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Nello specchio
«[…] Non aveva perso il senso dell’umorismo. Gli piaceva fare dell’ironia, a volte anche piuttosto pesante. Non era, in fondo, l’unico atteggiamento sensato nei confronti della stupidità della vita e delle persone?»
Avvicinarsi a un Geogers Simenon non Maigret è sempre un’esperienza unica e fortemente introspettiva. Tanti sono gli echi autobiografici che si respirano in queste opere e altrettanto numerose sono le riflessioni sulle figure femminili che da sempre affascinano l’autore. Non a caso, in molti suoi scritti non dedicati al celebre commissario, son proprio le donne a reggere le fila della narrazione con tutte le loro profondità e criticità. “La prigione” è un romanzo classe 1967 ed appartiene all’ultima produzione simenoniana. Approda in Italia nel 1968 per Mondadori, sparisce dai cataloghi e le librerie quasi subito e torna a vedere la luce grazie ad Adelphi che sta ripubblicando l’intera opera dell’autore. Lo scritto appartiene a una delle fasi più complesse della vita di Simenon, se in opere quali “L’orologiaio di Everton” o “Il fondo della bottiglia” l’autore doveva vedersela con la perdita del fratello e il senso di colpa attraversando un altro periodo nero della sua produzione, qui è costretto a fare i conti con la separazione dalla moglie Denyse Ouimet a seguito anche delle numerosissime e mai celate relazioni extraconiugali del marito.
Ne “La prigione” protagonista è Alain Poitaud di anni trentadue e di professione direttore del “Toi”, una rivista molto quotata da lui fondata. La moglie Jacqueline, soprannominata Micetta, è a sua volta giornalista ma freelance. Il soprannome deriva dal fatto che la donna ha un carattere molto mite e accondiscendente. Tra i due la relazione è basata sulla libertà, cene conviviali, appuntamenti di lavoro, scappatelle occasionali ed anche molti bicchieri di scotch o whisky. Alain spersonalizza le persone che incontra, nessuna ha un nome, sono tutte “cocco” o “bella mia” senza troppe distinzioni.
Quando la vicenda ha inizio è il 18 ottobre, Poitaud sta rientrando a casa, ha in programma una cena con gli amici e ad attenderlo trova un funzionario di polizia. La sua Micetta non è ancora rientrata. A prima vista viene a delinearsi un giallo atipico, sappiamo quasi subito che la donna ha prelevato la pistola del compagno per sparare alla sorella. Tuttavia, da subito, il lettore si accorge di trovarsi davanti a uno scritto ben diverso, non solo un giallo atipico ma anche un romanzo sociale e psicologico che scuote già a partire dalla caratterizzazione del personaggio principale. Alain fatica a suscitare empatia, ad entrare nelle grazie del conoscitore. È un uomo superficiale, borioso, anaempatico, forte bevitore e dedito a sminuire i legami e gli affetti. Simenon descrive il rapporto di coppia di una relazione alto-borghese con una vita piatta, vuota e vissuta tra parvenze e finta convivialità. Basti pensare che i due hanno un figlio di cinque anni che nelle pagine quasi non compare. Il conoscitore sa che esiste ma non lo incontra, quest’ultimo vive nella casa di campagna insieme ai domestici che lo crescono ed educano.
Pagina dopo pagina assisteremo a una trasformazione del protagonista e man mano che il romanzo prenderà forma ne intuiremo anche quella che è l’inevitabile declino finale. L’epilogo non sarà infatti felice.
«[…] Si vergognava. Era più forte di lui.»
Ed ecco allora che “La prigione” ci porta ad affrontare un viaggio totalmente introspettivo per mezzo di Alain, Micetta e tutti i personaggi che ne costellano lo svolgersi. Alain si rende conto che la sua vita non è altro che una menzogna, una costruzione perfetta di finzione e inutilità, un luogo dove indossare maschere su maschere sino a perdere se stesso. Anche scavando oltre quel personaggio che si è costruito, non sa più chi è.
Jacqueline, di contro, è una donna che ha sempre vissuto seguendo i canoni imposti e previsti dal marito, con carattere discreto e accondiscendente, ma da sempre odia la sorella con cui Alain ha anche avuto una relazione, seppur finita un anno prima al delitto. È questo ciò che fa pensare a un delitto passionale. Ella semplicemente decide di smetterla di vivere all’ombra di Alain, decide di vivere e non più nascondersi dietro una parvenza. Sa di aver contraddetto al marito e per questo si scusa anche per non essere stata la Micetta che lui desiderava.
Ma quanto possono reggere gli inganni? Quanto la maschera può durare? Quanto una vita di finzioni può andare avanti? Quando la miseria dell’animo può reggere alla verità? Non resta che un unico inevitabile epilogo.
Un Simenon cupo, duro, profondo, che nulla risparmia e che trattiene dalla prima all’ultima battuta.
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Cosa può far fare la fame?
Siamo in una di quelle cliniche per dimagrire, che si rivela un teatro di morte, perché fioccano omicidi, fra il personale di servizio e gli ospiti. Fra di loro c’è anche Pepe Carvalho, un investigatore privato, un cosiddetto “annusapatte”, perché specializzato in investigazioni per tradimenti, che viene incaricato di collaborare con gli ispettori e che si fa prendere dal suo prurito professionale per andare alla ricerca di chi, fra questi morti viventi, può essere il colpevole di questi delitti provocanti e audaci. Sicuramente più di uno. L’atmosfera è triste. In una clinica per dimagrimento come potrebbe essere altrimenti? fra acque minerali, lisce e gasate e concentrati di frutta che sembrano invitanti dolci, fra pesate e clisteri? Il contorno è cosmopolita, perché i ricchi ospiti vengono da paesi diversi e per ognuno di loro viene offerto un ritratto corposo e anche un po' irriverente. C’è molto denaro in queste terme della morte, ma anche molta ipocrisia. La parte più divertente, in questa psicosi da clausura, è la spedizione notturna del commando, guidato da un ospite che nella vita è stato ed è un militare, che simboleggia un’azione punitiva contro la filosofia repressiva a cui gli ospiti sono sottoposti; un assalto notturno alla cucina che dà come bottino una mela, da dividere in cinque. Ma anche un indizio, ricordato con il senno di poi. Scrittura ricca, elaborata, come un flusso continuo che non dà spazio e non dà respiro. Tanti i riferimenti storici, forse un po' troppi per i miei gusti. Tanta ricercatezza di stile, ma anche qualche volgarità di troppo che però in questo tipo di letteratura è elemento che ritrovo abbastanza spesso. Tanta ironia. E alla fine l’assassino, gli assassini…boh?
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IL TEATRO DEGLI ORRORI
L’annuncio apparso e disseminato per la città dichiarava:
«Ritiro per scrittori: abbandona la tua vita per tre mesi»
A rispondere al comunicato sono un gruppo di aspiranti autori, spinti a credere che dove sarebbero andati a vivere per tre mesi sarebbe stato il luogo ideale per dimenticare le distrazioni della "vita reale” e riuscire a scrivere i loro capolavoro.
La location del ritiro è un vecchio teatro abbandonato, i diciassette scrittori che hanno accettato di partecipare saranno rinchiusi al suo interno senza alcuna possibilità di avere contatti con il mondo esterno, neanche la luce del sole può raggiungerli. Sono garantiti solo cibo, servizi igienici e una stanza singola per ognuno, piccola ma dignitosa.
A differenza degli organizzatori del ritiro, il Signor Whittier e la Signora Clark, tutti gli ospiti vengono presentati con un soprannome, Miss Starnuto, Lo Chef Assassino, Miss America, San Vuotabudella, Lady Barbona, Madre Natura, Reverendo Senzadio, Sorella Vigilante…soprannomi che servono a mantenere il più possibile il loro anonimato, perché ognuno di loro ha un buon motivo per sparire dalla società per un po’, anche se questo non basta a cancellare le macchie dalla loro coscienza dove la parte oscura del loro animo ben presto verrà fuori.
Inoltre chi riuscirà a resistere fino alla fine oltre alla fama e al successo riceverà in compenso anche una ingente somma di denaro.
Chi riuscirà ad arrivare fino in fondo e a quale prezzo?
Incuriosito dalla trama ho voluto leggere questo libro di Chuck Palahniuk, l’idea l’ho trovata abbastanza originale, premetto che non è un libro adatto a molti specialmente per i deboli di stomaco i racconti al suo interno trattano argomenti forti e portati all’estremo, come mutilazione, violenza, cannibalismo…. descritti nei minimi dettagli.
La grandissima forza di Palahniuk, oltre che nelle idee, sta nello stile. La sua scrittura è asciutta, precisa, priva di fronzoli e abbellimenti, i dialoghi sono crudi, diretti, adeguati allo stile del racconto, anche i personaggi sono descritti bene e in modo assai accurato.
I fatti vengono gettati in faccia con crudezza. Uno stile semplice, ma caratterizzato da formule che si ripetono. Gli avvenimenti della storia principale che si svolge nel teatro vengono alternati dai racconti di vita personale e non dei vari protagonisti.
Proprio da questo alternarsi e continuo ripetersi di schema che questo libro non ha appagato completamente le mie alte aspettative.
In generale la storia l’ho trovata un po’ caotica, alcuni racconti non mi sono piaciuti, altri invece ho trovato il finale poco conclusivo e affrettato, purtroppo sono pochi quelli che mi sono “piaciuti”, in alcuni punti ho dovuto rileggere i passaggi che non avevo capito rallentando notevolmente l’andamento dei fatti perdendo così l’effetto sorpresa e suspense che si era creata.
Per chi è alla ricerca di qualcosa di “forte” da leggere credo che con questo libro troverà ciò che cerca.
Buona lettura
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Una donna fatta di buio
Che cos’è la marabbecca? Si tratta di una figura del folclore siciliano: una donna fatta di buio, che emerge dal buio per trasformare anche te in quel buio. Di solito le persone ne sono terrorizzate, invece Clotilde, la protagonista di questo romanzo, è affascinata dal suo potere.
« […] la produzione di buio a partire dal buio. La produzione del nulla. Non la trovavo una cosa spaventosa, ma tenera. Tutti vogliono qualcosa di simile a sé. I fortunati trovano un buio così simile al proprio da formare un’unica oscurità: una notte impenetrabile e serena. Gli altri restano tenebre incomplete.»
Ho finito da poco di leggere “Marabbecca”, romanzo di Viola Di Grado edito da La nave di Teseo e sto provando delle sensazioni contrastanti. Insomma, banalmente: ma questo libro mi è piaciuto oppure no?
Senza dubbio è scritto con uno stile coinvolgente e ricercato. L’autrice sa condurre il lettore all’interno della storia. Fin dalle prime pagine ci sentiamo avviluppati in questo racconto inquietante. Proviamo un senso di smarrimento e serpeggiante angoscia.
La voce narrante è quella di una donna di circa trent’anni, Clotilde, che ha appena avuto un incidente d’auto insieme al suo compagno, Igor, un medico epatologo un po’ più grande di lei. Il racconto di Clotilde prende avvio in concomitanza con il momento dell’incidente e si snoda per i mesi successivi. Ciò che colpisce fin da subito è l’atmosfera strana e allucinata che si delinea dalle parole di Clotilde. La sua voce è quella di un narratore inaffidabile, così inaffidabile e inquieto che rende tutta la narrazione fortemente pervasa da un alone di tristezza, desolazione, disagio. È per questo intenso senso di malinconia, lutto, morte e depressione che il libro emana che non sono sicura che mi sia piaciuto, non certo per le sue qualità letterarie, che mi sento di riconoscere in pieno.
Mi ha ricordato un po’ Shirley Jackson, quelle atmosfere inquietanti e desolate, quelle protagoniste un po’ disturbate. Andando avanti nel racconto si arriva a momenti horror che richiamano anche Stephen King (non c’è niente di paranormale ma semplicemente umano raccapricciante). La stessa Sicilia e in particolare Catania, luogo in cui si ambienta questa vicenda, è descritta vividamente ma sempre attraverso lo sguardo di una persona fortemente inquieta; tutto è desolazione, sporcizia, dolore e senso di morte che aleggia incontrastato.
Consiglio questo romanzo se cercate una storia destabilizzante unita a una scrittura potente.
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L'ottimismo è l'oppio dei popoli!
“L’ottimismo è l’oppio dei popoli!”, con queste parole scritte su un bigliettino appunto per scherzo, Ludvik, il protagonista del romanzo vedrà la sua vita completamente devastata, trasformata: subirà un giudizio pubblico da parte di un Comitato del partito comunista (“Pensi che si possa edificare il socialismo senza l’ottimismo?...Sarei curioso di sapere cosa direbbero i nostri lavoratori e i nostri operai modello...se venissero a sapere che il loro ottimismo è oppio”), quindi l’espulsione dall’università e dal partito stesso. Emarginato ed obbligato ad un servizio di leva prolungato coverà dentro di sé il germe della vendetta nei confronti di quell’ex amico colpevole di avere contribuito alla sua rovina.
Questa in sintesi è la sinossi dello Scherzo, uno dei primi libri di Kundera, dal contenuto fortemente politico, nel quale la denuncia nei confronti del Partito Comunista è forte, dove la dimensione pubblica che penetra nel privato delle persone, riesce a trasformarle da dentro a condizionarle. Kundera costruisce una storia stratificata a più voci, in cui diversi personaggi si alternano con monologhi che si perdono nei ricordi della giovinezza, nei quali le storie private di amori vissuti e non vissuti vanno a braccetto con la politica in una Cecoslovacchia prima esaltata dalla vittoria del socialismo nell’immediato dopoguerra e quindi rassegnata ad una realtà fatta di aspettative che non trovano realizzazione. Ludvik, Helena, Jaroslav, sono le principali voci narranti, ognuno a modo suo in cerca di un riscatto che non arriverà, ognuno attaccato ad un passato che non esiste più nei confronti del quale la nostalgia è molto intensa, ma che sopravvive come realtà di facciata in quelle manifestazioni folkloristiche che trovano giustificazione in un mondo oramai dimenticato (“ogni cosa sarà dimenticata e a nulla sarà posto rimedio”).
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Kundera come sempre narra magnificamente, racconta e filosofeggia, ci fa riflettere su quanto l’ideologia ed il fanatismo politico possano condizionare la vita delle persone. Ci ricorda che alla fine il tempo passa ed il desiderio di vendetta, che sembra essere l’unica vera ragione di legame col passato, si affievolisca e diventi inconsistente a distanza di anni (“Rinviata, la vendetta, si trasforma in qualcosa di ingannevole, in una religione personale”). I personaggi kunderiani hanno la caratteristica di essere estremamente reali e convincenti, sono visti nelle loro debolezze e fragilità. Tra questi talvolta alcuni si stagliano però come simboli di purezza e di candore, come nel caso di Lucie, legata alla gioventù di Ludvik ed avvolta da un passato misterioso e doloroso che progressivamente si svela e riesce a portare un senso di pace e serenità nella vita del protagonista.
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Bernard Foy, Nelly e l'ossessione
«[…] Come in molte vecchie case del quartiere, le finestre, alte e strette, scendevano fino a trenta centimetri dal pavimento e arabeschi in ferro battuto reggevano la sbarra del davanzale.»
“La porta” di Georges Simenon, edito per Adelphi, con traduzione di Laura Frausin Guarino, fu scritto dall’autore a Noland e trovò la conclusione il 10 giugno 1961. Vide la sua prima pubblicazione solo nel 1962 da Presses de la Cité.
Ed è proprio da una delle tante case di quartiere che dalla sua sedia il protagonista, Foy, segue le vicende che si susseguono sulla strada dove vive insieme alla moglie Nelly.
Bernard e Nelly da due decenni sono sposati e vivono in un appartamento sopra la pasticceria Escandon, all’angolo di rue des Minimes. Foy non ha un’occupazione questo perché la sua esistenza è cambiata da quando, mentre si trovava di pattuglia nel bosco durante la Seconda guerra mondiale, le sue mani toccano una mina che poi è esplosa. Da questo momento queste non esistono più e sempre da questo istante, Bernard, non si sente più un vero uomo. In lui si sviluppano mille insicurezze, mille paure, mille fobie che si coniugano e fondono con una morbosa gelosia verso Nelly. La coppia non ha mai smesso di amarsi, la coppia è ancora complice; eppure l’uomo viene roso dalla gelosia. È un sentimento malsano, lo sa, soprattutto dal momento in cui nel palazzo si trasferisce un giovane illustratore inchiodato su una sedia a rotelle dalla poliomielite. Si tratta del fratello di Gisèle, una collega di Nelly della ditta Delangle & Abouet. Questo è il filo conduttore che porta la moglie del protagonista spesso a casa del giovane: ella si occupa di consegnargli dei pacchi da parte della sorella.
«[…] Ci sono giorni, quando ti vedo scendere dall’autobus, in cui mi metterei a urlare di gioia… Fin da quando avevo quattordici anni sognavo il matrimonio, una donna tutta mia, un piccolo mondo di cui sarei stato.»
Ed ecco allora che “La porta” ci mostra un uomo che vive le sue giornate spiando, osservando, pensando. E mentre pensa e più pensa, più sente lontana la donna che ha al proprio fianco, più teme di perderla, più ne è geloso. Una moglie, sia chiaro, che è innamorata del suo compagno per quanto esso sia infelice e per quanto esso sia sfortunato.
Tra queste pagine si respira un perenne senso di solitudine, di vuoto, di pensieri che sono l’unica grande compagnia in un appartamento che è inquietudine. L’ossessione si fonde con la menomazione, la ricerca di affetto e carezze si coniuga con la fragilità dell’animo umano e del sentimento che può essere messo in dubbio con tutto. Ed ecco allora che Simenon, con la sua solita prosa cruda e intrisa di verismo, delinea i tratti di un uomo debole, affranto, disfatto sino a quello che ne è il tragico ma inevitabile epilogo.
