale dell’aver paura, di quando arriverà quel momento, quel dolore che in forme diverse ci travolgerà e avvolgerà e trascinerà giù con lui nel buio più profondo della disperazione, dove non ci sono porte né finestre né luci né cielo, solo buio e angoscia che ci strozza.
Che fare?
Lasciarsi prendere perché solo così è poi possibile nuotare verso la luce?
In queste pagine terribili ci siamo anche noi,i nostri sentimenti di solidarietà verso quest’ uomo, la rabbia verso altri uomini così freddamente disinteressati eppur chiamati assurdamente a decidere. È talmente pazzesco che mi chiedo come si possa non impazzire. Per un uomo senza fede... Chissà se è più semplice.
Altan è coraggiosissimo; mi chiedo cosa abbia di così nobile nell’animo da riuscir a desiderare nuovamente. Con nuova forza. Come faccia a risalire.
Forse i ricordi di ciò che ha scritto e ciò che ha letto, e di quando era diventato Peter Pan, Sherlock Holmes, Arsenio Lupin…
La sua speranza e la sua salvezza: riavere tra le mani un libro. È di nuovo in viaggio. Lo stringe al petto prima di iniziare a leggerlo, per cercare di calmare le emozioni.
Non c’è nulla che non mi colpisca.
Il racconto delle manette che si stringono intorno ai polsi sempre più non appena muove le braccia.
La giovane donna radiologa indifferente e glaciale che non gli permette di toglierle neanche durante la radiografia.
Gli ex giudici ora incarcerati, che da giudicatori a giudicati ignoravano che il carcere fosse un posto del genere e anzi, in realtà non si erano mai fermati un attimo a rifletterci, tanto era una sciagura che avrebbe riguardato solo gli altri.
Ma come non si può ammirare e piangere di gioia e commozione per quest’uomo, Altan, che ormai ha imparato a erigerlo quel muro a sua difesa e quindi nulla può più ferirlo, e tutto ciò che lo circonda diventa oggetto di studio e di suo racconto per gli altri.
Che profonda ammirazione leggere queste parole…
Si, sono rinchiuso in carcere in mezzo al deserto.
Si…..
Si….
Si…..
Si….
Si….
Ma sono anche nella villa con giardino della mia infanzia, e anche sotto la furia dei venti settentrionali sulle rive del Danubio, e anche tra le isole della Thailandia, e anche negli hotel di Londra, e anche nelle strade di Amsterdam, e anche nei labirinti di Parigi, e anche nei parchi di New York, e anche nelle strade innevate.
….
Potete vedermi lungo i fiumi dell’Amazzonia, e sulle spiagge del Messico, e nelle savane africane. Converso in continuazione e vivo gli amori degli altri, le loro avventure e le loro preoccupazioni e le loro gioie. E rido quando origlio le loro conversazioni divertenti.
…..
“ Loro avranno anche il potere di mettermi in carcere, ma nessuno ha il potere di tenermi in carcere.
Finora non mi sono mai svegliato in carcere. Neanche una volta.
Sono uno scrittore.
Non mi trovo né dove sono, né dove non sono.
Dovunque mi rinchiudiate, io viaggerò per il mondo sulle ali infinite della mia mente.
Io faccio una magia. Passo attraverso i muri.”
Il 14 aprile 2021 è stato rilasciato dal carcere, dopo una sentenza della Corte di Cassazione turca che ha ribaltato la sua precedente condanna. Il giorno precedente una sentenza della Corte europea dei diritti umani aveva stabilito che la sua detenzione, durata oltre 4 anni, era illegittima e costituiva una violazione dei suoi diritti.
Buone prossime letture
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Amore e morte
…” Io sono l’ autore del suo dominio su di me ”…
L’ ossessione amorosa di David Kepesh, professore universitario sessantaseienne, per Consuela Castilla, allieva dal corpo statuario e dal comportamento particolare, sconfina in una dissertazione su senso del vivere, invecchiamento, amore, gelosia, sui propri desideri, su una famigliarità dissolta, sui figli, sulla rivoluzione sessuale degli anni ‘ 60, sulle nuove tendenze, sul senso di impotenza nello scorrere del tempo.
Consuela Castilla, figlia di facoltosi emigrati cubani, nella sua dirompente fisicità, è per David terreno di caccia e oggetto di ammirazione sconsiderata, una ragazza che sa quanto vale il proprio corpo, che colpisce per il comportamento, utilizzando la cultura come ornamento, non di certo come mezzo di sostentamento, che sembra appartenere a un’ epoca tramontata, a un tempo più cortese,
…”un carattere complesso e aggrovigliato offuscato dal suo corpo”…
Dal canto suo, David Kepesh, avvolto da quel
…” delizioso e imbecille vortice di lussuria”…
che in lui ha preso il sopravvento, è disposto a dissimulare pur di raggiungerla, intrappolato in comportamenti che sconfinano nella gelosia, con un’ esagerata idea di possesso in un rapporto obiettivamente squilibrato che ridiscute i termini del proprio essere.
Consuela è mezzo e tramite attraverso il quale guardarsi allo specchio, vivere la propria decadenza fisica e dissociazione affettiva, di padre, di ex marito, di amante.
Il proprio sguardo posato continuamente su di lei cerca di interpretarne pensieri, strategie, comportamenti, espressione personale ed egocentrica, imbevuto di quella fragilità creata dall’ età e vissuta all’ interno del rapporto.
Consuela sembra vivere il piacere della sottomissione e del dominio concessole dalla frequentazione di David, nel quale riconosce una versione soggiogabile di un passato irrecuperabile e la raffinatezza della propria famiglia, un uomo di mondo, un’ autorità della cultura, un maestro.
E allora si respira lo squilibrio tra la fragilità rinchiusa nella certezza di una fine che si avvicina e la giovinezza eletta a opera d’ arte in una vita da vivere anche se, nella quotidianità, permane una certa idea di immortalità.
Spiccano riflessioni su infatuazione, desiderio, gelosia, su una certa idea di possesso, sull’ amore in un’ epoca caratterizzata da una certa democratizzazione del piacere.
Emerge una figura di padre delegittimata da un figlio quarantenne imprigionato in un matrimonio senza senso e la follia legittimata dallo scorrere degli anni, da un nuovo desiderio di stabilità, da una paradossale voglia di non libertà in prossimità della fine, sopraffatto da una confusione onnipresente.
Il tutto all’ interno di una concezione temporale nella quale vivere e affondare, mentre la distanza diventa nuovo spazio da condividere azzerando le diversità per motivi differenti all’ interno di una neo dimensione temporale
…” Ora il suo senso del tempo è come il mio, incalzante e ancora più sconsolato del mio “….
“ L’ animale morente”, all’ interno di una narrazione sensuale e fortemente carnale, è una riflessione su vita e destino nel cuore di una relazione sentimentale evasa e riemersa nella propria dimensione d amore e morte. Che cosa nascondono i propri desideri, quali sentimenti nell’approssimarsi di una fine, che cosa restituisce una relazione e un evento inaspettato all’ interno della stessa?
La fine di una vita può allinearsi alle difficoltà di un’ altra sulla quale aleggia improvvisa una dimensione di morte, in quel mentre ai propri occhi qualcosa cambia e la fragilità dell’ altro acquista i toni di un’ umanità indispensabile e significante…
…” devo scappare! Non farlo. Cosa? Non andare. Ma devo. Qualcuno deve stare con lei. Troverà qualcuno. È terrorizzata. Io vado. Pensaci, Rifletti. Perché se ci vai sei finito”…
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Cold case de' noantri
Un giallo ambientato a Roma con due protagonisti, un giornalista e un colpevole, tutto narrato in prima persona, ma da due punti di vista diversi.
Carlo Cappai lavora nell’archivio di un tribunale, un lavoro metodico, in solitudine, sommerso da una moltitudine di faldoni di casi risolti e non.
Cappai, nel periodo della sua adolescenza, è stato testimone del delitto di una sua amica, ma malgrado la sua testimonianza, il colpevole, con un buon avvocato, viene scagionato ed evita la prigione. Questo episodio segna per sempre la sua esistenza e da quel momento il suo senso di giustizia, quello che segue la legge e che segue suo padre, un giudice anche lui, viene meno, per dare vita a una sorta di giustizia personale.
Quei casi irrisolti gli “parlano”, “sussurrano” e chiedono vendetta, e lui non li vuole deludere.
Walter Andretti lavora in un piccolo giornale e si approccia per la prima volta alla cronaca nera, finora si era sempre dedicato alla pagina sportiva. Viene incaricato di indagare e fare notizia su due recenti omicidi. All’inizio si muove male in quell’ambito, non conoscendo nessuno e non avendo agganci in polizia, ma, non demorde e la sua tenacia e le sue intuizioni lo portano a credere che tra quei due delitti ci sia un legame, forse addirittura lo stesso omicida.
Andretti ricorda vagamente il giornalista Carlo Alberto Marchi dei romanzi di Gigi Paoli, ma il confronto è improponibile; quello è un personaggio definito a 360 gradi ed ha una sua solidità; questo è appena accennato, vago, senza carattere, che si muove quasi inconsapevolmente e che indovina ma non conclude. Ovviamente con questa struttura,nel romanzo non c’è mistero, il lettore fin dall’inizio sa chi è il colpevole e ne conosce il movente, tranne che per un inutile, ai fini della trama, colpo di scena finale.
Tutto si gioca sul filo sottile che divide la giustizia dalla vendetta. Quando non esiste quel ragionevole dubbio di innocenza, quando il verdetto di colpevolezza non arriva nonostante le prove evidenti, perché non portare Giustizia, con le nostre mani, laddove la legge non è riuscita ad arrivare?
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Dove ti vedi tra 12 anni?
Durante la scorsa estate la trama decisamente contorta de "Il manoscritto" mi aveva fatto scoprire la prosa a dir poco incalzante di Thilliez, che un po' a sorpresa ha fatto finire questo titolo tra le migliori letture del 2023. Con l'anno nuovo avevo quindi tutta l'intenzione di continuare e magari concludere la trilogia ideale (ma non troppo!) di Caleb Traskman, quindi eccomi approdare a "C'era due volte". Un volume che forse non avrei dovuto aspettare tanti mesi prima di leggere: sono praticamente certa di essermi per questo persa un mucchio di easter eggs!
Eppure questa storia ruota attorno a personaggi del tutto diversi rispetto al romanzo precedente, e anche l'ambientazione iniziale ci porta in un altro angolo della Francia. Ci troviamo nella Valle dell'Arve nell'aprile del 2008, in particolare nella cittadina immaginaria di Sagas, dove il luogotenente della gendarmeria Gabriel Moscato si reca presso l'Hotel de la Falaise per cercare delle informazioni che lo aiutino in un'indagine per lui molto importante: quella sulla scomparsa della figlia adolescente Julie, avvenuta un mese prima. L'uomo si addormenta nella stanza numero 29 per poi risvegliarsi nella numero 7; la vera stranezza non sta però nel luogo bensì nel tempo, dal momento che siamo stati catapultati nel novembre del 2020. Gabriel ha però misteriosamente dimenticato gli ultimi dodici anni, e per questo si trova in un mondo completamente diverso da quello che ricorda e -nel tentativo di trovare una quadra- chiede l'aiuto del suo vecchio collega Paul Lacroix.
Loro sono ovviamente i due punti di vista tra i quali si alterna la narrazione, infatti li vediamo spesso indagare individualmente, ma penso diano il meglio quando collaborano mettendo insieme le forze. Per questo il rapporto insolito che vanno a creare -seppur nel poco tempo a disposizione- è uno dei punti di forza del libro; in generale ho trovato solida la loro caratterizzazione, con delle motivazioni e delle reazioni chiare e condivisibili, entro certi limiti.
Il ritmo sempre incalzante si conferma un grande pregio della prosa di Thilliez: rende quasi impossibile interrompere la lettura, anche per merito dei colpi di scena mai banali o troppo prevedibili che costellano l'intero volume. Queste rivelazioni sono inoltre illustrate in modo estremamente comprensibile, il che le rendere ancor più soddisfacenti a mio avviso. E per concludere questa carrellata di punti a favore non posso tralasciare l'espediente di base, ossia l'amnesia di cui è vittima Gabriel, che risulta un escamotage intelligente ed utile per fornire un gran numero di informazioni al lettore senza per questo ricorrere a spiegoni o flashback.
Nonostante questi elementi ed un inizio più che solido, il volume nel suo insieme mi ha convinto leggermente meno del precedente perché mettendoli a confronto ho individuato alcune mancanze. Ad esempio qui è del tutto assente una prospettiva femminile sulla vicenda: le personaggie presenti sono completamente accessorie, inoltre i due POV principali sono davvero simili tra loro e danno perciò ancor meno variatio alla prosa. Allo stesso tempo non mancano i piccoli difetti de "Il manoscritto", come una gran quantità di linee di dialogo troppo artefatte e retoriche per essere pronunciate in modo spontaneo.
