Ultime recensioni

48423 risultati - visualizzati 251 - 300 « 1 ... 3 4 5 6 7 8 ... 9 969 »
Ordina 
 
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
deedlit Opinione inserita da deedlit    24 Settembre, 2024
Top 500 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Comprendere ed oltre

Quando leggi un libro che come titolo riporta solo un nome sai che probabilmente quel nome è tutto il libro anche se, paradossalmente, non capisci cosa significa fintanto che non lo hai letto e fatto tuo. Questo è il caso di Tsugumi di Banana Yoshimoto.
Il libro viene narrato dal punto di vista di Maria, cugina di Tsugumi che, dopo aver vissuto con lei l’infanzia alla pensione Yamamto, proprietà del casato di Tsugumi, se ne allontana per andare all’Università a Tokyo e seguire la sua famiglia finalmente riunita, dopo il definitivo divorzio del padre dalla prima moglie. E qui abbiamo la prima sorpresa, invece di raccontarci la tragica storia di una figlia che vive in una famiglia divisa, di tradimenti e dolore, ci racconta di legami profondi nati al di fuori del matrimonio ma che evolvono positivamente fino a mutare in una vera famiglia con due veri genitori che amano la figlia. Questa famiglia è vera tanto quanto quella in cui ha vissuto la sua infanzia con le cugine e gli zii, mostrando uno spaccato della grande unità parentale che troviamo in Oriente.
La storia è in realtà semplice, il racconto adolescenziale di un’estate in cui la giovane Maria torna al paese in cui è cresciuta prima che tutto cambi, prima che la pensione sparisca per lasciare il posto ad un albergo, per stare con Tsugumi e la sorella Yoko, che troviamo sempre tranquilla quasi sullo sfondo, ma che è presente più di quanto non si noti. Ed entrambe sono al fianco di Tsugumi, bella, intelligente, esuberante, dal carattere difficile e controverso, malata da sempre e rinchiusa in una gabbia di dolore contro la quale combatte quotidianamente, una gabbia di malattia che limita il suo corpo ma non riesce a contenere il suo spirito. Indomabile, intelligente a tratti cattiva solo la cugina Maria è mai stata in grado di comprenderla senza limitarsi a giustificarne i comportamenti con la malattia, andando oltre l’affetto famigliare e la compassione. Qui vedremo il primo amore di Tsugumi, la sua fame di vita, la consapevolezza dell’avere poco tempo che la porta a vivere tutto con un’intensità che la conduce a prevaricare i limiti, a trovare soluzioni estreme, a volte spaventose e crudeli, solo la cugina riesce a tratti a capirla e a prevederne il comportamento fuori da ogni schema. Il legame di amicizia tra le due ragazze è forte, nonostante i comportamenti calcolatori ed a volte di incommensurabile cattiveria da parte di Tsugumi, per capire come e fino a che punto non resta che leggere ogni pagina del libro fino all’epilogo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
deedlit Opinione inserita da deedlit    24 Settembre, 2024
Top 500 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Immensa, intellegibile psiche umana

Trecentocinquanta pagine per un Thriller psicologico imprevedibile ed impossibile da interrompere nella lettura. Un’analisi avvincente che si immerge nella complessità della mente umana. Una trama assolutamente fuori dagli schemi che cambia direzione più volte in balia delle onde della psiche.
Partiamo da Sandrine, una giovane giornalista che avvisata della morte della nonna Suzanne si imbarca per una strana isola popolata da una manciata di persone che non la abbandonano mai, la storia si intreccia con le vicende di una misteriosa colonia per ragazzi nata nel dopoguerra, in un continuo alternarsi tra il 1949 e il 1986. Ma da dove siamo partiti e dove stiamo andando?
Da qui il lettore comincerà mano a mano a notare particolari strani, note discordanti nelle descrizioni e nelle informazioni e verrà portato ora in una direzione ora nell’altra in un susseguirsi di colpi di scena sino al finale assolutamente imprevedibile quanto perfettamente logico. Le informazioni più importanti per il finale vengono date all’inizio del libro ma si perdono lungo il tragitto fino a diventare palesi solo nelle ultime pagine.
Incredibile la bravura dell’autore nel disorientare il lettore che percepisce che c’è qualcosa di strano, qualcosa che contraddice un normale filo logico senza mai fargli capire veramente sino alla fine. E’ come la fastidiosa sensazione di avere qualcosa sulla punta della lingua e non essere in grado di ricordarlo, una sensazione di disagio che non riesce a concretizzarsi per trecentoventicinque pagine. Cosa rappresentano il grigiore delle pareti, quell’orario così specifico da stonare e che viene ribadito, le 20:37, perché c’è chi muore senza una ragione razionale, quelle dannata scarpe rosse cosa significano? Domande che restano fissate a caratteri cubitali nella mente del lettore che non riesce a mettere a fuoco il quadro complessivo in mezzo a tutte quelle informazioni logiche stonate al tempo stesso, che mantengono acceso il campanello di allarme in un angolo della mente.
Un thriller da leggere tutto d’un fiato, impossibile da riporre sino all’incredibile colpo di scena finale ma anche uno spunto di riflessione sulla complessità della nostra mente.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato agli amanti dei Thriller ma anche agli studiosi della psiche umana. Un libro da leggere anche per i non appassionati del genere, potrebbe aprirvi un mondo.
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi autobiografici
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    22 Settembre, 2024
#1 recensione  -   Guarda tutte le mie opinioni

Psicopompo e imparare a volare

«[…] È proprio quello il miracolo dell'amore: l'abolizione del confine tra emissione e ricezione. La fusione degli esseri al punto da non sapere più chi parla e chi ascolta. Toccare una mano senza essere più in grado di dire se sia la propria o quella dell'altro. Auguro a tutti di sperimentare questa indeterminatezza.»

Quando ci avviciniamo alle opere di Amélie Nothomb sappiamo sempre che ci troveremo davanti a qualcosa di non scontato, anzi. Con “Psicopompo” ella torna a narrarci della sua infanzia, del volo degli uccelli e del loro fascino, del legame con la dimensione paterna ed anche di alcune violenze subite nel tempo e soprattutto in fase adolescenziale. Tanti i motivi per leggere questo scritto, in primis il fatto di trovarsi davanti a un’autobiografia “multiforme” perché è un testo che affronta e unisce tante tematiche per mezzo di un unico filo conduttore: gli uccelli. Che siano rari, stravaganti, diversi, uguali, sono unici nella loro diversità. Ancora si passa alla violenza subita da sconosciuti quando aveva appena dodici anni in Bangladesh, all’anoressia e alla condizione di Psicopompo e cioè l’entità che accompagna le anime dalla vita alla morte. Ed ancora tratta del legame con la scrittura e del ruolo fondamentale per vivere anche in relazione alla perdita, quale quella del padre.
C’è un prima dove vengono narrati i viaggi di famiglia e l’osservazione degli uccelli, dove si analizza il rapporto con i genitori e con la sorella e poi c’è il dolore del trauma che viene narrato come metafora. Perché quando il guscio si rompe, non puoi far altro che spiccare il volo come un uccello.

«[…] Grazie a questa scrittura psicopompa ho avuto lo scambio che ogni figlio sogna di avere con il proprio padre e viceversa: un amore senza rapporti di forza, una devozione senza sacrificio, una stima senza bisogno di titoli ufficiali.»

“Psicopompo” è uno dei libri più intimi di Amélie Nothom. È intriso di profonda introspezione e in ogni pagina traspare anche tutta quella che è la sua ironia. Vive un dramma sulla pelle e lo narra descrivendo come la sua vita è cambiata ma con quello che è il suo inconfondibile stile.
Ed ancora Amélie ci ricorda quale ruolo essenziale può avere la scrittura. La scrittura può salvare, può permetterci di volare, di guardare oltre a quel che è il trauma e il legame con la vita e la morte.
Se cercate un romanzo che sappia fondere autobiografia, ironia ed esistenza, lo avete trovato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    19 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

I meccanismi del Male e della Mala.


E' diffusa l'opinione che le raccolte di racconti siano una sorta di letteratura di importanza marginale. La lettura di "Le vie della Katana" è più che sufficiente per smentire questa credenza, sia per la notorietà dell'autore Piero Colaprico, sia per l'impatto che i racconti hanno sul lettore, racconti che lasciano un segno nella mente e nel cuore. Colaprico, lo scrittore di Polignano, è anche grande giornalista, soprattutto di cronaca nera e giustizia, noto anche per aver coniato il termine "tangentopoli" e per la serie di gialli con protagonista il maresciallo Binda (non chiamatelo commissario!). I racconti sono una trentina, incentrati per lo più su episodi di cronaca nera, quella cronaca nera che ha devastato la Milano del dopoguerra e che, grazie a certi personaggi ben noti, ha infiltrato la vita cittadina con crimini e lotta armata, godendo di favoritismi e protezioni. Boss ben noti della malavita spadroneggiano, ricattano, uccidono, confidando sempre in coperture di alto livello: ci vanno di mezzo poveri cristi, manovalanza di basso costo, diseredati che tentano di sopravvivere compiacendo padroni senza scrupoli e pagando di persona.
Tra i tanti racconti ne segnalo uno lunghissimo, quasi un romanzo, suddiviso in quattordici capitoli: originale, caleidoscopico, parla di scorie nucleari sotterrate, di un personaggio malvagio (quasi un diavolo!), della CIA e di una spedizione in Africa con cattura del cosiddetto diavolo che, poi, si rivelerà ben altro personaggio..Uno dei protagonisti è l'ispettore Bagni, ben noto ai lettori di Colaprico, che esprimerà tutta la sua amarezza per un mondo folle in cui dovrà vivere il figlio nascituro.
Ho apprezzato un altro racconto ("Gli occhiali di Tremal-Naik"), un tuffo nella mia giovinezza, quando le mie letture preferite erano i romanzi di Salgari: si sono ripresentati Kammamuri, Yanez, i Thug, in una rivisitazione dell'India, con un Tremal-Naik redivivo anche se con la pancetta, pronto a reincarnarsi in Ghandi, grande precursore e liberatore della nazione indiana, allora colonizzata.
La maggior parte dei racconti ha però un indirizzo specifico: squadernare le malefatte criminali del secolo scorso, gli intrallazzi delle varie mafie e le relative connivenze politiche: è tutto un "do ut des", intese segrete, favori reciproci, anche ad alto livello, ad esempio, tra americani e russi prima del crollo del muro. Facciamoci gli affari nostri, senza danneggiarci a vicenda !
I boss della mala ci sono tutti: da Vallanzasca a Turatello, da Frank Coppola a Epaminonda,
da Ciappina a De Maria. Fa da contraltare la presenza del maresciallo Binda, ormai invecchiato, nelle vesti di un bravo nonno alle prese con i nipotini.
Lo stile è lucido, saettante, di piglio giornalistico: uno stile condito da espressioni milanesi che invita alla lettura ed alla rilettura.
Eh, sì: perché non basta leggere i racconti una volta sola: la rilettura rivela intrecci poco notati, intuizioni da approfondire, riflessioni su tutto un mondo forse poco conosciuto, un mondo a parte con il quale si è costretti, con amarezza, a convivere.
Sono racconti, è ottima letteratura.



Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altre opere di Colaprico.
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
2.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
3.0
68 Opinione inserita da 68    19 Settembre, 2024
Top 10 opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Incertezza….

Nathan Glass, ex assicuratore in pensione affetto da un male incurabile, almeno così pensa, dopo cinquant’anni ritorna a Brooklyn, dove tutto ebbe inizio, luogo in cui porre fine a un’ esistenza triste e ridicola. Non sa quanto vivrà, si percepisce inoperoso, svuotato, affranto, unico rimedio scrivere il libro della Follia umana in cui riportare svariati episodi del proprio vissuto.
La scrittura gli sarà di conforto ma la vita, in attesa del temuto epilogo, si fa imprevedibile, imperscrutabile, reale e immaginario inscenano un quotidiano diverso, nuove pagine restituiscono un unico protagonista, l’ amato nipote Tommy, figlio della defunta sorella June, giovane introverso e geniale, ex dottorando avviato a una brillante carriera letteraria caduto in disgrazia per ritrovarsi a trent’anni nei panni di tassista e di aiuto-libraio.
Microstorie riaccendono legami famigliari tronchi, sospesi, abbandonati, nuove relazioni crescono, nel mezzo per Nathan la constatazione della propria nullità, del fallimento come padre e marito, un essere umano patetico e isolato, senza meta e senza rapporti.
Che cos’è la vita se non un tentativo di lasciare angosce e preoccupazioni di un mondo folle e infelice creandone uno del tutto personale, in cammino tra identità differenti ignorando la propria, intrattenendosi per dissolvere i dolori, una storia infinita in cui eclissare il reale.
Che cosa accade quando la realtà supera la fantasia, la fantasia diventa realtà, il quotidiano gratificante, relazioni, condivisione, amore, una famiglia allargata, finalmente felici di essere dove si è, insediati nel proprio corpo, godendo del semplice fatto di essere vivi?

A questo punto

“…Peccato che la vita finisca, dico a me stesso, peccato che non ci sia dato di continuare per sempre”.

Queste sono le storie che si raccontano continuamente, che ci raccontiamo e che alimentano i nostri giorni, che iniziano e finiscono nella vita medesima e delle quali sembra non rimanere niente.

…” la maggior parte delle vite svanisce e quando muoiono le loro storie svaniscono con loro”...

Che la vita vada vissuta nel presente mentre la grande Storia scorre imperturbabile tra attimi di esistenze perdute, dimenticate, affrante, felici, speranzose, gratificanti, intrecci di corpi sfiorati, respiro di anime affini, mentre la propria ritrovata presenza sta per includere una tragedia imminente….
“ Follie dì Brooklyn “ è un romanzo frammentato e di superficie con una prosa veloce nell’ incedere dei giorni ricercando un improbabile senso tardivo e una traccia all’ interno di una vita sprecata e ai titoli di coda. Quanto questo percorso di inutilità apparente scavi nel profondo non è dato saperlo, l’ impressione è che si circumnavighi la vera essenza, se stessi, in una strana e tardiva assoluzione che sa di buonismo apparente mentre il nuovo secolo incombe nella propria forza distruttiva e dirompente ( l’11 settembre ) in una superficialità di toni e contenuti non proprio accattivante.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
  • no
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
lapis Opinione inserita da lapis    19 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Un commissario normale

Nessun detective dall’aria consunta e tormentata. Nessun investigatore dal fiuto infallibile che sa sempre cosa fare e cosa dire in ogni situazione. Nessuno scienziato in grado di risolvere qualunque mistero con l’aiuto del proprio fido microscopio. Sarà perché questo giallo è datato 1995, un’epoca preistorica dal punto di vista tecnologico, o semplicemente perché l’ambientazione greca non risulta in fondo così lontana dal nostro vissuto, ma la prima sensazione che si avverte leggendo questo romanzo è proprio una piacevole normalità.

È prima di tutto un uomo, il commissario Kostas Charitos. Potresti ritrovartelo accanto al bar a prendere un caffè o in fila alle poste per pagare una bolletta. Ha un matrimonio ormai stanco, fatica a far tornare i conti a fine mese e sul lavoro si barcamena tra un capo molto ambizioso e un collaboratore molto svogliato. Vorrebbe essere più cinico e menefreghista - in fondo il mondo va così - invece alla fine prevalgono curiosità, integrità e senso di giustizia, che lo inducono a scavare tra i fatti alla ricerca della verità.

L’uccisione di una coppia di albanesi è il punto di partenza per un intreccio piuttosto elaborato che si snoda su diversi piani investigativi. Da un lato, il mondo del giornalismo televisivo con i suoi meccanismi malati e la sua ricerca spasmodica di scoop. Dall’altro il mondo della corruzione politica e dei suoi traffici illeciti. La trama tiene fino alla fine, sviluppandosi in maniera fluida, intrigante e complessivamente verosimile, sebbene i molteplici fili non appaiano sempre ben annodati.

Ho letto che qualcuno lo ha definito “il Maigret greco”, un paragone fin troppo lusinghiero forse. Ma se, a mio avviso, all’opera di Markaris manca quello spessore psicologico che Simenon sapeva infondere ai suoi scritti, si può invece riconoscere la stessa umanità e la stessa volontà di proporre interessanti ambientazioni. Markaris ci racconta Atene, i quartieri popolari, l’immigrazione, le difficoltà economiche, l’eredità del passato dittatoriale. Una lettura sicuramente interessante.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Narrativa per ragazzi
 
Voto medio 
 
1.5
Stile 
 
1.0
Contenuto 
 
1.0
Piacevolezza 
 
2.0
La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    17 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Cambiare nome ai personaggi è la colpa minore

Posso addossare una parte del mio mancato apprezzamento di "Graceling" all'influenza che mi ha colpito inspiegabilmente in piena estate? in fondo, perché no! Dal momento che in questo romanzo tutto succede per puro caso, niente vieta alla sottoscritta di accampare scuse randomiche per aver fatto una fatica immane non tanto a terminarne la lettura quanto a trovare degli aspetti positivi ai quali aggrapparsi nel processo.

La vicenda narrata da Cashore si ambienta nel classico mondo fantasy simil-medievale, con tanti regni in rapporti più o meno buoni gli uni con gli altri ed alcuni individui segnati dall'eterocromia, e per questo dotati di abilità paranormali. Tra di loro c'è la protagonista Lady Katje "Kat", nipote di re Rand del Middluns e grande amica del cugino -ed esperto di medicinali- Raffin, con l'aiuto del quale ha anche fondato il Consiglio. Questa società segreta dai nobili ideali porta la giovane ad incrociare la strada di un altro principe (in questo caso del regno insulare di Lienid), Grandemalion Verdeggiante detto "Po", durante le operazioni per il salvataggio del nonno di lui. I due partono poi in missione proprio per svelare il mistero dietro al rapimento dell'anziano reale.

Fatte le dovute premesse, direi di passare ai pregi del volume che ho tanto faticosamente ricercato, precisando che sono più soggettivi del solito. Ho infatti un chiaro debole per le storie di sopravvivenza in situazione estreme, motivo per il quale tutta la parentesi survival che occupa una buona fetta della seconda metà mi ha intrattenuto parecchio. Promuovo anche il rapporto di amicizia molto tenero tra Katje e Bitterblue, un'altra principessa (sì, ci sono più nobili che plebei in questo libro!) che i protagonisti incrociano durante la loro avventura.