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Cortina di silenzio
Il giovane ispettore Erlendur Sveinsson ha un’ossessione per i casi irrisolti, così come per i casi che coinvolgono persone disperse a causa di eventi atmosferici estremi, così come per le persone che rimangono e che a quei lutti e a quelle sparizioni devono trovare comunque una risposta. Questo episodio scorre su due binari paralleli. Uno si rivela intrecciato ad un intrigo internazionale, anche se poi il vero movente è molto personale. L’altro è un cold case, che è da tempo un cruccio di questo ispettore, che si rivela avere dei punti di contatto con un suo episodio personale dell’infanzia, pur non essendo ad esso correlato. Li accomuna una cortina di silenzio, dietro cui tutti quelli che sanno qualcosa si trincerano. Fra le pagine si intreccia anche l’evoluzione personale di Erlendur e del suo poliziotto mentore. Penna scorrevole, interessante, anche se non adrenalinica.
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Fortuna che Faletti ormai è morto...
Pur non avendo amato particolarmente nessuno dei titoli letti finora, Dorn rimane un autore al quale ritorno volentieri perché i suoi thriller psicologici risultano ben bilanciati nei diversi elementi che li compongono. Il mio percorso nella sua bibliografia è stato però molto casuale: mi sono lasciata semplicemente attirare dalle sinossi più interessanti e dalle recensioni più positive. Ecco spiegata la lettura di "Follia profonda" senza aver prima recuperato il volume precedente di questa duologia -ossia "Il superstite"-, scelta che comunque non mi ha ostacolato seriamente nella comprensione delle vicende raccontate.
In realtà, questo romanzo è collegato anche ad altre opere dell'autore, tra le quali il suo celebre debutto "La psichiatra"; infatti ci troviamo nuovamente a Fahlenberg, località fittizia del Baden-Württemberg, in particolare nelle vicinanze della Waldklinik. Qui lavora lo psichiatra Jan Forstner, nostro punto di vista principale nonché vittima di un'inquietante stalker che gli fa recapitare fiori, per poi passare a disegni allegorici ed a minacce per nulla velate nei confronti delle donne con cui lo vede interagire. Mentre l'uomo cerca di individuare l'identità della persecutrice, alla sua prospettiva si alternano molte altre tra le quali quella di Felix Thanner, il sacerdote che lavora come consulente spirituale della clinica, che a sua volta entra in contatto con l'antagonista.
Le premesse per ricavarne una storia non solo appassionante, ma anche con dei validi spunti di riflessione c'erano tutte; purtroppo, l'autore toppa soggettivamente sul piano narrativo ed oggettivamente su quello tematico. Per quanto riguarda l'intreccio, alcune svolte di trama sono abbastanza scontate se bazzicate il genere, inoltre l'epilogo dà un tono troppo positivo e frivolo ad una vicenda teoricamente tragica. La principale rivelazione poggia poi su un escamotage che avevo già trovato in un romanzo di Faletti precedente a questo, e perciò ho azzeccato il finale già dai primi capitoli. Però lungi da me accusare il caro Wulf di plagio, inoltre mi rendo conto che questo specifico problema è del tutto personale: se non avessi letto prima l'altro libro probabilmente sarei rimasta decisamente colpita da com'è stata strutturata la vicenda.
Passando a quello che reputo invece un difetto in senso lato, ci troviamo di fronte ad un tema che mi aveva fatto ben sperare, perché ci sono tantissime storie in cui si parla di stalking nei confronti di una donna, ma ben pochi nei quali la prospettiva è quella maschile. Poteva essere un'ottima occasione per mostrare come questo crimine sia avulso dal concetto di genere, come anche dei pregiudizi che sorgono quando è un uomo a denunciare delle molestie; purtroppo tutto questo potenziale si riduce ad una sola scena, neppure cruciale ai fini della narrazione. A fare realmente le spese di quest'ossessione sono quasi sempre (ed ancora una volta!) le donne che ruotano attorno a Jan, identificate dalla sua stalker come possibili rivali.
Di certo, se dovessi chiudere un occhio sul modo in cui è stato trattato questo argomento -e anche un altro, del quale però non posso parlare per evitare spoiler- potrei tessere le lodi della prosa di Dorn e della caratterizzazione dei suoi personaggi. Il romanzo è infatti molto godibile, sia per la moderata presenza dell'elemento horror che per l'ottimo ritmo dato alla narrazione: il lettore non può quindi fare a meno di rimanere incollato alle pagine per leggere di come Jan riuscirà a contrastare la sua stalker e di quale ruolo giocheranno gli altri caratteri nella vicenda.
Come accennato, anche i personaggi rientrano tra i punti di forza in questo titolo, dimostrando un concreto approfondimento psicologico, sia tra i protagonisti che tra i comprimari. Come POV principale Jan mi è piaciuto molto: ad esclusione di un paio di decisioni infelici, si dimostra un personaggio intelligente e determinato, che ripone una grande fiducia nelle sue capacità come psicologo per poter trovare un punto d'incontro con il prossimo. E l'antagonista si rivela essere più che all'altezza del suo ruolo, infatti le migliori scene del volume sono quelle in cui mette in atto dei piani per ingannare o attaccare i protagonisti. Sarà anche al centro di un twist imbarazzante nella sua prevedibilità, ma rimane una villain di tutto rispetto.
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Di nuovo tu...
Ricciardi è un riccio verso il mondo e, a causa del “fatto” che incombe nella sua vita, respinge ogni tipo di amore. Però, nonostante questo, attira le donne come falene. Prima Enrica, che con lui cerca comunque di superare la barriera altissima della propria riservatezza. Poi Livia, che non riesce ad isolare cuore ed emozioni ed il cui cuore perde un battito al solo pensare a lui. E da qualche tempo, fra le due “litiganti”, si è inserita la contessa Bianca, bellissima ma un po' fredda, anche lei innamorata di questi occhi verdi che avvelenano l’anima di tante e che danno una scossa a tutte. Secondario, nel proseguo di questa serie, è il caso su cui Ricciardi e Maione si trovano ad indagare. Forse perché tutti i personaggi sono sempre così ben raccontati e così animati di vita propria, da attirare l’attenzione del lettore molto di più del singolo caso poliziesco. In questa storia il cuore è tutto l’amore di un tormento, perché se il cuore cresce attorno ad una persona, il posto non si libera così facilmente, nemmeno se si pongono limiti o freni o distanze. A volte si parte per allontanarsi, ma si parte senza di fatto andarsene mai. E da questa Napoli anni Trenta è difficile andarsene…
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Una società che vuole evolversi.
Petros Markaris, con "La violenza dei vinti", offre una nuova indagine del suo amato personaggio, il direttore di polizia Kostas Charitos, ben coadiuvato da Antigone, la responsabile della sezione omicidi e da altri solerti collaboratori. L'indagine di cui deve occuparsi è abbastanza singolare: siamo abituati, in caso di omicidi, a seguire storie su delitti di mafia, vendette personali, uccisioni per motivi passionali, di lavoro, di denaro, ma in questo giallo siamo alle prese con motivazioni completamente diverse, di natura prettamente sociale, riguardanti l'ambiente culturale, universitario e liceale, con riferimenti marginali al bullismo nelle scuole. Tutto inizia con il ritrovamento del corpo di un insegnante universitario di economia e tecnologia barbaramente ucciso ed appeso al muro nel suo studio. Poco dopo un altro delitto, l'uccisione del segretario del ministero dell'istruzione, incaricato di rivedere i programmi liceali favorendo le materie scientifiche a danno di quelle letterarie e umanistiche. Gli inquirenti brancolano nel buio: la Grecia di Platone e Socrate, terra di studi classici, ha forse voluto punire un futuro tutto teso al progresso tecnologico ed all'affermarsi di un'economia aziendale tesa solo al profitto ? Il tentativo di un terzo delitto (una bomba nell'auto di un dirigente di un'industria tecnologica ) porterà ad individuare i colpevoli, tre studenti bullizzati al liceo e respinti all'iscrizione al corso di Economia: una vendetta per il bullismo subito e la mancata iscrizione alla facoltà di Economia? Ma i tre assassini verranno a loro volta assassinati, una sorta di rivalsa da parte di chi vuole favorire , con l'apporto anche di ditte straniere, i mercati finanziari locali.
L'intricata matassa verrà con pazienza dipanata dal bravo dirigente, attraverso complesse indagini, con l'aiuto di Antigone e continui contatti con i superiori ed i ministri competenti. Il tutto in un ambiente universitario agitato da scontri con la polizia e da pressanti rivendicazioni L'assunto delle vicende narrate è, come detto prima, originale: la violenza dei vinti è una sorta di ribellione contro il bullismo, contro le sorti di una scuola che non mantiene quello che promette, contro la progressiva e ineluttabile perdita di valore degli studi umanistici, dell'arte, della letteratura nei confronti di una rampante tecnologia, tutta a favore di una nuova economia aziendale, a favore in sostanza del cosiddetto "progresso". Sullo sfondo una Grecia con le sue contraddizioni, il suo traffico caotico, la precarietà del lavoro, lo sbandamento di una gioventù in bilico tra il passato ed un incerto futuro.
L'autore non dimentica neppure l'originalità della cucina greca. Il bravo dirigente della polizia Charitos è un gran buongustaio, merito della moglie Adriana, ottima cuoca, abilissima nel preparare i piatti preferiti dal marito, i souvlaki (spiedini di maiale alla griglia) ed una salsa dal nome impronunciabile (tzatzikì), a base di yogurt greco e cetrioli.
Eccelle nelle descrizioni di atmosfere ed ambienti Petros Markaris, sorvolando un pò, a mio giudizio, sulla caratterizzazione dei personaggi
Resta comunque l'originalità dei temi trattati, che non trascurano neppure riferimenti ad un centro di accoglienza che la famiglia del protagonista ha contribuito a creare con commovente dedizione ed al quale Kostas e la moglie Adriana sono molto legati.
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La magia delle possibilità
In un’atmosfera da antica leggenda nasce un amore impossibile, che viene però raccontato in questo fantasy con uno stile poetico ed onirico, che è l’aspetto più rilevante della lettura, nonostante a volte si riveli un po' prolisso. Nell’entrare in contatto con questo mondo surreale, senti quasi il battito d’ali delle falene dalle ali color di tramonto che escono dalla bocca della dea protagonista e che le permettono di fare incursione nelle menti umane. E’ d’incanto la descrizione della scoperta del loro legame, del loro amore. L’uno dentro l’altro trovano il luogo giusto, l’unico e il vero, sperimentano il primo inebriante sospiro di adeguatezza, prima di venire strappati via dalla realtà e rigettati in una casuale e solitaria dispersione: quel luogo sono loro due. Una scrittura evocativa, capace di far emergere la nostra parte più fantasiosa e creativa e buona tanto da accendere la nostra curiosità sul seguito, perché nelle belle favole non vince mai il male.
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Madre e figlio
«[…] Nei tranquilli anni in cui vivevamo lontani e mi chiamava all’alba, non dovevo fare altro che dire ciao, appoggiare la cornetta al cuscino, continuare a dormire mentre il flusso del suo discorso scorreva come acqua da un argine rotto, e salutarla quando finiva. A chi non credeva fino a che punto potesse spingersi la sua furia monologante ne dimostrai la portata durante un viaggio in auto. Angela chiamò, io risposi mettendo il telefono in vivavoce, poi guidai tranquillo e concentrato sulla strada per almeno mezz'ora senza pronunciare verbo e senza che quel rovescio di sillabe si
arrestasse un attimo.
Angela sente e segue solo il ronzio dei suoi pensieri, delle ossessioni che la tengono desta, che la scuotono e pungolano i suoi giorni e le notti che sempre più tendono a confondersi, a scivolare gli uni nelle altre trasformandosi in uno stato perenne di dormiveglia.»
Avvicinarsi a “Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini significa avvicinarsi a un romanzo dalle tinte anche del memoir e che ripercorre il difficile rapporto tra una madre e un figlio. Angela, la madre, non è mai stata una donna semplice. Tra queste pagine il rapporto viene analizzato in ogni sfaccettatura, viene rivissuta l’infanzia dello scrittore, riflettiamo sul nostro Paese di ieri ed oggi, su a Napoli, torniamo a Milano dove la madre anziana è stata trasferita dopo la vedovanza.
Angela è una donna incomprensibile quanto imprevedibile, una donna dal carattere pesante, insopportabile, livoroso, aggressivo e violento, è capace di furie istantanee non motivate, di insulti ai suoi stessi figli ed è una donna con una visione del mondo pessimista, razzista e piena di tanti luoghi comuni talmente scontati e talmente bassi che ne dimostrano tutte le limitazioni.
Non ha amici, è nata in provincia di Benevento e poi si è trasferita a Napoli, la città dai mille volti e le mille energie. Studentessa di liceo classico, studentessa universitaria, donna tipicamente meridionale, si sposa con un uomo più grande di un’altra classe sociale e da cui avrà tre figli (Antonio e due bambine). Su questi ultimi riversa tutta la sua rabbia, tutto il suo carattere astioso, tutte le sue angherie.
«[…] Non sa dimostrare l’amore e non sa farsi amare.
L’amore è il cruccio di tutti, ma sempre nel senso delle forme assolute: quella, puramente attiva, dell’amare, e l’altra, perfettamente passiva, dell’essere amati.
Del dimostrare amore nel modo più giusto e del farsi amare, cioè dei modi del sentimento, non della sua essenza, non si preoccupa nessuno. Gentilezza e tenerezza sembrano l’elemosina, la declinazione degradata delle passioni.
Ad amare come viene sono buoni tutti, e anche chi ama senza essere riamato trova consolazione in questo sacrificio, ma chi è incapace di risvegliare attorno a sé le forme minori dell’amore conduce una vita aspra e non sa perché.»
Il testo è avvalorato dal napoletano, un dialetto che dona alle pagine ancora più autenticità. Il fulcro dello scritto è e resta lei, la madre, ma man mano che andiamo avanti conosciamo anche le dinamiche che hanno caratterizzato la famiglia, dal rapporto coniugale asimmetrico sino all’odio per la sorella del marito, Anna, per i vicini di casa, per gli amici e i figli. La personalità della donna è estremamente incisiva e sarà soprattutto la figlia più piccola a far leva e a far le spese di questo carattere così livoroso.
Anche quando lo scrittore sarà adulto e la donna si trasferirà a Milano da “o’ scrittore”, le cose non miglioreranno perché mai lei ammetterà di essere orgogliosa di quel figlio.
Tanti i personaggi che si susseguono tra le pagine, dal padre sino allo zio Francesco, e che donano ancora più profondità allo scritto. Un romanzo dove ciascun volto ruota attorno alla figura di una donna che sopraffà e schiaccia con la sua disperazione.
Un testo che offre tanto, non sempre semplice da leggere per il profondo uso del gergo napoletano ma che invita alla riflessione soprattutto sulle dinamiche umane e familiari.
«[…] Eppure noi sappiamo che cos’è, in realtà, questo lungo, occulto bisogno dell’approvazione di un genitore, fosse pure un mostro, avvinto a noi più strettamente proprio in ragione della sua mostruosità; conosciamo questo senso d’inadeguatezza che non si placa, questa ricerca di un cenno di approvazione da parte di chi ci opprime…»
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Arnie freebooter di Christine!
Specialmente nel corso degli ultimi anni, ho sviluppato una certa familiarità con la prosa del caro Stephen; quindi ormai quando devo cominciare una delle sue storie, sono sia incuriosita da cosa il libro in questione abbia in serbo per me che preparata a trovarmi di fronte determinate dinamiche narrative. Ed infatti ancor prima di iniziare la lettura di "Christine. La macchina infernale", ho pensato ad "Il camion di zio Otto" con sentimenti contrastanti: adoro infatti l'idea di un oggetto oppure un luogo in grado di assorbire e trasmettere la malvagità, ma in quel racconto il tutto scivolava poi nel ridicolo. Con il romanzo questo specifico problema invece non c'è stato, anche se le imperfezioni non sono mancate.
La vicenda comincia nell'autunno del 1978 a Libertyville, città immaginaria della Pennsylvania. È qui che l'adolescente Arnold "Arnie" Cunningham vede per la prima volta Christine, una Plymouth Fury del 1958, e sente l'impellente desiderio di acquistarla dal vecchio reduce Roland D. LeBay. Da subito, il giovane è totalmente assorbito dai lavori che deve fare per rimetterla in sesto, mentre tutti gli altri personaggi -a cominciare dal suo migliore amico Dennis Guilder- provano delle sensazioni molto negative verso l'automobile. La situazione si complica quando Arnie inizia una relazione con la bella Leigh Cabot, ma soprattutto quando un gruppo di teppisti prende di mira Christine per rivalersi su di lui.
L'intreccio è un po' più articolato in realtà, ma il cuore del libro rimane comunque l'ossessione di Arnie per Christine, che mi porta al primo degli aspetti meno convincenti: la scelta di affidare metà della narrazione alla voce di Dennis. Il suo è certamente un carattere centrale nella storia, ma mantenere un narratore onnisciente (come viene fatto nella seconda parte, tra l'altro!) avrebbe permesso di dare molto più spazio alla trasformazione di Arnie, a livello fisico ma anche psicologico. Immagino che l'intento fosse quello di creare un crescendo di tensione, ma in questo modo la trama perde di efficacia; la quasi totalità delle interazioni tra -quello che dovrebbe essere- il protagonista e l'automobile ci vengono raccontate e prima di metà volume la malvagità di quest'ultima è data solo dalle sensazioni e dai sogni dei personaggi.