Sono poi presenti diversi aspetti nell'indagine che ho trovato discutibili, come la presenza di molte quest minori fini a se stesse (come quella del video, che occupa parecchie pagine ma non porta a nulla) ed il fatto che i protagonisti trasformino mere supposizioni in dati di fatto, senza cercare delle prove o aspettare il risultato di un'analisi scientifica. Alcune delle loro scoperte sono inoltre così rilevanti che reputo assurdo siano state accantonate o giustificate da moventi ridicoli! il lato negativo del ritmo scelto è proprio quello di non dare il tempo necessario per metabolizzare tutte le informazioni. Ultimo piccolo neo: non ho apprezzato troppo il sillogismo tra arte disturbante ed artista o consumatore disturbato, perché sono convinta che l'apprezzamento del genere thriller non pregiudichi la capacità di distinguere la realtà dalla finzione.
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Il passato siamo noi
Nulla si distrugge, specie nel passato. Il passato è scritto, ma non sepolto, anzi riemerge inesorabile dai racconti dei personaggi di Marco Vichi. Ognuno di loro è segnato, con ferite ancora fresche, dall’ultima guerra, con tutto il cambiamento che ha prodotto nelle loro vite e nella loro personalità. (va ricordato che l’ambientazione di questi romanzi è tra gli anni sessanta e settanta dello scorso secolo). Più che un giallo (che è proprio a margine, e che per questo neanche menziono) è un racconto corale, questo, sfaccettato da varie angolature, a seconda del narratore di turno, che riesce a dare l’insieme di uno spaccato di un’epoca vissuta. Una memoria che non si perde, e che non deve perdersi, perchè ciò che siamo oggi è frutto del nostro passato, della nostra esperienza e inevitabilmente oggi non siamo più gli stessi di allora. Bordelli, il protagonista, ex commissario in pensione, sente fortemente il peso degli anni che passano, e si aggrappa al passato e a una donna che ha la metà dei suoi anni.
“Fuggiva via con una velocità sconfortante… Com’è bella giovinezza…Si…Com’è bella giovinezza…”
Non è un nostalgico, perchè non si percepisce in lui quel senso, caratteristico, di inadeguatezza al presente, è più un modo di perdonarsi, il suo. Perchè è vero che la narrazione di una storia presuppone un pubblico, e infatti le cene conviviali di Bordelli e i suoi amici ne sono un esempio palese, ma comunque essendo quasi sempre storie intime e personali diventano una specie di confessione agli altri ma soprattutto a se stessi con un implicito desiderio di perdono, per atti commessi, spesso perchè costretti. C‘è inoltre la convinzione che ogni storia meriti di essere raccontata e non persa per sempre, perchè se non c’è più chi racconta non c’è più memoria, non c’è più storia di noi e del nostro paese.
I pensieri di Bordelli ci invitano a riflessioni profonde, anche sul senso di giustizia, che per lui significa soprattutto seguire la sua coscienza, e la sua morale, quella di uomo e non solo di uomo di legge. “Caro povero Franchino non sai cosa ti perdi, non immagini quanto sia bello perdonare, quanta beatitudine entra nel cuore quando si riesce a perdonare…Ed è ancora più bello quando si perdona l’imperdonabile…” Ed è vero Bordelli non sempre perdona.
Inoltre sempre più preponderante in Vichi è la passione per la lettura e per la musica. Nel romanzo intermezza e cita brani interi di libri di altri autori, Alba De Cespedes la sua preferita, Bassani, Malaparte, Flaiano…e attraverso la sua lettura invita il lettore a scoprirli o a rileggerli, tale è l’entusiasmo.
C’è molto di autobiografico nei suoi libri, ma in questo è narrato un episodio molto intimo che riguarda sua mamma, Paola Cannas, che alla veneranda età di 84 anni, per avere una sua opinione, fa leggere a suo figlio, un po’ prevenuto, alcune sue poesie; Lui invece le trova molto belle, tanto da mandarle ad un editore che poi le pubblicherà.
Questa è una delle poesie di sua mamma riportata fedelmente nel suo libro.
I vivi ormai
più non ti stanno accanto
e non ti fanno compagnia;
invano cerchi di fermare
il loro sguardo su di te,
stringere la loro mano nella tua.
I loro occhi volgono altrove,
si chiudono le dita su se stesse,
la fretta allontana i loro passi.
Ma ecco sulla sponda del tuo letto,
siedono, sorridendo, i morti,
che pazienti ascoltano ogni voce del cuore.
Dolce è la compagnia di chi non ha più fretta.
Insomma c’è tanta letteratura in Vichi, e tanta passione; c’è onestà di pensiero, e di sentimenti; c’è tanta etica e profondo rispetto e credo per l’amicizia; c’è la Memoria e la Storia; tanti principi e valori che oggi sono un po’ sbiaditi dal tempo, un tempo che purtroppo li ha persi di vista, ma che sono i fondamenti della nostra natura di esseri umani.
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Emilia, Bruno e il passato che determina il futuro
Quando Emilia arriva a Sassaia sembra provenire da un tempo senza tempo. È il Giorno dei Morti e la sua sembra essere una dimensione ferma, isolata, bloccata a tanti anni fa. Già il look lo dimostra, con i suoi jeans strappati, gli scarponcini viola e il giaccone verde fluo, tutto sembra tranne che una donna adulta ormai trentenne. Questa adolescenza che le appartiene sembra confinata in questi suoi modi e in questo tempo sospeso. Non ha voluto sentire ragioni: l’unico luogo dove era disposta ad andare è Sassaia, prendere o lasciare. Ecco allora che il padre, Riccardo, la accompagna, si premura di verificare che tutto sia funzionante, evidenzia la difficoltà di farle avere una televisione e lei che con quello strumento e solo con questo riesce ad addormentarsi, non la prende benissimo. Il monito del padre consiste nell’invito a trovarsi quanto prima un’occupazione perché Emilia deve ricominciare, il suo passato, quell’errore per cui ha pagato, non può essere un marchio a vita. Il “collegio”, come lo chiama lei, è però un luogo difficile da dimenticare e trovare una nuova strada ma soprattutto, darsi una possibilità, è tutto tranne che semplice o scontato. Nel borgo, dirimpettaio alla casa della giovane, vi è Bruno, maestro elementare che con la sua barba lunga ha un’età indefinita. È maestro di scuola elementare in una classe mista, vive da solo da quando era un ragazzo in quella che è la casa che un tempo apparteneva ai suoi genitori. Anche nel suo passato ci sono dei segreti e sono proprio legati alla famiglia. Tuttavia, egli è subito attratto dalla donna, dai suoi capelli rossi, dal suo carnato e anche da quel suo look anni 2000 che proprio cozza con il loro tempo. È chiuso in sé da troppo tempo, l’incontro con Emilia lo porterà a fare i conti con i propri fantasmi.
«[…] Devi perdonarti di essere viva, Emilia
No, non c’è più niente che io possa fare per meritarlo.»
Gli occhi di Bruno e gli occhi di Emilia si riconoscono: entrambi hanno conosciuto la solitudine, entrambi hanno conosciuto il male. Entrambi hanno scontato la loro pena, entrambi cercano un nuovo inizio. Per Emilia questo è Sassaia e poi Bruno, per Bruno diventerà Emilia. La verità che si cela dietro la storia della ragazza non potrà essere celata a lungo e quando verrà a galla, l’uomo dovrà decidere da che parte stare, se far prevalere il dolore, se far prevalere l’amore, se accettare che per tutti c’è una possibilità di redenzione e rinascita.
«[…] Qualsiasi parola sarebbe stata impossibile per entrambi, mentre stordirci l’uno contro il corpo dell’altra e poi l’uno dentro l’altra, era quasi una liberazione. Sentivo tutta la mia solitudine e la sua solitudine che si aggrappavano e si annientavano a vicenda su quella piazza e mezza che sapeva di chiuso, di bosco, di ricordi. L’unico bagliore acceso tra le montagne.»
Ed oltre ad Emilia e a Bruno vi sono tanti altri personaggi incastonati che vanno dal Basilio, che subito la riconosce, a Marta che rappresenta una sfida e che quella sfida l’ha vinta. E ci sono ancora i paesani che hanno paura del nuovo e del diverso, che sono gelosi e che sono pronti a puntare subito il dito e/o a condannare a loro volta perché preda della paura e del pettegolezzo.
Silvia Avallone torna in libreria con un romanzo che ha veramente tanto da dire e che dimostra, ancora una volta, la sua grande maturità come scrittrice. Ne è passata di acqua sotto i ponti da “Acciaio”, “Marina bellezza” o ancora “Da dove la vita è perfetta” e lei ha il grande merito di non aver avuto paura di questo suo osare. È un’autrice mutevole, empatica, attenta ai temi attuali e mai banale.
Con “Cuore nero” affronta un tema molto complesso che oscilla tra la riabilitazione e la redenzione, tra la rinascita e il ricostruirsi una vita quando un fatto del passato ha determinato in modo indelebile quelli che sono i successivi quindici anni della nostra vita.
Nulla è lasciato al caso tra queste pagine. Dietro c’è uno studio, ci sono incontri in Istituti penitenziari minorili quali quello di Bologna, ci sono incontri con giovani uomini che quelle sentenze di condanna le stanno vivendo e da qui cercano di ripartire.
«[…] Esiste di più. Esiste così tanto che respiri con un polmone solo perché l’altro è schiacciato, la gola è ostruita, il cuore è un buco. Ma dirla significa sfilare un proiettile così ben conficcato che ormai fa parte del tuo organismo, i tessuti gli sono cresciuti intorno, le arterie lo hanno innervato. Estrarlo equivale a morire.»
Non è un romanzo esente da pecche, sia chiaro. Nella seconda parte, in particolare, cade un poco nel moralismo e si perde in digressioni che potevano essere sintetizzate. Lo smacco che porta Bruno a “svegliarsi” e la reazione che consegue è altrettanto intuibile ma è anche naturale. Forse non brillerà di originalità per trama e/o personaggi che tendono ad essere stereotipati ma, francamente, credo che questo fosse proprio l’intento della Avallone perché quando si immagina una data realtà noi tutti tendiamo a cadere nello stereotipato e a rimodellare nella nostra mente un personaggio in un determinato modo. Io ho avuto modo di studiare per anni la realtà carceraria, anche visitandola e nell’immaginario comune tanti, troppi volti, sono confinati a un determinato e univoco disegno. Esattamente come è naturale confinarli in personalità che raramente riescono a rifarsi una vita. Il lieto fine tra queste pagine è voluto anche per questo, e cioè per ricordarci che tutti abbiamo diritto a una seconda possibilità anche quando nessuno avrebbe mai creduto in noi. Ciò che regge le fila e che porta “Cuore nero” a vincere è il tratto emozionale e su questo, vince a mani basse.
«[…] Qualcosa lo sapevo, eppure non sapevo niente. Solo che, se anche fosse stato il nostro ultimo ballo, dovevo ballare. Se anche fosse stato il nostro ultimo istante, lo dovevo vivere. Tanto, tutto finiva. Era inevitabile, il futuro. Quindi la baciai con tutto me stesso.»
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La verità viene sempre a galla.
Le due guardie forestali in servizio sulle pendici dell'Etna non si sarebbero mai aspettate una simile sorpresa: un cadavere di donna nudo, orrendamente mutilato, in contrada S.Alfio, tra i tronchi secolari del Castagno dei cento cavalli, una specie di monumento nazionale meta turistica famosa, uno spettacolo secolare della natura con una circonferenza ed un'altezza, specifica l'autrice, di una ventina di metri. Arriva sul posto il vicequestore della squadra Mobile catanese Giovanna Guarrasi, detta Vanina, la protagonista della serie, dando così inizio a questa nuova indagine, coadiuvata dai collaboratori di sempre, il capo Tito Macchia, la sua fiamma Marta Bonazzoli, l'ispettore Spanò, il vecchio commissario in pensione Biagio Patanè: entreranno poi in scena il sofisticato medico legale Adriano Calì e il pubblico ministero Franco Vassalli, alle soglie della pensione e meno timoroso del solito. Sullo sfondo, gli altri personaggi che hanno sempre animato le avventure di Vanina, familiari compresi. L'indagine appare subito complessa: il delitto viene subito messo in relazione con un incendio doloso nella zona, nel cui sito iniziale vengono rinvenuti, sotterrati, lo zainetto della vittima e le armi del delitto. Si risale alle generalità dell'uccisa, una paesana detta la Boscaiola, con un cambio di identità anni prima: una figura controversa, con diploma di ostetrica e poi guida turistica volontaria: l'appartamento rivela altra sorprese, compresa una camera blindata attrezzata da ambulatorio. Si individua un amico della donna, un vecchio montanaro, tra l'altro scalatore dell'Everest, indiziato anni prima per stupro e omicidio di tre donne a Belluno, poi dichiarato innocente con molti dubbi: l'uomo è fortemente sospettato, ma altre piste porteranno ad una conclusione inattesa dell'indagine, una conclusione che porterà alla luce sentimenti mai sopiti di giustizia e di vendetta.