E messi così da parte gli unici punti a favore, arriviamo agli elementi meno riusciti, che purtroppo riguardano tutti gli aspetti più importanti: prosa, trama, personaggi, tematiche ed ambientazione! Cominciamo proprio da quest'ultima, perché la scelta di nomi così banali per un mondo fantasy fa pensare più ad un bimbo delle elementari che ad una donna di trenta e passa anni... i regni chiamati come i punti cardinali, le capitali come i loro sovrani (con conseguenti problemi postali ad ogni incoronazione, immagino!), le città portuali chiamate porti... A riprova voglio fare giusto un esempio di questo tripudio di fantasia: il regno a sud si chiama Sunder, quindi la sua città portuale non può che chiamarsi Sunport; il sovrano è re Murgon, di conseguenza la capitale è chiamata Murgon City e la strada che porta ad essa Murgon Road.

Tanta creatività condiziona ovviamente anche l'intreccio, costellato da incontri fortuiti e scene inspiegabilmente lunghe, e pure tediose visto che tutti i colpi di scena sono fin troppo telefonati. Non mancano poi sottotrame mal gestite o addirittura abbandonate a se stesse, come quella dell'antagonismo tra Katje e lo zio Rand, nonché una partenza eccessivamente rapida: a parte l'inizio in medias res del tutto legittimo, la prima scena sembra presupporre una conoscenza pregressa del mondo e dei personaggi, ed in particolare del Consiglio, come se la serie fosse cominciata in un libro precedente.

Di certo gli spiegoni tanto imbarazzanti quanto chilometrici con cui la cara Kristin cerca di sopperire non aiutano. In generale ho trovato il suo stile più che acerbo, anche se non privo di astuzia quando si tratta di mantenersi volutamente vaghi sui poteri -così da poter cambiare le regole in un secondo momento- come pure l'indole dei personaggi. È il caso della stessa Katje, presentata come una spietata sicaria agli ordini dello zio, che poi si rivela essere l'ennesima assassina family friendly; la sua caratterizzazione comunque non mi ha convinto in senso lato, anche perché assegnare troppe capacità ad una protagonista porta ad un calo drammatico della tensione narrativa. Neppure la sua storia d'amore con Po mi ha fatto impazzire, perché l'ho trovata priva di base e sviluppata in maniera troppo rapida.

Potremmo quindi raggruppare le mie critiche sotto la voce infantilismo, e non ci sarebbe all'apparenza nulla di male dal momento che si tratta in fin dei conti di una lettura rivolta ad un pubblico giovane (dai 12 anni, secondo la CE italiana). Peccato che tutto questo cozzi nettamente con le tematiche scelte dall'autrice: matrimonio, gravidanza, pedofilia, maltrattamenti; argomenti importanti e degni di attenzione, ma di certo inadatti al target. L'unico tema che reputo indicato per degli adolescenti, ossia quello della gestione della rabbia, sembra venire dimenticato da Cashore stessa tra un principe e l'altro.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
1.3
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
1.0
Piacevolezza 
 
1.0
cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    16 Settembre, 2024
Top 100 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Resto perplesso

Faccio una premessa, ho conosciuto Steinback negli ultimi due, tre anni.
Dopo aver esaurito tutti i classici russi, tedeschi e francesi, ho girato il mio sguardo verso la letteratura americana ed ho appunto scoperto questo autore e uno più contemporaneo come Mc Charty.
Di Steinback ho letto diversi tomi e posso dire che Furore e La Valle dell'Eden sono stati veramente una grande sorpresa e non esagero nel dire che Furore lo posso accostare per grandiosità a certi classici come Dostoevskij o Zola. Un vero capolavoro mondiale, come la stessa Valle dell'Eden, anche se un pelino minore rispetto al primo.
Dopo aver affrontato questi due libri dalla mole impressionante ed averli letteralmente divorati in poche settimane, sono passato alle letture "minori" di Stainback:
Uomini e topi
L'inverno del nostro scontento
La luna e tramontata....

ebbene sono rimasto basito e perplesso nel constatare che non solo sono scritti minori, ma sembrano proprio partoriti da un autore diverso rispetto ai due capolavori sopracitati.
Saranno forse le traduzioni, forse questi sono racconti più brevi, ma cè una caduta di qualità di scrittura, di trama, di analisi psicologica dei personaggi, quasi sconvolgente....si passa dallo scrivere capolavori immortali a dei raccontini semplici semplici che sembrano non avere ne capo ne coda.
Come se un Tolstoj scrivesse Guerra e Pace e poi passasse a scrivere un racconto per riviste rosa.
Questo "la luna è tramontata" è lentissimo, piatto, monotono, con personaggi assurdi, vicende fuori da ogni logica, senza un finale certo, banale nel descrivere la lotta tra conquistati e conquistatori, che sembrano tutti galleggiare in un unico calderone di riflessioni strampalate e campate tanto per dare qualche pagina in più al racconto.
Forse sarebbe stato meglio compiere un percorso di lettura inverso:
partire dalle opere minori e poi elevarsi a quelle maggiori.....forse

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    16 Settembre, 2024
Top 500 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Un caso di cronaca nera



Una storia vera questa raccontata da Maria Grazia Calandrone. Si tratta di un fatto di cronaca del 2004: una donna, Luciana Cristallo, sposatasi giovanissima e per scelta con un ragazzo Calabrese, Domenico Bruno, più grande di lei, e divenuta in fretta madre di quattro figli, uccide il marito dopo anni di violenze nel corso di una violenta discussione.
Si erano ormai separati ma ad un ennesimo incontro lei si rende conto che stavolta sarà l'ultima e che l'ormai ex marito intende davvero ucciderla e non lasciarle solo qualche livido. Trova sul tavolo a tentoni un coltello (paradossalmente quello con il quale la madre di Domenico tagliava i fiori) con il quale lo uccide. Con il nuovo compagno butterà il cadavere nel Tevere che restituirà il corpo tempo dopo. Entrambi allora confesseranno spontaneamente.
Luciana Cristallo verrà assolta sia in primo sia in secondo grado perché il fatto non costituisce reato (in pratica per legittima difesa) dopo due gradi di giudizio nei quali, in modo molto toccante, racconterà l'intera storia delle violenze subite sin dall'inizio della sua relazione con Domenico Bruno.
La storia è raccontata in maniera molto ricca di dettagli e di drammaticità e trova le sue fonti dall'intero processo trasmesso in televisione da un giorno in pretura e dai diari stessi della Cristallo.
L'autrice cerca di raccontarci in maniera piena i sentimenti della donna che sentiamo a noi molto vicina. I figli ci sembrano vittime di vicende ben più grandi di loro che verranno anche chiamati a raccontare al processo.
Addentrandosi nel romanzo il lettore si chiederà più volte perché la Cristallo non abbia lasciato il marito molto prima di quando si è decisa: si tratta tuttavia di un meccanismo caratteristico e purtroppo ricorrente nei casi di violenza domestica.
La storia è sicuramente appassionante, benché si sappia già da subito come sono andati i fatti; i personaggi sono ben raccontati.
L'autrice cerca di addentrarsi anche nella personalità di Domenico Bruno a partire dalla sua storia: Domenico è figlio illegittimo del padre notabile in Calabria e nato dalla relazione con una sua domestica visto che la moglie sembra essere non fertile. Il bambino crescerà tra le attenzioni della domestica e di quella che vorrebbe essere sua madre. Alla morte della matrigna il padre di Domenico sposa la domestica potendo quindi adottare finalmente e in modo ufficiale il bambino.
Cresciuto quindi in modo disarmonico, Domenico probabilmente teme l'abbandono in maniera patologica.
La Calandrone non ha alcun atteggiamento di giustificazione per Domenico, pur cercando di andare alla radice del male da lui inferto alla moglie Luciana.
A questo si aggiungono ampie parti del libro che ci raccontano da un punto di vista sociale e politico il periodo dalla fine anni '80, nel quale questa storia nasce e si sviluppa.

La Calandrone sa scrivere, sicuramente. Ha uno sguardo poetico e profondo, come nei suoi lavori precedenti. A mio parere però in questo caso si è lasciata un po' prendere la mano: è tutto troppo, ecco. Il romanzo perde la necessaria scorrevolezza e l'opportuno equilibrio nelle ripetizioni sicuramente ben scritte ma spesso eccessive. Lo sfoggio di bella scrittura non giova alla bellezza complessiva del romanzo.
Allo stesso modo forse la parte dedicata al racconto socio-politico di quegli anni sarebbe potuto essere più breve perché di fatto queste parti ne interrompono lo scorrere.
Dal mio punto di vista ho apprezzato molto di più il romanzo precedente della stessa autrice anche se questo mi ha mosso la curiosità di leggere e guardare i video disponibili sulla vicenda Cristallo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Dove non mi hai portata
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Lonely Opinione inserita da Lonely    16 Settembre, 2024
Top 100 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Bucolico

Tre studenti torinesi scoprono insieme le notti cittadine: passano le serate a bere, a parlare e rientrando all’alba. L’io narrante, di cui non sappiamo il nome, è uno dei tre , insieme a Pieretto e a Oreste; l’ultimo studia per diventare medico, gli altri due Legge.
In una delle loro notti goliardiche, incontrano Poli, un ragazzo più grande, ricco viziato e vizioso e ne rimangono sensibilmente affascinati. La sua vita oltre gli schemi, il suo pensiero profondo e filosofico che s’interroga spesso sul senso della vita, li seduce al punto di unirsi a lui nelle sue scorribande in città.
Poli ha una specie di fidanzata, Rosalba, anche lei sopra le righe, che nel corso di una lite violenta, spara a Poli e lo ferisce, mandandolo all’ospedale.
Con la scomparsa di Poli dalla scena cittadina il romanzo si sposta su un altro piano, le vacanze estive, che i tre decidono di passare insieme nella casa in campagna della famiglia di Oreste. Qui proseguono le loro avventure adolescenziali, fin quando scoprono che Poli sta trascorrendo la convalescenza nella sua proprietà sulla collina del Greppio, poco distante dalla casa di Oreste. Decidono così di fargli visita. Lì scoprono che Poli vive in una grande proprietà, ha una moglie, Gabriella e che Rosalba si è suicidata.
Poli vive un forte malessere psichico e fa uso di alcool e droghe, Gabriella gli sta accanto come può, e pensa che la compagnia degli amici non possa fargli che bene, così invita i tre studenti a passare un periodo con loro. In questo luogo vivranno tutti una serie di eventi che darà uno scossone alla vita di ognuno di loro, e che li farà crescere irrimediabilmente, perdendo quell’ingenuità, così pura, tipica della gioventù.
Il romanzo è un inno alla natura, tanto forti e dettagliate sono le descrizioni dei paesaggi, delle campagne, dei boschi, della terra coltivata dai contadini. Scorrendo le pagine si percepisce la fatica e il sudore di chi lavora la terra e la felicità per la raccolta del frutto del suo lavoro. “Allora parlammo di Davide e Cinto, dei vini, dell’uva nel secchio, di com’è bella la vita genuina”
In netto contrasto c’è la classe borghese, ricca, annoiata e immobile, arroccata nelle sue dimore sfarzose.
L’altro forte conflitto è quello tra i due mondi, maschile e femminile, l’uno dedito al lavoro,al pensiero e al cameratismo virile, l’altro destinato alla cura della casa e della famiglia.
E poi c’è l’io narrante, che osserva, riflette e critica, probabilmente Pavese stesso, che torna nei luoghi dell’infanzia illudendosi di ritrovare tutto al proprio posto per accorgersi invece che tutto è cambiato, e perciò diventa prepotente il suo senso di estraneità, il volersi ritrovare spesso solo e lontano da tutti, come se la solitudine fosse la sua vera dimensione.
D’altronde “vivere è facile quando si sa liberarsi dalle illusioni”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
2.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
2.0
Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    15 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Giovanile Marai

"Di vere sorprese, pensava, ce n'è solo una nella vita : è quando scopriamo di essere anche noi, proprio noi, mortali" .

Un giovane magistrato rimane particolarmente scosso da una causa di divorzio che sta esaminando, quando scopre che il marito in questione, un medico piuttosto noto, era stato suo compagno di scuola. Tanto più nel ricordare di aver conosciuto, quando ancora era ragazza, pure sua moglie.

Opera giovanile dello scrittore ungherese, diciamo pure abbastanza immatura, con una prosa spesso rallentata e ripetitiva, talvolta enfatica.
Ci sono indubbiamente pagine belle, ma intercalate da tante altre in cui si tende a dilazionare, con frasi atte a 'chiarire meglio' senza tuttavia aggiungere nulla di rilevante; oppure a spostare l'effetto-sorpresa con troppe parole che girano a vuoto, rendendo così prolisso il testo. Romanzo pertanto ancora assai distante dalla scrittura essenziale, quasi 'chirurgica' , che conosciamo nei libri migliori di Marai stesso.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    15 Settembre, 2024
#1 recensione  -   Guarda tutte le mie opinioni

Anime e persone

«[…] Ricordo di avere pensato che anche il mondo sarebbe finito così, con le persone che scomparivano in silenzio una dopo l’altra, come se lasciassero una festa senza salutare, finché il padrone di casa si ritrovava solo nella casa vuota, con i bicchieri ancora mezzi pieni e le sigarette calpestate sui taoisti e la nauseante luce impastricciata dell’alba che sale in cielo.»

Peter Cameron non è soltanto un autore di romanzi. Nella sua produzione vasti sono anche i racconti, i testi brevi, le storie che solleticano la curiosità con brevi ma significativi passaggi. Ed ecco che Adelphi raccoglie in “Che cosa fa la gente tutto il giorno”, alcuni di questi scritti.
La prima sensazione che emerge dalla lettura è la delicatezza. Una delicatezza che si mixa con una umanità non sempre positiva e buona, anzi. Basti pensare al racconto dedicato al cucciolo di cane che rappresenta l’unica valvola di sfogo per quell’uomo dalla vita imbavagliata nel niente. E basta ancora pensare alle sorti che sono a lui destinate. Filo conduttore di queste vicende narrate è la perdita, che sia di una persona cara che di un cucciolo. Uomini e donne che cercano di sopravvivere, si chiedono come sopravvivere in un mondo che spesso non li tutela. O ancora ci porta nel mondo degli ospizi, luoghi dove l’identità si perde, si fraziona, si disperde. Ma a governare è il “politicamente corretto” e non si possono chiamare con il loro nome anche se dentro si rivelano essere luoghi di solitudine e depressione.
Ogni racconto muove da un dialogo, da un pensiero negativo e da qui si sviluppa. Non sono racconti allegri, sono strutturati e chiusi e con una impostazione simile a quella che insegna Alice Munro, la regina dei racconti. Ciascuno, però, ad ogni modo prende la sua forma, si sviluppa e chiede al lettore di essere interpretato, capito, analizzato.

«[…] Pensò alla vita e alle cose che le succedevano, a come fosse impossibile impedire che succedessero, controllarle. Sembrava di galleggiare in una piscina della grandezza di un oceano insieme a tutte le cose della vita, e poterne sfiorare solo alcune, in modo del tutto casuale, e che tutte le cose desiderate fossero sottili e scivolose come pesci: pesci che nuotano fra le dita e le gambe e intorno ai fianchi ; pesci argentati che ci mangiucchiano i piedi, pesci timidi e scattanti che schizzano in superficie e sgusciano via, poco importa quanto si sta immobili, o in silenzio, perché i pesci riescono a sentire quel che desideriamo: lo emettiamo come un sonar - vieni da me, vieni da me, vieni da me / che manda via i banchi di cose che nuotano nell’acqua.»

Altro interessante testo è “Prova a rilassarti”. È qui che conosciamo Elaine che è stata nei Peace Corps. Una volta tornata a casa deve scontrarsi con il tutto che cambia e con un nuovo mondo che deve ricostruirsi ripartendo da zero. Scopre che la madre ha venduto la casa e che ora fa l’attrice, scopre che la sorella si è fidanzata con Charles e che sta iniziando a fare la modella. Elaine dal suo canto non vuole fare la modella ma non trova lavoro. Si arrende a fare la cameriera in abiti da pellegrina in un ristorante dedicato ai Padri pellegrini, arriva anche a ipotizzare un suo rientro nei Peace Corps e anche qui si trova la porta chiusa in faccia perché essendosene andata e avendo dato le dimissioni, non è così semplice rientrare nel giro. Ma qual è il suo posto nel mondo? Cosa fare? Come ricominciare quando non sembra più esserci un posto per te?
L’anima in “Che cosa fa la gente tutto il giorno” e in ogni racconto di Peter Cameron è definita con delicatezza, è l’essenza in un contesto dove le persone sono diventate belve assetate di fama, notorietà, ricchezza, opulenza e apparenza. Il tutto con uno stile rapido e pungente, basato molto sui dialoghi, che non si perde in fronzoli e che porta il conoscitore a interrogarsi.
Per chi non conosce Cameron questi racconti possono essere un buon modo per avvicinarvisi, per chi lo conosce rappresentano una certa e indubbia conferma.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    15 Settembre, 2024
Top 10 opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Una nuvola d'argento che brilla

Il libro inizia con la storia di un ragazzino che scappa di casa con il fratello ed intraprende un viaggio abbastanza burrascoso per raggiungere l’oceano. E’ il loro viaggio. Che, strada facendo, dopo qualche scontro e qualche incontro, si trasforma nel suo viaggio. Perché si scopre che quel viaggio serviva a chiudere un cerchio, serviva a lanciare un grido di aiuto in famiglia perché loro e i loro genitori potessero tornare ad essere famiglia, serviva a dare un senso, a mantenere una promessa, ma soprattutto a dare pace all’anima. Libro intenso, denso di emozioni. Verso la fine riesci a fare tutti i collegamenti, riesci a capire come mai quella vacanza di cui nel corso del racconto sono stati ricordati tanti momenti, era così importante. Capisci quanto può essere forte l’amore, quanto male può fare il silenzio, quanto la poesia può essere di aiuto nella sua libertà di espressione. Ed alla fine, quando il piccolo delfino salta nella nuvola d’argento del fratellino, capisci quanto ogni fine può essere un nuovo inizio. Un mescolarsi di elementi che ti tocca nel profondo. Così come le parole della poesia che viene scritta nell’ultima pagina del quaderno che ha in copertina il disegno più bello e più importante.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    14 Settembre, 2024
#1 recensione  -   Guarda tutte le mie opinioni

Ida e Albino

«[…] Sauer aprì gli occhi nella stanza e per un lungo istante non seppe chi era, dove era, quando era. La consolazione di non ricordare. La pace di esistere soltanto.»