L'altro difetto del volume è la presenza di diverse sottotrame che distraggono l'attenzione dal tema centrale. Anche per questo motivo la prospettiva di Dennis è limitante, perché le sue preoccupazioni nei confronti dell'amico vanno oltre la fissa per Christine e si estendono alla relazione con Leigh, al conflitto con i genitori ed ai lavori che comincia a svolgere per Will Darnell, il classico tipo losco locale che non può mancare in ogni romanzo kinghiano. Sono rimasta delusa anche dalla presentazione di Leigh, anticipata già dalla sinossi ma un po' troppo improvvisa; così come risultano prive di base le relazioni amicali e romantiche, difetto che il finale riesce almeno in parte a correggere. Infine, ho trovato la partenza un po' lenta e macchinosa (no pun intended!): la violenza vera e propria si fa aspettare, ma per fortuna quando arriva ripaga l'attesa in pieno.
In generale l'elemento paranormale mi è piaciuto molto. Ho adorato il modo in cui King ha sviluppato il concetto di un oggetto inanimato che prende vita ed assorbe l'indole del suo proprietario, infatti tutte le scene in cui Christine agisce sono davvero godibili nella loro crudezza. Si possono inoltre identificare delle nette sovrapposizioni tra elemento fantastico e problemi reali, andando a creare degli interessanti parallelismi. Si genera poi un buon livello di tensione, in particolare per merito del sapiente utilizzo del foreshadowing da parte di Dennis, che porta curiosità per le sciagure a venire.
A parte Leigh, i personaggi si dimostrano molto ben caratterizzati: anche quando si tratta di figure non centrali, il caro Stephen riesce con poche righe a renderli credibili e tridimensionali. Tra tutti spicca ovviamente Christine, ma anche Arnie che nelle sue (troppo poche!) scene POV riesce a catturare con la sua lotta interiore ed il focus sui momenti di incertezza, come durante le tre telefonate in cui prova a cercare un aiuto da famiglia ed amici. Chissà come sarebbero andate le cose se solo Dennis fosse riuscito a rispondere...
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Indifferenza
Un giovane poliziotto si ritrova a indagare, per conto proprio, sulla morte di un barbone che aveva avuto modo di conoscere anche se superficialmente. Non sa nemmeno lui bene i motivi che lo spingono ad approfondire la dinamica di una morte che potrebbe anche essere un incidente, visto che viene ritrovato annegato. Forse un sesto senso. Forse un senso di colpa. Lui è un poliziotto alle prime armi. Il barbone era un uomo che in un certo momento gli aveva detto che per lui vivere o morire era la stessa cosa. Forse vuole andare contro questa indifferenza che il mondo ha nei confronti dei senzatetto. Essere in queste condizioni non è però una colpa. Ognuno di noi riceve una mano di carte dalla vita e si arrangia, al meglio che può, con quella che la vita ci ha concesso. A questa indagine si accompagna la misteriosa sparizione di una donna. E lo stesso sesto senso porta il poliziotto a supporre che i due casi siano in un qualche modo collegati. Molto toccanti sono le pagine in cui veniamo a conoscenza di un fatto tragico della vita dell’uomo, un incidente che gli ha tolto un amore. Lui, travolto dalla rabbia, dai sensi di colpa, dall’odio verso se stesso, da quel giorno non è più stato lo stesso. I pensieri lo tormentano fino a portarlo a distruzione. Perché nella vita di tutti noi ci può essere un prima e un dopo. E nessuno di noi sa a priori quando quel punto di flesso cambierà la sua curvatura. Nel bene e nel male.
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Come entrare e uscire dai libri
Maggie ama leggere, al punto da addormentarsi spesso abbracciata a un libro.
Suo padre, Mortimer, ma per lei solo Mo, le ha messo i libri in mano sin da quando era piccolissima. Del resto lui è un rilegatore, anzi un “dottore dei libri” che piglia vecchi volumi squinternati e li rimette a nuovo. Tuttavia Mo ha altri talenti, molto più scioccanti, ed è a causa di tali capacità misteriose e inquietanti che non ha mai letto nulla ad alta voce alla bimba.
Infatti quando Maggie aveva solo tre anni, leggendo con passione una bella avventura fantastica, “Cuore d’inchiostro”, alla moglie Teresa era accaduto un prodigio inesplicabile quanto sconvolgente: dal libro erano sgusciati fuori tre inquietanti figuri, Capricorno, Basta e Dita di Polvere. Se quest’ultimo era solo un innocuo saltimbanco mangiafuoco, gli altri due erano spietati delinquenti che avevano subito minacciato l’uomo, per cercare di ritornare da dove erano venuti e, poi, s’erano dileguati per fare danni nel mondo in cui erano stati trascinati. Ma la cosa più angosciante, che Mo sveva scoperto dopo, era che il loro posto nella storia era stato preso dall’adorata moglie, risucchiata nelle pagine del romanzo.
Da quel giorno Capricorno non fa che dargli la caccia per ottenere da Lingua di Fata, come lui lo chiama, chissà quali torbidi prodigi, mentre Mo cerca inutilmente di richiamare a sé Teresa.
Per anni Mo è sempre riuscito a sfuggire a Capricorno, ma un brutto giorno, con l’aiuto di Dita di Polvere, questi era riuscito a catturarlo assieme a Maggie e a zia Elinor, una collezionista compulsiva di libri, alla quale Mo si era rivolto per nascondere l’ultima copia di “Cuore d’inchiostro” dalla quale cercava ancora di recuperare sua moglie.
Per i tre inizieranno, così, mirabolanti e pericolosissime avventure, tra la realtà e la letteratura più immaginifica.
“Cuore d’inchiostro” è il primo volume di una inconsueta trilogia, nella quale i libri, vere porte d’ingresso e uscita da modi fantastici, hanno un ruolo da protagonisti, seppure come oggetti passivi di questi prodigi.
L’idea in sé non è certo originale, basti pensare a “La storia infinita” (la letteratura è ricca di portali da e per mondi paralleli), ma sotto certi aspetti abbastanza ben costruita.
In questo caso gli attori “fantastici” sono trascinati nel nostro mondo reale, ma, invece di esserne travolti e sopraffatti, come logica vorrebbe, lo piegano ai propri turpi voleri. Capricorno e Basta mettono assieme una sorta di cosca mafiosa che soggioga tutti coloro che si trovano a incrociarne il cammino, forze dell’ordine comprese.
Peraltro i villain di turno sono descritti come tetragoni nella loro crudeltà assoluta, ma, di fatto, queste appaiono solo dichiarazioni di facciata: si limitano a minacciare e promettere castighi, ma sono continuamente raggirati dai “buoni”.
Il testo, diviene subito evidente, è indirizzato esclusivamente a un pubblico giovanile e, purtroppo, la narrazione ne soffre pesantemente. Non solo il linguaggio è semplice (verrebbe da dire “basico”) e non particolarmente strutturato, privo com’è di approfondimenti e di attente analisi, ma la caratterizzazione dei personaggi, sia quelli positivi che quelli negativi è parecchio schematica: tutti sembrano sgrossati con un’accetta, tutti, pure i protagonisti, appaiono privi di sfaccettature e chiaroscuri. Anche l’ossessione per i libri che hanno Mo, Meggie e Elinor è abbastanza fasulla, non per nulla adulti e giovani sembrano attratti quasi solo dalla letteratura per l’infanzia o, al massimo, per i romanzi d’avventura.
La cesura manichea tra buoni e cattivi appare decisamente forzata ed eccessivamente netta. Molti, troppi sono i luoghi comuni e le ingenuità naif in cui inciampa la narrazione. Le vicende, pur essendo ambientate nel nostro XXI secolo hanno un che di anacronistico e artefatto, e ciò, si badi, non per via della trovata fantastica attorno a cui gira il racconto.
Concludendo, sebbene l’idea di partenza sia gradevole e ben gestita, il racconto non decolla, molte delle promesse di avventure e fenomeni mirabili, restano mere aspettative. Ne risulta un gradevole romanzo per un pubblico particolarmente giovane, ma abbastanza insoddisfacente per un adulto o per adolescenti smaliziati. Alla lunga, poi, privo com’è di una evoluzione della trama, risulta abbastanza noioso. Tra l’altro, si chiude consegnando al lettore molte più domande e dubbi di quanti riesca a risolvere. È comprensibile lasciarsi una porta aperta se si ha intenzione di farne una trilogia, ma in questo caso non ho rinvenuto neppure un grande stimolo a leggere i seguiti.
Come ultima notazione debbo rilevare che mi sono apparse piacevoli e ben trovate le citazioni da altre opere letterarie usate sia come apertura dei vari capitoli, sia come citazioni e letture entro il flusso della narrazione. Questo giocare dentro e fuori altri romanzi, seppur, in genere, di letteratura per l’infanzia, nobilita in un certo qual modo il testo, accentuando la sensazione di trovarsi sulla soglia di un portale tra i molteplici mondi partoriti dalla inventiva degli scrittori, in quella che Nathaniel Hawthorne definiva “The Hall of Fantasy”.
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Il cacciatore di ricompense
Colter Shaw si guadagna da vivere riscuotendo le ricompense offerte da parenti o dalla polizia per ritrovare persone scomparse o fuggitive. Non è un “cacciatore di taglie” propriamente detto, lui si limita a rispondere agli avvisi di coloro che, disperati per la scomparsa di un proprio caro, offrono premi, non sempre consistenti, per poter sapere che cosa gli è accaduto.
Ma Colter ha pure una sua missione personale: scoprire cosa effettivamente avvenne 15 anni prima, quando fu proprio lui a trovare suo padre, Ashton, morto precipitato giù da un dirupo nella loro sconfinata tenuta ai piedi della Sierra Nevada, mentre il fratello maggiore Russell era scomparso nel nulla.
Proprio per proseguire nelle sue ricerche si era recato in California, per recuperare in modo non
propriamente lecito alcuni documenti che il padre aveva lasciato all’università di Berkley e che dovrebbero aiutarlo a risolvere il dilemma che lo assilla. Qui viene raggiunto dalla telefonata della sua agente: nella vicina Silicon Valley un uomo disperato, Frank Mulliner, sta offrendo 10.000 dollari a chi gli ritroverà sua figlia Sophie misteriosamente svanita nel nulla alcuni giorni prima.
Colter dopo un colloquio con Mulliner, decide di accettare l’incarico. Con le sue indagini, si ritroverà proiettato nel mondo delle software-house di giochi dove, spesso, si usa ogni stratagemma, pure sleale, per ostacolarsi e strapparsi utenti. Però, in quello strano microcosmo, i giocatori sono così assuefatti alle avventure “sparatutto” da trascorrere la maggior parte del loro tempo incollati a monitor pieni di alieni feroci e astronavi da guerra e, forse, uno di loro è così assorbito da quella realtà virtuale che potrebbe non aver neppure più chiaro quale sia il confine tra le ambientazioni fictional e il mondo reale. E se il rapitore di Sophie stesse proprio cercando di riprodurre “dal vero” le avventure de “L’uomo che sussurra”, uno dei giochi survival più gettonati?
Con “Il gioco del Mai” Jefferey Deaver dà inizio alla serie di romanzi con protagonista l’insolito personaggio di Colter Shaw, un cercatore di persone scomparse che accetta anche gravi rischi personali per la ricompensa promessa, ma soprattutto per il suo senso innato di giustizia che lo spinge a proseguire l’attività anche gratuitamente o accettando pagamenti ridotti o rateali dai clienti. Per la sua missione personale, poi, profonde tutte le sue energie.
Con uno stile fluido e diretto l’A. ci proietta nel mondo delle varie devianze che affliggono il nostro mondo moderno (un tema presente in questo libro, ma che si ripeterà anche in quelli successivi). La prosa scorre rapida e avvincente, forse afflitta solo, all’inizio, dalla tipica pedanteria di certi autori americani che si sentono in dovere di precisare ogni minimo particolare della scena, e dei suoi attori, dalla marca del berretto o delle scarpe indossati alla tipologia di caffè sorbito in un bar. Però, una volta che l’avventura si è ben sviluppata, questa minuziosità, un po' sfibrante, non si nota più.
Il personaggio di Colter, probabilmente è un po’ troppo sopra le righe, troppo perfetto, troppo lucido, troppo esperto nelle tecniche di sopravvivenza al punto di assomigliare più a un supereroe che a un normale essere umano. Comunque in questo genere di romanzi è appagante scoprire che il personaggio principale sappia sempre come cavarsela, qualunque situazione pericolosa si trovi ad affrontare. Dà una connotazione rassicurante alla lettura.
La trama è ben strutturata e non ha cali di interesse. Magari il lettore che amasse anticipare gli esiti potrebbe pure fare ipotesi non infondate su quale potrebbe essere l’epilogo della vicenda, ma tra colpi di scienza non certo scontati e deviazioni della trama il romanzo conserva la sua piacevolezza fino in fondo.
Forse l’unica cosa che lascia un po’ insoddisfatti è la vicenda personale di Colter, che resta volutamente irrisolta come un fil-rouge per costringe il lettore a una forzosa fidelizzazione alla serie.
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Harry Bosch gioca su più tavoli
Harry Bosch è in pensione ormai da anni, ma, nonostante i numerosi problemi di salute, non ha smesso di occuparsi dei casi irrisolti.
Al ritorno dal funerale del suo mentore, John Jack Thompson, il poliziotto che gli ha insegnato tutto, la vedova gli fa avere un vecchio fascicolo d’indagine che il marito s’era portato a casa andando in pensione. Bosch, incuriositosi dopo aver esaminate le carte, si trova a farsi domande sull’omicidio di un ragazzo avvenuto oltre vent’anni prima e restato irrisolto, classificato come delitto nel giro della droga. Ma ci sono cose che non tornano affatto nella vecchia indagine, piuttosto affrettata, e, soprattutto, sul fatto che John Jack abbia, sostanzialmente, sottratto il fascicolo all’ufficio, senza nemmeno metterci mano.
Però, Harry ha anche altri casi da risolvere. Ha appena aiutato il fratellastro, l’avv. Mickey Haller, a far cadere le accuse per l’omicidio di un giudice mosse a carico di un suo cliente, ma non accetta che l’assassino resti impunito. Giacché i poliziotti incaricati del caso non intendono riaprire le indagini, convinti come sono che il colpevole sia proprio colui che Harry ha contribuito a liberare, si sente in obbligo, lui, di scoprire il vero autore del crimine.
Infine c’è pure la brutta storia di un ragazzo morto bruciato vivo nella sua tenda, in un accampamento di homeless. Le indagini preliminari le ha fatte la sua amica Renée Ballard, investigatrice del turno di notte a Hollywood. Parrebbe un tragico incidente: la stufetta che s’è ribaltata e ha incendiato tutto. Ma Ballard non ne è assolutamente convinta, tuttavia, ufficialmente, non ha l’autorità di investigare visto che il caso è stato trasferito al Dipartimento dei Vigili del Fuoco; però, ufficiosamente…
I due cocciuti detective si trovano così a collaborare in parallelo e “sotto traccia” su quei tre casi con la testardaggine che caratterizza entrambi. Le sorprese non mancheranno, salteranno fuori inquietanti connessioni, ed entrambi correranno seri rischi personali.
È assai difficile che Michael Connelly deluda. È un maestro dei gialli in particolare in quelli definiti police procedural, cioè quelli incentrati sulle minuziose attività che i poliziotti debbono seguire e dove i metodi e le tempistiche del Los Angeles Police Department vengono accuratamente osservati e descritti. Anche in questo caso la narrazione procede spedita come un meccanismo ben oliato, magari non abbiamo molta suspense e non sempre l’azione è travolgente, ma non si incappa mai in un calo di attenzione e la lettura è piacevole dalla prima pagina all’ultima.
Nonostante le storie siano sostanzialmente tre che si intrecciano tra loro e con le vicende personali e familiari dei due detective, è facile seguirne il dipanarsi e restarne attratti e coinvolti.
In passato, leggendo i romanzi di Connelly, ero rimasto affascinato dal fatto che, in essi, l’A. non dimenticasse mai di affrontare il lato umano delle questioni, sia approfondendo le personalità, le caratteristiche e le tortuosità dei protagonisti, sia sviscerando il lato psicologico anche dei delinquenti.
In questo romanzo, forse, questo aspetto è meno presente, ma, ormai, Hieronymus Bosch è oltremodo familiare ai lettori di Connelly, in quanto protagonista di decine di storie. Pure la detective Renée Ballard, la spigolosa poliziotta relegata al turno di notte (definito dai colleghi “l’ultimo spettacolo”) per il passato scontro con uno dei suoi capi, ormai è persona nota e ben delineata in passato, quindi si sente meno la necessità di una introspezione psicologica dei due.
Però le preoccupazioni di padre di Bosch non possono che renderci simpatico e decisamente umano il suo personaggio, mentre la scontrosa riottosità di Ballard, e principalmente, i motivi per i quali la donna è così dura con sé stessa e con gli altri. sono comunque elementi caratterizzanti e qualificanti della storia.
Insomma si tratta di un buon libro, ben scritto e piacevole a leggersi, del genere utile a “staccare la spina per qualche ora” per una immersione totale nell’indagine di polizia.
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Una vittima da sacrificare.
La storia inizia con la fuga da un campo di prigionia tedesco di due francesi, Bernard e Gervais. Siamo nel 1941, i due riescono nel loro intento, rifugiandosi su un treno, sempre all'erta e con il terrore di essere scoperti. A Lione scendono di soppiatto e Bernard, nell'intrico di binari dello snodo ferroviario, viene travolto da un convoglio perdendo la vita. Gervais, disperato, prosegue a piedi: ha un indirizzo dove abita Hélène, la madrina di Bernard, raggiunge a fatica l'abitazione e, sono passati tanti anni, si fa passare per Bernard, non avendo il coraggio di dire la triste verità: viene accolto amorevolmente anche dalla sorella di Hélène, Agnes, rifocillato e ospitato in una camera libera. Inizia così la vicenda narrata da Pierre Boileau e Pierre Ayraud, autori di una lunga serie di romanzi polizieschi, alcuni dei quali oggetto di versione cinematografica da parte di Hitchcock e Clouzot: l'opera è datata 1955, questa del 2024 è la prima edizione digitale. Iniziano anche i tormenti del cosiddetto Bernard: le due sorelle lo coccolano, riescono lentamente a sedurlo con la proposta, da parte di Hélène, di sposarlo. Le due, all'apparenza ingenue e sincere, hanno un carattere subdolo e intrigante: lui vorrebbe parlare apertamente, cancellare dubbi, presentarsi con la sue vera identità, intuendo anche, da spifferi e bisbigli, che la verità è già ben nota alle due ospitanti.