Vi sono però altre storie che vivacizzano il racconto di base. Per esempio, la tormentata figura di Costanza, sorella di Vanina, che manda a monte il matrimonio con Tommaso dopo aver scoperto che il fidanzato, medico, tramava per sottrarre il posto di dirigente cardiochirurgo al patrigno di Vanina. E poi ancora la partecipazione della Guarrasi, in collaborazione con l'eterno fidanzato Paolo e gli agenti di Palermo, all'agguato al boss mafioso responsabile dell'uccisione anni prima del padre di Vanina: agguato fallito, che fa temere la presenza di una talpa in questura. Infine, il commovente rapporto affettivo tra il vecchio Patanè e la moglie Angelina: quest'ultima, sempre apprensiva, cambia lentamente, capitolo dopo capitolo, carattere e atteggiamenti. La probabile triste verità emergerà alla fine dell'ultimo capitolo, quando il vecchio commissario invocherà disperato e piangente il nome dell'amatissima moglie.
Un giallo che prende e intriga parecchio: la storia, all'inizio indecifrabile, si dipana a poco a poco seguendo varie piste investigative, Come sempre nei gialli di Cristina Cassar Scalia, dalla metà del romanzo in poi i fatti si accavallano rapidamente, creando talora nel lettore poco meno che attento un supplemento di fatica per non perdere il filo del racconto investigativo: l'abilità dell'autrice sta nel tenere sempre viva la curiosità di chi legge, escogitando colpi di scena magistrali o intercalando il percorso delle indagini con vicende personali dei principali protagonisti.
Lo stile della narrazione è come sempre essenziale e stringato: i fatti tengono sempre banco, non c'è spazio per inutili divagazioni. Anche le vicende personali narrate non costituiscono una nota stonata, ma contribuiscono a rendere la vicenda di base più coinvolgente con mille sfumature.
Unico neo: il consumo industriale di Gauloises da parte della dottoressa Guarrasi. Fa parte del personaggio: credo però (o mi auguro), conoscendo ormai bene Vanina, che prima o dopo arriverà un radicale cambiamento di abitudini. Sigarette e golosità infantili: sono due delle caratteristiche che rendono unica la protagonista e che, unitamente alle straordinarie capacità professionali,, fanno di Vanina Guarrasi un personaggio indimenticabile nel panorama della letteratura gialla italiana.
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Sopravvissuto con la guerra
Quando Céline lascia la Francia durante la Seconda guerra mondiale, lascia anche nella casa di Montmartre una cassa piena di manoscritti che mai più riuscirà a ritrovare nonostante i tanti tentativi. È solo nel 2019 che questi trovano la luce per mano di un critico che ammise di averli ricevuti da una persona che ne ignorava tanto il valore quanto l’importanza. Ecco allora che elaborati quali “Guerra” o ancora “Londra” vedono la luce e fa quasi strano pensare che ne esistano ancora di inediti e mai letti.
Con “Guerra” ci troviamo davanti a uno scritto privo di revisione e per questo anche intriso di tutta quella che è la prosa céliniana, senza filtri e senza censure. Si tratta di un testo che ci restituisce un’esperienza di guerra e nel particolare della Grande Guerra. È una storia autobiografica in cui risuonano echi, dolore, fischi, esplosioni, perdita. Non mostra i canonici combattimenti a cui siamo abituati o che siamo soventi immaginare quanto, al contrario, un’esperienza sonora narrata dall’unico uomo ancora in vita. Siamo nel 1914 a Ypres, è qui che Céline, moribondo, capisce di essere l’unico sopravvissuto al bombardamento del suo convoglio da parte delle truppe tedesche. Ferito gravemente tanto da causargli emicranie a vita, fu insignito di una medaglia, trasferito in diversi ospedali per poi infine trovarsi a Londra. A questo primo connotato autobiografico si aggiunge poi il tratto tipico céliniano dell’iperbole e del grottesco che porta ai massimi estremi quel che viene descritto, che si tratti di scene con carattere sessuale o ancora di carattere morale.
«[…] Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l'ho chiusa nella testa. Vabbè. Dicevo dunque che nel bel mezzo della notte mi sono rigirato a pancia sotto. Così andava meglio. Ho imparato a distinguere i rumori esterni dai rumori che non mi avrebbero lasciato mai più.»
Non manca nemmeno il tratto tipico dell’alter ego nella narrazione dell’autore. Se in altri scritti è stato Bardamu o ancora Robinson, nel Voyage, qui lo trova in Bébert, un delinquente parigino che sfrutta la moglie Angèle, chiamata a prostituirsi al fronte. Ed anche nelle situazioni più paradossali egli riesce a mantenersi umano per quanto comico. La sua prospettiva narrativa è per eccellenza quella dell’antieroe che ha visto il peggio, che ha visto la morte, che ha dormito tra i cadaveri, che ne ha sentito il fetore, che ha perso tutto.
Il tutto si tramuta in delirio e poco importa che si tratti di sogni, promesse, guerra, ambizioni umane o desiderio di cambiare il mondo; a far da padroni sono i paradossi e gli opposti.
«[…] Ci sono esseri così, è strano, sono carichi, arrivano dall'infinito, ti vengono a esporre sotto gli occhi il loro gran fagotto di sentimenti come al mercato. Non stanno attenti, spacchettano la loro mercanzia come viene viene. Non sanno presentare bene le cose. E tu non hai comunque il tempo di rovistare fra le loro scarabattole, passi, non ti giri, tu pure hai fretta. A quelli di sicuro gli dispiace. Che fanno allora, rimpacchettano tutto? Buttano via tutto? Non lo so. Che ne è di loro? Non se ne sa niente. Ricominciano daccapo finché gli resta ancora qualche cosa? E dov'è che vanno allora? Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto.»
“Guerra” di Louis Ferdinand Céline è uno scritto che trattiene tra le pagine grazie alle emozioni che suscita e che scolpisce sulla pelle. Ancora oggi, a distanza di così tanti anni, sconvolge e non resta indifferente, incuriosisce e invita ad approfondire la lettura. Uno scritto che non si dimentica e che si gusta un poco alla volta nonostante le piccole dimensioni.
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Un capolavoro
E’ uno dei libri più belli che io abbia mai letto nella mia vita, un’emozione assoluta e un capolavoro indescrivibile. Difficile infatti decidere da quale parte iniziare a raccontare questa meraviglia le cui 700 pagine scorrono tra la voracità del voler continuare a leggere ed il dispiacere perché ne rimane sempre meno. Confesso che non appena chiusa l’ultima pagina ho provato a ricominciarlo da capo. Lo farò sicuramente, però non subito. Si tratta infatti di un libro in grado di parlarci in qualsiasi momento della storia umana ed è bello lasciarlo sedimentare e poi riprenderlo.
Il titolo potrebbe essere fuorviante, può far pensare che la storia qui raccontata sia la storia dei grandi che l’hanno determinata. Fra l’altro il racconto è ambientato in un periodo denso, quello tra la nascita del fascismo fino ai primi anni del dopoguerra. La scelta della Morante è invece diametralmente opposta: la storia, quella vera, è la storia dei piccoli, degli umili, quella di chi subisce vicende molto più grandi senza poterle cambiare. O meglio: la Morante distingue tra la Storia con la maiuscola, riportata di tanto in tanto durante il libro in un corpo più piccolo e che aggiorna brevemente su quanto succede negli anni raccontati: è sostanzialmente una triste cronaca di guerre qua e là nel mondo con tutti i morti che si portano dietro. E poi c’è la storia, la vicenda narrata dal libro, quella delle gente comune che viene appena lambita dalle vicende politiche che sono troppo al di sopra di loro se non per i danni che la Storia con la maiuscola provoca.
Ecco quindi che la vicenda è quello di una madre, oscura insegnante elementare di origine ebrea, Ida, rimasta vedova con un figlio, Nino, bulletto di periferia, e che a causa della violenza subita da parte di un soldato tedesco rimane incinta di un secondo figlio, Giuseppe, di fatto sempre chiamato Useppe con la sua stessa pronuncia infantile e fatto nascere con l’aiuto di una levatrice ebrea nel ghetto. Non sono molti altri i personaggi che ruotano attorno a questa famiglia. Il principale è sicuramente Davide Segre, di famiglia borghese scappato fortunosamente alla fucilazione in quanto evreo: un altro emblema di figura umile e debole che esprime compiutamente il pensiero della Morante, ne è il primo portavoce all’interno del libro.
Ida è premurosa e protettiva verso i figli, attenta ai bisogni primari, così difficili da soddisfare in tempo di guerra, fa di tutto per riuscire a sfamare i figli anche quando la fame è stata sofferta da tutti o quasi in Italia, soffre in silenzio per la paura per se stessa e la sua famiglia e per quel che vede succedere intorno. Così come soffrirà per le scelte del figlio maggiore.
Nino lascia presto la scuola, è un ragazzo sempre allegro e decisamente scapestrato che passa dalle fila dei giovani fascisti a quelle della resistenza (con lo pseudonimo di Assodicuori) per dedicarsi poi ad attività illecite come il contrabbando.
Useppe è un bambino che rimane nel cuore: piccolo e delicato, due enormi occhi azzurri in un corpicino che fatica a crescere. L’epilessia di cui è affetto, che si manifesta dopo i primissimi anni, all’epoca fa paura, il suo sorriso aperto e cordiale è sempre pronto a cedere il passo ad una rabbia inspiegabile. Useppe è uno dei più bei bambini mai raccontati nella letteratura.
Poi ci sono gli animali: i cani, prima Blitz, rimasto sotto le macerie della casa di famiglia e poi Bella che diviene amica indivisibile di Useppe e che è umanizzata all’estremo. Ma il racconto è popolato di animali descritti tutti con attenzione: gatti, canarini, cicale, un coniglio e persino un criceto, tutti funzionali alla storia.
Ida, Nino e Useppe (aggiungerei anche il cane Bella, che seguirà il destino della famiglia), Davide, sono personaggi splendidi che rappresentano l’umanità intera e portano il peso del male che pure non hanno commesso. Ida ha vissuto la fame, la paura, l’essere sfollata, la povertà estrema, il dolore. Useppe apparentemente ha vissuto tutto come un gioco, ma porta su di sé le cicatrici degli abbandoni e di ciò che ha solo intravisto sulle copertine dei giornali in edicola.
Arrivati alla fine della guerra e alla liberazione la storia apparentemente si ferma, quasi a voler riannodare tutti i fili del racconto attraverso, soprattutto, il lunghissimo soliloquio di Davide Segre, che mai come in questa parte rende il libro una dichiarazione di pensiero sul potere ed i suoi mali, sul dolore, sugli errori del mondo. Qualcuno potrebbe ritenere questa parte troppo lunga: io l’ho trovata splendida per il dolore e la rabbia che riesce ad esprimere e che lascia nel lettore.
Una piccola storia, in fondo, ma che è stata la storia di tutti. E’ un libro sul dolore dell’uomo che vuole parlare a tutti, anche agli analfabeti, come recita l’incipit della Morante. E la scelta stilistica è molto precisa. La Morante ha un passo narrativo da grande romanziera: non c’è fretta nel racconto, c’è respiro, c’è l’andamento di chi sa come raccontare.
La Storia è un libro che non si dimentica, che arriva all’anima illuminandola e che andrebbe letto almeno una volta nella vita. E’ un romanzo immortale, ed Elsa Morante una scrittrice grandissima che non ringrazieremo mai abbastanza per averci regalato questo meraviglioso interrogativo con la risposta al suo interno alla storia dei grandi che è il suo romanzo. E’ un saggio in forma di romanzo, perché i personaggi si muovono nell’unico modo possibile, quello che risponde al pensiero dell’autrice, come molti grandi romanzi di scrittori con forte personalità e convinzioni.
Chi non lo ha ancora fatto legga La Storia: regalatevi almeno una volta nella vita tanta bellezza.
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Il frustino
Vipera è una prostituta, bellissima. La più bella di Napoli. E un pomeriggio viene trovata uccisa nel suo letto nel bordello dove presta i suoi servizi. Il caso è particolarmente complesso, perché fin da subito è evidente che tanti sono i possibili colpevoli e tanti sono i moventi, così come nello stesso tempo tante sono le persone che le volevano bene. In contemporanea al caso si evolve la storia del protagonista, il commissario Ricciardi, che in questo episodio vede dapprima allontanarsi per poi riavvicinarsi la donna del nord, così tanto di lui innamorata, Livia. D’altra parte Ricciardi ha una ferita insanabile dell’anima, perché ha il dono di sentirsi arrivare addosso il mormorio dei morti e la consapevolezza del loro dolore e questo dono è per lui una condanna, perché lo porta a chiudersi, alla vita e all’amore. Ed anche la delicatezza di Enrica, che rappresenta il fascino di una normalità da cui si sente escluso, non riesce a sfondare la sua corazza di difesa. Oltre alle dinamiche della trama, come sempre è la penna di questo autore a lasciare il segno, con i suoi tratti gentili, delicati, rispettosi, incisivi. Il capitolo della notte di primavera è pura poesia narrativa, perché senza fare nessun nome di nessun personaggio, ci tratteggia ogni loro pensiero. Ed il capitolo delle pastiere è narrativamente meraviglioso, perché tutto concatenato, tutto collegato. Caratteristiche stilistiche che mi colpiscono sempre e che trovo eccellenti.