Corre l’anno 1934, siamo a Venezia. La Storia sta facendo il suo seguito, Hitler e Mussolini si incontrano per la prima volta in Piazza San Marco. Il luogo è presidiato da camicie nere e tra questi sono presenti anche l’ex commissario Siegfried Sauer e il compare Mutti. Hanno organizzato un piano ben preciso, sperano di poter cambiare il corso di quel che poi sappiamo essere stato il divenire. Tuttavia, come spesso accade, i progetti non vanno sempre come vorremmo e spesso ci troviamo invischiati in qualcosa di ben più grande di noi, un mistero inaspettato quanto indecifrabile.

«[…] Il loro piano perfetto aveva contemplato ogni evenienza, sì ma il mondo a volte procede per imperfezioni.»

Ed è proprio questo ciò che accade. Mutti e Sauer si ritrovano a dover risolvere un doppio mistero che ruota attorno a due persone, una donna e suo figlio. Un uomo e una donna che sono realmente esistiti ma che al tempo rappresentavano due figure estremamente scomode perché legate a Mussolini e per questo dovevano in qualche modo essere eliminate, placate, fermate. A qualunque costo e sì, con qualunque mezzo. I loro nomi sono Ida Dalser e Benitino Albino Dalser Mussolini e per una serie di ragioni sono legati al Duce. Lei sostiene di essere la prima e unica legittima moglie di Benito Mussolini e lui, Albino, il figlio non riconosciuto. Due folli, due matti, due visionari da rinchiudere per i loro deliri e i loro eccessi. Lei a San Clemente, un manicomio femminile, lui prima destinato ai parenti, poi in collegio, in marina e infine a poco più di vent’anni in altra struttura per i diversi, i matti. Ma cosa è vero e cosa è falso? Chi è davvero Ida Dalser? Chi è Benitino Albino? È davvero una folle o al contrario è una ennesima vittima in possesso di informazioni che metterebbero in discussione il Regime? O ancora è una bugiarda? O ancora è una personalità scomoda per il solo fatto di essere ella stessa una delle prime donne legate a Mussolini?

«[…] Magari la malinconia avesse un solo volto. A lui, negli ultimi anni, ne aveva mostrati diversi.»

Ed è da queste brevi premesse che ha avvio l’ultima fatica di Fabiano Massimi intitolata “Le furie di Venezia”. Sin dal principio il lettore comprende di trovarsi davanti a un romanzo storico con una impostazione molto diversa rispetto ai precedenti titoli. Non si tratta solo di un thriller storico ma anche di un testo che ricompone le sorti di due volti spesso dimenticati dalla Storia. E vi riesce riuscendo ad alternare bene la componente del mistero con quella adrenalinica propria del thriller.
L’impostazione cartesiana rende “Le furie di Venezia” un romanzo unico, diverso dai precedenti ma con loro in linea. La lettura è piacevole, lo stile è tipicamente quello di Massimi, pungente quando necessario, una carezza nel suo naturale scorrere. Consigliato a chi ha amato la serie de “L’angelo di Monaco” ma anche a chi ha desiderio di conoscere uno spaccato di Storia non così noto.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
68 Opinione inserita da 68    13 Settembre, 2024
Top 10 opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Vuoto onnipresente

Un uomo solo confrontato con la propria solitudine, esiziale, cruda, molesta, una vita dedita all’ insegnamento svuotata di senso, consumata e dissolta in una certezza definitiva.
È in quel preciso istante, mentre sta analizzando meticolosamente un dramma di Erik Ibsen, di fronte all’ intollerabile indifferenza, alla noia e alla noncuranza di allievi che si sentono offesi dal suo insegnamento, che il professor Elias Rukla precipita in un senso insensato che lo rende impaurito, scosso, fallito e lo porta a perdere il controllo irrimediabilmente, per analizzare in terza persona la vita di un uomo qualunque, inconcludente, senza aspettative e desideri, una vita anche fortunata grazie al matrimonio con una donna bellissima ( Eva Linde ) che lo ha tollerato per anni e che non crede di meritare.
Una certezza si manifesta, la fine della propria carriera scolastica ( dopo 25 anni di insegnamento), del matrimonio, di tutto, come trascorrere i 15 anni che lo separano dal pensionamento?
La memoria lo riporta al passato, le amicizie d’ infanzia, il se’ studente, feste, studi, discussioni, una vita scolastica proficua e frenetica, il legame con l’affabulante Johan Corneliussen, studente di filosofia, un triangolo amoroso inconsapevole, l’ amore innegabile per Eva, che ascolta avvolta nel morbido involucro del sonno, che da subito lo ha lasciato fare, donna, madre, amica, figlia, moglie.
Si era trasferita da lui per restarci, accettando di sposarlo, Elias non sa il perché, lei non gli ha mai detto d’ amarlo, oggi è semplicemente Eva Linde, una donna bellissima un po’ appesantita dagli anni. Nel presente (1989 ) ogni certezza svanisce, si sente un uomo qualunque, senza qualità, un semplice professore che non si è distinto per niente.
Continua il soliloquio esistenziale di chi non ha più niente da dire e da insegnare, nessuno è interessato ad ascoltarlo, privo di desideri, immerso in una nuova epoca, svuotata di senso, la decadenza imperversa in un presente sedato e allucinogeno in cui esprimersi solo come schiavi indebitati trovando in tal senso la propria valorizzazione sociale.
Forse è lui stesso a parlare di niente, la gente si è allontanata, è isolata, un’ insostenibile leggerezza dell’ essere che travalica l’ esistenza per farsi elemento sociale e bloccante.

…” E ora che la figlia di Eva Linde, Camilla, ha lasciato l’ appartamento, sono rimasti solo loro due, un professore un po’ alcolizzato e sua moglie, una ex bellezza ”…

Il soliloquio incalzante di un uomo giunto prematuramente alla resa dei conti, che si interpella su un sistema sociale equivoco e aberrante da cui si sente escluso, che in parte si accusa e si scusa di essere al mondo, lascia intendere un completo e complesso stato involutivo, vittima e carnefice di una situazione siffatta.
Il pessimismo intimista e trascendente sfocia nella bruta oggettività del contingente, Dag Solstad e la propria poetica, un linguaggio essenziale, scarno, ripetitivo, eccessivamente monocorde, pacatamente ossessivo, a volte inconcludente, una descrizione e dissertazione che esprime dissociazione psico-emotiva, ansia, perdita d’ identità, un’ eco inesplorata, inascoltata, onnipresente nel paludoso vuoto dell’ esistenza.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Lonely Opinione inserita da Lonely    11 Settembre, 2024
Top 100 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Ghiaccio e Fuoco

J. Ellroy nasce a Los Angeles il 4 marzo del 1948, nel 1958 perde la madre, un omicidio mai risolto, morta strangolata e gettata in un fosso, a El Monte, una contea di L.A.
Questo è l’episodio traumatico, che segna significativamente la sua vita, e che racconterà poi in un suo libro, Clandestino.
Prima di arrivare al successo come scrittore, passa un’adolescenza travagliata, tra alcool, droga e piccole rapine.
Nel 1975 riesce ad uscire da questo vortice criminale e inizia a scrivere. Negli anni 80 pubblica la tetralogia di L.A. di cui Dalia Nera è il primo romanzo.
Dalia Nera è una donna realmente vissuta, il cui delitto, irrisolto, ha ispirato appunto il libro di Ellroy.
Una ragazza, Elizabeth Short, viene trovata smembrata, mutilata e tagliata a metà in un’area abbandonata di Los Angeles. A seguire il caso vengono incaricati due agenti del dipartimento di polizia, ex pugili, Blanchard e Bleichert, “Ghiaccio” e “Fuoco”, due “amici” rivali in amore e nel lavoro. Entrambi amano la stessa donna Kay, con un passato di abusi per mano di un criminale, Bobby De Witt.
La Short è una ragazzetta facile che cerca successo nel cinema, ma che non sa recitare e spesso capita in situazioni poco piacevoli, fino appunto ad incontrare il suo assassino.
La ricerca spasmodica e senza respiro dell’autore di questo massacro, diventa un chiodo fisso per i due detective. Uno dei quali, Blanchard, a un certo punto dell’indagine sparisce, senza apparenti motivi e senza spiegazioni. E per Bleichert rimangono a questo punto oneri e onori, sposa l’oggetto del suo desiderio, Kay e si butta a capofitto nell’indagine.
Una ricerca che diventa un’ossessione perversa, dura e cruda, nella quale nessun personaggio è quello che sembra, e in cui tutti hanno un lato oscuro, apparentemente nascosto, ma che è bene evidenziato dallo scrittore che non ha pietà nel mettere a nudo i suoi personaggi; tutti indistintamente, tranne il protagonista, Bleichert che è anche colui che narra la storia, che sfiora per un momento anche lui la follia, ma che poi, a sorpresa direi, riesce a tornare sulla “retta via”. E dico a sorpresa perché questa è una storia che non lascia scampo, non c’è via di fuga, perché il male fa parte dell’essere umano per Ellroy, non esiste bontà, generosità o lealtà, sia nei bassifondi, così sapientemente descritti (perchè, ricordo, vissuti in prima persona), che negli ambienti “bene” di L.A., dove il malaffare e la corruzione dilaga per interessi personali.
Un lungo viaggio questo libro, che scorre senza tregua, ma che sembra non arrivare mai alla fine. Il finale inanella una serie di colpi di scena, uno dietro l’altro, fino all’epilogo, da giallo classico, dove l’assassino è al di sopra di ogni sospetto.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
lapis Opinione inserita da lapis    10 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Non il miglior Dicker

Joel Dicker ha un innegabile talento nel maneggiare suspense e colpi di scena con furbesca abilità e questa è forse la dote più importante che un autore di thriller deve possedere per invogliare il lettore a proseguire, soprattutto se tra le mani ha un corposo volume da più di seicento pagine. Nonostante la mole, infatti, “Il caso Alaska Sanders” offre una lettura scorrevole e avvincente, in cui non viene mai a mancare la tensione narrativa tesa alla scoperta del colpevole.

La trama ruota intorno ad un errore giudiziario di 11 anni prima: la morte della giovane Alaska Sanders, l'arresto di due presunti colpevoli, un apparente suicidio nella sala interrogatori e un poliziotto morto. Ma forse la storia è tutta di riscrivere. Per evitare cali di ritmo e noia, l’autore innesta continui ribaltamenti e variazioni: salti temporali che portano al contesto e ai fatti delittuosi del passato oltre che molteplici digressioni nella vita e nelle altre opere del protagonista e autore. Nella finzione, infatti, il famoso scrittore, ed io narrante, Marcus Goldman, vive e scrive questo romanzo dopo i fatti narrati nel best-seller “La verità sul caso Harry Quebert”, con le sue cicatrici non ancora sanate, e prima di elaborare “Il libro dei Baltimore”, di cui comincia a gettare le future fondamenta (nella realtà entrambi i romanzi sono precedenti a questo). L’intento è di dare compimento ad una trilogia, ma, alla lunga, questi continui richiami alle altre opere vengono percepiti quasi come un fastidioso invito pubblicitario a recuperare gli altri volumi. Almeno nel mio caso è stato così.

Nonostante le non sempre riuscite divagazioni, la trama regge comunque fino alla fine, arrampicandosi con originalità su diversi piani narrativi e arricchendosi di volta in volta di nuovi indizi, intrighi e cambi di fronte. Forse, rispetto ad altri scritti dello stesso autore, ho trovato meno riuscito l’elemento imprevedibilità. Paradossalmente, è proprio la regola aurea di Joel Dicker di ricordarci sempre che niente è ciò che appare e che tra i personaggi si possono nascondere inafferrabili legami, a guidarci nell’intuire prematuramente la svolta finale.
Forse non un capolavoro del genere e nemmeno il miglior Dicker, ma comunque un romanzo godibile e coinvolgente, per chi nei mystery cerca più complessità d’intreccio che approfondimento psicologico.

“Il problema di certi segreti è che finisci tu stesso per dimenticarli. Finché un bel giorno non risalgono in superficie, come fogne che traboccano”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
davide.crimaldi Opinione inserita da davide.crimaldi    10 Settembre, 2024
Top 1000 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Malinconico

Con uno stile semplice ma assai efficace, l'autrice ci sputa in faccia la storia di due adolescenti travolti dal fatalismo di una periferia squallida e gretta, fatta di amicizie sbandierate ma inutili e amori sottesi.
Il libro ti rimane dentro come un pugno e come un pugno preferiresti quasi non averlo mai iniziato! Quasi..

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
10
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    09 Settembre, 2024
Top 10 opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Il grande sogno del ritorno

In questo nuovo episodio della serie del commissario Ricciardi, siamo in un teatro ed accade un omicidio, fin troppo facile da risolvere, in teoria, senonché attorno alla coppia protagonista ruotano personaggi che suscitano sentimenti intensi ed emozioni insolite ed abbiamo imparato quanto le passioni incidono in un delitto. Le teorie fatte di sensazioni, nate nella nebbia ed avvolte nella nebbia, lentamente si fanno corpo e, grazie ad un particolare che illumina, cadono i veli all’improvviso ed ogni tessera del mosaico va al suo posto, consentendo al commissario una geniale intuizione. Come sempre, al di là dell’indagine specifica, hanno un grande peso gli intrecci fra i personaggi, anche minori, che danno vivacità e spessore a queste storie ed è bello seguire l’evolversi delle vicende personali: il protagonista ed Enrica si avvicinano, anche se di nascosto, Livia e Falco tessono una trama per non allontanare Manfred, da cui scopriamo un lato inedito di Livia, conosciamo meglio Nelide, scopriamo una dolce affettività nel dottor Modo e, come sempre, i miei preferiti restano Maione e Bambinella e, non ultimo, il rapporto speciale fra di loro. Fra i temi che emergono in queste pagine ci sono la tristezza che inducono le feste, i legami familiari, le preoccupazioni di una madre per una figlia nubile, la condizione di un amore pulito vissuto comunque all’ombra. Gli interludi sono, come sempre, i capitoli stilisticamente più interessanti, così come le parti che riprendono il titolo e gli danno un senso, interconnesso con la storia. Interessanti sono anche le riflessioni speciali, che ruotano attorno alla nebbia, al sogno, ed al sipario, che separa il sogno dalla realtà e che è anch’esso parte del titolo. Non a caso.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    08 Settembre, 2024
#1 recensione  -   Guarda tutte le mie opinioni

Liberata Macrì, Liberty per Franco Gasparri

«[…] Tutto mutò: un particolare del mondo, uno dei tanti frammenti che il caso butta sulla testa delle genti come una manciata di coriandoli, si staccò dagli altri e divenne un pezzo significante di vita.»

Il suo nome è Liberata Macrì, ha ventiquattro anni, vive in un paesino calabro con Agata, una madre anaffettiva, fortemente religiosa e incapace di amare, e Oreste, un padre silenzioso, collezionista di insetti e titolare di una officina ma amorevole verso quella figlia, a tempo perso dattilografa seppur di gran talento, che vive come se mai lei fosse un particolare significativo del mondo circostante. Perché Liberata vive così, vive in silenzio, vive a modo suo, crede in quel che non si vede, crede al destino già scritto, crede all’anima che vive dopo la morte, al malocchio che colpisce, all’invidia che affama, alle voci dei defunti, al potere misterioso della luna, ai sogni che si avverano, alle vite che non sono accadute ma che comunque ci perseguitano. Ed ancora custodisce in silenzio gli sguardi e le immagini dei suoi amati fotoromanzi, fotoromanzi con cui sogna ad occhi aperti e che venera gelosamente nella sua collezione soprattutto se riguardanti Franco Gasparri, l’attore che ama con completa, totale e assoluta devozione.

«[…] Non cambiava mai Liberata, sempre in bilico con le sue verità velate, sempre pronta a dosare fatti e fantasie, alla ricerca del compromesso indolore che accontentasse la curiosità del mondo e la sua vocazione al silenzio.»

Liberata ha un’amica del cuore, Giuditta, che lavora in una boutique di abbigliamento. Quest’ultima ha un carattere diverso dalla protagonista, è esuberante e gioiosa, anche un po’ frivola. È innamorata del suo Fortunato e quando è in difficoltà chiede aiuto alla maga del paese per sapere come comportarsi con lui. Ed ancora è fortemente legata a Glauco, giornalaio e compagno attivo nel partito di appartenenza. Siamo in anni difficili, anni di cambiamento e di forti sconvolgimenti dove il terrorismo rosso si mescola con quello nero e il popolo è in balia degli eventi. In paese due saranno gli arrivi che romperanno gli equilibri della vita della protagonista: il primo sarà dettato da Cosmo Zangari, docente, che incuterà inizialmente terrore in Liberata per la sua presenza ambigua e che ha una profonda e unica passione sempre verso gli insetti e Luvio, il nuovo operaio dell’officina meccanica del padre. Quest’ultimo rappresenta per la giovane il primo grande amore.

«[…] Natura comunicava attraverso un personale codice stenografico che lei doveva interpretare, perché spesso siamo confusi e non sappiamo parlare e non comprendiamo e ci sentiamo stranieri alla vita semplicemente perché utilizziamo un linguaggio sbagliato, che non ci appartiene, e allora, in mancanza di codici a noi congeniali, a volte l’unica soluzione è sapersi inventare un proprio alfabeto.»

Per Liberata Luvio rappresenta anche il tutto, il nuovo, la sua presenza, il legame che si instaurerà con lui, la porterà a crescere e ad affrontare un mutamento che nemmeno immaginava plausibile. Luvio verso la ragazza tende ad avere un atteggiamento che confonde, che tiene sempre sul “chi va là” il lettore, naturalmente di quest’ultimo non si fida. Si crea forte empatia con la ragazza e viene spontaneo tentare di difenderla, di metterla in guardia perché troppe cose sembrano non tornare nella vicenda che si sviluppa. Tuttavia, non è possibile. Non è possibile in primis perché questo è ciò che porta l’eroina a maturare. Tutti siamo stati Liberata, tutti ci siamo sentiti come lei, tutti abbiamo vissuto situazioni similari, tutti abbiamo dato fiducia ciecamente alla persona amata perché in amore è così, ci si fida, non ci si può non fidare e amare. Si è preda del sentimento, del sentimento totalizzante e completo che ci fa sentire vivi e che al contempo può anche farci soffrire perché non sempre è tutto rosa e fiori. Liberata non va condannata per questo. Da fuori certe cose sono più intuitive e lampanti, ma quando le si vivono, il discorso cambia. E Liberata ha scelto di vivere e di amare, anche se a caro prezzo.