L'arrivo improvviso della sorella di Bernard, Julia, spariglia le carte e complica i rapporti tra i protagonisti: c'è in ballo un'eredità milionaria da parte di un vecchio zio di Bernard, i soldi fanno gola , il gioco si fa duro anche perché la nuova arrivata viene a sapere la vera identità del fuggitivo dalla prigionia. Due eventi mortali (uno da fuoco tedesco, l'altro da probabile avvelenamento) complicano (o semplificano) la storia: Hélène e il cosiddetto Bernard si sposano, ma il diabolico disegno della donna prosegue inesorabile, giorno dopo giorno, confidando nella debolezza della vittima designata, acquiescente e ormai rassegnata.
Il romanzo si svolge tutto in un ambiente claustrofobico, all'interno di un appartamento dal fascino sinistro: il fuggitivo, alle prese con due e poi con tre donne, vorrebbe chiarire la sua posizione ma è messo a tacere subdolamente da sorrisi, piccoli favori, mosse pietose: per lui è una partita persa, sembra dibattersi sempre più stancamente nella rete di un ragno esperto che ha bene in mente un suo piano criminoso.
Grande l'abilità degli autori nel dosare i momenti dell'intrigo. I personaggi sembrano sempre sull'orlo di una crisi di nervi, poi, come se nulla fosse, si adattano, quasi forzatamente, ad un comportamento normale, freddo, distaccato, fintamente amichevole e collaborativo. Soprattutto sul carattere delle tre donne gli autori mostrano uno studio psicologico accurato, adeguato a ciascuna di esse: una passionale e poco razionale, l'altra fredda, decisa, determinata, l'altra ancora (l'ultima arrivata) volgare e capace di fingere senza rimorsi...
Un romanzo che scava nei meandri più occulti della mente umana, e che , pur dopo settant'anni dalla prima uscita, riesce a rivelarsi ancora amaramente attuale.
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Second life
Lolita ritorna, ma stavolta non è lei la protagonista. E per la prima volta la lente di ingrandimento di questa autrice punta ad un personaggio maschile, che è legato sentimentalmente ed affettivamente a Lolita, giusto per dargli luce in questo, penso, primo episodio di una nuova serie. La passione fra Lolita e Caruso, il commissario sulla Harley, si è rigenerata in altra forma, affetto, solidarietà, complicità e stanno, entrambi, cercando di liberarsi delle loro prigioni mentali per affrontare la vita su binari paralleli che però, quando hanno bisogno l’uno dell’altro, si possono anche intersecare. Lolita ha sempre una risata travolgente e cristallina, da verace donna del Sud ha la sindrome del grillo parlante, nonché una bontà innata che la porta a dimostrare sempre un forte senso di protezione verso le persone care, a volte è rigida come uno steccato, a volte è tenera come il burro. E Caruso? Caruso è ancora da scoprire. Per il momento mi sembra ancora che viva di luce riflessa. Si ritrova per le mani un caso abbastanza complesso e nel corso delle indagini, comincia ad avvicinarsi al mondo dei giochi di ruolo, mondo che anche io non conoscevo, che è un hobby per tanti. A volte questo hobby travolge un po' le persone che si ritrovano estraniati dalla realtà, da cui sono scivolati via per vivere una seconda vita parallela. Che però a volte li può soffocare più della prima, da cui hanno voluto a tutti i costi scappare. Le venature di questa storia sono tante, si corre su e giù per l’Italia, per ritrovare in tutti i posti comunque sempre le stesse dinamiche di sopraffazione e di disagio sociale. Noir interessante. Non travolgente. Però abbiamo fiducia nella crescita del personaggio e nelle sue prossime storie.
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Ai calzini un nome non lo vogliam dare?
Dovrete perdonarmi la pedanteria, ma vista la confusione che regna attorno alla serie Il romanzo di Excalibur in Italia, ritengo di dover partire con una precisazione. In questo commento andrò ad analizzare le prime tre parti dell'originale "The Winter King", pubblicate individualmente con il titolo italiano "Il re d'inverno"; infatti a differenza di quanto riportato, ad esempio, su Wikipedia nessuno dei tre volumi di The Warlord Chronicles è stato mantenuto intatto nelle vecchie edizioni nostrane. Soltanto quest'anno, in occasione dell'adattamento televisivo, Longanesi ha deciso di realizzare una versione integrale del primo romanzo.
Chiarito quale sia il testo al quale mi riferisco, pasamo all'effettivo contenuto. Traendo a piene mani dalle leggende del ciclo arturiano, Cornwell decide di realizzarne una versione storicamente accurata e sceglie come voce narrante Derfel Cadarn, un tempo guerriero fedele ad Artù ed ora monaco cristiano. Sotto la protezione della regina Igraine di Powys, l'uomo redige una cronistoria partendo dal 480, anno in cui nacque l'erede al trono di Dumnonia Mordred; in questa prima parte Derfel è soltanto un ragazzo alla corte di Merlino, ma il suo coraggio lo porta presto a diventare un valente soldato, prima agli ordini del campione del regno Owain e poi dello stesso Artù. Mentre lo vediamo crescere, assistiamo alle innumerevoli guerre che si combattono sul suolo britannico, contro i diversi popoli invasori ma anche tra gli stessi britanni.
Più che una trama uno spunto quindi, che devo dire mi è piaciuto parecchio perché offre margine di manovra al narratore e gli permette di intervenire in alcuni punti con dei commenti pungenti. Penso sia un peccato infatti che la voce di Derfel si eclissi nelle parti in cui ritorna completamente al passato, perché è un valido modo per rendere la prosa personale e distintiva. In generale, sono comunque riuscita ad apprezzare lo stile di Cornwell, e lo dimostra il fatto che le sue numerose descrizioni delle battaglie (un elemento non troppo gradevole per la sottoscritta) non mi hanno mai annoiata, e sono perfino riuscite ad intrattenermi.
L'altro grande merito del caro Bernard è l'aver delineato un'ambientazione storica il più possibile genuina e credibile. Senza risultare pedante, l'autore arricchisce i luoghi visitati da Derfel con comparse mai banali, tradizioni particolari e dettagli di vita quotidiana: è facile così lasciarsi trasportare in questo tempo lontano. E seppure i lati negativi del passato non manchino, non viene dedicato loro più tempo di quanto necessario per rimanere fedeli alla Storia, con un'unica (e non così piccola!) eccezione.
Tra i pregi del romanzo, penso si possa includere anche Derfel stesso, in particolare la sua versione anziana dal piglio alquanto spiritoso. Un altro personaggio che ho trovato interessante è Nimue, qui presentata come una giovane sopravvissuta ad un naufragio e per questo finita alla corte dei graziati di Merlino; peccato solo sia meno presente di quanto mi sarei aspettata.
I grandi assenti sono però Merlino stesso (ma diciamo che ha una buona scusa), Artù e Morgana. Il sovrano che non fu mai re è presente in modo regolare solo nella seconda parte -anche se possiamo avere fiducia in un suo ruolo più centrale nei seguiti-, mentre la sacerdotessa viene inizialmente presentata come un carattere centrale e quasi dimenticata non appena il focus passa dai contrasti religiosi a quelli politici e territoriali. Più in generale, credo ci siano diversi personaggi all'interno di questo corposo cast che potevano ambire ad un ruolo più importante.
Anche l'assenza di svolte imprevedibili ricade nei difetti del titolo; la mia maggiore riserva riguarda però l'eccezione alla quale accennavo prima, perché Cornwell non solo calca abbastanza la mano sugli abusi sessuali, ma lo fa con una notevole superficialità. Ad esempio, alla prima uccisione di Derfel viene dedicato del tempo in cui lui ha la possibilità di ragionarci sopra e decidere comunque di intraprendere la carriera militare, mentre alle numerose personaggie vittime di violenza non si concede più di mezza riga per esternare il dispiacere del protagonista. Pur rimanendo coerenti al contesto scelto, si poteva lavora un po' di più su questo aspetto.
NB: Libro letto nell'edizione Mondadori
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Il thriller che non c'è
Il gioco di Ripper è un gioco di ruolo basato sull’indagine e la risoluzione di delitti misteriosi.
Master del gioco e protagonista del libro è Amanda una ragazza di sedici anni figlia di genitori divisi, la mamma , Indiana Jackson, medico olistico, e il padre, Bob Martin, ispettore della squadra di polizia di San Francisco
La ragazza ha un forte legame con il nonno materno, Blake, anche lui facente parte del gioco di ruolo, insieme ad altri quattro ragazzi sparsi in tutto il mondo.
Amanda è una ragazza curiosa, intelligente, sopra la media, e tenace, affascinata dal mondo della criminalità e profonda conoscitrice, strano per la sua età, degli animi umani, dote che ha ereditato da sua madre.
Quando in città si verificano una serie di inspiegabili omicidi, apparentemente diversi tra loro, anche nel modus operandi, Amanda con il suo intuito riesce invece a trovare un nesso logico e indaga, con l’aiuto del nonno e del papà su un presunto serial killer.
Questo romanzo è considerato l’esordio del thriller per la scrittrice.
Spiace dire che del thriller e di suspence ha poco e niente, la gran parte del libro, almeno tre quarti, è fatta di altro, soprattutto di descrizioni dettagliatissime di infiniti personaggi, davvero troppi, per cui si fa fatica a tenere aperti gli occhi.
L’ultima parte poi subisce un’accelerazione, che trovo forzata, tanto per chiudere la storia e il romanzo.
La struttura quindi risulta sbilanciata, e il “thriller” sembra quasi una scusa per narrare invece vita, morte e miracoli di tutti i personaggi nominati nel libro, anche di quelli più insignificanti e non influenti ai fini della storia.
Ovviamente nulla da dire allo stile della Allende, a tutti ormai ben noto, che ha una particolare cura nel delineare le complessità dei caratteri umani, ma che ho trovato, in questo caso, un po’ avulso dal contesto, come a dare più attenzione ai protagonisti che alla storia, che risulta invece fragile e a margine.
In sintesi dispersivo e soporifero.
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Web e malavita: il confine è sempre più liquido
In una modernità basata su interconnessione e metatecnologia, le mafie dei giorni nostri ricoprono un ruolo tutt'altro che marginale rispetto alla comunità civile "perbene": da 'fucili e bombe' e vecchie e polverose bische clandestine, i 'fornitori di protezione e risolutori di problemi' si sono evoluti 'nel loro incessante processo di adattamento alla mutevolezza dei contesti' socio-economici, superando così il confine tra reale, virtuale e digitale anche grazie a uno 'Stato troppo spesso impotente e/o vulnerabile' e a legislazioni internazionali disomogenee.
E' una scrittura scorrevole e mai troppo tecnica, ormai consuetudine per chi mastica abitualmente i testi del magistrato reggino e del saggista esperto di 'ndrangheta, ad aprirci una nuova porta di conoscenza circa cybersecurity, criptovalute, dark web, telefonini crittografati, "mining", speculazioni ad alto rendimento, NFT, droghe con sigle pseudo-chimiche, stimolazione dopaminica, Metaverso, machine learning, post-fordismo e social media come grande strumento di autoaffermazione e propaganda.
Consapevolezza, contributo (f)attivo, attenzione, etica e sostenibilità sono concetti che si intrecciano condensandosi nella parte finale, dedicata al compito delle forze dell'ordine di "intercettare i pizzini del Terzo Millennio': un dovere, tuttavia, che passa anche attraverso ognuno di noi.
Quel 'noi' fatto di mentalità, di resilienza, di visione grandangolare e di compromesso che soddisfi tecnologia, ambiente e uomo.
Perché l'opinione pubblica non sia direzionata e manovrata;
perché 'la storia ci ha dimostrato che, quando la società si unisce per affrontare minacce comuni, può ottenere risultati straordinari';
perché 'il futuro dipende da ciò che decidiamo di fare oggi'.
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"Fuori dai confini", entrambi degli stessi autori.
Una clessidra
«[…] La donna pendeva da un cappio legato a un lampadario. Gli dava la schiena, la testa china sul collo spezzato. Le afferrò le gambe nella disperata speranza di trovarle ancora vive. Sotto di lei, una morbida scarpa di pelle giace sul pavimento. Mentre le afferrava i polpacci, uno sguardo rivolto al viso sopra di lui gli rivelò un paio di amare verità.
La prima era che la vita che un tempo ardeva luminosa in quel corpo si era spesa e non sarebbe più tornata, per quante preghiere avrebbero recitato, per quanto abili fossero stati i medici. Era sparita come la luce di un giorno ormai andato.
La seconda verità che gli si impone, serrandogli il respiro nel petto, fu che la donna che stringeva, la donna che oscillava nella brezza, non era la lontana, inafferrabile Coraline Tooke. No. La povera donna era sua madre, Firenze. Quella povera creatura tragica, maltrattata, piena di rimorsi. Impiccata a una corda bianca, di quelle destinate al legname grezzo o alle barche.»
“The turnglass. La clessidra di cristallo” di Gareth Rubin è quello che si suole definire un libro tête-bêche e cioè due storie che uniscono due misteri e due epoche diverse ma per mezzo di un filo conduttore che collega le vicende. Si tratta di una vera e propria tecnica narrativa che veniva utilizzata soprattutto in passato dagli stampatori.
Siamo a Londra, è il 1881. Qui Simeon Lee, medico, è ossessionato dal colera. Vuole sconfiggerlo, studiarlo, ma non riesce ad ottenere i fondi di cui necessita per portare avanti le sue ricerche. Per questo decide di accettare un incarico alquanto particolare: si recherà a Colchester, Contea dell’Essex, e da lì nell’isola di Ray, da un lontano parente, il reverendo Oliver Hawes che manifesta un peggioramento delle condizioni di salute e che assisterà. Sull’isoletta sorge la residenza del sacerdote, Turnglass House, edificio a due piani che è sormontato da una banderuola fatta a clessidra di cristallo. È qui che vivono padre Oliver e sua cognata Florence su cui verte una condanna agli arresti domiciliari a seguito dell’aggressione al marito di poi morto. Che sia stata lei ad avvelenare l’uomo nonostante il confino nell’edificio stesso in un’ala che impedisce ogni contatto e che ricorda una gabbia di vetro? Per il dottor Lee non c’è tempo da perdere, ha inizio una corsa contro il tempo.
1939, Los Angeles. Ken Kourian sta avendo un grande successo. Il suo sogno dopo la laurea a Boston era proprio quello di sfondare nel cinema. Conosce per caso Oliver Tooke, scrittore acclamato e figlio del governatore dello Stato e con lui trascorrerà molti momenti nella villa in vetro sormontata da un segnavento a forma di clessidra di cristallo. Tuttavia, la morte di Oliver interromperà quella che era la quiete del luogo. Ken lo troverà cadavere in quella che è la “torre d’ispirazione” e cioè il luogo dove lo scrittore si rifugiava per scrivere. Sarà rinvenuto morto a causa di un colpo di pistola alla testa. Che si sia suicidato proprio dopo la pubblicazione di “Turnglass House”, l’atteso romanzo? Insieme alla sorella Coraline, Ken si recherà sull’isola di Ray dove sorge la casa di famiglia dei Tooke per indagare. E ripartirà proprio dal romanzo che torna indietro nel tempo, rievocando la storia del dottor Simeon Lee che nel 1881 cercò proprio di salvare la vita del reverendo Hawes.
«[…] È quello su cui ho lavorato. In un certo senso. Persone che cambiano da un punto di vista all'altro. Da un anno all'altro." Fissò dalla soglia le onde nere che sciabordavano sugli scogli. "Le persone cambiano".»
La formula usata da Gareth Rubin in “The turnglass. La clessidra di cristallo” è molto originale e lascia a chi legge una libera interpretazione sul come leggere lo scritto e sul come considerarlo. Che si tratti di un volume unico diviso in due o di due storie che si fondono tra loro, il romanzo solletica la curiosità.
Lo scritto si costruisce interamente su un gioco di specchi e pian piano ricompone il puzzle. A ciò si aggiunge uno stile narrativo che accompagna pagina dopo pagina e che muta la sua veste a seconda delle situazioni che incontra. Lo stile, cioè, cambia e muta a seconda dell’epoca storica di riferimento così da rendere ancora più veritiero e plausibile il narrato. È nella conclusione dei due narrati che però resta un poco di amaro in bocca. Se da un lato siamo incuriositi dalle vicende, dall’altro il dubbio sullo sviluppo e l’epilogo scelto resta. È come se mancasse qualcosa, come se mancasse quel qualcosa a far sì che il romanzo funzioni nella sua interezza doppia. Anche dal punto di vista del ritmo a tratti è come se ci fosse un rallentamento, non regge ai colpi di scena e il lettore finisce con l’intuire il dove si andrà a parare. Cade quello che è l’incanto narrativo, per dirla alla Umberto Eco.
In conclusione, “Turnglass. La clessidra di cristallo” di Gareth Rubin è un romanzo dai buoni intenti, che regala ore di piacevole intrattenimento, ma che resta in parte incompiuto, irrisolto e questo lascia molte perplessità nel lettore che resta con quel retrogusto amaro in bocca.
“Potresti”, ammetti Oliver.
“Ma non lo farai.”
“Dimmi perché.”
Oliver si infilò le mani in tasca.
“Perché hai troppo rispetto del confine tra giusto e sbagliato. Forse è proprio quello che ho bisogno d'avere intorno. Non dovrai aspettare molto.