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Una pioggia purificatrice.
E' il tredicesimo episodio della fortunata serie di Maurizio de Giovanni dedicata ai Bastardi di Pizzofalcone: una serie iniziata nel 2012 , che narra le avventure (e le disavventure) di un gruppo di poliziotti, i Bastardi appunto, ognuno con il suo lato oscuro, confinati in un periferico commissariato napoletano situato su una collina un tempo zona di caccia al falcone . Sono un'accozzaglia di strani personaggi, guidati da Luigi Palma, sostituto del commissario in pensione: donne e uomini, ognuno con un suo passato più o meno turbolento, pregi e difetti compresi. Il caso di cui devono occuparsi è quello di un notissimo avvocato in pensione, trovato strangolato nella sua palazzina e poi pestato con furia a calci: nulla è fuori posto, nulla è stato rubato. L'importanza del morto fa sì che si muovano subito le alte sfere: l'ordine è di passare il caso ad altri in mancanza di una rapida soluzione. Due giorni: i Bastardi si impegneranno allo spasimo, anche per dimostrare di essere una delle migliori squadre investigative della città. Le indagini iniziano a tappeto: si indaga sulla nipote dell'avvocato, che ne ha rilevato lo studio, si interroga il figlio, che ha sempre odiato il padre, ostile ad una sua relazione omosessuale con un importante politico. Passano sotto il setaccio la badante e la portinaia, è prezioso l'aiuto del vecchio commissario in pensione, che sa tanto e ne ha viste di tutti colori, e che alla fine saprà indirizzare i colleghi verso una possibile soluzione del caso. Soluzione che naturalmente arriverà nei tempi prestabiliti, mettendo insieme tutti gli indizi raccolti. Una soluzione del tutto inaspettata, che, come in tutti i gialli che si rispettino, arriverà come un autentico colpo di scena.
Il giallo intriga parecchio, non solo per l'indagine di base, ma anche per le storie private dei Bastardi, i poliziotti del gruppo investigativo. Sono personaggi ben caratterizzati, ognuno con le sue peculiarità: hanno tutti, più o meno, qualcosa da nascondere, un passato di luci e ombre, tutti con una gran voglia di riscattarsi e di dare un contributo vincente alla soluzione del caso. Essenziale l'aiuto del vecchio commissario in pensione: uno che li sa apprezzare e che, addirittura ospita uno di loro, l'agente scelto Marco Aragona, detto Serpico, un tipo originale, stravagante, che, dall'abbigliamento bizzarro ai comportamenti inusuali, riassume in sè la strana tipologia del team investigativo.
Team per altro vincente, una squadra tra le migliori, niente affatto preoccupata dalla pessima influenza del clima, costante per tutta la vicenda: una pioggia continua, incessante, fastidiosa, che l'autore rammenta continuamente, e che fa da sfondo allo svolgersi delle indagini. Una pioggia che inzuppa i vestiti e gli animi e che, alla fine, diventa uno straordinario personaggio, che riesce a condizionare movimenti e decisioni. Una pioggia, scrive l'autore, che "... non smetterà mai, e non importa. Sarà meglio, anzi, così questa maledetta città si laverà, alla fine".
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Relazione conflittuale
…” Ho cercato, meglio che ho potuto, di vivere la mia vita in maniera onorevole”...
I personaggi di Liz Moore rimandano una forte presenza, individui aggrappati a una vita frammentata, disattesa, ingrata, anche perduta, rimpianta, comunque vissuta.
Anime sospese, ambivalenti, assenti, vicende personali in una quotidianità interrotta, in questo romanzo tracce di un rapporto smarrito e il desiderio profondo di recuperarlo e riscriverlo.
Se in “ Il peso “ la solitudine si fa condivisione a distanza, in “ I cieli di Philadelphia” attraversiamo una dimensione famigliare ristretta, la relazione fraterna tra la protagonista, Mickie, poliziotta coscienziosa, studentessa modello, madre attenta, sorella ideale e Kacey, la sua nemesi, avvolta e dissolta da droga e prostituzione.
Entrambe, con esiti diversi ma non così lontane, sopravvissute all’ assenza di una famiglia in cui crescere, una madre di cui conservare sbiaditi ricordi, un padre creduto morto, una nonna materna ( Gee ) che avrebbe dovuto accudirle tramortita da un passato di morte sfociato in un presente disilluso.
E allora Mickie, da sorella maggiore, si sente responsabilizzata, vuole e deve occuparsi di Kacey nonostante la reciproca incompatibilità , due vite separate, interrotte, lontane, la preoccupazione che qualcosa di terribile possa essere accaduto a quella sorella ingrata e testarda di cui da un mese si sono perse le tracce, che vive per strada, dove lei lavora.
La trama, circoscritta al quartiere di Kensington, Philadelphia, solcato da due arterie principali con una ferrovia sopraelevata che lo sovrasta
…” come un millepiedi gigantesco e minaccioso”…
un luogo dove molte vetrine delle attività commerciali sono sbarrate e dove la periferia sta risorgendo, è un condensato di descrizioni crude e particolareggiate in un microcosmo diviso tra droga
… “ metà delle persone sui marciapiedi pare sciogliersi lentamente a terra “…
e sesso
…” è lo sguardo che le smaschera, il lungo sguardo duro al conducente di qualsiasi macchina di passaggio”….
inserito in una struttura da poliziesco, sulle tracce di un assassino di giovani donne.
Pubblico e privato alimentano passato e presente nella voce di Mickie, sola, fragile, che parla di se’ e del dolore che la attraversa, del proprio spirito di rivalsa, dei desideri, di madre, di sorella, di figlia, di nipote, di donna.
Un viaggio all’ interno di una trama da delineare in un reale asciutto, un microcosmo di potere, droga, sesso, corruzione, denaro, di indizi raccolti sulle strade per ritornare a una dimensione famigliare che possa restituire e riscattare il passato e a un senso personale e sentimentale che valga.
Su Mickie grava il peso della morte dei propri genitori, della povertà, di una memoria da conservare e trasmettere al figlio ( Thomas), un peso ingravescente, che pare impossibile abbandonare, giorni crudelmente esposti a presenze sospette nella evidente difficoltà di addentrarsi in un universo maschile univoco e deludente.
Mickie ripercorre se stessa fedele a un personale senso di giustizia e di correttezza, domandandosi dove l’ hanno condotta certi comportamenti, incespicando nei pensieri altrui, spesso indecifrabili, fidandosi di chi conosce da sempre, dubitando di chi credeva fidato, scoperchiando le proprie debolezze, gli errori commessi, il reale è camaleontico, dissociato, nascosto.
La verità insegue una pacificazione definente, un nuovo inizio, il ritorno al passato per capire il presente, una prospettiva di chiarezza definitiva, nel frattempo
…” sopra di noi un tetto catramato, inadatto si rigori dell’ inverno e, oltre, il cielo notturno di Philadelphia. E oltre il cielo, chissà’.
“ I cieli di Philadelphia” conferma la bontà della scrittura di Liz Moore, la propria camaleontica capacità descrittiva che da’ voce a un reale definito con poche pennellate asciutte, concisi dialoghi sferzanti, il dono di una semplicità che restituisce il timbro di un’ umanità spogliata e disadorna ma copiosamente vestita della propria intima essenza.
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Sparisci non rende l'idea
Il mio rapporto con le narrazioni di Bachman non è partito con il piede giusto, e conservo ancora un ricordo svilente de "La lunga marcia"; le cose sono però migliorate con "L'uomo in fuga", specialmente per la scelta di porre l'attenzione soltanto sui personaggi adulti. Con un'incerta aspettativa sono quindi approdata a "L'occhio del male", forse il titolo bachmaniano sul quale riponevo maggiori speranze. Speranze assai ben riposte dal momento che tra i tre è il titolo più marcatamente kinghiano, ed anche per questo il mio preferito.
Alla base del romanzo c'è una vicenda di sopravvivenza in condizioni anomale, che lo accomuna appunto a molte opere del caro Stephen. L'avvocato William "BIlly" J. Halleck conduce una vita all'insegna dell'agiatezza nella borghese Fairview, cittadina immaginaria nel Connecticut, fino a quando causa la morte di una zingara mentre è alla guida dell'automobile. Per merito delle sue conoscenze BIlly riesce ad evitare una condanna per omicidio colposo, ma non la maledizione che Taduz Lemke -il terrificante padre della donna- sembra avergli lanciato ed a causa della quale diventa sempre più magro.
Lo spunto potrebbe sembrare un po' infantile, ma vi garantisco che getta le basi per una storia ricca di tensione ed angoscia, nonostante l'elemento horror sia più psicologico che visivo. In generale, non si tratta di una lettura in cui la violenza è descritta in modo troppo grafico, con sovrabbondanza di dettagli (come invece capita in altri libri di Bachman); questo non esclude però diversi aspetti triggeranti, soprattutto nelle scene in cui si fa riferimento a malattie mortali.
Per questa ragione, ammetto non si tratti di un romanzo adatto a tutti. Eppure io l'ho davvero apprezzato, anche più di quanto le prime pagine lasciassero presagire: più ci si addentra nella narrazione, più si può gustare il gioco di parallelismi creato da King, in cui vengono posti a confronto razionalità e superstizione, vita cittadina e vita nomade, giustizia e vendetta. Il protagonista diventa il perno su cui ruotano queste contraddizioni, ed infatti si dimostra un personaggio dalla psiche davvero interessante da conoscere pian piano; Billy pensa di essere nel giusto, e perfino quando si trova materialmente colpito per le sue colpe è pronto a riversare i problemi sugli altri, senza particolare preoccupazione delle conseguenze a lungo termine.
Accanto ad un protagonista caratterialmente mastodontico, gli altri personaggi rischiano di sparire (perdonate il gioco di parole!), ma non in questo caso. L'autore ha saputo infatti dipingere un cast di comprimari detestabili ma non macchiettistici, che formano un contorno di certo non amabile però sicuramente adatto alle sventure di Billy.
A discapito del mio apprezzamento, per tutta la lettura ho avuto però l'impressione che qualcosa non andasse e alla fine ho capito: la trama è prevedibile. L'intera storia è priva di colpi di scena e guizzi narrativi che la rendano intrigante, e -a dispetto della sua componente thriller- non c'è un solo avvenimento che il lettore non riesca ad indovinare dopo aver letto qualche capitolo per avere un quadro di partenza sull'indole dei personaggi e la premessa di base. Un difetto che comunque non influenza più di tanto la lettura, anche perché a risollevarlo c'è comunque un finale piacevolmente angosciante.
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- no

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Romanzo storico o Romanzo Rosa?
“Il Cavaliere D’inverno” è un romanzo che vorrebbe tracciare la sua linea narrativa su di un filone storico drammatico come quello della Seconda Guerra Mondiale. Non è facile ed un attento storico potrebbe trovare più di qualche negligenza da parte della scrittrice, ma partiamo con il dire che questo romanzo nasce prettamente come narrazione romantica/rosa/erotica, tutto il contorno è costruito per dar maggiore corpo alla storia che, diversamente, sarebbe scontata e forse la solita “minestra”. Paullina Simons, utilizza un linguaggio semplice e lineare e lascia incollato il lettore tra le pagine di questa travolgente avventura.
Tutto comincia a Leningrado (oggi San Pietroburgo), allo scoppiare della Seconda Guerra Mondiale. Una ragazza di nome Tatiana con sua sorella Dasha vivono la loro giovinezza e spensieratezza condividendo ogni cosa, racconti, segreti e desideri. Dasha è una sognatrice che idealizza ogni uomo come suo principe azzurro, quindi ogni nuovo incontro viene raccontato alla sorella del cuore, Tatiana. Così dopo un primo incontro fugace con la protagonista di questa storia, questo giovane alto, biondo e bello di nome Alexander, incontra anche Dasha e, stringe con lei una frequentazione iniziale. Al momento della presentazione ufficiale in famiglia, Tatiana riconosce quel bel ragazzo e apprende non solo il suo nome Alexander, ma anche quanto sua sorella si fosse davvero invaghita di lui. E’ il 1941 e alla radio esplode come una bomba la notizia che la Russia è stata invasa dai tedeschi e che la guerra è quindi una realtà anche alle porte di San Pietroburgo. Inizia la grande depressione, complicata da un inverno rigido che tramuterà le strade della città in camposanti a cielo aperto, dove la fame sarà lo spettro maggiore di questa guerra e dove i bambini in fasce saranno il cibo della povera gente..