«[…] Il dolore, per esempio. Da bambine diciamo “mi fa male” quando ci dondola un dente. L’espressione “fa male” la ripeteremo da allora centinaia di volte: un taglio al dito, una gamba rotta, l’amore che ci ha lasciati, una zia scomparsa, addirittura potrebbe essere la nostra espressione estrema, le ultime parole riferite al cuore che batte troppo in fretta o alla testa che è sbattuta cadendo dalle scale; ma non è e non sarà sempre lo stesso male. Bisognerebbe che le parole si conformassero al mondo e si adeguassero all’esperienza, e che per infiniti dolori ci fossero infiniti vocaboli, mentre adesso non c’era parola capace di definire quello che Liberata sentiva dentro di sé, un dolore che per definirsi aveva bisogno di altre parole – infinito, offuscante, mortifero.»

Ama e sceglie di vivere. Ama e sceglie di fidarsi. Ama e scopre che l’amore ha due facce, una fatta di gioia e una fatta di dolore e che proprio per queste due facce amare è ancora più intenso e profondo, difficile ma essenziale.

«[…] Aveva provato come il resto dell’umanità ad abbandonarsi alle combinazioni del mondo, ma aveva fallito e adesso il prezzo da pagare era un dolore che mangiava il fiato. Non s’impara a vivere per il solo fatto di essere vivi. Era come un insetto d’acqua che un vento arrogante e invidioso aveva spinto a terra: doveva fare ritorno nel suo luogo naturale. Ma prima di rientrare nel mondo acquatico dell’invisibile doveva scrollarsi da dosso ogni rimasuglio terreno.»

“Liberata”, ultima fatica di Domenico Dara, è un romanzo molto diverso da “Malinverno” ma al suo interno racchiude un eguale e ancora più vasto universo da scoprire. Sono due opere tra loro estremamente eterogenee, in primis per lo stile, più ricercato e affinato nella prima, volutamente più “semplice” nella seconda perché in quest’ultima la voce dell’io narrante deve adattarsi alla voce dei fotoromanzi per essere credibile e riconoscibile per il lettore. “Liberata” è una storia più matura, capace di suscitare empatia, forte delle sue emozioni e autentica per tutti quei sentimenti che racchiude. È un libro che si assapora poco alla volta ma che lascia il segno in modo indelebile anche a seguito della conclusione della lettura. È uno di quei romanzi che regge nel tempo. Ringrazio Feltrinelli per l’occasione di lettura e ringrazio Domenico Dara per questa storia di profonda sensibilità che ci ha donato.

«[…] Non esiste gioia che non sia stata prima tormento.
Talvolta una mano pietosa apre la finestra.
E la mosca vola via.»

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    07 Settembre, 2024
#1 recensione  -   Guarda tutte le mie opinioni

Ritrovarsi

«[…] Quando da giovane fantasticava sul suo futuro, sul lavoro che avrebbe fatto, sulla città e sulla casa in cui avrebbe vissuto, sulla famiglia e sugli amici intorno a lei, Marnie non avrebbe mai immaginato di essere sola.»

Già solo citare David Nicholls riporta alla mente “Un giorno”, long seller classe 2009 che ha coinvolto e conquistato più generazioni. Con “Tu sei qui” l’autore si cimenta in temi di grande attualità che vanno dalle aspettative infrante alla solitudine. Primo emblema di ciò è Marnie che proprio della solitudine ha fatto un baluardo. Ha trentotto anni, fa fatica ad uscire, alle spalle ha un matrimonio naufragato, fatica a fidarsi degli altri ma ha anche un equilibrio per il suo lavoro di editor che la coinvolge in modo totalizzante. Quando si sofferma a pensare alla sua vita in un’ottica diversa, con accanto un figlio o con una relazione tende a rifuggire. Ha quello che normalmente in psicologia viene definito evitamento.
Dall’altro canto Michael vive una solitudine che è però conseguenza della sua separazione dalla moglie Natasha. Se Marnie sceglie la solitudine, lui se la ritrova. Da solo a York decide di attraversare la Gran Bretagna a piedi affrontando la Coast to Coast Walk. Saputo ciò la collega e amica Cleo decide di intervenire perché è ora di riaprirsi, anche se non lo si vuole, al mondo. Come? Organizzando una gita di gruppo almeno per i primi chilometri e invitare amici e conoscenti a prendervi parte. Tra questi Cleo invita Marnie, molto restia a partecipare così come di contro lo è anche Michael che non vuole condividere la passione per le escursioni con altri non motivati come lui. Inutile dire che non sarà semplice coniugare tutto, dai malumori alle difficoltà propriamente logistiche di terreni impervi e ostacoli dietro l’angolo.

«[…] A volte, pensava, è più facile restare soli che mostrarsi soli al resto del mondo, ma sapeva che anche quella era una trappola, che non facendo nulla la situazione sarebbe diventata permanente come una macchia che penetra nel legno.»

Ha inizio da qui un’avventura composta da ironia ben mixata a riflessioni sottese. Marnie e Michael si conoscono poco alla volta arrivando a provare delle emozioni e delle sensazioni diverse ed eterogenee. A far capolino vi è il passato che, come una costante, ricorda loro delle tante delusioni. Basterà questo incontro a dar loro il coraggio di riprovarci?
A far da cornice l’Inghilterra che qui viene descritta nella sua più totale naturalezza. Il cammino che viene raccontato tappa dopo tappa ricompone quello che è in primis un percorso interiore volto al ricercarsi e migliorarsi. Perché alla fine tutti dobbiamo imparare a rimetterci in gioco, a rischiare, anche avendo paura, anche scivolando ma sempre con il coraggio di osare e di ripartire rialzandosi.
Qualche pecca è ravvisabile nello stile, talvolta troppo farraginoso e dunque lento e prolisso. Non forse il miglior titolo dell’autore, ma nel complesso piacevole.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    07 Settembre, 2024
Top 10 opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

L'ALTER

Anche questa volta l’autore è stato in grado di sorprendermi. Capace, come sempre, di creare universi paralleli e trame impossibili, ancora una volta mi ha indotto lungo una strada di pensiero, per poi sorprendermi, per poi risorprendermi nuovamente. Un thriller imprevedibile e seduttivo, che tratta comunque temi profondi ed importanti, quali il vuoto affettivo che a volte percepiamo, l’insondabile felicità che spessi ci attanaglia, lo sdoppiamento che chiunque di noi sente, anche quando a volte è costretto ad indossare una maschera. Anche questa volta il titolo è geniale ed il ritmo è serrato, con colpi di scena e adrenalina pulsante. Una copertina a specchio. Ed ovviamente c’è un perché.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
andrea70 Opinione inserita da andrea70    06 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Il posto della non gioia

Le Case è un piccolo borgo nel maremmano che non ha nulla del fascino che solitamente contorna i piccoli e magari suggestivi borghi di provincia.
Sembra un paese dimenticato dal mondo dove la vita scorre ad un ritmo proprio, le notizie dall'esterno arrivano come qualcosa che riguarda un posto lontano e che non ha niente a che fare con Le Case. Qui gli abitanti trascinano le proprie esistenze tra speranze disilluse, segreti, fallimenti, ognuno col proprio fardello di rammarico e tristezza. Ogni capitolo viene raccontato con la voce di uno dei protagonisti a creare questa storia particolare dove pagina dopo pagina si forma nella mente del lettore l'intricata struttura di legami spesso nascosti o travisati tra gli abitanti del borgo.
A Le Case nessuno è felice, non nascono bambini , i vari personaggi sembrano catapultati in quel contesto da un destino dispettoso, non c'è speranza, solo qualche colpo di fortuna che non è gratuito e se è di aiuto a qualcuno è solo perchè qualcun altro ci ha rimesso prima.
Troviamo finti invalidi che sono tali non per frodare lo stato ma per proteggersi da una comunità indifferente e spesso ostile, rapporti nascosti , aspettative tradite, ignoranza, superstizione e segreti, mano a mano che il racconto prosegue l'autore mischia abilmente realtà e sogni dei protagonisti, alcuni sogni sono talmente intensi da aver sovrastato anche la realtà nella sua pochezza umana, al punto di essersi sovrapposti ad essa nel racconto fatto al lettore rendendogli difficile distinguere il falso dal vero, che torna agli occhi del lettore nelle tragiche pagine finali in cui Le Case sembra idealmente andare verso un destino che era scritto nella sua storia come se il paese fosse stato tenuto insieme dalla forza dei legami , virtuosi o pessimi tra i suoi abitanti e le loro aspirazioni come se il sentire delle persone fosse il collante che teneva insieme i mattoni. Naspini si conferma un narratore di assoluto talento.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
3.0
Lonely Opinione inserita da Lonely    05 Settembre, 2024
Top 100 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

L.A. Marylin

In una Los Angeles, inizio anni 60, scura e ambigua come i personaggi che la frequentano, si dipana una specie di crime intorno alla figura iconica di Marylin Monroe.
Freddy Otash, ex poliziotto corrotto (realmente esistito) e poi “fixer”, cioè uno che rimesta nel torbido della vita dei vip e rimette a posto, per quel che è possibile, i loro guai, è il protagonista di questo ultimo romanzo di J. Ellroy.
Il tema è affascinante, tutto ruota intorno alla morte di Marylin, ma in realtà il romanzo non dà risposte in merito. Essenzialmente attraverso la vicenda principale Ellroy delinea il quadro storico e sociale di quel periodo e non si risparmia, e si muove agilmente tra polizia corrotta, politica ambigua, (in particolar modo la famiglia Kennedy), e la stessa Marylin, dipinta come un alcoolista, drogata, con un imbarazzante passato di prostituzione che conduce affari loschi, e che con il sesso irretisce personaggi di potere, come i due fratelli Kennedy.
Il romanzo poi cerca di addentrarsi in particolare in questo legame tra la Monroe e i fratelli Kennedy, ma non arriva a nulla di sorprendente, narra solo i fatti.
O meglio quelli che per J.Ellroy sono i fatti, perché ciò che risulta da questa storia, è che il mito non esiste più, e forse non è mai esistito, Marylin è una donna in declino, che non vuole più fare l’attrice e pianta solo grane, quasi sempre ubriaca, che si lega a uomini di potere e che è disposta a tutto per mantenere il suo tenore di vita.
E questa narrazione ovviamente se non altro ci fa riflettere.
Per dare ancora più incisività a questo contenuto, l’autore adotta uno stile, direi pragmatico, frasi brevi, sferzanti, ogni tre parole un punto, dove ogni singola parola è misurata, calibrata.
Un ritmo incalzante che non dà respiro, che ci immerge in una realtà che lentamente ci soffoca. Il tutto condotto in un dedalo di figure (o meglio figuri) e di luoghi, tra i quali è difficile a volte ritrovare un nesso, ed è molto facile perdersi.
La sensazione è che J.Ellroy si sia tolto un po’ di sassi dalle scarpe e si sia preso la libertà di raccontare il lato oscuro di figure quasi mitiche, quali i Kennedy, che usano la lunga mano del potere, per mettere a tacere situazioni a loro scomode. E Marylin era diventato un personaggio scomodo. A voi l’ardua sentenza.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    05 Settembre, 2024
Top 10 opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

L'uomo che scompare

Non amo questo autore solo perché è francese, anche se forse questa cosa mi influenza un po'… Lo adoro perché è geniale, è capace di creare universi paralleli, personaggi e nodi alternativi. Apparentemente surreali, impossibili, ma che poi hanno una spiegazione logica, incredibile, che lega gli eventi, che dà le risposte a tutte le tue domande e che, sempre, stravolge i tuoi pensieri di lettore. In questa storia ci sono salti nel tempo bruschi ed inspiegabili, entri in un tunnel di supposizioni ed autospiegazioni assurdo ed intrigante. Perché c’è un uomo che, a causa della maledizione dei 24 venti, vive un giorno all’anno per 24 anni e questo è un divario che squilibra la sua vita e quella di tutte le persone attorno a lui, dal nonno, che sa, alla compagna, che scopre, ai figli, che accettano. A ognuno di questi suoi giorni deve conferire l’intensità di una corsa sulle montagne russe, perché lui stesso è figura intermittente della sua stessa vita. E’ un libro che sprigiona vita, perché ti fa comprendere la bellezza dell’istante presente. E’ adrenalinico, scoppiettante, scaravoltante. E la copertina, con una clessidra stilizzata, che simboleggia il trascorrere del tempo senza pietà, è folgorante.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
lapis Opinione inserita da lapis    04 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Oggi è…

“Oggi è solo un altro giorno in cui essere una donna vale meno dell’essere un uomo”.

Sono le lapidarie parole di Marie Curie di fronte all’ennesima ingiustizia subita, di fronte all’ennesima prova che il mondo agli inizi del Novecento non è pronto ad accettare che una donna possa essere geniale, intuitiva, capace nelle scienze come o anche più di un uomo.

Marie può avere messo la carriera davanti a tutto, lavorare strenuamente in laboratorio giorno dopo giorno nel tentativo di isolare i nuovi elementi di cui ipotizza l’esistenza, inseguire con tenacia le proprie intuizioni, ma per il mondo accademico lei rimane solo la moglie e aiutante di Pierre Curie, al punto da metterne in discussione l’assegnazione del premio Nobel. Come se in quel laboratorio lei si occupasse di preparare caffè e rassettare l’attrezzatura, non di scoprire la radioattività naturale.

Eppure di fronte a tutte queste ingiustizie Marie non si è mai arresa. Non lo ha fatto da ragazza, in una Polonia occupata dai russi che impediva alle donne di proseguire gli studi, trovando il coraggio prima di seguire un’Università itinerante e segreta e poi di emigrare a Parigi. Non lo ha fatto da moglie, madre e poi vedova, non rinunciando mai alla propria emancipazione, anche a costo di sfidare pregiudizi e moralismi. Non lo ha fatto soprattutto come scienziata, combattendo sempre per affermare il valore del proprio lavoro.

“Io sono Marie Curie e io ho scoperto la radioattività! Questa è la mia scienza e questa sono io”.

Sara Rattaro confeziona un racconto intimo e avvolgente in cui prova a dare voce e sentimenti a questa figura straordinaria, provando a immaginarne la sfera privata ed emotiva. Aneddoti reali e fatti biografici si intrecciano così ad elementi più romanzati, quale la storia d’amore con il marito Pierre e le difficoltà di una vedova lavoratrice che non vuole rinunciare alla propria indipendenza, per arricchire quel ritratto austero in bianco e nero di passione, perseveranza, umanità, coraggio. Non si tratta certo di un racconto esaustivo, ma di pagine vivide e coinvolgenti, che si leggono con piacere pur nella loro semplicità e brevità, e che lasciano un prezioso invito a credere in noi stessi.

“La vita non è facile per nessuno. Ma che importa? Dobbiamo avere perseveranza e fiducia in noi stesse. Dobbiamo credere di essere dotate per qualcosa e questo qualcosa dobbiamo scovarlo”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Settembre, 2024
Top 100 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Libera, Iole e Vittoria

Tre donne, tre generazioni, una, Iole, la nonna, un po’ hippie, alle soglie della terza età, che però non si sente affatto vecchia; la figlia, Libera, di nome e di fatto, una bella donna dai lunghi capelli rossi che nonostante molti pretendenti non riesce a legarsi a nessuno dopo la morte misteriosa del marito Saverio; la terza, Vittoria, la nipote, poliziotta come il padre, scontrosa e lunatica.
Il luogo è Milano, per la precisione quartiere Giambellino, dove Libera ha trasformato il vecchio casello ferroviario di suo nonno nel suo laboratorio dove crea bouquet di nozze personalizzati.
Il giallo parte dalla richiesta accorata della mamma di una ragazza scomparsa, ventisette anni prima, che ha bisogno di sapere quello che è davvero successo a sua figlia Carmen, e per questo chiede aiuto a Libera, facendo leva sull’amore materno, per far riaprire il caso, da Vittoria, che è stato archiviato, senza alcun esito.
E’ convinta che la polizia all’epoca abbia tralasciato alcune piste secondo lei evidenti.
Libera insieme a sua mamma Iole, nonostante la ritrosia di Vittoria, si buttano a capofitto in questa indagine, e senza metodo ed esperienza, scoprono alla fine una verità impietosa e crudele.
Il libro, di Rosa Teruzzi, scrittrice e giornalista, è un giallo sentimentale, scritto in modo semplice e fluido, ha una buona descrizione dei personaggi e una trama articolata con un bel finale a sorpresa.
Decisamente poco impegnativo, ma piacevole lettura di evasione.

Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    03 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Colter Shaw lavora in proprio

Colter Shaw è un cacciatore di ricompense e dedica le sue giornate a rintracciare persone scomparse (o fuggite alla giustizia) dietro la speranza di ottenere le remunerazioni che parenti o autorità promettono a chi ritroverà gli scomparsi. Però, Colter, l’Inquieto, come lo definiva il padre, ha pure un suo obiettivo personale che lo assilla da vent’anni.
Ashton Shaw, eminente professore della California University di Berkeley, aveva costretto la sua famiglia ad abbandonare tutto e a rifugiarsi nella loro tenuta sulla Sierra Nevada, assillato dal timore paranoico di essere oggetto delle attenzioni minacciose di enti e multinazionali che ordivano oscure trame a danno suo, dei suoi e del Paese intero. Là li aveva tutti addestrati al survivalismo più integrale e assoluto, insegnando loro a diffidare di tutti e di ogni cosa.
Gran parte di questi timori, però, erano frutto della psicosi dell’uomo che, con gli anni, s’era andata aggravando, nonostante le cure della moglie, psichiatra. Tuttavia in parte erano paure pienamente fondate: proprio uno degli emissari di queste potentissime società, che Ashton cercava di denunciare, era penetrato nella tenuta e l’aveva ucciso facendolo precipitare da una rupe.
Per anni Colter aveva ipotizzato che l’autore dell’omicidio fosse suo fratello Russell, scomparso nel nulla proprio in quei giorni, ma ormai ha capito che i timori di suo padre non erano fallaci. La BlackBridge Corporate Solutions da anni agisce ai limiti della legalità e i suoi dirigenti sono persone assolutamente prive di scrupoli che adottano ogni metodo per il soddisfacimento dei loro avidi interessi.
Colter è convinto di aver individuato finalmente i responsabili della morte del padre e di molte altre persone che avevano cercato di ostacolare i loschi traffici della BlackBridge: dopo tutti questi anni, forse, sta per mettere le mani sui documenti lungamente cercati dal padre. Essi li inchioderebbero alle pesantissime responsabilità per la gestione criminale della loro società.
Ma quella gente è potente e crudele e non si ferma di fronte a nulla pur di ottenere ciò a cui mira, quindi Colter dovrà agire sempre tenendo ben presente le massime di suo padre, il Re del Mai: “Mai suppore che un nemico sia inoffensivo”; “Mai pensare di essere al sicuro”; “Mai rendersi vulnerabili”; “Mai prendere decisioni in base alle emozioni”; “Mai permettere al nemico di valutare le tue difese”. Cioè dovrà essere sempre cauto e calcolare ogni sua mossa con logica e preveggenza, cercando di precedere quelle dei suoi nemici.
A San Francisco si giocherà la partita finale con questa cricca di delinquenti, ma, nel frattempo, Colter dovrà risolvere pure il caso della scomparsa di una ragazzina (forse preda di sfruttatori) e cercare di riallacciare i rapporti con il fratello, improvvisamente riapparso nella sua vita.