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Un'umanità silenziosa
I libri di quest’autore trasudano di un’umanità vera, che viene ritratta attraverso i volti, le storie, i legami familiari, quelli di amicizia, quelli lavorativi. In queste pagine si vedono amori, si vivono dolori, si stringono patti. Il personaggio del commissario Ricciardi è, come sempre, ritratto come attorcigliato in una malinconia di fondo che è uno dei suoi tratti distintivi. Combattuto fra Enrica, che è una donna che non ruba gli occhi, ma il cuore, e Lidia, che invece è la donna più bella della città, ha paura di entrambe e le allontana, per poi cercarle, per poi riavvicinarsi, per poi alzare muri. Il caso poliziesco non è forse il più riuscito della serie. Prende invece sempre più corpo tutto il gruppo dei personaggi minori, che sovrasta non solo la singola indagine ma mi sento di dire anche il personaggio principale. I suoi sono romanzi corali. Belli come ce ne sono pochi, perché ogni personaggio minore ha il suo spazio, evolve e si intreccia agli altri. In un disegno che è una creazione di gruppo perfetta.
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Il piano inclinato
Un libro che inizialmente mi è sembrato quasi interessante.
Si parla di tematiche assai rilevanti legate all'ambiente, al clima.
Le vicende però paiono girare su se stesse. Il romanzo non riesce a decollare. Inevitabile dunque il calo di interesse provato.
L'io-narrante è uno scrittore sempre in bilico fra problemi personali e ossessioni planetarie.
Tracce autobiografiche ? Forse sì ma spero il meno possibile.
Una vicenda itinerante tra persone e luoghi diversi.
Ci sono intellettuali, studiosi, giornalisti ... Tutti alle prese coi problemi del pianeta e nel contempo con una vita piuttosto amara, piatta , insoddisfacente.
Una desolante rappresentazione del mondo intellettuale-scientifico-giornalistico di cui il protagonista stesso fa parte.
Circola una forte carenza di valori, carenza di senso, come se l'erudizione, quel sapere settoriale, il razionalismo non avessero prodotto cultura autentica, vita.
Il piatto linguaggio fatto di parole prive di risonanze profonde, esclamazioni neanche più ritenute volgari in quanto così diffuse nel parlato convenzionale del neo-conformismo di massa sono la misera veste che contribuisce alla deprimente sensazione di pochezza.
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Siamo condannati a essere liberi
Un continuo stimolo a riflettere per non banalizzare situazioni ed atteggiamenti che poniamo in atto e che ci circondano.
Un invito a fare ciascuno la propria parte per rendere il posto in cui viviamo e interagiamo, per obbligo o scelta, con altre persone, un posto più "cordiale" e inclusivo.
Un insegnamento, una raccomandazione, un avvertimento a non trovarci dove non dovremmo o potremmo essere, rifiutati, non accettati, disprezzati.
Avere la forza e il coraggio di fare un passo indietro o un passo in avanti. Inclusivo.
Sono le sensazioni che ho provato durante tutta la lettura. Ce ne sarebbero tante altre che non riesco pienamente ad esprimere.
Muro come difesa, barriera, protezione, salvaguardia delle frontiere da un’invasione di stranieri con intenti distruttori. Ma anche un concetto psicologico che ci induce a difendere ciò che avvertiamo come nostro.
La tentazione del muro è credere a una sola verità, a un solo libro, a un solo popolo, a una sola lingua, a una sola religione. Pluralismo e democrazia sono da combattere a tutti i costi.
L’odio non è altro che un sentimento che si autoalimenta.
Il Covid ci ha insegnato la solidarietà, ad andare oltre la nostra famiglia per farcela tutti insieme, perché proteggendo gli altri proteggiamo noi stessi.
Senza gli altri non esistiamo. Ospitalità come civiltà.
Sono impressionata dal ribaltamento del concetto “dell’aver bisogno”. Quando l’invadenza diventa essenziale per poter sopravvivere, e lo “straniero” diventa necessario. L’urgenza di un trapianto ci dovrebbe far riflettere sul concetto di selettività…
“Ogni processo di integrazione origina dall’amicizia verso lo straniero che porto in me.”
La libertà sono le libertà, altrimenti sono fanatismo: non ascolto, non interagisco con gli altri, leggo un solo libro.
La calunnia è attribuire il non detto e il non fatto.
L’invidia verso chi ha raggiunto traguardi a cui noi non siamo arrivati.
Uno vale uno è solo una retorica populista, una malattia della democrazia, al solo fine della propaganda elettorale. Uno non vale uno.
Questo saggio scritto da Massimo Recalcati, psicoanalista tra i più noti in Italia, è una lettura che consiglio a chiunque voglia riflettere sulla mancanza di confronto, di solidarietà, di empatia, sul sapere senza conoscere, sul prendere senza voler dare, sull'angoscia del contagio, sul non mettersi mai in dubbio, sulla certezza di aver capito.
In brevi capitoli scritti in una prosa scorrevole e comprensibilissima conduce chi ha voglia, in una breve lezione di psicoanalisi. Interessantissima.
Buone prossime letture
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Eden in Islanda
«[…] A sei anni, come regalo di compleanno ricevetti un mappamondo che poggiava su un supporto. Aveva una lam¬padina all’interno e si poteva far ruotare. Chi l’aveva fatto non aveva dedicato molto impegno all’isola in cui vivevo io, l’Islanda, per cui i suoi contorni erano approssimativi. Per giunta l’isola era di colore bianco, a significare che era ricoperta di ghiaccio come il polo Nord. Io sapevo che non era così.»
Auour Ava Olafsdottir torna in libreria con un nuovo romanzo intitolato “Eden”. In quest’ultima opera a prevalere sono due temi: la riscoperta di sé e la cura dell’ambiente, tema oggi come oggi al centro dell’attenzione di molti scrittori. Alba, la nostra protagonista, è una linguista appassionata di lingue minoritarie e per questo a rischio di estinzione. Il suo lavoro la porta a viaggiare. Se da un lato edita, dall’altro deve muoversi per tutelare queste lingue. Ma questti spostamenti hanno un costo, soprattutto per il mondo che la circonda.
Innanzi alla consapevolezza del carbonio prodotto, ella sceglie di piantare una foresta di betulle in uno dei campi che la circondano. La foresta diviene così un modo per riparare il danno ambientale ma diventa anche il suo personalissimo rifugio, un luogo dove ritrovare il contatto con il proprio essere e non solo con la natura che la circonda. Ciò la porta a riscoprire la bellezza della semplicità ed anche l’importanza del vivere in simbiosi e in armonia con il mondo che la circonda.
«[…] Un giorno qualcuno parla una lingua e dice di amare o di avere fame e il giorno dopo nessuno la parla piú.»
Altri due sono i parallelismi interessanti che ci presenta in Eden. Da un lato abbiamo un parallelismo tra piante e immigrati perché gli alberi “stranieri” al territorio roccioso faticano ad attecchire e ad integrarsi nel nuovo territorio esattamente come gli immigrati una volta che sopraggiungono nel nuovo mondo, dall’altro abbiamo quello con il linguaggio appreso proprio dagli abitanti del villaggio. Ecco allora che il linguaggio diventa lo strumento di connessione e di integrazione e l’amore si trasforma nel modo prediletto per superare i vincoli e connettere culture costruendo ponti.
A tal proposito, la stessa Islanda è metafora di questa difficoltà ad attecchire, per il suo clima, per il suo essere spesso fredda e inospitale agli occhi dei più.
«[…] Conosco quello sguardo. So cosa significa. Io volevo e non volevo.»
Le opere della Olafsdottir sono sempre molto pungenti e spesso trattano di storie dove i protagonisti sono a un bivio e sperimentano sull’interrogazione di se stessi. Eden esplora proprio questi temi. Passa dalla ricerca del sé al rapporto con la natura ma non manca di affrontare anche temi quali l’inseguire i propri sogni.
È naturale immedesimarsi nelle sue storie così come lasciarsi trasportare dallo stile fluido e magnetico. Altra grande peculiarità è quella di riuscire a ricostruire il mondo dell’Islanda per quel che è, con tutti i suoi pregi e difetti.
“Eden” ci invita a riflettere, ci invita a pensare a quelle che sono le nostre azioni e le relative conseguenze sull’ambiente che ci circonda, ci ricorda quanto sia importante accogliere e integrare, ma ci ricorda anche e più semplicemente di non perdere mai la speranza.
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Una fatica finirlo
Fabbricante di lacrime è un romance (a dispetto della cover che fa pensare a un fantasy) autoconclusivo che racconta la storia di due adolescenti cresciuti in orfanotrofio che si ritrovano a essere adottati dalla stessa coppia e ad innamorarsi (lui lo è già ma fa di tutto per farsi odiare perché non si ritiene degno).
La storia è raccontata per la maggior parte dalla protagonista femminile, Nica ma di tanto in tanto spuntano capitoli in terza persona dal punto di vista di Rigel, il protagonista maschile.
Sinceramente, la tentazione di abbandonarlo è stata tanta ma grazie alla voce narrante sono riuscita, a fatica, a finirlo.
Secondo me, il romanzo aveva bisogno di un vero editing perché ci sono frasi che non hanno alcun senso e anche la struttura del romanzo è rimasta troppo legata a Wattpad (dove è stato pubblicato inizialmente), invece andava adattato affinché diventasse più scorrevole.
La trama è alquanto risicata e si dipana in una serie di episodi slegati tra loro, i protagonisti sono poco credibili (invece, i secondari fanno solo da contorno e non aggiungono niente alla storia), stile di scrittura pomposo e questo appesantisce ancora di più la lettura.
I personaggi maschili (tranne il padre adottivo) sono tutti dipinti come negativi per far risaltare Rigel come il “buono” ma in realtà anche lui non è un santo (va in giro a picchiare la gente, ruba foto dalla camera della protagonista e la protagonista stessa inizialmente ha paura di lui).
Tematiche serie come abusi, malattie e l’adozione vengono trattati in maniera troppo superficiale e frettolosa per finire un’ambientazione, salvo qualche cenno qui e là, poco curata.
Non mi spiego il successo di questo libro ma guardando l’età media di chi lo ha apprezzato si possono azzardare delle ipotesi.
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Volo pindarico e ritorno….
…” sono solo due le buone scelte che ho fatto in vita mia. La prima fu quella di seguire maestro Yehudi su quel treno all’ età di nove anni. E la seconda fu di sposare Molly Fitzsimmons “…
Il racconto di un viaggio tra le pagine di un manoscritto che abbraccia una vita intera, un reale indigesto in attesa dell’ inverosimile, sospesi nel vuoto, cadendo, risollevandosi innumerevoli volte, una miscela di reale e immaginario, sospinti dalla forza di un sogno alla fine negato, restituiti alla vita vera, impreparati alla stessa.
America, anni ‘20, Walter Rowley, nove anni, orfano senza futuro, originario di St. Louis, un ragazzino stupido, permaloso, testardo, si imbatte nel suo futuro mentore, maestro Jehudi, che riconosce in lui un dono, qualcuno da addestrare e rendere un bambino prodigio.
Anni difficili, pericolosi, turbolenti, torture, insidie, dolori insopportabili per arrivare, un giorno, alla levitazione, sospeso da terra per un certo lasso di tempo, dando l’ impressione di volare.
Una dimensione parallela, educazione poco sentimentale e molto reale, attraverso un’ America povera, violenta, razzista, psicogena in un viaggio itinerante per chi diviene una star o un semplice fenomeno da baraccone, privato delle coordinate del proprio esistere.
Accompagnato da Maestro Jehudi, incomprensibile nel proprio mostrarsi, dal calore di una famiglia ristretta sterminata ( mamma Sue ed Esopo ) dalla cieca violenza del Klu Klux Klan, in Walter, dopo svariati tentativi di fuga dall’ insostenibile, pervaso dal un urgente bisogno d’ amore, qualcosa cambia.
… La storia di quei mesi in fondo si riduce a questo. Avevo fame di amore e non c’era cibo capace di saziarmi…
Maestro Jehudi, insegnatagli l’ arte, lo lascia al proprio destino, i viaggi e gli spettacoli l’hanno trasformato in una celebrità, la gente paga per alimentare curiosità e sogni, stemperando la durezza dei giorni. Lui stesso vive un tempo, il 1928, in cui sembra entrare nel mondo dei divi, una stagione di libertà e di protezione, non più Walter Rawley, il ragazzino prodigio, per un’ ora al giorno, ma un bambino prodigio e basta,
…” qualcuno che non esisteva se non quando stava sospeso a mezz’aria”…
La terra ferma è un campo minato da trappole e ombre, tutto quel che vi accade è falso, solo l’aria risponde a verità, una gioia transitoria, insidiosa, effimera, il pericolo invalidante di una levitazione ripetuta risveglia Walter dal sogno di restare bambino. E allora precipita in una vita da costruire nel respiro di un’ umanità variegata e difforme, riformulando il presente per pensare al futuro.
…” Finché riuscivo a non ripensare al passato potevo illudermi di avere ancora un futuro”…
Lavori transitori, incontri, perdite, fallimenti, una quotidianità indigesta, la levitazione prevedeva un stato di sospensione, la caduta è dolorosa, sognare è lecito, come volare, ma la vita è altrove. Gli anni restituiranno un uomo sposato, adulto, vedovo, depresso, rinato, di nuovo bambino, sulla soglia della vecchiaia.
Walter dona ciò che gli era stato donato, amore e tempo, si rivede nell’ unicità di un bambino insolente e violento, desiderando farne un nuovo prodigio, ma quanto dolore nel ricordo delle sofferenze da lui subite.
Un lungo viaggio scandisce una vita nelle crude parole di un libro, forse l’ idea di volare è un semplice dono che ci appartiene naturalmente, un fatto mentale e non l’ esito di atroci sofferenze fisiche…
…” in fondo non credo che ci voglia un talento particolare per sollevarsi da terra e librarsi a mezz’ aria. È qualcosa che tutti abbiamo dentro, basta smettere di essere se stessi. Chiudete gli occhi, allargate le braccia e lasciatevi svaporare. A quel punto, poco per volta, vi solleverete da terra, ecco, così “…
Mr Vertigo è una parabola tra cruda realtà e sogno immaginifico che attraversa oltre un cinquantennio di storia americana, focalizzata su un espediente di eccezionalità ( il desiderio di volare ) per narrare la tumultuosa ascesa e la repentina caduta di un individuo meno speciale di quello che sembra.
Un’ unicità che nasconde fragilità, bisogno d’ amore, violenza, solitudine, tratti di immaturità fino alla malattia e al delirio con una possibilità di redenzione e riscatto, la necessità imprescindibile di calarsi nella quotidianità, di sopravvivere, vivere, amare, soffrire, sperare. Tratti riguardanti una vita intera e uno stato di normale eccezionalità, in fondo tutti possiamo volare…
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Ossessione funesta
…” Scusa. Ti amo Nelly. Anch’io, Bernard”…
Quale l’ identità di Bernard Foy, il menomato protagonista del romanzo, quale porzione di se’ egli rappresenta, omette, nasconde, accompagnato da un vissuto monodimensionale, quale futuro per chi fatica a stare nel presente, quale legame amoroso con chi lo ama e lo protegge, come vive una menomazione che restituisce solitudine, gelosia, rabbia, quanto riesce a leggersi dentro, vittima della propria visione maniacale, come indirizza il proprio destino?
Anni prima Bernard ha subito l’ amputazione di entrambi le mani a causa di una mina, da venti è sposato con Nelly, una donna che ritiene d’ amare e che amorevolmente continua a prendersi cura di lui, unico sostentamento della coppia,
Lunghe ore trascorse alla finestra in una metropoli rovente in compagnia della propria menomazione, Bernhard osserva, immagina, riflette, si introduce nelle vite altrui, rivede la propria storia, versione critica di se’, di ciò che è stato, che avrebbe potuto essere, che non è, costruendosi una trama del tutto personale, percorso da una gelosia incontrollabile, protagonista del suo non essere, pronta a impadronirsi di reale e immaginario restituendo un esito infausto.
Come sempre una trama scarna, essenziale, claustrofobia, sguardi, attese, silenzi, tratti costruiti su possibilità, presupposti, inganni, un reale altrove e diverso, fantasmi rivisitati, un’ idea marchiata da un’ ossessione in un declino inevitabilmente certo. Bernard si nutre di un se’ dal quale vorrebbe sottrarsi auspicando prospettive diverse, la gelosia lo prende e si fa sostanza, si allontana e ritorna confutando speranze illusorie, imprigionandolo in una solitudine e in uno stato di follia che credeva lontano.
Che cosa Bernard intende per gelosia, termine usato e abusato, legittimato e delegittimato da comportamenti avversi e dal proprio delirio, come un’ emozione può sfociare in un sentimento dal quale è impossibile sottrarsi?
Una casa, una strada, rumori di sottofondo, passi, inquilini, volti noti, un auto reclusione e un ribaltamento di ruoli, Bernard a casa, Nelly al lavoro, come giustificare una situazione siffatta laddove ci si ritiene infelici per una mutilazione che ha sottratto al protagonista la reale possibilità di vivere?
Anni di attesa, assaporando le abitudini altrui, una solitudine imbrattata di cattivi pensieri e trasformata
…” in un turbamento a precedere la vertigine”…
Quando l’ ossessione è manifesta, il presente frequenta il passato in una fragilità evidente, si racconta un’ altra storia, a quel punto quanto bastano condivisione, confessione, ascolto, un’ intimità sfociata nella tolleranza a restituire il respiro della normalità cancellando il proprio senso di colpa?
C’è e rimane un sentimento vivido, uno sguardo posato su
…” una porta dal pomolo di maiolica”
, un senso di vuoto che e’ solitudine ingravescente. E allora pensieri invisibili popolano l’ intimità di un appartamento trasformandolo in inquietudine manifesta, sorrisi, allegria, cupezza, sbadataggine, l’ idea che la vita del coniuge sia decisamente più interessante di quella vissuta all’ interno del proprio appartamento.