Fenomeni come il cannibalismo, le morti per gelo e stenti, le perdite sui campi di battaglia, la guerra tra la stessa popolazione che ruba le tessere annonarie, tutto questo sposta la storia in una tragedia dopo l’altra, l’amore che cerca di sopravvivere alla sofferenza. Tatiana dovrà attraversare diversi paesi ed affrontare molte avversità per scappare dal nemico e dalla fame che la sta spegnendo, tutto questo per ritrovare la serenità nella figura del suo amato Alexander legato alla sorella Dasha e dal loro strano destino.
Paullina Simons avrebbe potuto concludere questo romanzo con questo primo capitolo, ma non contenta, gli ha dedicato una trilogia che (a mio parere) non è paragonabile alla prima narrazione. Leggere questo libro, significa per un momento, dimenticarsi di dove si è, del tempo che stiamo vivendo noi e di quanto confort e benessere abbiamo a portata di click. Questo testo vi riporta ad un’epoca che sembra impossibile credere sia davvero esistita. Se ami le storie d’amore senza tempo e che non temono ostacoli, questa lettura è quella che ti ci vuole. Si consiglia di intraprendere questo viaggio, quando si cercano molte risposte a diverse domande.
Minore
La vetta narrativa di Stainbeck è Furore. Poi un gradino sotto cè La Valle dell'Eden.
A questi due capolavori l'autore crea una serie di romanzi "minori", anche in lunghezza che a mio parere non riescono a replicare la grandezza delle due opere sopracitate.
Questo libro, l'ultimo del premio Nobel, parte in maniera molto incisiva, ma piano piano si spegne e diventa un mattone non facile da portare avanti.
La storia è quella di un commesso di norcineria, che frustrato da un occupazione che odia e da una famiglia che pretende sempre di più decide di farsi carnefice ed adeguarsi alla logica malata della società capitalista e borghese che ha nel successo e nell'accumulo di oggetti e ricchezze il fine ultimo per dare un senso all'esistenza.
Purtroppo la narrazione è molto incerta, procede a tentoni, salti temporali, personaggi che arrivano e in un attimo spariscono, situazioni che si alternano, spesso senza un filo logico, fra di loro.
La figura della moglie, dipinta come una bellissima e sensuale compagna, che sembra adorare il protagonista ma che in verità, aspira al meglio, a comprare vestiti migliori per i propri figli a volere andare in vacanza a non volersi preoccupare per il futuro economico.
Manca l'introspezione psicologia dei personaggi, come invece avveniva in maniera grandiosa in Furore.
Le vicende sono piatte, sembra che le cose accadano così come trasportate dalle acque del fiume su percorsi tracciati.
C'è il gretto capoccia italiano, ignorante e rozzo, che vuol far ritorno in Europa.
C'è il disgraziato alcolizzato che affoga il proprio odio e rancore in bottiglie da quattro soldi.
C'è un affarista, idiota, che pensa di avere l'idea che gli farà fare soldi a coprirci la distanza da qui a Giove e con la quale spilla denaro a malcapitati e ignoranti investitori.
E poi c'è lui, la vittima del sistema, il borghese decaduto, che da padrone è diventato schiavo, che non riesce a vedere la miseria umana che ha intorno, si fa travolgere dalla grettezza e dalla ignavia di questo microcosmo di una squallida e dimentica cittadina statunitense sperduta chissà dove, una periferia del mondo dove si cova rancore, sopraffazione e miseria sociale.
Il malcontento cresce nell'anima, prolifera, mette radici e piano piano si fa tangibile, reale, supera le reticenze morali, abbatte le certezze che si sono create in una vita e quando dilaga diviene disperazione e poi azione.
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Un delitto risolto dopo cinquant'anni.
Un grave fatto di sangue turba la vita palermitana: siamo nel 1977, il direttore di un ufficio postale periferico viene trovato ucciso nel suo ufficio, pugnalato da mano ignota. La cassaforte viene trovata aperta, mancano dieci milioni. Tutto il resto è in ordine, non ci sono segni di colluttazione, nessuno ha sentito grida o rumori sospetti. Si indaga sul caso, il morto risulta essere il marito della figlia di un notissimo boss mafioso, nulla viene alla luce, e, poco a poco, il caso viene archiviato nella sezione Ufficio Delitti Irrisolti. Passano gli anni e alla Mobile di Palermo arriva Giulia Vella, una giovane poliziotta milanese, figlia del questore di Milano, mandata dal padre in Sicilia per farsi le ossa. La ragazza, adottata e sempre desiderosa di conoscere la vera madre, non se la passa bene: i superiori la snobbano, non le danno fiducia, pur essendo un'abile profiler, finché decidono di affidarle un caso irrisolto, per accontentarla ma, soprattutto, per non trovarsela sempre tra i piedi. Guarda caso, proprio il delitto riguardante il genero del boss, irrisolto da anni. Giulia non si perde d'animo, studia i vecchi fascicoli, conosce un anziano commissario in pensione che le fornisce saggi suggerimenti, trova la collaborazione di una giovanissima collega e di un poliziotto esperto e affascinante del quale alla fin fine s'innamora. Ma conosce soprattutto Palermo, città dalle mille contraddizioni, antica e moderna, bella e sfacciata, dove un'umanità calda e passionale vive e s'agita apparentemente lontana da ogni regola. E' una scoperta per Giulia, abituata al tran tran di una metropoli del nord, una scoperta che la turba e poi lentamente la conquista e le fa scoprire, nel prosieguo delle indagini, la parte più profonda e segreta di sé stessa.
Giulia indaga, e, casualmente, viene a contatto con il mondo dei "garrusi", un termine siciliano che indica gli omosessuali: un'umanità che, contrariamente alle apparenze, rivela sofferenze, vite travagliate, soprusi, tentativi di riscatto. Ed è proprio in questi ambienti che Giulia, l'agente venuto dalla metropoli milanese, trova il bandolo della matassa per risolvere il caso e trovare l'assassino. Le pagine conclusive del giallo mettono in luce i tormenti interiori di Giulia, le sue perplessità e la sua sofferta decisione. La figlia del questore di Milano ha acquisito durante le vicende della complicata indagine una nuova maturità che ha messo a nudo la consapevolezza delle proprie capacità a contatto con un mondo prima sconosciuto, pieno di sorprese, refrattario ad ogni etichetta. E la sua decisione finale sarà sorprendente ma ben ponderata.
Il racconto è ben costruito, lo stile è essenziale, rigoroso, anche se basato su una trama piuttosto esile: l'autrice, come in altri romanzi, dà il meglio di sé quando mette in scena la sua Palermo, una città affascinante che sa conquistare ogni visitatore, una città antica e moderna, densa di colori e di profumi. Una città nella quale ogni trama narrativa assume una sua particolare connotazione, come se traesse da un'atmosfera unica e irripetibile
improvvisi colpi di scena. Del resto, già più di un secolo fa Edmondo De Amicis ebbe a scrivere dopo un soggiorno in città: "... un formicolio che vi confonde la vista, uno strepitio che introna la testa, una varietà di veicoli, di carichi, di aspetti umani, di gesti e di voci, un contrasto di allegrezza e di furia, di fatica e di spasso, di lusso e di povertà, quale in nessun'altra città del mondo credo si possa vedere".
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Qualcosa che ci resta
Libro molto bello e di grande interesse. Quanto autobiografismo Flaubert ci ha messo!
Un romanzo di lunga gestazione. Ambientato specialmente a Parigi, l'autore vi rappresenta un quadro eloquente di ansie e fervori che, al tempo dei fatti narrati, agitavano gli animi di molti giovani. Egli stesso fu testimone della rivoluzione del '48 che portò alla repubblica e, nel '51, del colpo di Stato reazionario.
E' l'esperienza dello scrittore stesso a ispirare l'elaborazione del personaggio protagonista, Federico.
E sotto le apparenze della bellissima figura femminile di Madame Arnoux si celerebbe Mme Shelvinger, di cui Flaubert adolescente s'innamorò di un amore impossibile. L'affascinante signora sembra proprio l'opposto di Madame Bovary.
Fin dal primo incontro sul battello, Madame Arnoux lascia il segno. "Fu come un'apparizione. (...) Portava un largo cappello, con nastri rosa che palpitavano al vento (...), la persona tutta si delineava sul fondo azzurro dell'aria".
In lei l'autore pare riversare tutte le virtù e il fascino femminili.
Romanzo della disillusione, si dice
Alla prima parte in cui aleggia lo spirito del Romanticismo, segue una seconda che preannuncia il Naturalismo francese.
W. Cahter, in "La nipote di Flaubert", a proposito di questo romanzo, scrive che dopo la lettura "si avverte qualcosa che 'ci resta' , allo stesso modo in cui dopo certe malattie ci resta una debolezza di cuore" .
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classici della letteratura
Tu da che parte stai?
Avvincente romanzo storico ambientato intorno al 1450 in un Inghilterra in cui la morte del Re Enrico V il “leone d’Inghilterra” genera una lotta intestina per la corona. A succedergli è il figlio, Enrico VI, un uomo malato e senza ambizioni, debole e schiavo di una religione che lo ottenebra. Intorno a lui squali.
Intrighi di corte, congiure ,rivolte sanguinose e lotte per il potere generano morte, dolore e guerre.
Storia vera.
La storia medievale dell'Inghilterra raccontata in modo magistrale da un Conn Iggulden davvero ispirato
Personaggi memorabili, ben tratteggiati e caratterizzati. Veri. Palpabili.
I miei preferiti sono 3:
1) Thomas Woodchurch. Lo troviamo a difendere la fattoria nei territori Francesi che sono stati ceduti (restituiti) per la pace, ha militato nell’esercito inglese come arciere, è duro, lavoratore instancabile, forte, soldato esperto ma anche padre e non ha nessuna intenzione di rendere le cose più facili all’esercito francese.
2) Jack Cade. Rude e grezzo, bevitore ed attaccabrighe. Forte ed instancabile, ostinato e risoluto, ma sempre schiacciato dai "Lord" e dai potenti (per certi tratti mi ha ricordato mio nonno paterno), fino all'ultima disgrazia: la condanna a morte del figlio... Inizierà una rivolta, e riuscirà a raccogliere intorno a sè migliaia di inglesi oppressi.
3) Derry Brewer, capo delle spie, un personaggio complesso, fedele al suo re e alla sua patria, fedele ai suoi amici, fatale per i suoi nemici.
Ricostruzione storica non molto accurata ma credibile, romanzata sapientemente per creare un racconto godibile.
Le pagine si divorano velocemente lasciandoci immediatamente la voglia di cominciare il seguito (si Iggulden è diventato un gran furbone in questo...).
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Il volo dell'aquila.
Il popolo d'argento.
La città bianca.
Il signore delle pianure.
Le porte di Roma.
Il soldato di Roma.
Cesare, padrone di Roma.
La caduta dell'aquila.
Il sangue degli dei.

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Portare i film mentali ad un livello superiore
Ogni anno Feltrinelli propone una selezione di best seller da acquistare in coppia a poco prezzo e ogni anno io cado puntualmente nella loro trap... offerta. Questa volta avevo un solo obiettivo chiaro: recuperare il seguito de "Il Club dei delitti dei giovedì" di Osman, che ho molto apprezzato alcuni mesi fa; il dubbio era quindi a quale titolo l'avrei abbinato. Dopo un'analisi minuziosa di copertine, sinossi ed estratti vari, la scelta è ricaduta su "Mio marito", esordio di Ventura dal taglio stilistico decisamente originale.
La narrazione è infatti affidata ad una donna di cui non viene rivelato il nome, ma sappiamo per certo che è sulla quarantina, francese, bionda tinta, docente di inglese in un liceo, traduttrice part-time, appassionata di shopping e madre (discutibile) di due bambini. Tutti questi sono però dettagli di secondaria importanza, perché lei si identifica innanzitutto nel ruolo di moglie, e attraverso il suo punto di vista ci racconta una settimana della sua vita quotidiana e della sua costante ossessione per il marito, parimenti sprovvisto di nome.
Se vi sembra una sinossi un po' scarna, avete avuto l'impressione giusta: questo romanzo pecca proprio di un intreccio in senso convenzionale, perché nonostante gli eventi seguano una loro comprensibile consequenzialità, manca un obiettivo da raggiungere o un punto da evidenziare dal momento che la protagonista non ha alcuno scopo a parte quello di salvaguardare il suo matrimonio, e la prospettiva distorta da cui guarda la realtà non cambia nel corso del volume. In questo senso ho percepito in parte la mancanza di una trama canonica, seppur la prosa non mi abbia mai dato tempo e modo di annoiarmi per questa ragione.
Un altro elemento che potrebbe far storcere il naso a parecchi lettori è la scarsa caratterizzazione dei comprimari, perché mentre della protagonista conosciamo passato, pensieri e motivazione, sui personaggi che le ruotano attorno non viene fornito alcun approfondimento. Questo difetto ha però ragion d'essere vista la prospettiva limitata del POV scelto, che dà poco credito alle affermazioni dei caratteri secondari, e di certo non si sofferma a sviscerare i loro ragionamenti più di tanto.