Questo è il terzo capitolo della serie dedicata a Colter Shaw, enigmatico e cerebrale eremita che si dedica alle investigazioni dietro ricompensa non per necessità economiche, ma per assecondare un suo istinto di cacciatore, cercatore di tracce e che non si muove mai prima di aver valutato attentamente le percentuali di successo di ogni singola ipotesi.
Jeffery Deaver è un abile ed esperto artigiano del romanzo thriller e i suoi libri sono un ottimo cocktail di suspense, azione, colpi di scena e meticolose descrizioni d’ambiente e dei protagonisti. Le trame sono ben architettate e – se anche in alcuni casi si rischia di superare quel labile confine che divide le storie credibili da quelle in cui si deve ricorrere alla sospensione dell’innata incredulità per accettare alcune situazioni – non di rado vengono affrontati, in modo non banale, alcuni dei problemi concreti che affliggono la nostra società contemporanea: ad esempio, nel primo romanzo era presa di mira la dipendenza patologica dal gioco elettronico, nel secondo l’asservimento alle sette fideistiche, e, in questo, lo strapotere delle multinazionali.
Lo stile narrativo è rapido e fluido e ben asseconda il susseguirsi delle azioni nel loro concitato svolgersi.
A voler trovare difetti nelle storie si può osservare come la mania di descrivere con puntigliosa precisione le caratteristiche fisiche e comportamentali dei vari attori delle scene e le ambientazioni delle medesime – al punto da fornire dettagli sulla marca degli abiti, la tipologia delle bevande o dei cibi consumati, addirittura la specie di piante incontrate in un parco o lo stile architettonico degli edifici di una via – appaia eccessivo, defatigante e quasi barocco, se non proprio una forma di pubblicità occulta a questo o quel prodotto.
Però, è innegabile che, ad esempio, la città di San Francisco, venga descritta in modo così vivido e circostanziato, al punto da proiettare il lettore nelle sue strade e assuefarlo alle sue atmosfere. E i personaggi ci sono tratteggiati con tale accuratezza che, se li incontrassimo per strada, riusciremmo a riconoscerli.
Ho trovato un po’ fastidiosa l’assoluta perfezione con cui si muove Colter, che è sempre un paio di passi davanti ai suoi avversari, che prevede le loro mosse e riesce a contrastarle sempre con abilità, astuzia ed efficacia, che non viene mai preso alla sprovvista anche quando, a noi lettori, ci appare spacciato; che ha a disposizione sempre il gadget elettronico che gli permette di raggiungere i suoi scopi.
Tutti i potenziali colpi di scena, gli eventuali rovesciamenti di fronte che potrebbero vederlo in difficoltà se non, addirittura, a rischio di soccombere ai suoi avversari, sono, praticamente ogni volta, bloccati sul nascere, quando non sono, addirittura, previsti in anticipo con un piano complesso per indurre in errore i suoi nemici. Le rarissime volte in cui potrebbe trovarsi in difficoltà, a soccorrerlo arriva un provvidenziale deus ex machina (nella specie il misterioso e quasi onnipotente fratello Russell) che, non solo lo trae dai guai, ma addirittura lo sostiene e appoggia nella sua lotta.
Se pure Superman ha i suoi punti deboli e un po’ di kriptonite può renderlo inerme, Colter Shaw è assolutamente inattaccabile e, in quella violenta partita a scacchi contro gli uomini che hanno ucciso il padre, non sbaglia mai una mossa, anche se il lettore lo scopre solo pagine dopo che i fatti sono accaduti.
Quindi, in definitiva, il personaggio Colter è assai poco credibile e reale, ma sicuramente appagante e gratificante in un universo dove i cattivi ricevono sempre la giusta punizione che si sono abbondantemente meritati con le loro malefatte e la giustizia è sempre giusta, definitiva ed efficace. In definitiva, la soluzione catartica della vicenda non viene negata al lettore, il quale, al contrario, ne può godere nel modo più pieno e consolatorio.
Quindi il libro, proprio per questi confortanti esiti, è divertente e distensivo e dona qualche ora di sano svago, staccati dalla realtà quotidiana. Da leggere come degna conclusione della trilogia (iniziale?) di Colter Shaw.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
...e apprezzato i primi romanzi dedicati al personaggio di Colter Shaw
Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    03 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Indagini mediocri per un ispettore mediocre


L’ispettore Ferraro (il nome di battesimo non lo confessa neppure sotto tortura, già ritiene troppo loffio il cognome) è un poliziotto milanese, nato a Quarto Oggiaro e, salva una breve assegnazione in montagna, vissuto sempre nel suo quartiere, dove indaga, senza mai troppa enfasi nel lavoro, su ogni tipo di crimine, dai feroci omicidi ai… furti di mele del suo ortolano preferito. Fa il poliziotto perché crede che questa sia stata l’unica opzione che gli ha offerto la vita, ma se pure svolge le indagini senza entusiasmo (a volte preferirebbe vomitare piuttosto che recarsi in ufficio), lo fa anche senza alcuna infamia o colpevole negligenza, cercando di sbrogliare la matassa che, di volta in volta, gli è capita tra le mani.
In questo volume, che è il romanzo d’esordio della lunga serie a lui dedicata, lo troviamo impegnato in quattro casi, uno per stagione. Indagini che lo impegneranno sugli omicidi di un marocchino, spacciatore di droga, sgozzato brutalmente com’era capitato, settimane prima, al suo cane; di un facoltoso e discusso immobiliarista, investito (intenzionalmente?) in una delle zone più malfamate di Milano, dove non si capisce cosa stesse facendo; di Armandino, un povero vecchio, suo vicino di casa, che non aveva mai fatto male a una mosca; e di una donna, nota venditrice di sigarette di contrabbando, pestata a morte lo stesso giorno in cui la palestra di suo figlio era stata data alle fiamme.
Ferraro, con il contribuito, spesso determinate, dei suoi colleghi, riuscirà a incastrare i colpevoli, ma la sua insoddisfazione lieviterà sino a fargli valutare un’alternativa al lavoro in polizia, alternativa che non si sa a cosa lo porterà.

Questi gialli di Biondillo sono del tutto anomali nel panorama italiano del genere: racconti sottotono di una criminalità di periferia dove gli ambienti spesso desolanti, in cui si muovono i personaggi, fanno da contraltare alle loro personalità, non di rado banali, quando non sordide.
In particolare il protagonista è un uomo mediocre, deluso dalla vita che gli ha portato via il padre quant’era ancora troppo giovane, gli ha tarpato le ali verso diversi sbocchi di carriera e che – adesso che è pure divorziato – si illumina solo nei troppo brevi fine settimana con la figlia Giulia.
Sostanzialmente è privo dei talenti investigativi tipici nei detective della letteratura. Però è tenace e puntiglioso. Non di rado piglia delle cantonate che potrebbero portare a clamorosi errori giudiziari, ma, alla fine, lui e la sua squadra, fanno girare correttamente l’arrugginita macchina della giustizia per giungere alla soluzione sperata.
È circondato da colleghi che sono personaggi da gag comica. Ad esempio l’ispettore capo Lanza, suo diretto superiore, non comprende neppure le ironie, le iperboli, le metafore più blande e, così, se qualcuno osserva che hanno dovuto raccogliere un cadavere con cucchiaino, pensa davvero che sia stato usato quello strumento per il mesto servizio. Tuttavia è assolutamente preciso e circostanziato: “se diceva che era A allora era A. Altrimenti stava zitto”. Insomma ha una mente analitica e priva di alcuna immaginazione, ma, proprio per ciò, è decisivo nel risolvere alcune indagini. Al contrario il sovrintendente Comaschi fa a gara con Ferraro per trovare le battute più corrive e fiacche che non fanno ridere neppure lui, o per punzecchiarlo con frecciatine continue. Spesso è più d’intoppo che d’aiuto, ma anche lui fornisce un contributo non ignorabile. I capi non sono da meno in questi racconti polizieschi, dove la satira scivola volentieri verso lo scherno sarcastico, la critica sociale si confonde con l’osservazione politicamente molto scorretta, la trovata fantasiosa si trasforma in situazione surreale. Insomma, i confini tra il poliziesco investigativo classico e la caricatura sguaiata sono abbastanza labili.
Anche lo stile narrativo si adatta alle situazioni e ai personaggi: il linguaggio e le costruzioni lessicali usati sono spesso disadorni e popolari, non privi di qualche rozzezza espressiva. Le trame – se da un lato ci appaiono più reali di quanto non lo siano certe invenzioni più blasonate, proprio perché la realtà è, il più delle volte, banale – dall’altro peccano di una eccessiva semplicità.
La ricerca costante dell’ironia e della situazione comica con esiti, non di rado, paradossali, richiama alla mente le avventure del bizzarro commissario Sanantonio, protagonista di centinaia di romanzi tra il poliziesco, lo spionistico e la pura farsa strampalata, frutto della fantasia dello scrittore francese Frédéric Dard. Ma Ferraro si muove più terra-terra del suo omologo d’oltralpe: non è un Superman dell’investigazione scientifica; è solo un pover’uomo che cerca di fare il lavoro, per il quale viene pagato, nel modo meno infame che gli riesce.
Da segnalare in questi racconti, la minuziosa descrizione di Milano da parte dell’A. da cui traspare un amore intenso, ma forse mal corrisposto, per la città che ci viene descritta anche nelle sue caratteristiche meno accattivanti e seducenti, tuttavia sempre con un malcelato rimpianto su quello che potrebbe, invece, donare ai suoi abitanti.

Complessivamente, il libro è gradevole e, non di rado, spassoso: riesce pure a strappare qualche risata sincera e ad intrigare con l’intreccio poliziesco, ma, sinceramente, non è tra quelli destinati a rimanere nella memoria.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
  • no
Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Settembre, 2024
Top 100 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

L'Amish

“...alto e attraente, sui quarantacinque, e in perfetta forma fisica. Innegabilmente bello. Una testa piena di riccioli castani, un trench alla Maigret, una collezione di camicie di sartoria sempre portate con le maniche arrotolate sopra ai gomiti e impeccabili pantaloni gessati sorretti da bretelle di vari colori. Ai piedi le immancabili Church’s modello Oxford a punta rotonda che userebbe anche per correre la Stramilano! “
Il commissario Luca Botero è un bel tipo, sui generis, non ama la tecnologia. Ha subito, nel passato, un grosso trauma,mentre indagava su un killer spietato e senza scrupoli, è entrato in coma, e quando si è risvegliato è completamente diventato un’altra persona,che si ostina a vivere nel passato e odia, al punto di essere fobico, tutto ciò che il progresso tecnologico ci ha messo a disposizione al giorno d'oggi, cellulari, computer…
per questo e per i suoi modi è soprannominato l’Amish.
Quindi anche tutta la sua squadra è catapultata nel passato, più precisamente negli anni 70, sia nel modo di vestire, che per gli strumenti usati per le indagini, vecchi telefoni in bachelite, fax e archivi cartacei.
Durante un grosso evento, per la fine dell’EXPO, in uno degli alberghi di lusso di Milano, salta la corrente, ma quando le luci si riaccendono l’onorevole Vincenzo Greco giace riverso senza vita nella piscina dell’hotel. L’assassino è tra gli invitati, ovviamente, ed è proprio su ognuno di loro che si concentrerà il lavoro dell’equipe del commissario.
Un giallo classico, lineare, con movente, indizi e diversi sospetti, basato tutto sul ragionamento deduttivo dell’investigatore.
Fin troppo semplice nello schema, se non fosse per il tocco di originalità dato al personaggio principale, che lo distingue da altri commissari.
C’è chi ha avuto, leggendolo, risonanze di A.C. Doyle o Agatha Christie, io sinceramente non le ho percepite, tantomeno ravvedo Poirot o Sherlock Holmes in Luca Botero.
Una lettura semplice, non molto intrigante e pur forzandone, lo scrittore, tutte le caratteristiche, non ho trovato affascinante neanche il protagonista.

Indicazioni utili

Consigliato a chi ha letto...
consigliato Ni
Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    01 Settembre, 2024
#1 recensione  -   Guarda tutte le mie opinioni

Pepe o acqua santa?

«[…] Se le mie riflessioni sul nostro matrimonio fossero state trasposte in un film, i critici avrebbero detto che era tutto contorno, che non c'era trama, e che si sarebbe potuto sintetizzare così: due persone s'incontrano, s'innamorano, hanno dei figli, cominciano a litigare, diventano grassi e irritabili (lui), annoiati, disperati e irritabili (lei) e si separano. E non avrei avuto niente da ridire. Non siamo niente di speciale.»

Chi ha già letto i romanzi di Nick Hornby sa bene che l’autore dalla penna irriverente e sarcastica, umoristica e pungente, nulla omette e nulla risparmia. E sa anche bene che nelle sue opere ci sono dei tratti comuni quali, ad esempio, figure ricorrenti come uomini single, inglesi, possibilmente eterni Peter Pan, emozionalmente inadeguati e immaturi con tendenze infantili, assolutamente inadeguati alla vita di coppia anche solo prospettata.
Ma Hornby negli anni ha anche mutato il suo panorama letterario cimentandosi in storie diverse, più mature, più distanti dal filone tipo e per questo capaci di affrontare anche tematiche diverse con personaggi diversi. Lo dimostrano gli ultimi lavori pubblicati per Guanda, ma anche alcuni titoli un po’ più datati come “Come diventare buoni, classe 2001.
Tra queste pagine egli ci invita a riflettere sulla nostra vita, ci offre degli spunti e tratta la dimensione matrimoniale non tanto della coppia neo sposata dove tutto è perfetto e idilliaco bensì della coppia ormai collaudata e giunta ai massimi livelli di non sopportazione e insofferenza.
Due i volti proposti: da un lato abbiamo lei, medico la cui professione sostiene la famiglia a livello economico, una donna ancora impegnata nel sociale, sensibile, disponibile, gentile, tranquilla e fedele e lui, David, un uomo irascibile, supponente, arrogante e presuntuoso, di professione colonnista in un giornale locale. A far da cornice i due figlioletti, Molly e Tom. Sono una famiglia relativamente moderna, benestante nonostante tutto, hanno un lungo matrimonio alle spalle ormai sfiancato dalla routine, un matrimonio che la moglie cerca di movimentare con una relazione extraconiugale con Stephen.
Ciò che rompe gli equilibri è però l’incontro di David con un guaritore, un personaggio che cura, con relativo disappunto della dottoressa, i problemi dermatologici dei figli, e che “trasforma” l’irascibile e presuntuoso marito in un sensibile e caritatevole individuo che aiuta perfino i senza tetto. Ne emerge una commedia in perfetto stile Nick Hornby dove niente è dato per scontato e tutto viene trattato sotto una perfetta luce umoristica e volta ad evidenziare paradossi e contraddizioni del sistema sociale e coniugale.

«[…] Com'è che lei può avere una famiglia e io no? Questo non è giusto".
Ha ragione ovviamente. Non è giusto. L'amore, evidentemente, è antidemocratico come il denaro: si accumula intorno a persone che ne hanno già fin troppo: i sani di mente, i sani nel corpo, gli amabili. Io sono amata dai miei figli, dai miei genitori, da mio fratello, dal mio sposo, credo, dai miei amici; Brian non ha nessuna di queste figure, e mai le avrà, e per quanto ci piacerebbe darne un po’ a tutti, non possiamo.»

Ed è proprio la vita matrimoniale ciò che l’autore affronta in “Come diventare buoni”. Ed è vero, è una tematica di cui abbiamo tanto sentito parlare e di cui tanto sentiamo parlare, ma la chiave con cui Hornby la osserva ed analizza è molto obiettiva e intelligente tanto da non cadere nello scontato o nel banale. È da apprezzare il tentativo di David ma anche la consapevolezza di Katie, ormai stanca e satura.
Torno a Hornby con quella che è una rilettura e vi torno riprovando sempre le stesse piacevoli emozioni, più mature forse, ma sempre positive. La penna è fluida e rapida, lo stile pungente e conforme a ciò a cui ha abituato il lettore.
Un titolo da leggere con curiosità, con cui ridere ma anche riflettere sia in prima che successiva lettura.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    31 Agosto, 2024
Top 500 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