In questa vita non vita, in parte immaginata, l’ ossessione dell’ invisibilità e della menomazione dell’ altro è uno specchio che riflette la propria colpa, il bisogno di carezze, la fragilità di coppia, uno stato di gelosia permanente, un reale previsto, lo sguardo posato all’ interno di una stanza silente che restituisce distruzione e morte.
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La pantera
Siamo a Ginevra, in Svizzera, i primi di luglio del 2022. Si sta svolgendo una rapina in una gioielleria del centro.
Il nuovo romanzo di Joël Dicker si apre così. Il lettore è fin da subito rapito dalla storia e si trova a girare una pagina dietro l’altra senza nemmeno accorgersene. Lo stile di Dicker ha questa caratteristica, ti fa immergere nella trama senza nessuno sforzo, puoi leggere senza preoccuparti della noia, sarai solo piacevolmente solleticato a ricostruire tutte le tessere dell’enigma fino alla conclusione.
Il romanzo si sviluppa ripercorrendo alcune settimane precedenti alla rapina, durante le quali due coppie con figli fanno amicizia. La prima coppia vive in una villa ultralussuosa dalle pareti di vetro, immersa nella foresta appena fuori Ginevra: sembrano avere una vita perfetta, ricchissimi, realizzati nel lavoro, molto belli e sempre in forma smagliante, hanno una famiglia da spot pubblicitario e sono intensamente innamorati l’uno dell’altra. Gli altri due invece vivono nella stessa zona ma in una delle villette a schiera che i più ricchi chiamano “L’obbrobrio”. Hanno una vita piuttosto ordinaria, fatta di impegni lavorativi e familiari. La coppia appare in evidente crisi, in particolare il marito, che è alla ricerca di nuove emozioni.
Non voglio svelare di più riguardo alla trama per non rovinare a nessuno il piacere della lettura.
Dal romanzo, che è un accattivante page turner e una buona lettura da intrattenimento, emerge anche una certa analisi sociale sullo sfondo: la curiosità, l’ammirazione e l’attrazione che si trasforma facilmente in invidia, verso chi sembra avere tutto: i soldi, l’amore, la felicità. Nella nostra società dove i social media hanno una parte integrante è di fondamentale importanza mostrarsi e apparire in un certo modo. Il concetto che poi questa apparenza non sempre corrisponda alla realtà, che è espresso nel romanzo più volte, personalmente mi sembra abbastanza scontato e non certo originalissimo da trattare.
In ogni caso l’obiettivo di Dicker non è quello di elaborare una approfondita analisi psicologica o sociologica, il suo obiettivo è quello di raccontare una storia e di catturare completamente l’attenzione del suo lettore. E questo ritengo che lo abbia centrato in pieno.
Lettura consigliata per trascorrere delle ore piacevoli.
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Hungry Heart
«Anni dopo, ripensandoci, si era detta che a volte può bastare una parola a determinare un destino: forse se la donnina non avesse scelto quel termine, tribe, lei non avrebbe sentito sorgere dentro di sé una resistenza così ostinata.»
Eshkol Nevo rappresenta uno degli autori più amati dal pubblico italiano, questo per le sue opere sempre pungenti ma anche riflessive e che riescono a far vivere ai lettori emozioni sempre forti e incisive. Pubblicato per Feltrinelli Gramma, che inaugura, è “Legami”, opera composta da una serie di racconti che hanno quale obiettivo quello di soffermare l’attenzione del lettore proprio sulla loro complessità, profondità e fugacità. Questi racconti trattano infatti di emozioni spesso impalpabili, inafferrabili, effimere ma anche di sentimenti altrettanto profondi che vengono poi spezzati dall’evoluzione della vita. Obiettivo prevalente è anche quello di invitare i protagonisti a cercarsi e a ricercare se stessi. Non è semplice comprendere di cosa abbiamo bisogno, di chi.
Tradotto da Raffaella Scardi, “Legami” si apre con un racconto intitolato “Hungry Heart”. È uno dei testi più significativi dove un figlio accompagna il padre al concerto di Bruce Springsteen in Francia. Padre e figlio partono da Israele per assistere all’esibizione del Boss, per il genitore non c’è ancora molto tempo da vivere, per il figlio vi è la consapevolezza che si tratti di uno degli ultimi momenti che può vivere con lui. Per anni, scopriremo in seguito il perché, quest’ultimo non ascolterà più canzoni a lui appartenenti. La narrazione prosegue con “Meno drammi possibile”, scritto in cui una madre, per una serie di circostanze fortuite e dettate da un sinistro che la vede con una gamba ingessata, si trova a vivere un periodo della sua vita con la ex suocera che ormai stenta a riconoscerla e a ritrovarsi faccia a faccia con quel figlio che anni prima ha abbandonato. Adesso che è adulta comprende davvero le parole della “donnina”, anche se al tempo ne fu spaventata, anche se al tempo mai avrebbe riconosciuto la verità delle stesse. Quella parola, in particolare, tribù, fu quella che più riuscì a destabilizzarla. Ed ancora, in un altro racconto, conosciamo una donna israeliana che insieme alla sua famiglia ha lasciato il suo kibbutz e vive in un albergo in una località al confine con il Libano. Nonostante la guerra, decide di tornare a casa, quella casa che da tre mesi ha abbandonato nel silenzio, ha reso disabitata. Affronta i soldati, vuol tornare a cucinare i suoi piatti. Ed è proprio davanti alla certezza di una casa disabitata che sente la voce di un uomo nella doccia. È un giovane soldato che si giustifica evidenziando il bisogno di acqua calda dopo mesi e mesi che non riesce a farne e dopo mesi e mesi che vede la morte e la rischia a sua volta. Si chiama Shai. L’incontro si svolge con naturalezza. Lei sta cucinando, lo invita a condividere il cibo ma anche una sigaretta, proprio lei che ha smesso di fumare. Il tempo passa velocemente e in modo naturale. Sanno che devono separarsi ma il contatto che c’è stato tra i due non si potrà dimenticare. Anche una volta che sarà tornata in albergo continuerà a pensare a quell’incontro, a cantare quella canzone, “Dacci la pioggia solo quando serve” che il militare cantava sotto il gettito, non risponderà al marito e rifletterà su quel conflitto che non piace a nessuno ma che non cessa.
«Solo quando Cheryl la abbraccia molto molto a lungo, nella sala arrivi a Toronto, si rende conto di qual è il desiderio che le è sorto dentro e pensa, non glielo posso scaricare addosso ora, aspetto che arriviamo a casa, mi faccio una doccia, mi metto comoda in tuta, lei nel frattempo preparerà un chai latte, e solo allora, attraverso il vapore del chai, glielo dirò, le dirò cosa voglio prima che sia troppo tardi.»
Nevo parte sempre, in questi racconti, da un episodio minimo, casuale, ordinario. Un episodio che potrebbe manifestarsi in qualunque momento e che diventa l’elemento da cui raccontare una storia più profonda, intima e riflessiva. Quest’ultima riesce a colpire per la delicatezza dei sentimenti che le appartiene, soprattutto perché inespressi. Poche righe, le sue, con cui riesce però a mettere in scena la pièce del teatro che vuol dedicare al lettore per suscitare in lui una riflessione profonda. Al contempo, basta un gesto, quale due palmi delle mani, a unire più di un abbraccio.
“Legami” di Eshkol Nevo è una raccolta molto matura dell’autore che va vissuta a piccole dosi, gustata piano piano, poco alla volta e da qui assaporata. È avvalorata da una scrittura fluida, affatto pesante e da una serie di racconti che conquistano proprio per la loro genuinità. Non è forse una lettura d’impatto trattandosi di tante storie unite dal tema del legame ma in ogni caso arriva e resta.
«Unisce solo i palmi davanti al petto in segno di gratitudine poi si volta e va via.»
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Un week-end da incubo.
Questa volta James Patterson mi ha piacevolmente sorpreso. Finalmente un romanzo intrigante, che si distingue, per originalità e ricchezza di colpi di scena, dalla consueta routine della "Premiata Ditta", anche per merito del coautore David Ellis, ben noto e affermato scrittore , oltre che famoso avvocato e consulente politico. Il lettore è sempre emotivamente coinvolto dalle vicende narrate (siamo negli anni 2010-2011), vicende che iniziano nel bel mondo di Montecarlo ed hanno per protagoniste quattro americane in vacanza dai mariti e dai figli, Abbie e tre delle sue migliori amiche. Sono giovani, ricche, con tanta voglia di divertirsi: hotel lussuosi, champagne a fiumi, e, infine, un accogliente yacht dove, in piacevole compagnia, trascorrono la notte. Il risveglio è scioccante: gli occasionali facoltosi compagni vengono rinvenuti assassinati in macchina, con tracce e prove inconfutabili che indirizzano le indagini della polizia francese sulle quattro malcapitate, che invano proclamano la loro estraneità ai fatti. Da notare che uno de morti è addirittura un notissimo politico francese (non posso dire di più). Inizia un terribile calvario per le quattro indiziate: dopo essere sfuggite a tentativi di linciaggio da parte di folle inferocite, sono internate in penitenziari di massima sicurezza pur proclamando la loro estraneità ai delitti. Ma le prove sono schiaccianti, viene istruito un processo che, dopo vari dibattimenti e alterne vicende, le condanna a lunghe pene detentive. Abbie non cede: pur sottoposta a sevizie d'ogni genere da parte di sadiche guardiane, intuisce che c'è un'oscura macchinazione che non le farà più uscire e, addirittura, il rischio di essere eliminate in carcere, complice il direttore del carcere stesso. Sintetizzando, Abbie riuscirà rocambolescamente a fuggire, non si arrenderà mai fino a quando emergeranno scottanti verità nascoste: i veri colpevoli verranno alla luce, con un magistrale colpo di scena che svelerà tutte le manovre sotterranee per incolpare quattro innocenti. Si parla spesso di colpi di scena finali nei gialli, ma questo è veramente sensazionale, lontanissimo da qualsiasi congettura di lettori smaliziati.
Devo dire che la storia appassiona e convince: James Patterson e David Ellis hanno confezionato una vicenda complessa e ben articolata, diversa dai soliti gialli di routine. I personaggi sono ben delineati in tutte le loro sfumature, soprattutto Abbie, la protagonista assoluta, vittima inconsapevole ad eroina decisa a farsi giustizia a tutti costi. Ben descritto è anche il mondo scintillante e lussuoso che ruota attorno a Montecarlo, luogo carismatico, ove la trasgressione è di casa e quasi tutto è permesso. L'ambiente delle carceri francesi è certamente romanzato, gli autori confessano che la prione descritta è inventata: sono "licenze creative" che occorrono in certi casi particolari di cui gli autori si confessano responsabili.
Un romanzo sicuramente godibile, un incubo ben costruito che avvince il lettore e non l'abbandona più sino alla conclusione.
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Mi fermo qui
Paper Princess è il primo volume di una serie che vede protagonista la famiglia Royal composta da padre vedovo e 5 figli maschi uno più problematico dell’altro che accolgono malvolentieri in casa loro, Ella, una diciassettenne ex spogliarellista che cerca con le unghie e con i denti di finire la scuola e andare all’università. Naturalmente Ella, si prenderà una cotta per Reed, il capo sia in famiglia che nella scuola privata che entrambi frequentano.
I primi tre volumi sono incentrati sulla storia tra Reed ed Ella, gli ultimi due invece sono dedicati a un altro Royal.
Questo volume è interamente raccontato attraverso il punto di vista di Ella che in un certo senso è un po’ diversa rispetto ad altre protagoniste ma i restanti personaggi sono assolutamente assurdi. Come tutta l’intera storia. È davvero una telenovela mal riuscita. Okay, è un romanzo ma è tutto così poco credibile ed eccessivo per il semplice gusto di sconvolgere.
Una 17enne che si fa passare per una 34enne e gli adulti che ci credono, Ella che viene minacciata e bullizzata mentre lei pensa a quanto siano affascinanti i 5 figli (che a me sembravano tutti uguali per caratterizzazione), un padre che permette ai figli di fare quello che vogliono senza problemi, corpo insegnante e preside della scuola privata controllato dai Royal, tizio che droga ragazze per abusare di loro che non viene denunciato e continua a frequentare la scuola tranquillo, atti di bullismo come se fosse la normalità, gemelli che si scambiano la ragazza mentre lei crede di frequentarne uno solo, non c’è un adulto di sesso femminile “normale” e potrei andare avanti all’infinito.
L’ho trovato anche estremamente noioso e ho fatto una gran fatica a finirlo. Anche il cliffhanger finale non mi fa venire voglia di continuare quindi per me, la storia finisce qui.
Meglio leggere il manga Hanayori Dango che per certi aspetti lo ricorda molto ma decisamente molto più piacevole.
Forse sono troppo vecchia per simili letture.
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Mi aspettavo di più
Birthday girl è un Contemporary romance autoconclusivo che racconta non solo di un amore proibito ma i due protagonisti hanno una grande differenza d’età.
Le vicende sono raccontate dal punto di vista dei due protagonisti. Jordan ha appena compiuto 19 anni quando incontra Pike in un cinema, tra i due nasce una certa simpatia ma dovranno soffocarla perché poco dopo, scoprirà che Pike, in realtà è il padre di Cole, il suo fidanzato e che saranno costretti a trasferirsi da lui perché sono stati sfrattati dal loro appartamento (per colpa di Cole) e non possono permettersene un altro. Tra Jordan e Pike ci sono 19 anni di differenza (Sinceramente la cosa non mi ha disturbato).
La trama è davvero molto semplice e lineare. Tutto ruota esclusivamente sul rapporto che si va a instaurare tra Jordan e Pike (dapprima una sorta di amicizia per poi diventare qualcosa di più). Devo però ammettere che l’autrice non si è soffermata troppo sulla questione legata alla differenza d’età (salvo nell’ultima parte del romanzo), si è concentrata di più sul fatto che Jordan fosse la fidanzata del figlio (Pike non ha un buon rapporto con Cole e teme di perderlo definitivamente se dovesse soccombere all’attrazione).
Nonostante però si sia soffermata su quest’ultimo aspetto, l’autrice ha smorzato parecchio i toni, rendendo la cosa molto soft, invece, mi aspettavo una storia più sofferta e drammatica.
Quello che, invece, non mi è piaciuto, è che per me, la storia d’amore si sviluppa in maniera troppo lenta (la parte centrale è quella decisamente più noiosa) e credo che quelle pagine potevano essere sfruttate per esempio per soffermarsi di più sul rapporto Jordan/Cole (invece Cole è praticamente quasi sempre fuori casa con gli amici a ubriacarsi) e sul rapporto Pike/Cole (inizialmente viene esplorato per poi essere abbandonato e ripreso nella parte finale).
Per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi, forse Jordan l’ho trovata troppo perfetta per essere realistica.
Le scene sensuali sono relegate all’ultima parte del romanzo (Attenzione: non vedrete gli angoli delle scrivanie allo stesso modo) e la cosa non mi è dispiaciuta.
È una storia carina e riesce a coinvolgerti (soprattutto nella parte iniziale e finale) ma mi aspettavo di più.
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Esiste l'omonimo film su Netflix
365 giorni è il primo volume della trilogia erotica omonima che vede protagonista Laura, una donna polacca che viene rapita da Massimo, un affascinante e pericoloso mafioso siciliano perché è convinto che sia la donna che ha sognato durante il coma causato da un incidente e che gli ha salvato la vita. Laura avrà 365 giorni, se in quel lasso di tempo non s’innamorerà di Massimo, sarà libera.
Questa trilogia è un mix tra le cinquanta sfumature e un mafia romance.
Le vicende sono raccontate inizialmente dal punto di vista di Massimo, poi si sposta a quello di Laura (in prima persona) che occuperà quasi tutto il romanzo.
I 365 giorni che dovrebbero essere l’aspetto su cui dovrebbe ruotare la vicenda in realtà non hanno alcuna importanza visto che Laura, s’innamora di Massimo dopo 2 mesi.
Gli aspetti maggiori che accomunano questa trilogia alle cinquanta sfumature è probabilmente la relazione abusiva/malata tra i due protagonisti, i protagonisti maschili ricchi e il fatto che hanno bisogno di cure psichiatriche.
I due protagonisti oltre ad avere una caratterizzazione assai discutibile, sono davvero piatti.
Laura viene dipinta come una donna forte, indipendente ma si lascia affascinare facilmente dalla ricchezza e dal lusso. Sembra inizialmente tenere testa a Massimo ma basta qualche gesto “romantico” e addio orgoglio. Laura giustifica troppo facilmente e velocemente comportamenti prevaricatori di Massimo.
Per quasi tutto il romanzo i due non fanno altro che parlare di sesso, fare sesso e battibeccare, non hanno mai una conversazione per conoscersi realmente. Per cui, mi chiedo, perché Laura si sarebbe dovuta innamorare di Massimo? E perché Massimo è innamorato di lei, visto che in realtà non la conosce nemmeno.
Laura soffre di cuore, è sempre a bere champagne, sa ballare la Pole Dance e non solo e sa guidare anche in situazioni estreme.
Massimo è il tipico signore e padrone. Uccide a sangue freddo, sniffa cocaina, minaccia di morte la famiglia di Laura. Si cerca forzatamente di trovare delle giustificazioni plausibili ai suoi comportamenti per farlo apparire come un eroe romantico ma in realtà non lo è affatto. Ditemi un po’ quale eroe, fa salire a forza la donna che teoricamente ama su un aereo, sapendo che soffre di cuore e claustrofobia, la lega e la obbliga a una punizione dopo che è svenuta per lo stress… È tutto così eccessivo e assurdo.
Come del resto, non trovo niente di romantico in un tizio che cerca di soffocarti con il suo membro e gode nel farlo. O un tizio che ti impianta a tua insaputa un GPS facendolo passare per un metodo contraccettivo.