Passando ad analizzare quelli che reputo i pregi del volume, al primo posto devo per forza indicare l'originalità della prosa e della voce narrante, proprio quella che in un primo momento sembra tanto sensibile e sensata, per poi rivelare tutte le contraddizioni e le insicurezze di una persona disturbata. Questo libro in pratica riassume tutto ciò che non apprezzo nel genere romance: mancanza di dialogo nella coppia, una lei continuamente in competizione con le altre donne ed un lui incapace di adeguarsi alle richieste altrui. Per fortuna l'opera prima di Ventura non è una storia d'amore, anzi rappresenta l'antitesi delle relazioni sentimentali (ma direi anche umane) sane.
L'inusuale protagonista non è il solo punto di forza del romanzo, che può vantare anche un'atmosfera capace d'ispirare angoscia in modo sottile ma sempre maggiore, diventando così una sorta di thriller psicologico anticonvenzionale, sulla scia delle storie di Yoshida Sh?ichi. Un altro grande merito della cara Maud è stato per me il finale, che riesce in poche pagine a dare una sua solidità ad una narrazione fino a quel momento frammentaria, oltre a stupire il lettore senza per questo dover ricorrere a colpi di scena campati per aria. Per chi vuole rimanere a bocca aperta, ma non sentirsi preso in giro dall'autore.
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Amore di mamma
Questo è un romanzo atroce e crudele, una storia amara e infelice, uno scritto terribile, oscuro e contorto. Per molti versi ricorda quel libro altrettanto disumano, sofferto, ferino che narra una triplice orripilante realtà, appunto “La trilogia della città di K.”, di Agota Kristoff.
Ambedue sono romanzi feroci, quanto di malevolo e iniquo risalta dalle loro storie è accentuato dal fatto che in ambedue i casi le vittime protagoniste sono anime innocenti, donne struggenti, pratiche oltre che accorate, e bambini dolcissimi, teneri ed affettuosi oltre ogni dire.
Più precisamente, mamme nobili, sollecite, attente senza parere, dedite ad ogni rinuncia, patema e sacrificio per le loro creature; e figlioli delicati, sensibili, intelligenti, perciò più fragili perché già in grado di recepire appieno, ad onta dei pochi anni di vita, la crudeltà disumana che li scalfisce già all’alba della loro esistenza. “Genie la matta” non ha nulla a che fare con disturbi della mente e case di reclusione per pazienti problematici, è solo una etichetta di comodo, una delle tante affibbiate da sempre alla stridente contraddizione tra il bene ed il male, applicato con protervia al dualismo uomo donna, dominatore e dominata, che si avvera in scala diversa e differente intensità in ogni tempo ed in ogni luogo.
La protagonista, la giovane Eugenia detta Genie, è perfettamente sana di mente, ma è da tutto il suo paese definita pazza, esclusivamente perché è una ragazza madre, che tale intende rimanere.
Vittima di una violenza, non vuole sancire un matrimonio riparatore impostole, viene lasciata da sola a gestire l’ingiustizia patita, e pur additata al pubblico disprezzo, senza indugio si rimbocca le maniche, lavora come e più di un animale da soma per provvedere ai bisogni di Marie, la sua creatura.
Genie è ruvida, rigida, lapidaria, ma la sua è solo una difesa, Eugenie lo ripete spesso, dalla vita non ha avuto niente, e semmai, quello che ha ricevuto è solo cattiveria putrida e riprovevole.
Genie è fredda, distante, distaccata anche fisicamente dalla sua bambina che inutilmente la segue stentando la sua corsetta di gambetta svelta sui passi frettolosi della mamma indaffarata, ma il suo agire è solo una preghiera, in verità uno scongiuro, perché la figlia non abbia a ripetere la sua grama esistenza. Genie è scostante, indifferente, lontana, soprattutto perché è una donna che vive in tempi in cui le donne non hanno difesa, le sue sono epoche e luoghi in cui il suo essere donna è vox populi di per sé una evidenza di colpevolezza, una scheda di inferiorità, un cartellino di doveroso assoggettamento alla prepotenza maschile, se non un vero e proprio marchio di proprietà privata.
Genie è pazza, per i suoi simili, in particolare, per amaro paradosso, per le altre donne, perché è una ragazza che non ha saputo salvaguardarsi e difendere la propria integrità morale intrinseca a quella fisica. I più maligni, che coincidono con le più cattive, dicono seraficamente che non ha voluto sottrarsi ad una attenzione non desiderata, così in sintesi è detto lo stupro, neanche ha voluto in qualche modo “ripararla” o “giustificarla agli occhi degli immancabili ipocriti pseudo benpensanti come la logica corrente imporrebbe; allora è una sciagurata ed una svergognata, vale meno di niente.
Tutta la storia si snoda, precisa ed esauriente, in un romanzo breve, a capitoli struggenti, affilati ed efficaci. Non è una scrittura sanguinosa, nessuna prosa luttuosa o raccapricciante, tutt’altro, Ines Cagnati ha uno stile incisivo, scolpisce in poche parole la pietra di un animo inaridito, che è sola una corazza con molte crepe, ha un corsivo conciso, asciutto ma non tetro, il racconto è potente, descrittivo in pochi tratti, esaustivo ed esauriente. Quello che il lettore in particolare recepisce forte e chiaro è l’atmosfera arcigna, l’aura predace di ingiustizia perenne sospesa sulle due protagoniste principali, madre e figlia, Genie e la sua piccola Marie, dapprima bambina, poi ragazza, poi giovanissima e già provata, infine adulta, che è la sola voce narrante del testo, una voce che anela amore e attenzione ad ogni rigo. Genie possiede uno straordinario cuore di mamma, ma il suo vissuto non è né dolce nè amorevole, la sua è storia spacca cuore, come in mille frammenti aguzzi è stato frantumato il suo: in sintesi è un racconto commovente, c’è tutto il mondo d’amore di una mamma per la sua creatura, ma non ti fa venire gli occhi lucidi, semmai suscita rabbia, perché è tutta una corsa a rincorrere il bene, la giustizia, il voler rimettere a posto tutti i cocci, la trama è ingiusta, l’epilogo straziante, i veri colpevoli restano impuniti, è un testo crudele come sa esserlo la vita per alcuni, i puri di cuore in particolare. Non molte pagine in questo libro, che però raccoglie tutto: cuore e batticuore, confusione e disorientamento, dolori e inquietudini. E poi ansia, angoscia, scandalo, ma su tutto ingiustizia, con tutto un corollario di abusi, arbitri, prepotenze, storture, il male fatto di persone, finanche quelle a te più vicine. Quante parole servono per scrivere di simili dolori? Nessuna, basta il silenzio. Questo non è romanzo di sole parole, in questo Ines Cagnati è immensa, magistrale.
Non è un testo di dialoghi, ma uno scritto di silenzio, ma un silenzio che dice, che racconta, che esplica, che sottolinea, più di mille parole. Il lettore ne esce, ne usciamo, annichiliti. Sconcertati e impietriti. Perché vedete, un cuore di mamma riscalda, ma quello di una matrigna raggela.
Un’esistenza di angherie è una matrigna, una megera fuori di testa, una pazza, una arpia, lei sì, matta.
Da legare.
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Intrigo psicanalitico
Una donna ( Reiko ) frigida che non riesce più ad ascoltare la musica, uno psicanalista ( Shiomi Kazunori ) imbevuto della propria scienza che da subito dubita di lei, coinvolto in un viaggio professionale e personale, un terreno torbido e melmoso di omissioni e bugie, un mistero irrisolto in cui rischiare l’ umiliazione.
Cosa nasconde Reiko oltre la propria isteria, una certa fragilità femminile, un trauma infantile irrisolto, il retaggio di una violenza subita, oppure una bugiarda consapevole, una perfetta ammaliatrice, una creatura affascinante? Difficile dirlo, il mistero si infittisce imboccando strade diverse, moltiplicatori psicologici, mutevoli rappresentazioni dei fatti.
Yukio Mishima analizza significati che vanno oltre la psicanalisi e il proprio mostrarsi, una fragilità emotiva con radici famigliari, intrinseche, traumatiche, sessuali, irrisolte, scavando nell’ animo di una donna che rifiuta il ruolo attribuitole da una società maschile e maschilista da cui si sente violata.
Quale versione di Reiko si mostra, fugge e ritorna, quanti uomini l’ hanno riguardata, il fidanzato perfetto, l’ aspirante suicida, il cugino moribondo, il giovane impotente, il fratello problematico, quale storia di volta in volta crea e rappresenta, fuga da se’ e da quello che gli altri vedono di lei, quale percorso psicoanalitico intraprendere e come considerarlo in una cultura giapponese intrisa di altro?
Il racconto declina in un thriller psicologico dai significati consci ed inconsci, simboli, sogni, traumi, transfert, libere associazioni, un’ immersione nell’ intricata relazione paziente-psicanalista, un microcosmo di teorie e di interpretazioni che cercano di fare chiarezza su un reale sofferto che inevitabilmente ritorna.
Un mistero infittito da strane sembianze, interpretazione personale e immaginaria in una risoluzione complicata e complessa, parti di se’ per fuggire da se’, una donna che non vuole guarire, che non può guarire, che forse non è mai stata malata, che ripropone la stessa storia, storie diverse, che continua a negarsi in un giuoco raffinato e perverso imbevuto di mistero e di sofferenza.
Shiomi finisce con il confondere pubblico e privato, attività professionale e inclinazioni personali, mettendo in discussione se stesso, rendendosi conto che forse
…” un buon psicanalista ha bisogno di una buona cultura letteraria “…
Di certo, all’ interno della poetica di Yukio Mishima il romanzo pone alcuni interrogativi, una definizione di se’ piuttosto nebulosa come la trama stessa. Se la psicanalisi imbratta di se’ lunghi tratti del racconto riscuotendo l’ interesse dell’ autore, se l’ intreccio rivela una certa conoscenza e sensibilità per le sofferenze umane in una dolcezza di contenuti, come inserire la narrazione nella turbolenta biografia e nel pensiero radicale di uno scrittore convinto assertore e difensore della cultura tradizionale giapponese, avverso alla americanizzazione e al modernismo di una società giapponese che ritiene smarrita nella propria identità?
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Inferno dantesco
La scrittura di Jesmyn Ward e’ un tormentato e doloroso cantico delle parole, una lirica del profondo che strappa l’ individuo dalla propria dimensione personale e collettiva per inserirlo in una voce più ampia, sconfinante nel mito, retaggio di un popolo intero, grazie a parole dure e sofferte che possano ricordare.
In “ Il cieco mondo “ la stessa voce poggia su una struttura differente, un viaggio negli inferi, lirico e corporale, che rimanda all’ opera dantesca e al suo linguaggio definente, e i versi del Sommo Poeta risuonano continuamente, aprendo la via.
Una giovane schiava, Annis, diretta a New Orleans per essere venduta al miglior offerente, insegue l’ eco di una madre dissolta e la memoria di una nonna lontana, incrocia ombre e figure difformi, ricorda la dolcezza e le carezze del primo amore, richiama la presenza ondivaga dello spirito di un’ antenata, Aza, che sembra volerla guidare verso una libertà significante.
È un iter doloroso di esposizione alla crudeltà umana, incrociando la morte, in balia di onde e tempeste, nel massacrante lavoro nei campi di cotone, una via di fuga nelle paludi melmose in attesa di rivedere le stelle.
Nella casa del proprio “ Sire “, suo padre, la protagonista aveva ascoltato la lettura dell’ Inferno dantesco dalla voce di un precettore , inondata dalla sofferenza e dal lutto, consapevole, secondo i dettami materni, che
…” in questo mondo la tua arma sei tu”…
Dal letto del fiume e dalle sue profondità provengono antichi gemiti, informazioni e macerie della vita di una madre dispersa nel mondo buio mentre lo spirito cangiante di Aza si veste di tuoni e di fulmini e la pelle di Annis si fa ruvida, collosa, dura, intrisa di ricordi.
Che cosa la lega a questo spirito indomito, di chi si tratta, che cosa rappresenta, può darle, Annis e’ sola, infreddolita, trascinata
…” ne la città dolente ne l’ etterno dolore, tra la perduta gente”…,
può e deve fidarsi di lui, uno sconosciuto di cui la madre non gli ha mai fatto parola?
Il suo è un viaggio in un aldilà ruvido e tenebroso, cosparso di ombre, sconosciuto e irriverente in compagnia di un’assenza che si fa presenza, dimostrando che c’è qualcosa oltre la miseria di questo inferno.
“… lasciate ogni speranza o voi che entrate”…
diceva l’ italiano, Annis l’ ha lasciata.
Aza vorrebbe essere riconosciuta, venerata, amata, essere madre dei propri figli, ma Annis si ritrova senza le persone cui appartiene, completamente sola, fluttuante, con
…”la vita su un fianco e la morte su un altro”….
in attesa di rivedere le stelle.