La Brexit per una barretta di cioccolato

No, lettore, non temere. Le barrette di cioccolato sovrimpresse al profilo dell’Inghilterra in copertina non preludono a nessun racconto di pasticciere raffinate, di bevande sospette per i loro effetti benefici sull'umore, di rinfreschi basati sul divino alimento e offerti per confortare austere, periferiche, vagamente depresse comunità del nord europeo.
Bournville è il sobborgo di Birmingham in cui si stanziò la grande fabbrica inglese della Cadbury col suo cioccolato che, durante la guerra, per la scarsità di burro di cacao, veniva prodotto con l’aggiunta di grassi vegetali. Vicenda noiosa, dirai. Tutt'altro: Jonathan Coe, con la su abilità di narratore, lega ad essa il culto per la tradizione degli inglesi, che anche dopo la guerra continuano ad amare la nuova formula, e sa cogliere, nella guerra commerciale dichiarata dalla Commissione europea al cioccolato britannico, una delle cause dell’avversione verso la Ue e del voto favorevole alla brexit. Nulla è infatti casuale nella costruzione narrativa di Coe e quella che appare una patetica, stantia abitudine di Mary Lamb, la protagonista della saga, puntuale nel far trovare ai figli, anche da grandi, il loro pezzo di cioccolato rigorosamente Cadbury, magari dietro le rispettive fotografie disposte sulla mensola del caminetto, si trasforma, attraverso la sua lente acuta di studioso delle vicende inglesi, in tratto antropologico profondo, da cui dipenderanno addirittura i destini futuri del Paese.
Questo legame con la tradizione appare non meno forte in Martin,uno dei tre figli di Mary, dirigente della Cadbury, che tenterà invano di superare le resistenze comunitarie al cioccolato inglese, cercando senza risultato la collaborazione di un deputato al parlamento europeo, Paul Trotter, protagonista di un’altra saga dello stesso autore, la Banda dei brocchi (non sono rari in Coe questi incroci di universi narrativi diversi).
Ancora più fermo nelle sue convinzioni nazionalistiche, antesignane dell’odierno sovranismo, è il primogenito Jack, che imposterà la campagna pubblicitaria della nuova Austin immaginandola come una guerra cui tutto il Paese è chiamato per fronteggiare l’invasione delle auto europee, in una sorta di riedizione commerciale del secondo conflitto mondiale.
Estraneo a questo tradizionalismo radicale incline al nazionalismo è il terzo figlio, Peter, musicista, che in qualche modo incarna, nel suo rapporto con la madre, le istanze dell’evoluzione e del progresso. Ragioni che si manifestano, quasi inaspettatamente, nella stessa Mary: un giorno Peter, ancora bambino, aveva sentito la madre definire “feccia del mondo” un vicino omosessuale agli arresti. Questo aveva indotto il ragazzo a tacere la propria condizione. Perciò, quando ormai grande si decide a parlarne alla madre stessa e questa lo accetta senza problemi, le ricorda, stupito, quel lontano episodio. Mary, personaggio concreto, risoluto, generalmente non problematico, sa dargli però la risposta più illuminata e pertinente possibile: i tempi cambiano, cambiano i modi di vedere la realtà, e con essi mutano gli uomini. Tutto si snoda, infatti, attraverso un arco di settant'anni, scanditi da alcuni eventi centrali (l'incoronazione di Elisabetta, i mondiali del '66 vinti dall'Inghilterra, i funerali di Diana, ecc.), che la famiglia segue, unita, attraverso la radio prima, la televisione poi. A ciascuno di tali avvenimenti corrisponde un capitolo.
Il tempo è dunque uno dei grandi temi del romanzo, anche se non sempre vi appare in un' accezione progressiva. Per Peter, l’ultimo movimento di una sonata che sta ascoltando è “come un urlo di dolore per il fatto più semplice e crudele di tutti: il trascorrere del tempo”.
Ma al di là delle trasformazioni cui gli uomini sono soggetti, nonostante la condizione umana sia contrassegnata dal modificarsi delle cose, esiste come una “voce eterea” che sussurra ripetutamente al nostro orecchio, simile a un mantra: “Tutto cambia e tutto resta uguale”, una sorta di rivisitazione della celebre sententia gattopardesca, con una accentuazione più esistenziale che storica.
Il tutto si traduce in una scansione non lineare del tempo narrativo e anche qui, come in altri suoi romanzi, Coe inizia e conclude con i personaggi più giovani, ancorati al tempo presente, dal quale muove e al quale approda il racconto.
In questo contraddittorio progredire e restare fermi, evolvere verso il futuro e ancorarsi al passato, oscillando tra la necessità del mutamento e un’idea immobilistica della società e del suo fluire, Bridget, la moglie di colore di Martin, è chiamata a svolgere, nel sistema dei personaggi, il ruolo più critico e corrosivo: in occasione della malattia della suocera, si scaglierà contro il cognato Jack e contro l’intera famiglia, accusandola di aver fatto sempre finta di non vedere che Gary, il suocero, l’aveva sempre ignorata dall'alto di un radicato e inestirpabile pregiudizio razziale.
(Spoiler) Il racconto termina con il periodo del covid, con gli errori del governo di Boris Johnson, e con una citazione minuziosa del decalogo sanitario con il quale si cerca di frenare la diffusione del virus, ma nel frattempo si lascia morire una donna anziana come Mary, separata, anzi, per meglio dire, col linguaggio di allora, “distanziata” dai figli.
E ancora una volta Coe ti commuove, ti fa riflettere con la sua ricchezza di temi, con la sua capacità di scandagliare il fiume della storia fino ai suoi rivoli più attuali, e ti fa rimpiangere che non ci sia nella nostra letteratura uno scrittore capace come lui di raccontare nei suoi aspetti più profondi ed essenziali una storia come quella italiana, non meno ricca di vicende interessanti e significative. Un cantore amabile e garbato, ma acuto ed epico, degli avvenimenti che hanno segnato e orientato il destino della nostra nazione.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
La trilogia dei Trotter (La banda dei brocchi, Circolo chiuso, Middle England), Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
Lonely Opinione inserita da Lonely    30 Agosto, 2024
Top 100 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Arcadipane non sei solo

Il commissario Arcadipane è solo e malinconico, la moglie lo ha lasciato, non ha un gran rapporto con i suoi figli, Corso Bramard si è eclissato e Isa Mancini è finita, per il suo carattere irascibile, alla stradale.
Il commissario dunque è solo ad indagare sull’omicidio di una donna all’uscita della metro, pestata a morte. Sorprendentemente però l’assassino viene subito identificato ed arrestato.
Ma Arcadipane non è convinto, il suo intuito, che credeva di aver perso, gli dice che qualcosa non torna.
Così con l’aiuto di un ex poliziotto semi psicotico, si inoltra in questa indagine alquanto oscura , che lo porta nel dark web, in giochi a premi pericolosi e letali, in un mondo “nascosto” che offre di tutto a chi sa come muoversi.
Ma il commissario è in crisi, e nonostante lo pseudo aiuto di una psicoterapeuta disabile, più pazza dei suoi pazienti, non riesce a sbrogliare la matassa.
Quindi si rivolge ai suoi vecchi amici, Bramard e Mancini, che nonostante anche loro siano profondamente cambiati dagli eventi della vita, forniranno un sostegno fondamentale per la risoluzione di un caso a dir poco complesso.
Questo romanzo è l’ultimo di una trilogia di Davide Longo, dopo Il Caso Bramard e Le Bestie Giovani.
Longo è innegabile, ha uno stile particolare, divisivo, scrive gialli non canonici, senza suspense o colpi di scena, pochi indizi e pochi fatti, tutto gioca sulle intuizioni e le deduzioni di chi indaga. I dialoghi tra i personaggi sono spesso riflessioni mai niente che ti riporti alla trama o che segua un filo logico,e il lettore spesso si perde, e se cerca di svelare il mistero, qui gli è praticamente impossibile. Se cercate un giallo semplice e lineare rivolgetevi altrove, non è questo il caso. Qui si va oltre, se si riesce a starci dentro, si toccano le corde della natura umana, nel bene e nel male. Un romanzo con una struttura complicata, una scrittura a tratti ostica e un messaggio profondo.
Non mi ha convinto fino in fondo, ho trovato certi personaggi, come la psicoterapeuta sui generis o l’ex poliziotto, che parla in versi biblici, un po’ troppo sopra le righe, tanto da non essere credibili. Se l’intento era quello di alleggerire, personalmente il risultato è stato l’opposto. Ma la trilogia nella sua interezza vale la pena di essere letta.

Indicazioni utili

Consigliato a chi ha letto...
a chi ha letto i primi due della trilogia
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
lapis Opinione inserita da lapis    30 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Aggiustare la verità

Una borsa piena di piccole pietre bianche.
Da dove viene la pietra?
Dalla borsa.

Attenzione, la verità non è quasi mai la più ovvia, tantomeno la più giusta e se sembra soddisfare il palato, probabilmente la si sta aggiustando.

Ad ogni fatto criminoso prende sempre il via una caccia alla verità che coinvolge tutti, forze dell’ordine, media, opinione pubblica. Ognuno si costruisce le proprie convinzioni, in un’aula di giustizia così come al bar sotto casa, ed è facile spazzare via i particolari che non collimano, piegare gli elementi al proprio pensiero.

Per più di vent’anni il giornalista Dario Corbo ha cercato di dimenticare quell’estate del 1993 in cui una giovane ragazza è stata ritrovata violentemente uccisa in un bosco della Versilia. Non ha mai ripensato a quel delitto con cui ha mosso i primi passi nell’ambiente della cronaca nera. Non si è mai più interrogato sulla verità che aveva scritto e sostenuto tenacemente dalle colonne del proprio giornale. A distanza di vent’anni, però, complice una serie di sfortunate vicende professionali e personali che lo hanno fatto finire a terra, disoccupato e solo, Dario è costretto ad accettare la proposta di scrivere un libro su quel caso, riaprendo il cassetto in cui erano stati stipati appunti, domande e dubbi e costringendosi a chiedersi infine se la memoria a volte non ci inganni, per farci pensare di non aver mai avuto davvero torto.

“La ragazza sbagliata è un romanzo complesso in cui Giampaolo Simi affida alle pagine una serie di interrogativi sul rapporto tra verità, memoria, giustizia. Rispetto ad altri lavori che ho letto dello stesso autore, si percepisce qui la ricerca di una certa tortuosità d’intreccio facendo prevalere la componente di indagine quasi poliziesca rispetto alle atmosfere noir e all’approfondimento psicologico in cui, a mio parere, dà il proprio meglio. Non manca però la qualità di penna e la sensibilità di tocco, nel far rivivere la storia italiana del 1993 così come del tratteggiare personaggi profondi e credibili. Senza risparmiare domande scomode travestite da giallo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Lonely Opinione inserita da Lonely    29 Agosto, 2024
Top 100 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Autunnale

Nella città di Torino nel corso di venti anni sono stati commessi una serie di delitti, tutti simili, con target donne, alte, magre e con lunghi capelli neri; stesso modus operandi, ritrovate legate con tagli particolari sulla schiena a formare un disegno preciso. Un serial killer dunque. Tutti delitti irrisolti, ma dopo venti anni il caso si riapre, anche se per Corso Bramard non si era mai chiuso.
Dare la caccia ad Autunnale, cosi ha chiamato il serial killer, gli è costato la morte della moglie e la scomparsa della figlia piccola. Ma Bramard, nonostante abbia lasciato la polizia dopo quel trauma, non ha mai smesso di cercarlo, ma mai nessuna traccia, nessun indizio, solo delle lettere, che lo stesso killer gli invia personalmente, come se il tutto fosse una sfida, come a dirgli “vienimi a prendere se ci riesci”. Fino alla svolta, nell’ultima lettera, c’è finalmente un indizio, un capello…un errore?
Corso Bramard è silenzioso, buon ascoltatore, intelligente e investigatore di talento, ma dopo la morte della moglie e la sparizione della sua unica figlia, cambia completamente, lascia il lavoro, vive in totale solitudine e il suo unico conforto diventa l’alcool.
Dopo più di venti anni, riesce a mettere insieme i cocci della sua vita, con la sua laurea, trova un lavoro come insegnante in un liceo, nella speranza di lasciarsi alle spalle il passato, Ma ciò gli risulta praticamente impossibile, perchè oltre al perenne dolore per le due perdite così grandi, Autunnale alimenta quel dolore continuando a spedirgli delle lettere a intervalli regolari con i versi di una canzone di Cohen.
Ma proprio nell’ultima lettera ricevuta, Corso trova un capello, l’unico indizio sul killer in tutto questo tempo.
Con l’aiuto del suo amico e commissario Arcadipane e la collega Isa Mancini, Corso Bramard intraprende questa ennesima indagine, sperando che sia davvero l’ultima.
Il thriller è psicologico quindi lento e laborioso. niente suspense, né tensione. I personaggi non sono descritti ma vengono definiti dai dialoghi e dalle loro azioni. La trama è un po’ confusa e anche i dialoghi, a volte, tanto da non capire, chi dice cosa.
Anche il finale l’ho trovato frettoloso e inaspettato ed anche lì un dubbio per ricollegare chi fosse il colpevole l’ho avuto.
Personalmente l’ho trovato un po’ pesante ma soprattutto poco fluido.
Peccato perchè La vita paga il Sabato mi era piaciuto molto

Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Salute e Benessere
 
Voto medio 
 
3.4
Stile 
 
3.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
ALI77 Opinione inserita da ALI77    27 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

RIORDINO: PIU' GIOIA E MENO STRESS

Il riordino si svolge di due fasi: scartare e riporre nel luogo giusto.
Marie prima di iniziare ci spiega che non siamo abituati alla "gioia" e in molti casi non riusciamo a riconoscerla, per questo bisogna seguire il processo che l'autrice descrive nel libro.
Prima bisogna partire dal necessario per poi arrivare alle cose che hanno un valore sentimentale, si inizia dal vestiario, poi si prosegue con i libri, le carte, il komono (oggetti misti) e infine i ricordi. Seguire questo ordine è fondamentale, inoltre bisogna riordinare per categoria e non per stanza.
La cosa migliore è quella di darsi una data di scadenza per il riordino non è necessario farlo sempre ma basta una sola volta, certo è difficile in un unico momento sistemare tutta la casa, ma si potrebbe individuare un giorno a settimana, un paio di ore serali ma la deadline dovrebbe essere rispettata.

Il capitolo forse più interessante per me e per noi lettori è quello dedicato ai libri, il segreto di questo riordino è prendere tutti i libri e metterli assieme in una stanza, se riusciamo a farlo naturalmente! Non solo romanzi da leggere, ma anche riviste, manuali, libri di cucina, cataloghi ecc. Se sono troppi affrontateli dividendoli per genere e tenete ciò che vi procura gioia. Come capirlo? Prendeteli in mano, guardate la copertina e sentite che emozione vi dà, non soffermatevi troppo però, non leggete la trama e cercate di immaginare una libreria con solo i titoli che vi procurano gioia.

Un libro può provocarvi gioia a metà? Cioè solo alcune pagine lo potrebbero fare? Marie ci consiglia di tenere solo le pagine che ci interessano, credo che questo sia possibile più con le riviste, i cataloghi che con i romanzi.

Il capitolo dei komono è quello più ostico da realizzare, perché di questa categoria abbiamo tantissimi oggetti da sistemare e organizzarli non è sempre facile, il consiglio è di partire da quella che vi sembra più semplice. Marie ci dice sempre di riciclare e per sistemare i vari oggetti il segreto è quello di utilizzare quello che avete in casa, scatole, contenitori ecc.

I komono da tenere sono quelli che vi procurano gioia e sono utili magari una molletta per i capelli, una piastra ecc, quelli che non sono utili ma vi procurano gioia, magari non so una pianta o un soprammobile e infine quelli che sono utili ma non ci procurano gioia ma gli usate tutti i giorni, sono comodi vi aiutano e non vi procurano stress.

Sull'ultimo capitolo dei ricordi, su questo ognuno credo abbia la propria sensibilità quindi se vi va di tenere tutto tenete tutto, non si deve per forza scartare una cosa che per voi è importante, una foto, un vecchio diario, un regalo magari che non usate più.

Se riuscite a completare questo processo dovreste trovare facilmente dove si trova ogni cosa, senza perdita di tempo e stress, naturalmente anche le nuove cose devono seguire l'ordine che avete stabilito.

Più semplicità e più autostima.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
ALI77 Opinione inserita da ALI77    27 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

LA PAZZIA DI UNA COPPIA SPOSATA

La voce narrante di questo libro non ha un nome, è una donna che racconta la sua vita, è ancora innamorata del marito dopo quindici anni di matrimonio, è cresciuta in un quartiere popolare ma ben presto ha imparato le regole della buona società e nell'essere una perfetta moglie. Mio marito, così viene chiamato un centinaio e più di volte non ha un nome, solo un buon lavoro, loro sono una coppia invidiata, senza crisi, senza litigi.
La protagonista sente di non essere una buona madre per i suoi figli, lo dice spesso durante la narrazione, i suoi pensieri sono tutti per il marito che per lei rappresenta tutto e quello che le succede e tutte le sensazioni che prova le scrive in un diario.
Possiamo definire questo libro con un lungo monologo che dura una settimana dal lunedì alla domenica, è stato a volte stancante sentir parlare di come tutto quello che facesse la protagonista fosse solo per compiacere il marito. Non c'è quasi dialogo tra di loro, se la donna si sente offesa o non è d'accordo su quello che dice o fa il marito lo scrive sul diario, fa delle ripicche ma cerca di non rovinare mai il mondo perfetto e finto che ha creato. A volte si arrabbia, vorrebbe essere solo baciata, abbracciata e compresa ma i due non parlano, non discutono sembrano quasi irreali.
Il finale, non farò spoiler, ma a detta di molti era il vero colpo di scena, mi ero immaginata vari scenari, anche quello che alla fine ho letto, ma per me è stato veramente banale.
Quello che ho apprezzato di più di questo libro è lo stile scorrevole, intenso, che ti avvolge e ti fa sentire parte della storia.
La protagonista è ben delineata, sappiamo tutto di lei, di cosa pensi, di cosa fa, a volte diventa paranoica a pensare a quello che il marito prova, a cosa pensa, se la tradisca e non si concentra su se stessa. Possiamo definirla un'ossessione amorosa?
No, forse piuttosto la protagonista vuole essere all'altezza di una vita che però non fa per lei, è ingenua quando basta a scrivere tutto sul diario e non avere un posto segreto o a tenerlo nascosto, tanto ingenua da credere di avere il controllo della situazione. E infatti a volte sbaglia, commette errori però l'importante è non turbare il marito e la serenità del loro matrimonio. E' così cieca da non vedere? Così egoista da far soffrire i figli? Sì.
Un libro che si legge in poche ore ma con un finale che piuttosto che sorprendere lascia l'amaro in bocca.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
  • no
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
barbara.g.76 Opinione inserita da barbara.g.76    27 Agosto, 2024
Top 500 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

IL CAMBIAMENTO E' CORAGGIO

Lizzanello, giugno 1934. Una corriera arriva nella piazza del paese salentino, scende una coppia: Carlo e Anna. Luo felicissimo di tornare nella sua terra d'origine, lei, invece, ligure d'origine, è preoccupata per ciò che l'attende in quel borgo di poche anime dalla mentalità ben diversa dalla sua. In paese viene subito etichettata come "la forestiera del Nord", ma Anna, risoluta e piena di forza, cerca di aprirsi un varco nell'animo degli abitanti. L'occasione le viene data da un concorso delle Poste italiane; lo storico portalettere Ferruccio è morto e lei, nonostante il parere contrario di tutti, persino di Carlo, decide di partecipare. E contro le aspettative di tutti, diventa la prima portalettere donna! Negli anni del suo servizio, percorre tanti chilometri prima a piedi poi in bicicletta, consegnando cartoline, lettere d'amore, missive dal fronte di guerra....tutto passa tra le sue mani portando quel cambiamento a Lizzanello che nessuno immaginava possibile. Attorno ad Anna ruotano personaggi maschili e femminili: Carlo, Antonio, Lorenza, Agata, Giovanna, Carmela, Don Ciccio...tutti legati tra di loro a dar vita ad una saga familiare davvero coinvolgente. Sono però le donne di questo romanzo che mi hanno regalato le sensazioni più forti, a partire da Anna che con la sua sicurezza e determinazione, non ha paura di apparire diversa, "fuori dagli schemi convenzionali', ma migliora la qualità della vita delle altre donne, insegnando loro ad essere se' stesse e inseguire I propri sogni.
#laportalettere è anche una storia di sentimenti, tra genitori e figli, tra amanti e innamorati, tra grandi amiche...è la storia unica ed eccezionale della famiglia Greco! È un romanzo colmo di dolcezza, di emozioni, di rivoluzione raccontato meravigliosamente bene che consiglio. Una delle letture migliori finora! Complimenti all'autrice Francesca Giannone!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
1.3
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
1.0
Piacevolezza 
 
1.0
Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    26 Agosto, 2024
Top 10 opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Tenerezza materna

Strano racconto autobiografico di un uomo che resta per tutta la vita molto schiacciato dall’amore materno, tanto che questo amore non gli permette di respirare liberamente. Il peso soffocante della tenerezza materna lo avvolge, ma invece che sostenerlo lo opprime. E’ stato strano leggere questo racconto sapendo a priori che questo stesso uomo è morto suicida. Mi ha molto colpito, perché ho quasi collegato la sua immaturità di fondo e la sua incapacità di tagliare il cordone ombelicale a questa presenza ossessiva che non è stata una presenza sana, anche se l’amore fra di loro è stato immenso, come se il tutto fosse collegato ad una troppo lunga consuetudine all’ala materna. Lui, lontano da lei, aveva sul volto un’aria di assenza, sentiva a fianco un vuoto che sentiva fraterno. Io nel leggerlo mi accorgevo di segni premonitori di fragilità che sono poi sfociati nella sua decisione estrema. Commovente il gesto della madre, di far sentire la sua presenza in modo programmato, anche per molto tempo dopo la sua effettiva scomparsa, quasi che anche lei avvertisse l’incapacità del figlio di far fronte a questo dolore.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    24 Agosto, 2024
#1 recensione  -   Guarda tutte le mie opinioni

Tempus fugit

«[…] Tutta quella vita facile ed elegante ormai non gli apparteneva più, cose gravi e sconosciute lo attendevano. Il suo cavallo e quello di Francesco – gli pareva – avevano già un passo diverso, uno scalpitare, il suo, meno leggero e vivace, come un fondo di ansia e fatica, come se anche la bestia sentisse che la vita stava per cambiare.»