Anche la malattia di Laura, viene trattata come se fosse un semplice mal di testa.
Stendiamo un velo pietoso anche sui personaggi secondari (non c’è nessuno con un po’ di sale in zucca).
In questo volume succede poco e niente, trama inesistente o quasi, stile ripetitivo, colpi di scena che lasciano indifferenti e il finale aperto che non invoglia a leggere i successivi.
E non voglio nemmeno commentare come viene dipinta l’Italia.
C’è decisamente di meglio in giro.
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Gli opposti si attraggono
L’amore non è mai una cosa semplice è un romanzo rosa contemporaneo che vede protagonista la solare Lavinia, una studentessa all’ultimo anno di Economia alla Bocconi, che si ritrova a dover collaborare per un progetto universitario con lo scorbutico Sebastiano, studente all’ultimo anno di Ingegneria Informatica al Politecnico di Milano. Due persone assolutamente diverse, ma si sa, gli opposti si attraggono…
È il terzo libro che leggo di quest’autrice e anche se parte un po’ come gli altri suoi romanzi (i due si detestano e poi s’innamorano), è molto diverso rispetto ai romanzi rosa che di solito leggo.
A cominciare dal protagonista maschile. Molto realistico nella sua caratterizzazione. Sebastiano, Seb come preferisce essere chiamato, ha un’intelligenza sopra la media, ama la tecnologia, i giochi di ruolo e da tavolo. Ha una scarsa propensione a frequentare locali alla moda, ha un obiettivo lavorativo che vuole raggiungere a tutti i costi, gli altri lo considerano strano ed è il tipo che tende a non far entrare nessuno nel suo mondo fino a quando non incontra Lavinia. Seb mi ha colpito decisamente di più rispetto alla protagonista femminile, anche se si fa un po’ fatica a capire cosa gli passa per la testa (Purtroppo il romanzo è raccontato solo dal punto di vista della protagonista femminile).
Lavinia, infatti, è una ragazza fin troppo accomodante e desiderosa di farsi accettare. È spigliata e solare ma è insicura per quanto riguarda il suo futuro lavorativo ed è succube dei suoi genitori. Ha una sua evoluzione ma non mi ha colpito più di tanto.
Sicuramente andavano approfonditi alcuni passaggi e in alcuni punti l’ho trovato un po’ lento e senza mordente ma resta comunque una piacevole lettura.
La trama è semplice e lineare ma forse, sarebbe stato preferibile tradurre le frasi in inglese.
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Gira la clessidra...ehm, no, il LIBRO
Un lettore, soprattutto appassionato di thriller, enigmi e misteri come me, non può che essere affascinato da un romanzo che contiene non una, bensì due storie collegate tra loro. Capovolgi il libro e ricomincia la magia, perlomeno questa è l’idea, se non fosse che la realtà si rivela molto meno intrigante.
The Turnglass ci presenta due racconti, uno che si svolge a fine Ottocento, l’altro nel 1939 (consiglio assolutamente di iniziare da fine Ottocento, parte BLU).
Nel primo, un medico si reca su un’isola desolata a soccorrere un parente malato e finisce invischiato in una torbida vicenda.
Nel secondo siamo in California, dove Ken Kourian diventa amico dello scrittore Oliver Tooke che muore, apparentemente suicida e anche per lui sarà l’inizio di eventi pericolosi e oscuri.
La trama in sé e il collegamento tra le due storie c’è e funziona, quello che manca a mio avviso è una scrittura che coinvolga, che ci faccia vivere le emozioni dei personaggi, che ci tenga con il fiato sospeso.
L’ambientazione della parte BLU (semplifichiamo chiamandola così) si presta a brividi di terrore, ma non ce n’è neanche uno. L’intera vicenda si svolge in modo lineare, senza suspence e senza clamore, con personaggi sviluppati in modo non approfondito.
Nella parte ROSSA, sebbene in qualche modo si tirino le fila dell’intero intrigo, si presenta il medesimo problema. Una trama che scorre ma solo in avanti, senza veri colpi di scena o emozioni.
Vale per tutte le mie recensioni, ciò che non piace a me può piacere ad altri, quindi, salvo casi disperati, consiglio sempre di leggere un romanzo perché qualcun altro può trovare ciò che invece a me è mancato. Sicuramente mi sento di consigliarlo perché il vincolo che lega le due storie è ben congeniato, sebbene il valore dell’intero romanzo perda moltissimo per una narrazione che non è all'altezza dell'intento.
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Bello
Tutta colpa di New York è un romanzo rosa contemporaneo che fa parte di una trilogia che vede protagoniste tre amiche che lavorano nella stessa attività a New York.
I romanzi possono essere letti anche singolarmente perché ogni volume è dedicato a una coppia diversa ma alcuni personaggi fanno comunque la loro apparizione nei volumi precedenti o successivi come secondari.
È quasi Natale e siamo a New York, Clover lavora come personal shopper. La sua vita scorre tranquilla fino a quando non incontra l’inquilino temporaneo della casa di fronte alla sua: Cade Harrison, un attore bello, ricco e famoso. Cade, è lì perché ha bisogno di stare per un po’ lontano dai riflettori dopo una relazione disastrosa che ha scatenato un sacco di pettegolezzi. Sono due persone che provengono da mondi diversi ma complice la magia del Natale tra i due scocca la scintilla.
Ecco un altro tropo che mi spinge a leggere un romanzo rosa: storia d’amore tra personaggio famoso e persona comune.
Non avevo mai letto nulla di quest’autrice e devo dire che è stata una piacevole scoperta.
È vero che la storia non spicca per originalità e non ha svolte impreviste ma è leggera, dolce, ironica e scritta bene. La trovo perfetta per chi cerca una lettura di pura evasione e ha voglia di sognare.
I due protagonisti, poi, sono perfetti insieme e li ho apprezzati molto: Clover è una donna che chiacchiera molto (e soprattutto tende a dire sempre quello che pensa), non veste alla moda ed è un vero peperino. Adora il Natale e la sua atmosfera magica. Purtroppo non ha un buon rapporto con la sua famiglia che tende a criticarla costantemente ma nonostante questo è sempre positiva, solare e sorridente. Cade, invece, nonostante sia un attore famoso non è arrogante o presuntuoso. È dolce, premuroso e disponibile ma diffidente verso le donne (convinto che tutte siano interessate a sfruttare la sua popolarità).
È una storia d’amore che ha il sapore di una fiaba e per di più è ambientata nel mio periodo preferito.
Sicuramente, viene voglia di leggere anche i romanzi successivi.
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Si poteva fare di più
Ti aspettavo è un romanzo rosa ambientato all’università ed è il primo volume della serie Wait for you. I libri possono essere letti singolarmente perché ogni volume vede protagonista una coppia diversa. Sono collegati tra loro per i legami familiari e/o di amicizia tra i vari protagonisti.
Tutto inizia quando, Avery si ritrova a frequentare, per sua scelta, un college molto lontano da casa perché ha bisogno di un nuovo inizio. Avery, infatti, si è lasciata alle spalle una difficile situazione che si trascinava da 5 anni. E proprio il primo giorno, quando sta per recarsi alla sua prima lezione si scontra con il ragazzo più bello e desiderato del college, Cam Hamilton. Inizialmente i due diventano amici per poi diventare qualcosa di più ma il passato di Avery torna a bussare alla sua porta…
Questo è il secondo libro che leggo di quest’autrice ma è la prima volta che la provo in veste di scrittrice di romanzi rosa contemporanei. Di sicuro, l’ho apprezzata un po’ di più ma non sono ancora convinta che sia un’autrice adatta a me.
Il romanzo in questione è raccontato dall’unico punto di vista di Avery (non mi è dispiaciuto) e purtroppo tutto ruota attorno a quello che nasconde. Ci vengono forniti vari indizi e come Cam, riusciamo subito a immaginare che cosa potrebbe essere successo ma per avere i dettagli dovremo aspettare la fine del libro quando Avery racconterà finalmente la sua storia.
Purtroppo proprio per i tipi di indizi utilizzati, è stato subito palese quale fosse il segreto di Avery e quindi è stato facile disinteressarsi a questo lato della vicenda. Le cose sono andate un po’ meglio con il segreto di Cam (in questo caso l’autrice è stata più criptica ed è riuscita a tenere più alta l’attenzione).
E poi un po’ tutte le premesse della storia sembrano già viste: Avery, la ragazza nuova che s’imbatte nel tipo più sexy del college che guarda caso s’interessa proprio a lei tra tutte le ragazze che gli muoiono dietro. Avery che resta subito affascinata da Cam. Cam che frequenta lo stesso corso di Avery e poi vengono messi in coppia per un progetto. Avery che ha due amici: una ragazza e un amico gay. Cam che va a letto con una stronza prima di conoscere Avery o lo stesso Cam che nasconde un segreto.
Invece, la cosa davvero interessante è che tra i due protagonisti non c’è antipatia anzi s’instaura subito un rapporto di amicizia perché Cam, anche se considerato il più bello del college (sinceramente ho percepito poco la sua unicità rispetto ad altri ragazzi che frequentano il campus), è un ragazzo alla mano, gentile, paziente e dolce. Lui mi è piaciuto molto. E ho apprezzato anche le sue interazioni con Avery.
E per finire, le tematiche affrontate seppur importanti, le ho trovate trattate in maniera un po’ troppo superficiale.
Nonostante tutto, lo stile è scorrevole e riesce a intrattenerti.
Molto brava la voce che ha letto l’audiolibro.
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Fragilità umana
Interessante di questo romanzo è la descrizione del rapporto madre-figlia che sono come sole-luna, giorno -notte e dei rapporti di vicinato. Però il fatto di cronaca è così ingombrante da sovrastare del tutto i fili più esili della trama. E anche se si parla di un delitto efferato non c'è mistero nè nella soluzione del caso giudiziario nè del caso umano, cioè nel capire cosa è passato per la testa del colpevole.
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Quando l'amore sconfina nell'ossessione
“Quando avevo diciassette anni e obbedivo soltanto ai perentori comandi del cuore, ho abbandonato il sentiero della vita normale e nell’arco di un attimo ho distrutto tutto ciò che amavo”.
Spencer non va tanto per il sottile e mette in bocca al protagonista-narratore queste parole in un incipit dal forte contenuto drammatico che indirizza immediatamente il lettore, preparandolo ad una storia cruda che non sembra riservare un lieto fine. Eppure nonostante queste note non liete che immediatamente portano allo svelamento di un evento terribilmente tragico (il giovane protagonista David che pazzo d’amore a causa dell’allontanamento che ha dovuto subire dalla sua amata Jade da parte del padre di lei, darà fuoco alla casa dove la famiglia abita), la narrazione viene edulcorata dal tema portante dell’amore. Di quell’amore senza fine che non solo fornisce il titolo al libro ma che in qualche modo si pone come tema centrale nella visione di Spencer in quanto, come raccontato dallo stesso David:
”Se l'amore senza fine era davvero un sogno, era un sogno comune a tutti, ancor più comune del sogno dell'immortalità o di viaggiare nel tempo, e a pormi su un altro piano non erano i miei impulsi ma la caparbietà, l'intenzione di spingere il sogno oltre i limiti della ragionevolezza e affermare che quel sogno non era l'inganno di una mente in delirio ma una realtà tangibile almeno quanto quell'altra illusione, più esile e infelice, che chiamiamo vita normale”.
Dunque è proprio l’amore passionale, quello vissuto da David e Jade e che coinvolge mente e corpo fino a diventare un’ossessione, a rappresentare la chiave di lettura di un romanzo scritto nel 1979 ma che tuttora, anche grazie ad un forte tam-tam social, continua ad appassionare generazioni di lettori che in qualche modo si identificano in certe dinamiche. David non risulta un personaggio positivo, lungo l'arco della narrazione le nefandezze e i comportamenti esibiti suscitano forse più condanna che giustificazione. In ogni caso, a lettura ultimata, prevale un sentimento di tristezza e compassione che si ricollega inevitabilmente a quelle emozioni provate e condivise con Jade, che trovano una sublimazione nelle pagine finali, quando finalmente si scopre chi è il vero destinatario della lunga confessione di un David ormai maturo, passato da anni vissuti all’interno di una struttura psichiatrica per guarire dal suo “mal d’amore”.
Non è solo la storia di per sé ad appassionare, in quanto l’elegante e coinvolgente prosa di Spencer allarga la visione contestualizzando il racconto in un’America nella quale vizi e costumi degli anni Sessanta del secolo scorso ci portano direttamente al periodo dell’amore libero, del consumo di droghe e di LSD, che in qualche modo forniscono un valore aggiunto all’intero impianto narrativo
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Anime unite nell'evento tragico
“È un venerdì sera, d’inizio aprile, quando le giornate si allungano e il tempo sembra farsi più mite. Lungo il viale, sulle rive della Senna, gli alberi sono di nuovo in fiore e i passeggiatori sono tornati. Intorno a loro volteggiano i fiocchi caduti dai pioppi; sembra neve primaverile.
È una stazione, incastrata tra una metropolitana sopraelevata e degli edifici futuristi, con la facciata imponente, di un’altra epoca, incorniciata di statue, dove le finestre monumentali dominano sulla pietra e riflettono l’azzurro sbiadito del cielo. Fumatori e venditori ambulanti si riparano sotto una pensilina dalla pittura scrostata.
È la sala dei passi perduti, dove gli sconosciuti si incrociano, dove una Croissanterie offre panini e bevande da asporto, da non perdere il menu speciale a soli 8 euro e 90, mentre un barbone prende a calci un distributore di bibite e merendine.
È una banchina, annerita dall’inquinamento e dagli anni, dove è stata montata un’impalcatura perché bisogna pure salvare il salvabile, e dove i viaggiatori si affrettano, senza prestare attenzione al lucernario di metallo che filtra gli ultimi raggi di sole.”
Edito per Guanda, “La notte mento” di Philippe Besson è un viaggio notturno che cela l’incontro con la natura umana più intima.
“Ma la notte, ancora una volta, fa il suo effetto, il luogo ha decisamente il suo mistero, la sua reputazione, i suoi imperativi irresistibili.”
Siamo a bordo di un treno notturno che conduce a Briaçon da Parigi. Siamo cioè diretti verso le Alpi francesi al confine con l’Italia. Tanti i passeggeri, tante le storie che li vedono protagonisti anche se in apparenza non sono legati da alcunché. È un evento drammatico a unirli. Ma attenzione. Il rimando naturale è quello ai romanzi alla Agatha Christie, in realtà Besson mantiene la suspense tipica del genere ma abbandona i cliché del poliziesco per concentrarsi sulla psiche e psicologia dell’essere umano. Quel che si crea è un romanzo che incuriosisce il lettore e che cela anche il delitto. Sappiamo sin da subito che ci sono vittime imminenti e questo rende la narrazione intrigante.
La narrazione è ancora intrisa di quel giusto filo di inquietudine che definisce ogni dialogo e ogni passo delle sequenze significativo. Il lettore si cala nella parte riscoprendosi detective. Si crea immedesimazione e si è curiosi di conoscere maggiormente le vite dei protagonisti.
Il romanzo si evolve piacevolmente e porta a un epilogo inaspettato. Realtà e ipotesi non sempre coincidono e il colpo finale ci lascia sorpresi e porta il lettore a interrogarsi sul destino e la sua imprevedibilità.
I personaggi sono ben caratterizzati e resi veritieri dalle rispettive singole storie, la scrittura è fluida, le interazioni funzionano. Troviamo chi è in fuga dal passato, chi ancora è alle prese con la malattia del marito, troviamo un medico famiglia, un gruppo di ragazzi ed anche un rappresentante di abbigliamento sportivo; cioè troviamo tanti volti per tante storie.
La tragedia riporterà alla luce la loro umanità. Per una volta, da una situazione complessa e nefasta, emergono emozioni positive e la consapevolezza che l’animo umano davanti a situazioni estreme, può tirare fuori il meglio di sé.
Non forse un capolavoro ma certamente un titolo con cui trascorrere ore liete.
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Tacere o non tacere
«[…] Vincere si può, aveva ripetuto alzandosi, e sorridendo ancora con quella sua aria malinconica e allegra, levantina. Timida e grave. Schiva e sfrontata.»
Scauri. Ultimo paese del Lazio, un luogo che non è bello e che non è brutto, un luogo dove negli anni Settanta si trasferisce Vittoria insieme a Mara. Chi sono costoro? Vittoria è una donna distaccata ma anche intuitiva, ha aperto una pensione per animali quando in paese nessuno si preoccupava di stalli o altro ma solo di pecore, capre, mucche e conigli. È una donna, ancora, generosa e non compresa. Non litiga con nessuno ma gli abitanti non la capiscono. È fuori dagli schemi. Lo stesso rapporto con Mara è ambiguo. Che si tratti di una adozione? Di un rapimento? Cosa le lega? Quale legame le unisce? Vittoria tuttavia viene rinvenuta morta nella sua vasca da bagno. Il paese accetta, è un qualcosa di inaspettato, ma può capitare. Tace. Nessuno si pone domande anche se fa strano che sia occorso proprio a lei questo incidente. Solo Lea non è convinta dell’accaduto. Avvocato con marito e due figlie, una vita ricca di impegni e ancor più di battaglie legali, si chiede come sia possibile che una nuotatrice provetta come Vittoria che si buttava in acqua al mare d’inverno e d’estate senza differenze nuotando in ogni circostanza e governando le onde a occhi chiusi, sia perita proprio in una vasca da bagno a causa di quell’acqua che le è sempre stata amica. Da qui inizia anche a tornare indietro nel tempo, a pensare. Perché proprio questa morte non le torna.
«[…] La morte, le ricordo, scioglie tutti i vincoli, anche quelli matrimoniali. I morti, avvocato Pontecorvo, non sono di nessuno.»