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Tra labirinti, ricerca dell'infinito e divinità
Borges non è mai e mai sarà un autore di facile fruizione, eppure il mistero e l’erudizione che traspare dai suoi libri rappresentano un richiamo irresistibile per un lettore curioso o semplicemente attratto dalle tematiche espresse. In questi racconti vengono riproposti alcuni di quei temi già riscontrati in “Finzioni” ed alcuni sicuramente spiccano più di altri per la loro particolarità. A partire dall’”Aleph “che dà per l’appunto il titolo alla raccolta e rappresenta “il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. Prima lettera dell’alfabeto ebraico, che nella tradizione cabalistica designa la divinità, nell’aleph è lo stesso Borges il protagonista che cerca il contatto con l’Assoluto. Il tema viene riproposto anche in un altro racconto, “Zahir”, termine di derivazione araba che richiama un pensiero fisso, un’ossessione e che al tempo stesso indica uno dei novantanove nomi di Dio.
Se la ricerca della trascendenza è parte della poetica di Borges, altro tassello imprescindibile è il tema del labirinto che torna più volte nella narrazione, a partire dal racconto “L’immortale”, dove accanto alla dimensione del ricordo dimenticato e della perdita di identità si tratteggia il concetto di caos, la ricerca di un percorso, di un ordine che in realtà non esiste perché il labirinto è innanzitutto parte della natura stesa e può condurre all’angoscia come avviene anche ne “I due re e i due labirinti”. Borges gioca con i contenuti, la realtà che definisce è caleidoscopica, si autoriproduce in sogni onirici che sono figli di altri sogni come precisa nel racconto “La scrittura del Dio” (“Questo sogno è dentro a un altro, e così all’infinito, che è il numero dei granelli di sabbia”). Eppure, al tempo stesso, non perde di vista la tragica realtà come si può ben vedere in “Deutsches Requiem” nel quale le tragiche conseguenze del nazismo su un’Europa contaminata dai veleni della guerra risultano evidenti dalla confessione del fedele funzionario del Reich condannato.
Cosa rimane dunque a lettura ultimata? Un senso di mistero, di messaggio criptico, di contenuti eccezionali non completamente decifrati...oltre ad un desiderio di tornare tra queste terre e riprovarci nuovamente.
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Un thriller senza tensione
Una vera delusione questo thriller di Joel Dicker. Ne avevo letto come di una storia mozzafiato e almeno il thriller me lo aspettavo. Invece è una storiella anche piuttosto scontata e senza alcuna tensione narrativa.
La storia si svolge a Ginevra con parti a Saint Tropez. Due coppie protagoniste. Una conduce una vita più agiata ed è formata da Sophie, avvocato, e da suo marito Arpad Braun, che lavora nella finanza di una importante banca e che, all’insaputa della moglie (ma il segreto durerà poco) è rimasto senza lavoro da sei mesi. Vivono in una ricca villa nel bosco, la cosiddetta “casa di vetro” perché ha le pareti trasparenti. Hanno due figli e i genitori di lei vivono a Saint Tropez. All’apparenza la famiglia perfetta.
Poi, ad un gradino più basso della scala sociale ci sono Greg e Karine, lei commessa in un negozio e lui poliziotto della squadra speciale ossessionato da Sophie che spia attraverso le pareti della villa portando il cane nel bosco. Anche loro con due figli, vivono nel cosiddetto “obbrobrio”, case più popolari della casa di vetro. Le due famiglie sono amiche, le mogli in particolare.
Spunta però un personaggio che ha fatto parte della vita passata prima di Arpad e poi anche di Sophie e un po’ alla volta il passato tornerà alla luce fino a diventare presente, portando sconquasso nella loro famiglia e di riflesso in quella di Greg, che si convince a indagare su di Arpad convinto che stia per commettere una grossa rapina insieme proprio a Fauve.
Alla fine il gioco si riduce ad un terzetto che comunque lo si combini non è inaspettato. Anzi diviene via via più scontato.
Il romanzo è un continuo avanti e indietro tra il giorno della rapina, che quindi sappiamo da subito che avverrà, e un passato vicino o remoto, con tutte le possibili distanze temporali dal giorno della rapina. Non è difficile seguire la trama però i continui flashback diventano presto fastidiosi.
Non c’è un personaggio di questa storia che sia credibile, a partire da Sophie, che si è tatuata una pantera che dovrebbe rappresentarne il carattere e che della pantera non ha proprio niente. Arpad risulta incomprensibile con il suo segreto che in una famiglia come la sua non ha ragion d’essere.
Greg è ugualmente un personaggio senza spessore: la sua ossessione per Sophie si dissolve ben presto spazzata via dall’idea che Arpad stia per commettere una rapina. Il suo spiegamento di forze in autonomia per indagare da solo senza senso. I personaggi sono tutti piatti e ben lontani dalla tridimensionalità.
La storia non ha nulla del thriller. Non c’è tensione, che non solo non viene costruita durante il romanzo ma non arriva neanche alla fine, quando si arriva finalmente alla presunta rapina. Le incongruenze ci sono, le assurdità altrettanto. E’ tutto decisamente poco credibile e coinvolgente.
Altrettanto senza senso è il finale della coppia di Greg e Karine, che non anticipo ma che davvero si fatica non a capire ma almeno a giustificare.
La vicenda non lascia nulla, neanche la piacevolezza di una scrittura ricca. Mi sono trovata spesso ad anticipare nella testa le parole che avrei trovato sulla carta poco dopo.
Se si cerca un libro mozzafiato è meglio guardare altrove.
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La luce ed il buio
“You like it darker” di Stephen King è una raccolta di racconti deliziosi nel loro genere. Di cosa parla questo titolo, in italiano tradotto come “Salto nel buio”? Esattamente di quello di cui King racconta normalmente: della società americana del suo tempo. Un contesto civile con pregi e difetti, come tutti, con ampi spazi di luce e, appunto, salti nel buio, come è giusto che sia. La luce è un fenomeno fisico, e come tale si può misurare: il buio invece è un’ assenza di fenomeni fisici valutabili empiricamente. Usando un prisma possiamo diffondere una luce bianca su più colori e valutare le diverse lunghezze d’onda, con sfumature diverse per ogni colore, esattamente come accade per ogni evento della vita quotidiana di chiunque; più difficile è farlo con il buio, questo va illuminato. Il buio è un muro tra la verità e la verità celata.Stephen King racconta la luce, come la vediamo tutti, e il buio, che non vediamo finché una luce, di qualsiasi tipo, lo perfora, fino ad allora lo possiamo solo immaginare. Il buio è un posto reale che funziona a modo suo, dove magari ogni buona azione non resterà impunita. Un posto da non prendere sottogamba. Questo fa Stephen King, vive i fatti dei suoi giorni, li trasfigura con la sua sensibilità artistica, attinge dal suo immaginario, ne ricava belle storie, con il suo talento le scrive, e bene, riporta così della luce, e della sua assenza. Ha una bella fantasia, bisogna ammetterlo, che per di più piace a molti che lo seguono, e vende. Ne riportiamo qualche esempio, pescando tra i racconti della raccolta: nell’immaginario collettivo gli alieni alla ET sono sempre in possesso di una tecnologia avanzata salvavita, in “Due bastardi di talento” King inverte l’ordine dei fattori, ma il prodotto di qualità che ne deriva non cambia. Bello il rapporto nonno-nipote, trovate? Molto affettuoso, intimo, confidenziale, un raccontare continuo dell’anziano che ricorda e il giovane che apprende, un voler riversare da parte dell’anziano tutto quanto vissuto, la sua esperienza di vita, un desiderio di condividere, di passare il testimone, questo è quanto riporta “Willy lo strambo”. Ricordate quante polemiche suscitano certi episodi, con tanto di resoconto filmato, sulla brutalità della polizia americana? Certo, King non è così banale da riportare un semplice episodio di mala polizia, dopotutto esistono poliziotti buoni e altri cattivi, ma per davvero, non come coppia standard presente nei polizieschi, in sede d'interrogatori dei sospettati di delitti: in “L’incubo di Danny Coughlin” ce ne sono due di agenti singolari, una donna e un uomo che conta. Nel senso proprio di dare i numeri, e solo perché il presunto colpevole sogna. Questo è una raccolta per intenditori kinghiani: solo loro, infatti, potranno apprezzare compiutamente nel racconto: “Serpenti a sonagli” i richiami e i rimandi a titoli precedenti del nostro, pietre miliari come “Cujo” e “Duma key”. Infine, sappiamo tutti che ai bivi importanti della nostra vita, quando dobbiamo prendere scelte cruciali per il futuro della nostra esistenza, non esistono purtroppo mappe, cartelli indicatori o navigatori che tengano. Può succedere però d'incontrare sul bordo di una strada “L’Uomo delle risposte”, con tanto di tariffario, pochi dollari per qualche minuto di domande con risposte garantite veritiere. In sintesi, lo stesso Stephen King ricorda Francisco Goja, che ha dipinto il celebre quadro "Il sonno della ragione genera mostri”, dove il pittore ha ritratto se stesso mentre dorme, sognando creature fantastiche. Stephen King fa lo stesso, descrive l’America nei suoi lati di luce, ma anche in quelli nel buio, ma tanto il pittore che lo scrittore dichiarano ciascuno a suo modo che questi sogni fantasiosi siano in verità una componente necessaria alla sanità mentale. E che i responsabili della maggior parte dei problemi del mondo siano quelli tra gli uomini meno fantasiosi. Che non amano la luce e il buio, ma le sole tenebre: e King ne scrive di ambedue.
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Il re del cavillo
La squadra investigativa più sgangherata del Sud è ormai un’icona del nostro panorama letterario e, ad ogni caso, l’autore si migliora sempre di più. In questo episodio della serie la vittima è un avvocato penalista di grido, ormai in pensione da anni, specializzato nel trovare cavilli che potessero salvare la pelle anche ai più colpevoli e che viene ritrovato ucciso nella sua casa, con segni di una violenza indicibile. Nella storia ci ritroviamo alle prese con il senso di colpa di due genitori e scopriamo nuove sfumature del nero presente nell’anima delle persone. Ma, come sempre, più interessante del caso stesso, sono tutti i punti di contatti che ogni singolo componente della squadra ha con il caso, con la propria storia personale, con le interrelazioni fra di loro. L’autore è veramente un maestro nel tessere questa rete, nell’arricchirla di particolari, nel far crescere ognuno di loro singolarmente, nel farli crescere come gruppo, nel tenerli insieme, nel valorizzarli, nel farci divertire e nel farci riflettere. Perché nessuno da solo può raggiungere il risultato che riesce ad ottenere una squadra composta di gente disposta ad ascoltare. Le pagine in cui la parola che è il titolo del libro, pioggia, viene declinata ed osservata da punti di vista diverse sono pagine frutto di un’armonia e di una delicatezza che non ha veramente uguali. E’ una pioggia fatta di luce.
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La Banda Bassotti in Vaticano
Ho avuto la sfortuna di notare in libreria il romanzo ''Ultimo Conclave'' e di lasciarmi incuriosire dal titolo al punto di compiere il malaugurato acquisto. Due parole su questa fanfiction d'alto bordo. L'autore, tale Glenn Cooper, si sente un novello Dan Brown (non so chi è ad aver avuto il coraggio di equipararlo ad uno scrittore simile. In alcuni articoli lo si decanta persino come 'superiore' a Brown) e pretende di portarci in una Roma incolore fatta di preti corrotti e perbenismi politicamente corretti da quattro soldi. C'è da dire che avrei dovuto capire l'andazzo già dalla sinossi sulla copertina, dove il colpo di scena centrale della storia viene spiattellato in quattro righe, togliendo qualsiasi appeal: i Cardinali si ritirano in conclave e spariscono. Glenn Cooper ha visto senz'altro il The Young Pope di Sorrentino e l'Habemus Papam di Nanni Moretti e qualche episodio della Casa di Carta e ha voluto infantilmente ricamarci su una sua personalissima versione (gli 'omaggi' sono cosi ricorrenti da apparire imbarazzanti). Papi in tuta da ginnastica, miliardari eccentrici che dispongono di talmente tanto denaro da poter regalare centinaia di milioni agli operai, un tunnel fantascientifico scavato in silenzio sotto la cappella sistina (quest'ultima trovata degnissima della Banda Bassotti di topoliniana memoria). Il tutto è condito da un'esposizione sciatta, manchevole di descrizioni o profondità dei personaggi, che si distinguono per essere ''la terrorista buona'' ''il professore a cui piace la vodka'' ''la suora potente'' ''il cardinale simpatico''. Non si hanno menzioni neanche circa i luoghi dove si svolge la vicenda: tutto è approssimativo e blando, potrebbe essere qualunque e nessun posto. Cooper ambienta persino una scena in quel di Civitavecchia (pensa che il 'Villaggio del Fanciullo'' sia una piazzola di sosta dell'autostrada), ma inutile dire che di Civitavecchia non c'è nulla. I rituali della Chiesa cattolica sono travisati, accennati, l'ideologia esposta è banale e incolore: si passa dai 'preti pedofili cattivi' ai ''terroristi buoni'' fino ai ''cardinali che sono solo poveri vecchietti'', alla suora integerrima fino alla fine che rifiuta di diventare Papessa (abbiamo visto il film di Wortmann, Glenn?) e poi si spreta nell'ultima riga dell'ultimo capitolo.