Quando si è giovani la prospettiva verso il futuro è fatta di speranze, desideri e perché no, gloria. Si pensa di poter cambiare il mondo, si crede di poter fare la differenza, si cerca la carriera, si alimentano e accrescono i sogni con quella linfa di buoni propositi e illusioni che spesso vengono minati da quel che poi di fatto la vita si rivela nei suoi mille ostacoli e nei suoi mille e più percorsi tortuosi. E spesso quelle speranze, quei sogni e quelle illusioni si perdono nel tempo, lasciando spazio ad altro, ad una nuova consapevolezza, ad una nuova maturità. Ed è un po’ questo quel che succede a Giovanni Drogo che, fresco di nomina e glorioso di aspettative per una carriera in divenire, parte per la sua prima nomina presso la Fortezza Bastiani. Si aspetta momenti di battaglia e strategia dove sconfiggere il nemico e vincere di onore e coraggio e si ritrova, al contrario, in un luogo atemporale e aspaziale, dove a regnare è il silenzio, dove a governare è l’idea di un nemico che un giorno arriverà ma che sembra, in verità, non arrivare mai. E tutti, nessuno escluso, sembrano essersi dimenticati del mondo di fuori perché assuefatti a quella realtà di lande desolate, paesaggi interminabili, muri umidi e marce ininterrotte.

«I muri nudi ed umidi, il silenzio, lo squallore delle luci: tutti là dentro parevano essersi dimenticati che in qualche parte del mondo esistevano fiori, donne ridenti, case allegre e ospitali. Tutto là dentro era una rinuncia, ma per chi, per quale misterioso bene?»

Davanti il deserto. Un unico paesaggio, un unico scenario. Gli viene proposto di trattenersi pochi mesi, solo quattro, e poi tornare a casa. Gli viene prospettato di restare un paio d’anni che alla Fortezza si acquista merito più rapidamente e il servizio vale di più. Passano i giorni, passano le speranze, vengono meno i sogni di gloria. L’unica cosa che manda avanti i soldati è la prospettiva di quel nemico così atteso e così bramato, così desiderato e così auspicato ma che proprio non vuol saperne di arrivare. È questa la “benzina” che alimenta le giornate, che le fa scorrere in un caleidoscopio di monotonia, che le rende meritevoli di essere vissute e vinte in quel del nulla accadere. Ogni minimo presunto avvistamento è un motivo per ripagare di quell’attesa interminabile. Quando Drogo avrà la prima licenza, è ancora in tempo per salvarsi, ma vive ormai in una “terra di mezzo”. Non appartiene più a casa sua, non si sente più parte del mondo che prima era fatto di motivazione e vita, non appartiene ancora totalmente alla Fortezza ma in quel luogo si sente padrone del silenzio, mosso da un motivo e una ragione per vivere e andare avanti. Si trova ad essere parte di quell'ingranaggio che non si può interrompere e che porta a rimandare il possibile cambiamento, la svolta della propria esistenza.

«[…] Ora sentiva perfino un’ombra di opaca amarezza, come quando le gravi ore del destino ci passano vicine senza toccarci e il loro rombo si perde lontano mentre noi rimaniamo soli, fra gorghi di foglie secche, a rimpianger la terribile ma grande occasione perduta.»

Scegliere. Farsi trasferire. Restare. Scoprire che altri se ne sono andati. Il tempo sembra non scorrere mai, eppure il suo defluire non risparmia nessuno, ancor meno Giovanni Drogo. Sono ormai passati quasi tre decenni e per Giovanni ha inizio l’ultima vera sfida. Chissà se quei Tartari sono arrivati davvero, ma per lui adesso il nemico è un altro. La sua vita è trascorsa nell’attesa, senza affetti, senza più sogni e speranze, senza nulla costruire. Ed ora cosa gli resta se non affrontare la morte in solitudine, nella più unica dignità e nella consapevolezza che ha vinto l’ultimo e vero grande nemico e cioè la paura di morire?

«[…] Avanzava infatti contro Giovanni Drogo l’ultimo nemico. Non uomini simili a lui, ma tormentati come lui da desideri e dolori, di carne da poter ferire, con facce da poter guardare, ma un essere onnipotente e maligno; non c’era da combattere sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera, non amici al fianco la cui vista rianimi il cuore, non l’acre odore di polvere e fucilate, né promesse di gloria. Tutto succederà nella stanza di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra sorrisi di giovani donne. Non c’è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo.»

“Il deserto dei Tartari” è un testo elegante, dalla prosa magnetica, dal contenuto composto e corposo. È un libro che ricorda ai lettori l’importanza del tempo, il difficile convivere con la monotonia. Ed è anche un libro che ci invita a riflettere sulla nostra esistenza, sul nostro essere, sui nostri sogni, le nostre disillusioni, le nostre speranze, le nostre verità, le nostre amarezze. L’idea venne a Buzzati quando si trovò in un periodo di profonda monotonia nella sua vita e questa consapevolezza del tempo che scorre arriva tutta proprio nel suo non scorrere (che intrappola).
Il lettore è come trasportato in una dimensione di non temporalità, in una dimensione parallela dove i ritmi del vivere sono diversi e costruiti su nuovi presupposti. Non è un romanzo per tutti, è un libro che richiede tempo, che chiede di essere capito e che ripaga per quel che chiede con il messaggio che offre e lascia. Il ritmo è ben cadenzato, la sensazione è quella di essere con Drogo in ogni istante, anche nell’epilogo affatto lieto. Scuote, non lascia indifferenti, resta. Un classico del nostro panorama letterario da non perdere.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
68 Opinione inserita da 68    23 Agosto, 2024
Top 10 opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Logoro incedere di solitudini senza speranza

…” pensa agli edifici mancanti e alle mani mancanti e si chiede se valga la pena sperare in un futuro quando non c’è futuro e d’ora in poi, si dice, non spererà più in niente vivrà solo per questo, questo momento, questo momento che passa, l’adesso che è qui, l’ adesso che se ne è andato per sempre”…

Una solitudine inquieta attraversa i giorni di Miles Harris e degli altri protagonisti, spezzoni di storie incastrate in una dimora fatiscente abusivamente occupata e condivisa a Sunset Park, in una metropoli, New York, terra di passaggio, di assenze prolungate e di presenze invisibili, un luogo non luogo dove svelarsi e rincorrere un passato lacerato in attesa di una resa dei conti.
Il giovane Miles, fuggito dai resti della propria famiglia, sovrastato e annullato dal senso di colpa dopo la morte del fratellastro Bobby e da una solitudine autoimposta, vive il presente, confinato nel qui e nell’ ora, regolato da autocontrollo e disciplina, senza desideri e speranze, convivendo con il proprio destino.
Smussati tutti i desideri non gli resta che leggere,

…” L’ unica malattia da cui non vuole essere curato”…

Lavora intrattenendosi e fotografando le torride case di nessuno, abbandonate e deserte, controlla freddamente le proprie emozioni, è innamorato di Pilar e del suo giovane corpo accogliente, una ragazza carina, ambiziosa, colta, che lo fa sentire a casa.
Svuotato di tutto, in cerca di niente, fuggito dal passato, una vita in pausa, Pilar è la risposta che ha aspettato da sempre, il nuovo senso famigliare perduto.
Miles non si racconta, in passato è stato invidiato, imitato, amato, immerso nel proprio silenzio, intelligente, bello, ricercato dalle donne, non parla del limbo che lo riguarda, delle sue due famiglie, del proprio senso di colpa, del fratellastro Bobby, così diverso da lui, due conviventi che non si sono mai incontrati, il ragazzaccio e l’ imbranato.
Ci sarà un luogo, Sunset Park, inizio e fine di un’ altra storia, che apparentemente non riguarda il passato, dove condividere porzioni di altre vite, sole, abbandonate, distorte, un’ umanità variegata sotto un tetto occupato abusivamente.
Bing, Alice, Eileen, Miles, quattro inquilini nelle difficoltà del presente, una precarietà che è lotta per la sopravvivenza, sogni disattesi o troppo grandi, un passato di errori, inciampi, illusioni, ospiti di una fragilità evidente.
Storie individuali e un senso di solitudine collettivo, un legame con il passato nel presente, menomazioni solidali, relazioni mai nate e precocemente infrante, un amore lontano in attesa di una scadenza.
Sunset Park è un luogo di sosta e di attesa,

…piccolo mondo isolato dal mondo”…

di qualche accadimento, di una resa dei conti che possa allontanare l’ incubo ricorrente, una casa non casa dimora dell’ animo.
Fuori sostano sguardi perduti nell’ ombra, un uomo invecchiato che vive mille travestimenti, due madri che hanno perso un figlio, un paese, l’ America, dove tutto come sempre alla fine andrà a posto, un luogo, Brooklyn, dimora di persone abbandonate, con la possibilità che la vita si estingua, che gli altri non ci riconoscano.
C’è un mimetismo che accarezza le vite di tutti, vite che si trascinano in lavori di insegnamento sottopagati, che rivelano uno sguardo appassionato per il disegno e la pittura, che utilizzano una macchina fotografica per registrare pensieri scuciti e inutili.
E ci saranno momenti rimandati da troppo tempo, domande costruite da anni

… Ma allora, se ci volevi bene, perché sei andato via?…

…” qualcosa che deve essere perdonato? Probabilmente no, ma tuttavia deve essere perdonato”

e c’ è una vita che scorre, inafferrabile, imprevedibile, figlia di un passato recente e rivolta a un futuro inaccessibile. C’è un possibile senso di appagamento travolto da una nuova imprevedibile colpa, ansiogena, forse definitiva, a determinare quell’ adesso che se ne è andato per sempre…
Sunset Park è un cantico di solitudini che sopravvivono nell’ ombra di un quotidiano difficile e monco, in un periodo storico, il primo decennio del nuovo secolo, che, per le nuove generazioni, significa precariato, povertà, incertezza, ansia, per le vecchie il ricordo di un recente passato fulgido ed edonista ormai dissolto, che vive una disgregazione famigliare certa, il passaggio dalla dimensione onirica a un reale indigesto.
La speranza, se qualcosa può legittimarla, sta nel respiro di una neo dimensione collettiva di convivenza, anche se immediatamente soverchiata dall’ evidenza.
L’ incedere del romanzo, in una trama quantomai ridotta all’ osso e piuttosto frammentaria, con un senso di suspence sempre più evidente, ne riporta i temi dominanti, destino, senso di colpa, paura, amore, ansia, passione per il baseball, per il cinema, per la letteratura, ma anche precariato, povertà, ansia, un individualismo all’eccesso figlio della propria storia e delle logore maschere di un’ America quantomai sfaccettata e dissolta.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi autobiografici
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Loba Opinione inserita da Loba    22 Agosto, 2024
Top 1000 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Storia di una crescita coraggiosa

Come in un vero e proprio romanzo di formazione, la storia di Tara narra della propria crescita identitaria.

A differenza di un romanzo, "l'educazione" è però un'autobiografia: leggerla ci accompagna man mano attraverso gli intensi vissuti dell'autrice.

"L'educazione" è una preziosa condivisione del potere della scrittura, che assieme all'istruzione, ha permesso all'autrice di scegliere per sè che Donna diventare, che Persona essere. Tara riporta infatti con quata fatica e a quale prezzo ha potuto (dovuto?) conquistare alcune tappe, naturali e spontanee per la maggior parte degli adolescenti, per poter definire il perimetro di ciò che nel tempo identificherà come i propri pensieri, le proprie emozioni, le proprie credenze e scelte. A differenza dell'adolescente che può crescere in un ambiente sano tuttavia, Tara vedrà manifestarsi ciò che i ragazzi temono: l'esser abbandonati dalla propria famiglia, perchè diversi, e quindi sbagliati.
Rieccheggia in me ancora il grande coraggio manifestato da questa autrice nel cercarsi, non accontentandosi delle ambigue e ristrette verità con cui è cresciuta.

"L'educazione" non risulta un libro facile... l'incuria, gli incidenti, le violenze fisiche e relazionali rendono non poco amaro il viaggio del lettore sensibile. Non sono state poche le volte in cui ho desiderato che la ragazza tagliasse in fretta i ponti con un mondo che tanto le ha arrecato dolore. Eppure, Tara ci conduce in un percorso che riproduce fedelmente ciò che accade in realtà: una montagna russa, tra il destino previsto e il futuro desiderato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
kafka62 Opinione inserita da kafka62    21 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

BIOGRAFIA INVENTATA DI UN MASANIELLO SICILIANO

«A seguito di l'accordo che questi potenti ficiro, la nostra terra passa da essiri propietà delli spagnoli a essiri propietà di un duca che di nome fa Vittorio Amedeo di Savoja e che pirciò da duca passa a re. E nui semo sempri uguali a cìciri o a favi che s'accattano e si vinnino». […]
«Tu pensi che con questo re cangia qualichi cosa?» fece Giurlannu Cucinotta.
«E che deve cangiari, Giurlà» intervenne Fofò. «L'accanusci la poisia?».
«Quali poisia?».
«Quella che fa: "Tutti lu sannu, lu sapi puro u mulu / ca u viddranu lu piglia sempri 'n culu." Ti piaci la poisia?».
«No».
«Ma la poisia si può cangiari» fece Zosimo. «Accussì, per esempio: "È scrittu 'n celu, lu jorno spunterà / ca futtemu lu Re, u Papa e a Nobiltà." Chista ti piaci?».
«A cangiari una poisia è facili» commentò Giuggiuzzu Siracusano, ch'era il più vecchiu di tutti. «Lu difficile è cangiari lu munnu».
«Volenno, ci si arrinesci» fece Zosimo addiventato serio.
«E comu?» fece Tanu Gangarossa. «Nun avemu né armi né esercitu, siamo soli e abbannunati, nun avemu putiri, nenti, avemu sulu gli occhi per chiangiri...».
«Una cosa l'avemu» disse Zosimo sempri serio. «La fantasia. Che è l'arma più piricolosa.».