“Chi dice e chi tace” di Chiara Valeria è senza dubbio un non-giallo che gioca sulle non risposte. Ambientato nella cittadina d’origine dell’autrice, muove le fila dalla morte di uno dei volti più conosciuti della comunità e da qui ricostruisce. Perché non è solo la sua dipartita a destare sospetti, è anche la sua identità. Se Vittoria appartiene a chi tace, Lea appartiene a chi dice e per questo non può accontentarsi della spiegazione di facciata, ha bisogno di sapere, di andare oltre la punta dell’iceberg.
Ed è da qui che Lea Russo dovrà condurre le fila di una indagine che riporta al passato, che si scontra con troppe verità celate, con cicatrici mai guarite. Da qui capirà che, come Vittoria, non è più potuta tornare indietro da quelle che sono state le sue scelte, lo stesso varrà per lei. E sempre per mezzo di questo gioco di specchi, dovrà anche rimettere in gioco tutta quella che è la sua vita, tutto quello che credeva di avere costruito, se stessa. Ed ecco allora che emergerà quella che è la vera indagine: non tanto quella sulla morte di Vittoria quanto quella sul suo essere madre, donna, moglie e avvocato.
«[…] Che significa che una persona ti piace, Le’? Non è niente dire che ti piace una persona, è l’indicazione che vuoi starci vicino, una misura di prossimità, però quando ci arrivi vicino, riesci a vedere quello che ha intorno, ed è il contesto, o come vuoi chiamarlo, che alla fine ti piace. Per questo è facile innamorarsi ma amare è complicato, perché spesso, non solo ti piacciono le cose che la persona di cui pensi di essere innamorata ha intorno, ma ti piacciono pure le persone che le stanno vicino, è difficile, è una specie di campo di forze. […] Non si dice gregge di forze ma campo di forze perché è una caratteristica dello spazio, e pure l’amore è una caratteristica dello spazio. Una persona, dove vive, chi ha intorno.»
Dal punto di vista narrativo si è davanti a un flusso di coscienza che alterna presente e passato, riflessioni e valutazioni, silenzi e parole. Si ricostruisce un perfetto mosaico che però si stacca dalla forma mentis canonica del giallo e che di giallo ha in realtà ben poco. L’obiettivo di Chiara Valerio è anche quello di ricordarci che niente è scolpito nella pietra e non mutevole, tutto muta, tutto cambia, tutto si evolve o involve.
Tuttavia, nonostante gli stilemi e le tecniche narrative sfruttati che sono propri del romanzo giallo, “Chi dice e chi tace”, dice poco e tace parecchio. La storia si apprezza negli intenti ma non è incalzante, finisce con l’essere un libro lento e pesante a tratti proprio a causa delle continue riflessioni – spesso ripetitive – della protagonista. È come se si perdesse in se stesso e così facendo perde anche di mordente.
Ciò che rende bene sono le voci dei paesani che smentiscono vicendevolmente la voce l’uno dell’altra, cosa che ben rispecchia la verità delle piccole realtà di provincia. Arriva perfettamente quella sensazione di dubbio che emerge in questi contesti ove tutto è portato per bocca ma, al tempo stesso, è impossibile distinguere il vero dal falso.
In conclusione, “Chi dice e chi tace” di Chiara Valerio è un romanzo che ben rende negli intenti ma che si perde nella resa soprattutto se si è convinti di essere davanti a un giallo da risolvere. Si è più facilmente davanti a un romanzo introspettivo che altro. Da leggere con questi presupposti altrimenti delude.
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ACQUA E MAGIA
Praticamente la versione equorea di Wayward (il primo romanzo dell'autrice), ha in comune con questo la prosa scorrevole ma inutilmente enfatica, legata a una narrazione adatta a un pubblico di adolescenti e una trama facilmente prevedibile.
Se del precedente romanzo non avevo apprezzato la presenza dell'elemento magico e l'assenza di una figura maschile positiva, posso dire che con "Sirene" le due questioni sono state abbondantemente mitigate. Da una parte ero preparata alla presenza del fantasy, e ne attendevo la rivelazione durante la narrazione; dall'altro, i personaggi maschili hanno subito (almeno parzialmente) un riscatto, rendendo il rapporto uomo-
donna più realistico e meno sbilanciato.
Nel complesso è un libro leggero, che si fa leggere in modo scorrevole, ma sicuramente non indimenticabile.
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La figura paterna
Mio padre non mi parla più. Da questo inciso parte un lungo soliloquio dell'autrice che parla, o meglio immagina di parlare, al padre che da molti anni non le parla più, che ha scelto consapevolmente di renderli due estranei.
A un certo punto dell'esistenza sua e di alcune delle sue sorelle e fratelli il padre Achille ha smesso di parlare ad alcuni di loro. Senza un motivo, senza che fosse successo niente di particolare. Gli altri membri della famiglia si parlano tra di loro, hanno addirittura una chat in comune, e più ancora il figlio di Ilaria parla e vede il nonno per il quale però questa figlia è ormai come se non esistesse. Quanta invidia prova Ilaria per quel figlio che vive una figura, suo padre, che a lei manca così tanto.
Achille evidentemente non soffre per questa figlia persa, ma Ilaria continua a sentirsi figlia di suo padre, e nel corso del libro cercherà di capire da dove sia nata la situazione di silenzio nel quale vivono, perchè a lei quel padre manca tantissimo.
Ilaria è stata avviata alla boxe proprio dal padre che le aveva anzi regalato un bel paio di guantoni. Li ritrova e decide di invitarlo, insieme a parenti, amici e conoscenti, ad un incontro di boxe che possa sancire una ripresa dei rapporti. Si prepara ad un grande evento.
Inutile dire che il padre non solo non risponderà come sempre al messaggio (i suoi messaggi non hanno neanche la spunta della lettura) ma non si presenterà neanche.
Ilaria inizia però ad allenarsi, a preparare tutto meticolosamente e con costanza per quella giornata, manda gli inviti. L'allenamento è puntuale e preciso tra pugni nel vuoto, e immaginari.
E intanto, nel corso della lunga conversazione con se stessa, ripercorre parti della sua infanzia e poi tutto il periodo successivo permeato da questo grandissimo dolore per aver perso un padre. Cerca di capire, di trovare il momento, l'avvenimento, la causa. Ma tutto rimane chiuso nel non capire il perché.
Il romanzo è permeato dal dolore che attraversa l'intera vita di Ilaria a partire da quando Achille non ne ha più fatto parte.
Ho ascoltato questo romanzo nella versione letta da Sabrina Impacciatore che, va detto, renderebbe un capolavoro anche l'elenco del telefono.
Questo per dire che in realtà il romanzo non è riuscito comunque ad entusiasmarmi (chapeau alla Impacciatore che ne ha trovato una chiave interpretativa davvero particolare). Il tema è chiaro, ma è sempre quello e non ha sviluppi, è come se continuasse ad avvolgersi su se stesso senza trovare una via per fare passi in avanti. Lo stile è sicuramente ricercato, ma non basta.
L'argomento è interessante, anche per la scelta di far partire l'analisi da se stessi e della mancanza che si prova, dall'assunto che "il dolore non esiste", ripetuto come un mantra all'interno del romanzo.
Quanto può segnare la mancanza improvvisa di un padre che sceglie di defilarsi dalla sua funzione paterna? Tantissimo, e Ilaria Bernardini ce lo racconta senza veli.
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Io però ci tenevo a sapere chi era il colpevole...
Ancor prima di cominciare la lettura di "Storia della bambina perduta" sapevo che avrei amato questo romanzo; ormai era chiaro che per me questa si stava dimostrando una preziosa serie in crescendo, dove ogni volume riesce a superare la qualità e l'intensità del suo predecessore. Eppure c'ho messo un po' prima di recuperarlo effettivamente, e la causa non è (solo) il mio recente calo di interesse nei confronti delle narrazioni serializzate. Le colpevoli sono ancora una volta loro, le abominevoli copertine in stile opuscolo di Famiglia Cristiana! che purtroppo mi hanno tenuto compagnia per un anno intero, mentre gustavo una dopo l'altra le splendide storie racchiuse al loro interno.
Storia che non necessariamente è sinonimo di trama, come dovremmo aver imparato dopo quattro libri. Infatti, dopo un'introduzione ben più scarna delle precedenti, la narrazione si sposta negli anni Ottanta e Novanta per raccontarci la maturità e l'ingresso nella vecchiaia delle protagoniste. Ritroviamo Elena interamente catturata dall'idillio amoroso con Nino e sempre più in difficoltà nel far ordine tra famiglia, lavoro e sentimenti; nel contempo, l'attività di Lila va sempre meglio, tanto da portarla ad una silenziosa rivalità con i Solara per il controllo del vecchio rione napoletano. Ovviamente, nel corso del volume la loro situazione si evolve parecchio, anche perché mai prima d'ora era stato coperto un lasso temporale così lungo.
Questo mi porta a voler cominciare togliendomi qualche sassolino dalla scarpa, ossia parlando degli (insignificanti!) aspetti che non mi hanno convinta appieno, ed il primo è legato proprio al tempo. La cronologia degli eventi non è infatti sempre chiara e facile da seguire: in più punti ho avuto la sensazione di dover quasi indovinare quanti anni fossero passati tra una scena e l'altra. Ci sono poi due elementi che avrei voluto ottenessero maggiore spazio, ovvero la dimensione politica (rilevante, ma meno incisiva sulle vite delle protagoniste rispetto al quanto accadeva in "Storia di chi fugge e di chi resta") e la risoluzione di alcuni misteri; capisco di non trovarmi di fronte ad un giallo, però ero convinta che qualche risposta in più ci sarebbe stata fornita.
Accantonando le delusioni personali, passiamo ai tanti punti di forza di questo romanzo. In primis, ho adorato leggere del ritorno di Elena a Napoli e del suo riallacciare i rapporti con Lila, perché da entrambe le parti ci sono insicurezze, vecchi dolori e desiderio di supportarsi, e tutte queste emozioni creano una chimica formidabile. Riportare la narrazione a Napoli permette poi a Ferrante di dedicarsi in modo più dettagliato alla città, che qui torna ad essere un carattere vero, la terza protagonista dei tempi del primo libro. L'ambientazione è ulteriormente consolidata dal modo in cui le vicende nazionali e le catastrofi naturali reali incidono sulle vite dei personaggi, dando concretezza alla finzione.
Non che il cast creato dalla cara Elena ne abbia bisogno! tutti i suoi personaggi sono genuini e fallaci, e che li si trovi detestabili oppure lodevoli, sono destinati a rimanere nel cuore dei lettori. Una parte del merito è da imputare ai passaggi in cui vediamo una sorta di resa dei conti in cui diverse relazioni (quella tra Elena e Lila ovviamente, ma anche quella di Elena con la madre Immacolata o quella di Lila con il fratello Rino) vengono sviscerate a fondo, affrontando in modo credibile dei circoli viziosi che si trascinavano dal primo volume.
E concludiamo con le importanti tematiche, che in questa tetralogia non sono mai venute meno, ma allo stesso tempo hanno saputo evolversi. Qui si parla nuovamente di maternità, ma in modo più significativo, di figli avuti per una scelta matura piuttosto che per la pressione sociale o familiare; figli che rendono orgogliosi, figli che cercano attenzione, figli che fanno soffrire, figli nei quali scorgere uno specchio di se stessi: ed in questo modo il confrontro tra generazioni si consolida come pilastro della serie. L'autrice torna poi a concentrasi sulla figura femminile, sempre mostrata in tante sfumature, che in questo romanzo è alla ricerca di una nuova indipendenza, e ciò porta a dei conflitti ben individuabili nel carattere di Elena. Ho apprezzano molto la conclusione del suo percorso, tra risoluzioni prese con grande coraggio e dolore, e forse per questo ancor più emozionanti.
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Il potere della finzione
Lui è lo scrittore delle storie impossibili. Lui è lo scrittore dei paradossi. Capace di creare, aggrovigliare, intrigare, appassionare, disegnare, colorare e poi, d’incanto, sciogliere, spiegare, motivare e dare a tutto un senso logico. E’ impossibile ma lui ci riesce. Per questo è geniale. E’ la capacità di fondo che hanno gli autori di thriller. La sua genialità è che riesce a creare storie che non sono thriller, ma che dei thriller hanno tutte le caratteristiche di movimento, tensione, adrenalina. In questa storia a fare da padrone è il potere della finzione, perché è possibile, anche ma non solo attraverso il teatro, riuscire a creare un universo che si sostituisce a volte anche alla realtà. In questo caso il motore è stato l’amore di un figlio per un padre. Figlio che, per aiutare il padre a ritrovare un senso alla vita, ha creato il senso che il padre avrebbe voluto. Un atto d’amore immenso. Che ha poi generato un domino.
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Cuori di pietra.
Davanti alla penisola sorrentina, su un isolotto, si trova una strana villa, Villa Genziana: quattro piani e un susseguirsi di corridoi angusti, sale, salette, discese che portano al nulla o che calano a mare. La Villa è un posto malfamato, bordello di lusso e covo di fuggitivi, da una vita grana o dalla polizia, ma anche rifugio di personaggi eccentrici. Su tutto e tutti comanda una maitresse d'alto bordo, Gada di Spagna, una abituata al comando e ad ogni efferatezza. Capita che la donna scompaia, probabilmente fatta fuori non si sa come e per mano di chi. Ed ecco entrare in gioco le due protagoniste del giallo in veste di investigatrici, la Signora, di cognome Vincenzi, una bellezza matronale sempre elegantissima e un pò sfiorita, e la sua pupilla Andrea, di cognome Di Cosmo, una giovane di rara beltà che ama travestirsi da maschio, salvata anni prima dalla Signora da una vita travagliata. Le due sono abitualmente accompagnate da Donna Achille, uno strano animale a loro fedelissimo, simile a un grosso sorcio, scappato da un Circo. L'incarico è stato loro affidato da un tale, Marzio Mansi, probabile boss dalla vita spericolata con precedenti in polizia. Andrea si fingerà prostituta e la Signora sua manager. In Villa sono alloggiati strani personaggi: un docente universitario tedesco, facoltoso, che ha già prenotato Andrea per tutte le sere, limitandosi a guardarla dopo averla drogata con un inganno, un medico noto per intrallazzi con case farmaceutiche, colleghi e direzioni sanitarie, una mediocre cantante sudamericana, innamorata cotta del sopraccitato medico, una prostituta d'alto bordo dall'età indefinibile... Ed è tutto un susseguirsi, tra i personaggi citati, di un andare e venire di sussurri, bisbigli, scenate di gelosia, tradimenti, sproloqui e confessioni: animano la vicenda, oltre a comprimari che vanno e vengono tra isola e terraferma, anche un infido maitre che ha sostituito la maitresse fatta fuori e una cuoca, l'unica che si attiva per dare una mano alle due investigatrici e metterle al corrente dei possibili rischi ai quali potrebbero andare incontro. Unico indizio è il ritrovamento di una sciarpa insanguinata: i sospettati si tradiscono a vicenda, si consuma nel frattempo un altro delitto, ma, alla fine, il colpevole confesserà portando alla luce abissi di malvagità, compreso un traffico di neonati sottratti alle madri e destinati a un turpe mercato.
La Signora, Andrea e Donna Achille, dopo un incontro risolutivo con l'ambiguo e sfuggente Mansi, tra l'altro innamorato corrisposto di Andrea, lasceranno l'isolotto e torneranno finalmente rilassate alla loro amata "cabina a mare", lontane da pericolosi coinvolgimenti
Tutta la trama si dimostra fragile, è tutta un susseguirsi di incontri e scontri, priva di veri colpi di scena e di vere emozioni. Le indagini, di fatto, si riducono a ben poco, lasciando con l'amaro in bocca il lettore che, pagina dopo pagina, attende uno scatto, un evento che finalmente incuriosisca e stimoli il prosieguo della lettura.
Lodevole è invece lo stile narrativo, particolarmente quando tratta delle vicende personali delle protagoniste con animale al seguito: il periodare diventa ironico, brillante, con argute riflessioni sull'amore, sul matrimonio, sulla nostalgia di tempi passati. I capitoli poi dedicati ad una figura di secondo piano, una ragazza nera con un passato angoscioso che partorisce clandestinamente due gemelli, hanno accenti di tenerezza e di toccante umana comprensione.
Tutto sommato una lettura da ombrellone, poco impegnativa, un'esibizione di figure eccentriche, più fantasiose che reali, descritte con la consapevolezza di calcare la mano (vorrei dire la penna) per lasciare un segno.
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Accusa e difesa
L’avvocato Guerrieri è un personaggio speciale. Solitario, problematico, intelligente, acuto. Grazie ad un amico bibliotecario insonne si trova ad assistere una donna che si è trovata nelle condizioni di uccidere un uomo, l’ex compagno della sorella, e che, dopo l’evento, è in una fase di anestesia emotiva. Contemporaneamente al disegno della linea difensiva, assistiamo anche a delle sedute di psicoanalisi dell’avvocato, che ci aprono un pochino le porte sulla sua mente, facendoci conoscere aspetti umanamente molto interessanti. Impariamo poi i trucchi dell’arte dell’investigazione, che spesso è efficace se si è capaci di osservare lentamente. Impariamo l’importanza del silenzio, che è un’arma molto utile che un investigatore può usare. Ma soprattutto impariamo a conoscere alcuni meccanismi dei nostri tribunali, dell’accusa e della difesa. Perché l’accusa deve proporre l’unica spiegazione accettabile dei fatti, mentre alla difesa basta proporre una spiegazione possibile per instillare un dubbio, un’ombra, un punto interrogativo, perché si può condannare solo se l’imputato è giudicato colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. E così, nella lettura, ci ritroviamo a non essere più così presi dal voler capire a tutti i costi se l’imputata è effettivamente colpevole o no, perché a noi interessa la strategia dell’avvocato, interessa seguire il suo percorso logico e riuscire a leggere fino a quell’orizzonte che lui dipinge.
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