Insomma Glenn, The Young Pope è piaciuto a tutti.
Ma tu non sei Sorrentino, e la tua documentazione by Wikipedia salta troppo, troppo all'occhio.
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Quattro incidenti fanno un delitto
Nella mia vita da lettrice, i romanzi della cara Agatha sono l'equivalente di una droga leggera: mi stampano un sorriso ebete sulla faccia appena ne comincio uno, cerco di spacciare i miei preferiti a chiunque mi dia ascolto, e dopo qualche settimana di astinenza vado in crisi. Ergo, anche quest'anno non potevo che dare spazio ai suoi libri, ed in particolare alle narrazioni che vedono come risolutori Miss Jane Marple ed Hercule Poirot. Proprio quest'ultimo è protagonista ne "Il pericolo senza nome", dove lo troviamo nuovamente affiancato dalla sua storica spalla, e nostro esilarante narratore, il capitano Arthur Hastings.
Il duo (che per me fa le scarpe ai più noti Sherlock e Watson) si trova nella città di Saint Loo, in Cornovaglia. Qui incrociano in modo fortuito la strada di Magdala "Nick" Buckley, giovane proprietaria della misteriosa Casa Solitaria e -negli ultimi giorni- vittima di una serie a dir poco sospetta di incidenti quasi mortali. Convinto che non si tratti affatto di incidenti, il detective belga smette momentaneamente i panni del pensionato (cosa che si rifiutava di fare perfino per il ministro dell'interno!) per svelare l'identità dell'aspirante omicida prima che questi porti a compimento i suoi piani delittuosi.
Da queste premesse scaturisce una trama mystery a dir poco brillante, con una folta schiera di potenziali colpevoli e dei moventi credibili, ma abbastanza nebulosi da far vacillare anche la sicurezza del buon Hercule. La narrazione si sviluppa in un crescendo di misteri irrisolti, con una carrellata di imprevedibili colpi di scena che -anziché far scemare la tensione- la accrescono ancor di più perché fino all'ultima riga rimangono delle risposte da ottenere. Questo intreccio a livelli mi è sembrato davvero ben congegnato nonché stupefacente, e non è poco considerando che finora ho letto ben venticinque dei gialli di Christie ed un paio dei suoi escamotage ormai me li aspetto.
Oltre ad una storia strutturata con cura, questo romanzo può vantare un cast variegato e non troppo prevedibile, nonché alcuni tra i migliori dialoghi di Poirot ed Hastings: possiamo godere delle stroncature ciniche dell'immodesto investigatore e dei commenti fuoriluogo del capitano, il tutto mentre prosegue la loro indagine per scoprire chi si nasconda dietro gli attentati. Personalmente ho apprezzato che Poirot fosse presente per tutto il libro, dalla primissima pagina; e penso che questa scelta narrativa renda ancor più soddisfacente la risoluzione finale. Mi sono inoltre piaciuti i riferimenti alle precedenti opere della cara Agatha, e penso in primis ai diversi casi di Poirot ma non solo: un piccolo accenno ad un certo Sir Henry fa subito correre il pensiero all'altra investigatrice christiana per antonomasia!
Una volta tanto anche l'edizione mi ha convinto, specialmente per merito dei validi contenuti extra ad opera del critico letterario Julian Symons, che danno un maggior senso di completezza alla lettura; fanno perfino chiudere un occhio sui refusi, in questo caso rappresentati dalle tante virgolette che compaiono casualmente alla fine di frasi in cui non ci sono dialoghi. Altre sviste minori sono il pretesto iniziale -un po' troppo conveniente per essere credibile- ed il modo parecchio superficiale con cui vengono affrontate certe tematiche, come quella della dipendenza da sostanze: inserite con nonchalance tra una riga e l'altra, quasi non fossero argomenti seri, e subito accantonate. Meglio spendere qualche parola in più su un argomento serio, oppure non includerlo proprio.
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L'intuito del commissario Botero.
Il commissario Luca Botero é un tipo originale: alto, elegante, di bell'aspetto, sui quarantacinque, occhi verdi, ha la prerogativa di rifiutare qualsiasi novità tecnologica, preferendo affidarsi al suo formidabile intuito. In questo giallo di Paolo Roversi, il nostro protagonista (soprannominato nell'ambiente l'Amish) è alla sua seconda apparizione (dopo il primo episodio, "Alla vecchia maniera"), coadiuvato da un team ben affiatato, due donne, Roberta e Camilla, che se lo mangiano con gli occhi, e due uomini, Dario e Michele. Siamo a Milano, nella suite presidenziale dell'Hotel Savoy, prenotata dall'onorevole Vincenzo Greco per festeggiare la fine dell'Expo ed un nuovo faraonico progetto stradale. Cinquanta gli invitati, ovviamente il fior fiore della politica e del bel mondo: ad un certo momento del party va via la corrente e quando riappare la luce, l'onorevole galleggia nella piscina della suite, morto stecchito. Confusione e sconcerto, il caso appare eclatante tanto da essere immediatamente allertato l'abile Botero, che con i suoi interviene iniziando le indagini. Gli invitati, l'assassino non può essere che uno di loro, sono passati al setaccio, uno per uno, compresa la moglie dell'onorevole, l'avvenente segretaria, il portaborse ed il vice: Botero deve agire con prudenza, il terreno appare minato da intrighi politici, collusioni mafiose, attività poco chiare di imprenditori privi di scrupoli, tanto che nei giorni successivi, lo stesso Botero e le sue due collaboratrici saranno oggetto di attentati.
Il commissario sa di essere il bersaglio di un suo vecchio nemico, Kaminsky, che continua a perseguitarlo, mentre, nel corso del giallo, succedono altri fatti delittuosi legati soprattutto al traffico di ingenti quantità di cocaina.
Proseguono intanto gli interrogatori dei sospettati, nulla sembra emergere di concreto, quando due fatti imprevisti, il ritrovamento di una borsetta contenente pasticche di cianuro e l'incontro casuale con due ragazze nei pressi dell'Università Statale, aprono uno spiraglio su tutta la complessa vicenda stimolando il formidabile intuito del commissario. Si arriva così ad individuare il colpevole e le motivazioni del delitto, una scoperta sconcertante ed imprevedibile, oltre che a portare alla luce un traffico ingente di droga ed un riciclaggio imponente di denaro sporco. Ma il vecchio nemico di Botero, Kaminsky, è sempre in agguato, nell'ombra, e sarà suo l'ultimo messaggio del romanzo, probabile preludio di un nuovo prossimo episodio della serie.
La storia è intrigante e mette a nudo mali della società e della politica. Lo stile narrativo è, come definirlo?, un po' ondivago: per lo più minuzioso e preciso, ma alternato a tratti in cui lo scrittore sembra avere fretta di concludere. In effetti la soluzione dell'enigma appare affrettata, i tasselli vanno tutti a posato ma, a volte, con soluzioni ai limiti della credibilità. Il meglio dell'autore va cercato però nella magistrale caratterizzazione del burbero e stravagante commissario Luca Botero, detto l'Amish per la sua tenace e convinta tecnofobia, che lo porta addirittura a non usare nemmeno gli ascensori: un personaggio che non si dimentica, lui e il suo meticcio Duca, unico compagno della sua vita, un cane dal pelo bianco cedutogli da un vecchio barbone della Stazione Centrale. Al cane, che pare ascoltarlo, confida paure e sospetti: un duo affiatato, che permette al nostro commissario di sopportare la solitudine e di affinare sempre di più il suo magico intuito.
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Il lato oscuro della normalità forzata
A prima vista, gettando appena un’occhiata distratta e superficiale nel gironzolare tra i banchi della sezione apposita di una qualsiasi libreria, si indovina a pelle che sì, certo, siamo in presenza di una buona lettura, però usuale per gli amanti del genere. Finanche la copertina, ben suggestiva, già lascia immaginare i demoni celati in sé, il doppio “cattivo” che talora predomina su quello buono e tranquillo; quindi, un libro che per quanto ben scritto, rientra nell’ordinario, nel comune e già noto, magari anche prevedibile, questo all’apparenza non promette nulla di più dello scorrere delle giornate di un tranquillo e pacato serial killer, e la corsa del poliziotto di turno per fermarlo. Niente di più errato: l’autore, in maniera sottile, con una trama affilata come un rasoio, con una scrittura direi essenziale, agile e leggera, ti fa girare le pagine senza manco che ti accorgi che ti stai avvicinando alla fine, perché ti sorprende, ti sconcerta, ti sbalordisce. Il milanese Roberto Ottonelli nel suo lavoro ci dice di più che in un giallo, in un thriller, magari neanche molto di più, se vogliamo, ma quel tanto basta a fare de “Il dolce sorriso della morte” una autentica chicca per gli appassionati certamente dei thriller, ma non solo per loro. Perché Ottonelli non si limita a riportarci le imprese quotidiane del suo protagonista, il giovane travet piccolo borghese Marco Bordoni, un personaggio che definiremmo fin da subito un povero, eterno sfigato. Sfortunato in amore, schiavizzato sul lavoro, intimidito, apprensivo e spaurito d’animo, inadeguato nelle normali interazioni sociali, mesto convivente, ancora alla soglia dei quarant’anni, con l’anziana mamma vedova. Bordoni è scuro, scontento, fuori fase, un irresponsabile, vittima di abusi già nell’infanzia, bersaglio e preda dei bulli, prima della scuola, e poi quelli della vita, soccombente e spiazzato nell’esistenza, a mal partito finanche con sé stesso. Volete che uno così non si trasformi, all’improvviso e poi in modalità ingravescente, in uno spietato assassino, ricercato dalle forze dell’ordine che al solito, quando brancolano nel buio, si appoggiano a esperti, profiler, e psicoterapeuti ad hoc? Solo che Roberto Ottonelli racconta bene, scrive ottimamente, ma si esprime ancora meglio su quanto riporta tra le righe; ed è questo sottinteso, per nulla celato, che valorizza davvero tutto il testo, lo conduce difilato su uno step qualitativo superiore, l’autore fa del quotidiano del suo personaggio non tanto una discesa agli inferi, neanche ricerca una motivazione sociologica alle sue gesta efferate, incide semplicemente sulla banalità del male. Descrive un prologo che è peggiore del male, un incipit esistenziale che non ha nulla di demoniaco, e però è efferato, logico, malevole come solo sa esserlo il comportamento umano nei suoi lati più abietti. E frequenti. Marco Bordoni non è una vittima delle circostanze, è un ricettivo ai fatti occorsogli; è per indole dolce e mite, ma non abulico o indifferente, di pietra. La morte, quel tipo di morte che Bordoni infligge, ha un sorriso dolce, perché è dolce la mitezza, l’ubbidienza, l’affezione di Bordoni che, paradossalmente, inducono il giovane ai delitti. Bordoni è un mansueto che agisce per riparare, si applica dalla nascita e nella crescita al suo meglio, con scarsa considerazione altrui, tutto e tutti lo spingono ad agire sotto pressione, con inclemenza, astio, talora insensibilità assoluta, e violenza. Allora il giovane intende e si industria per suggellare a tutti i costi con cemento a presa rapida tutte le crepe, le lesioni, le fenditure, gli strappi dei fili spinati dell’esistenza, acconciati ad arte attorno a lui, quasi a copertura totale in simil bozzolo, e di cui è stato privato fin da subito delle apposite cesoie per aprirsi un varco. Solo che mentre ne suggella una, se ne aprono altre che in breve diventano squarci, tagli, fistole suppuranti che rimettono la sepsi in circolo. Il male non origina da partenogenesi spontanea, ma ha tanto di paternità riconosciuta, e spesso anche maternità, mitigata da una sorta di amorevole copertura. Allora, e solo allora, è morte, che non ha disegnata sul volto un dolce sorriso, ma una smorfia orrida e raccapricciante. Marco Bordoni non è pertanto un banale serial killer, non è posseduto da una metà oscura di kinghiana memoria, è un protagonista attivo, docile, clemente, suo malgrado rappresenta la prova provata di quanto di nefando può nascondere una normalità forzata e sfregiata a fondo. Normalità indotta ad arte da altri per celare, loro sì, l’incapacità, l’inadeguatezza, la totale incompetenza allo stare al mondo, a discapito dei propri simili quanto più vicini a sé: una banalità, proprio come sa essere banale il male. Quella di Marco non è perciò una storia thriller, ma la sintesi della reazione innocente della mansuetudine, tale che il lettore parteggia per lui, non per sadismo innato, ma per umana empatia. Allora, è solo allora, la morte reca pace, e sorride.
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