Così come Georges Simenon è diventato un autore di straordinario successo grazie al personaggio di Maigret, ma lo si ricorda negli annali di letteratura soprattutto per i suoi “romanzi duri”, allo stesso modo Andrea Camilleri è noto ai più per il suo eroe maggiormente popolare, ovverossia il commissario Montalbano, ma la parte più considerevole dal punto di vista artistico della sua produzione è sicuramente costituita dai suoi romanzi storici. Lo scrittore di Porto Empedocle ama infatti partire spesso da episodi storici documentati, ancorché poco o nulla conosciuti, per poi svilupparli e rielaborarli in maniera del tutto soggettiva e autonoma, creando così una sorta di falso storico, il quale però, un po’ come avveniva per il Thomas Mann di “Giuseppe e i suoi fratelli”, alla fine risulta più verosimile della realtà tramandata dai testi ufficiali. La cosa più notevole è che Camilleri, pur ambientando le sue storie prima del 1900, sembra sempre avere davanti agli occhi la situazione della Sicilia di oggi, la quale appare anzi, con le sue ben note problematiche sociali, economiche e culturali, proprio come la risultante inevitabile e necessaria dei processi storici avvenuti diversi secoli prima. Questo si nota più che mai ne “Il re di Girgenti”, la cui ambientazione è addirittura a cavallo tra Seicento e Settecento (qualche decennio dopo i “Promessi sposi”, tanto per intenderci), all’epoca della dominazione spagnola prima e quella dei Savoia poi, che tanta sofferenza arrecarono, con il loro malgoverno, la loro corruzione, la loro ferocia repressiva, oltreché con l’esosità delle loro tasse e gabelle, alla popolazione dell’isola. Camilleri crea un quadro storico molto circostanziato, citando episodi come il terremoto del 1693, la controversia liparitana del 1711 (già trattata da Sciascia nella sua “Recitazione” scritta trent’anni prima) o la pace di Utrecht del 1713, e all’interno di questa cornice sviluppa la storia di uno dei tanti capipopolo che in quegli anni si fecero portavoce, con rivolte destinate inevitabilmente al fallimento, del malcontento della classe contadina, costretta dai dominatori stranieri a una vita di stenti, di fame e di sofferenza. Il protagonista Michele Zosimo è una sorta di Masaniello siciliano, che grazie alla sua innata intelligenza e alle sue doti di empatia e di saggezza, diventa ben presto il paladino della popolazione di Montelusa contro i soprusi e le soperchierie del potere laico e di quello religioso. Grazie alle sue imprese coraggiose e temerarie, e a dispetto della sua giovane età, riesce a far sì che i suoi concittadini possano superare indenni la carestia (costringendo l’avido vescovo a distribuire obtorto collo le sue ingenti scorte di frumento), a mitigare gli effetti della peste (bruciando tutte le chiese della città e così impedendo gli assembramenti che avrebbero propagato il contagio) e a punire l’odiosa Inquisizione che aveva ucciso il venerato padre Uhù (trasformando il cadavere del poveruomo bruciato sul rogo in una sorta di ordigno devastante). La sua ascesa arriva fino al punto di costituire un piccolo esercito, dare l’assalto al palazzo del Governo e al castello dove sono acquartierati i soldati piemontesi e, una volta conquistata la città, farsi proclamare re, dopo avere inciso sul tronco di un sorbo le proprie leggi rivoluzionarie (curioso anacronismo di un metodo arcaico di far conoscere la legge, quasi una sorta di tavola di Hammurabi vegetale, e di norme che per contro sembrano preannunciare l’Illuminismo o addirittura, in quella idea di fratellanza universale tra popoli, anticipare di due secoli la novecentesca Società delle Nazioni).
Nonostante che il romanzo abbondi di lutti e di tragedie, di sofferenze e di atrocità, e non sia, come è fin troppo facile immaginare, a lieto fine, dal momento che la storia si può sì reinventare con la fantasia, ma non ribaltare nei suoi esiti ultimi (a meno di non trovarsi in un film di Quentin Tarantino), il tono adottato da Camilleri, e la cosa non deve stupire chi conosce almeno un poco l’autore siciliano, è tutt’altro che lugubre e pessimistico. “Il re di Girgenti”, che per inciso è l’opera più lunga e a mio parere anche più ambiziosa mai scritta dello scrittore empedoclino, strabocca infatti di storie picaresche, di aneddoti curiosi e di personaggi originali (si pensi a padre Uhù, che gira per le campagne con la sua croce in spalla in cerca di diavoli da esorcizzare, al mago Apparenzio, che legge il futuro di Zosimo, riconoscendone per primo l’eccezionalità, o il brigante Salamone, che lo incita a “ristari sempri uniti, aiutaricci l’uno con l’àutro” e a guardarsi “dalli nobili e putenti” che “sono latri, sasini e pripotenti”), storie, aneddoti e personaggi che il vernacolo siciliano, che qui per ovvie ragioni (dal momento che il romanzo è popolato soprattutto di “viddrani, bracciatanti e povirazzi”) è più utilizzato del solito, rende assai saporiti e divertenti. In tutto il testo inoltre il realismo di fondo va di pari passo con un tono favolistico, che richiama alla lontana “I nostri antenati” di Italo Calvino o la “Lunaria” di Vincenzo Consolo. Basti pensare alla scena della nascita di Zosimo, con Filonia che si trova a partorire da sola, circondata solamente dalle bestie della casa, le quali, al termine del parto, in una sorta di bizzarra Adorazione in chiave animale, porgono alla madre e al figlio i loro doni: la gallina fa cadere un uovo caldo da succhiare, la capra offre le sue mammelle gonfie di latte e il cane pulisce con la lingua la pelle del neonato il quale, anziché mettersi a piangere come ci si sarebbe aspettato, inizia a ridere di gusto come un uomo fatto. Qua e là fa capolino anche qualche elemento sovrannaturale (come quando Zosimo fa terminare la siccità grazie al rogo dei suoi libri), e ciò ha fatto parlare qualcuno di “realismo magico”, ma questa è solo una suggestione tra le tante, così come lo è l’influenza del Manzoni nelle pagine storiche. Il fatto è che “Il re di Girgenti” è un libro tipicamente camilleriano, a partire dall’evocativo idioletto, che non deve essere confuso con il dialetto siciliano tout court, ma che, per la sua musicalità, a me fa sempre venire in mente il grammelot che ha reso celebre Dario Fo. Ci sono poi i finti documenti storici, i memoriali apocrifi dell’epoca, che Camilleri dissemina qua e là per accrescere l’impressione di verosimiglianza dei fatti narrati. Non manca inoltre il gusto ironico e beffardo con cui lo scrittore affronta anche le tematiche più spinose, e con cui il protagonista si muove sul palcoscenico del mondo e cerca di risolvere tutti i problemi e le complicazioni che si trova di fronte, mantenendo sempre la fantasia a fargli da bussola, da stella polare: si pensi alla burla dell’acqua mescolata all’olio, con cui i concittadini di Montelusa riescono a evitare la requisizione del loro olio e contemporaneamente a far punire dal Viceré l’odioso duca Pes y Pes, o ancora a quella della finta apparizione del santu Campagnolo, orchestrata da Zosimo per placare il senso di colpa dei tanti fedeli che, per non stare né col papa ne col re, non possono più frequentare le funzioni religiose o prendere i sacramenti. Accanto ai topoi, agli archetipi della letteratura camilleriana, è presente però qui per la prima volta un elemento di forte novità rispetto agli altri romanzi dello scrittore di Porto Empedocle, cosa che rende a mio avviso “Il re di Girgenti” forse la sua opera più suggestiva e compiuta. Sto parlando del sentimento, dell’emozione, che tracimano dalle pagine più apologetiche o da quelle più sarcastiche, per dar vita a momenti di pura poesia, e financo di commozione. Quando ad esempio Ciccina, la moglie di Zosimo, muore cadendo da una scala, l’uomo, in preda alla disperazione, corre fino alla grotta di padre Uhù e lì, con un rudimentale flauto costruito con una canna, suona la musica che il vecchio mentore gli aveva insegnato per fermare un istante i morti prima che scendano nel luogo da cui non si torna, e in quel momento Ciccina, evocata da quel suono sconsolato, soffiato nello strumento come se fosse l’ultimo gesto della sua vita, gli appare nella nebbia vestita con l’abito da sposa, mentre si muove lentamente dandogli le spalle e si volta un’ultima volta a guardarlo negli occhi, prima di continuare il cammino e, come Euridice, sparire nell’oscurità. Il capitolo finale è altrettanto meraviglioso, e la scena di Zosimo sul patibolo, che immagina di aggrapparsi al filo di una comerdia, di un aquilone, per volare nel cielo, e da lì osservare, con leggerezza, con liberazione, con allegria perfino, la scena dell’impiccagione e il se stesso che penzola dalla forca, fa capire alla perfezione quanto Camilleri sia uno scrittore di razza, unico e inimitabile.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
camillaru Opinione inserita da camillaru    20 Agosto, 2024
Top 1000 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

UN GIALLO SENZA SUSPENCE

Un giallo ben scritto, ma senza suspence. Più che Simenon, mi ha ricordato Sciascia (senza, però, lo stile capace di leggere e descrivere quasi liricamente l'animo umano).
Una scrittura asciutta, personaggi non proprio tridimensionali (a partire dai due ispettori, di cui non si conosce la storia), una trama costruita meticolosamente, ma che non tiene incollato alla lettura, come ci si aspetterebbe da un romanzo poliziesco.
Bella, invece, la descrizione dei luoghi: la vicenda spazia dal Sud al Nord del Giappone, che resta un paese dotato di un incredibile fascino.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
  • no
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi autobiografici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    20 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Una vita

Un breve romanzo dell'autrice francese A. Arnaux. Ovviamente, a sfondo 'autobiografico'.
Redatto dopo la scomparsa della madre. Un modo per elaborare il lutto? In letteratura, sarebbe un'interpretazione assai riduttiva..
Con una scrittura "più neutra possibile", la narrazione si dipana lungo un destino che ci fa comprendere come nessuna persona è 'qualunque' .

La figura materna che emerge è di una donna ambiziosa e pragmatica, che si è sforzata di conformarsi al giudizio più benevolo che si poteva esprimere sulle ragazze che lavoravano in fabbrica, "operaia ma seria" .
Sposa un giovane con "un'aria distinta" che diventerà il padre della narratrice.
Una donna "fiera di essere operaia ma non al punto di restarlo per sempre, con il sogno dell'unica avventura alla sua portata: prendere in gestione un negozio di alimentari. Lui l'ha seguita, era lei la volontà sociale della coppia" .

L'autrice afferma che, "scrivendo, vedo ora la 'buona madre', ora la 'cattiva' . Per sfuggire a questa oscillazione che ha origine nella più remota infanzia, (...) scrivo nella maniera più neutra possibile", appunto, che rimane comunque la cifra del suo stile letterario: le consente di dare il meglio di sé. Qui indubbiamente ci riesce.


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...

letteratura a sfondo biografico/autobiografico
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    20 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Le età fragili

«Mi ha offerto una liquirizia e l’ho presa, ma poi non riuscivo a metterla in bocca. Siamo rimasti lì, io con il tocchetto nero nella mano, e tra noi la piccola luce puntata verso il cielo. Eravamo giovani, ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all’altro che potevamo cadere, perderci, e persino morire.»

Siamo in Abruzzo, in un piccolo paese a pochi passi dal Gran Sasso. La voce narrante di questo romanzo è una donna di mezza età, Lucia, fisioterapista e madre di una ragazza di circa vent’anni, Amanda. Dalla voce essenziale ma anche dolce, fragile ma anche forte nel mostrare questa fragilità della narratrice, emerge il racconto di un momento difficile. La figlia, che era partita un anno e mezzo prima per frequentare l’Università a Milano, è tornata precipitosamente a casa. Certo, c’è il covid. Ma Amanda non è tornata per studiare a distanza. È stanca, non si alza dal letto, ha difficoltà a mangiare, non esce più di casa. Che cosa le è successo? E, soprattutto, come può aiutarla Lucia?

Intanto l’anziano padre della protagonista ha intenzione di donarle i suoi terreni e le proprietà in eredità. Sente che la fine sta arrivando, Fra i beni del padre c’è anche il terreno sul quale sorge un vecchio campeggio abbandonato da decenni. Lucia e suo padre si ritrovano di nuovo in quel luogo, dove molti anni prima è accaduto un fatto tremendo. Mentre Lucia è costretta a assistere, relativamente inerme, alla perdita della vitalità e della felicità della figlia, inizia anche a ricordare e ripercorrere la drammatica esperienza che aveva vissuto, anche se non direttamente, durante i suoi vent’anni al Dente del Lupo, sulle montagne abruzzesi.

Veramente un bel romanzo “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio, vincitore del premio Strega 2024.

Qual è l’età fragile? È quella che ci sorprende mentre siamo giovani, pieni di energia e di mille progetti per il futuro, quella in cui ci illudiamo di essere forti e invincibili e che poi ci tradisce brutalmente mostrandoci chiaramente che basta un niente per atterrarci? Oppure l’età fragile è quella in cui siamo ormai adulti con un lungo tempo alle nostre spalle, abbiamo imparato un pochino a conoscere il mondo ma non sappiamo come fare per aiutare e sostenere le persone che amiamo di più. Non sappiamo come portarle al sicuro mentre vediamo che si stanno spingendo pericolosamente verso un baratro? Probabilmente sono entrambe età fragili. Probabilmente la stessa vita è una lungo, rischiosa e tortuosa, età fragile.

Siamo di fronte a una scrittura in grado di indagare questi e altri temi, come quello che riguarda il legame tra il luogo in cui siamo nati e la nostra identità, attraverso uno stile scarno, diretto e essenziale ma particolarmente efficace per suscitare introspezione e empatia.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    20 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Una ragnatela malefica per Ardelia

Stanno accadendo fatti inquietanti ad Albenga: uno stimato avvocato ha dato di matto e s’è spogliato nudo in piazza; un medico di grande prestigio s’è fatto saltare le cervella in un bosco; un gelataio, proprietario di un avviato esercizio commerciale, è svanito nel nulla. I fatti, di per sé, sembrano disconnessi gli uni dagli altri, ma la cittadina mormora e, forse, dietro a tutto ciò, c’è un regista occulto.
Inoltre c’è la triste storia dell’eccelsa e chiacchierata pianista Norma Picolit. L’artista ha casualmente scoperto che la sua giovane amante Serafina di Benedetti, di cui lei è perdutamente infatuata, non è cieca, come lei le ha sempre fatto credere, ma ci vede benissimo e ha una vita parallela di cui Norma ignora tutto. Per la donna, già fragile psicologicamente, è come se un intero universo fosse andato in pezzi. Cade in una depressione profonda dalla quale non sa come uscire.
È comprensibile, quindi, che — quando viene scoperto, semisommerso nel Centa in piena, proprio il cadavere di Serafina — i sospetti della PM incaricata delle indagini convergano tutti sulla Picolit. Tra l’altro le indagini autoptiche evidenziano come la ragazza, prima di essere gettata nel fiume, sia stata orrendamente torturata per farle provare realmente, e da viva, la condizione su cui lei giocava.
Solo gli amici — Ardelia Spinola, medico legale, e Bartolomeo Rebaudengo, commissario di P.S. in pensione e stimato profiler — rimarranno strenui a difenderla dalle accuse crudeli e omofobe che rischiano di travolgerla nuovamente nell’alterazione mentale da cui era faticosamente riemersa grazie alla musica. Però, anche in loro, il seme del dubbio rischia di germogliare.

Quindicesimo romanzo della fortunata serie poliziesca che vede come protagonisti il simpatico duo di investigatori sui generis formato dal genovesissimo, tormentato e tempestoso medico legale Ardelia e dal pacato e riflessivo (ora ex) poliziotto sabaudo, Bartolomeo, ritornati ad essere pure una coppia dal punto di vista sentimentale.
Come d’abitudine la Rava ci offre un romanzo ben costruito e piacevole con un discreto susseguirsi di avvenimenti che lo rendono avvincente e senza mai un momento di stanchezza.
Forse, di per sé, la trama non è originalissima, e alcune situazioni e reazioni sono esasperate in modo eccessivo e non totalmente verisimile. Inoltre certi personaggi sembrano riecheggiare caratterizzazioni già utilizzate in passato dalla medesima A.
In particolare è difficile sfuggire alla sensazione che la Dorotea Mortigliengo di questo romanzo (figlia dello stimato clinico suicida) non assomigli sin troppo alla Candida Di Blasi del romanzo d’esordio della serie, sorella di una delle vittime nella prima indagine del commissario Rebaudengo. Percezione che non dev’essere sfuggita all’A. stessa che, alla fine, con un’astuta opera di repêchage emotivo, fa ripercorrere ai personaggi il medesimo cammino (fisico e mentale) lungo il quale tutto era iniziato.
Tuttavia, questa specie di “amarcord” nostalgico della prima storia non indebolisce la narrazione, né la rende scontata o abusata. Anzi è apprezzabile come, a somiglianza dei più stimati giallisti del passato, l’A. ci presenti il colpevole sino dai primi capitoli, ma che la sua identificazione appaia, alla fine, sorprendente e sconvolgente con un colpo di scena degno della migliore Agatha Christie.
Inoltre, va rimarcato che, nei romanzi della Rava, anche la descrizione di un fatto, un accadimento ordinario, comune, di qualcosa che, normalmente, passerebbe sotto la soglia d’attenzione, non viene mai fatta in modo banale e corrivo, ma con stile ed eleganza, rifuggendo da luoghi comuni o frasi fatte. Le ambientazioni o l’esposizione di sentimenti o pensieri, ma anche descrizione di un tramonto, dello scorrere del tempo o di un evento meteorologico qualunque, sono l’occasione per approfondimenti, riflessioni accurate o per donare qualche pennellata di colore, poesia e grazia alla narrazione.
Come al solito, quindi, la lettura risulta appagante e stuzzicante: non una semplice occasione per una fuga di pensieri o un lasciarsi travolgere passivo dalla corrente emotiva dei tragici fatti narrati, ma un modo per godere appieno di situazioni e riflessioni non mediocri.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
a chi ama le storie di Ardelia Spinola e Bartolomeo Rebaudengo
Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    20 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

L’ombra del Male

Nella primavera del 1831 l’ispettore Valentine Verne è tutto preso nella caccia al malvagio “Vicario”, l’uomo che lo prelevò quando aveva solo otto anni e lo tenne recluso per i successivi quattro in una lurida cantina per soddisfare le sue più abiette brame sessuali. Tuttavia la preda è tutt’altro che spaurita e in fuga. Al contrario lascia dietro di sé un atroce scia di sangue e i ruoli rischiano di ribaltarsi: Valentin corre pure seriamente il pericolo di tornare ad essere nuovamente preda, assieme a coloro che a lui sono più cari.
Nel frattempo, però, in qualità di capo dell’Ufficio affari occulti della Questura di Parigi, deve pure occuparsi di un nuovo caso inquietante. Una giovane dama, Mélanie, si rivolge a lui per smascherare quello che lei ritiene un sordido truffatore: il sedicente medium slavo Oblanoff avrebbe abbindolato il marito, il nobile Ferdinand d’Orval, promettendogli di riportare in vita la figlia Blanche, da poco defunta. L’uomo s’è quasi installato a casa loro e di esibizione in esibizione ha catturato la fiducia dell’uomo che, ormai, potrebbe esser pronto a tutto pur di riavere tra le braccia la figlia morta, cosa che la logica dovrebbe fargli apparire impossibile.
Il giovane e geniale investigatore, quindi, si dovrà dividere in queste due indagini e solo la sua profonda cultura e la sua preparazione gli consentiranno di scoprire quali astuti stratagemmi usa il truffatore e quali siano le esche che il Vicario sta seminando per attirarlo a sé. Ma da qui a far prevalere la giustizia smascherando l’impostore e a sconfiggendo il mostro, liberando il mondo dalla sua feroce brama predatoria, la strada sarà lunga e dolorosissima.

Questo è il secondo romanzo che vede come protagonista il geniale ispettore Valentine Verne nella Francia di Luigi Filippo ed è la seconda occasione per raccontare, al lettore, le mirabolanti scoperte scientifiche che la prima metà del secolo XIX offrirà al mondo.
Rispetto al primo romanzo l’ambientazione è ancora più cupa e truculenta e la figura dell’inafferrabile Vicario diverrà immanente e pervasiva, rubando gran parte della scena anche agli altri protagonisti. La descrizione della Parigi di quegli anni ’30 è meno accurata e vivida rispetto al primo libro, ma comunque affascinante e interessante. Dal punto di vista della ricostruzione storica si fanno apprezzare i riferimenti ai turbolenti avvenimenti di quei giorni e le rapide pennellate di colore di una Parigi poco conosciuta e più sordida di quanti si legga nei libri di storia.
Il lato poliziesco, purtroppo, è assai poco enigmatico per un lettore moderno: le abilità evocatrici dell’astuto truffatore Oblanoff non sono certo misteriose per un contemporaneo, sol ch’egli rifletta su quali invenzioni furono fatte in quel periodo. Anche i puzzle proposti dal cruento pedofilo non possono definirsi irrisolvibili, anzi, in alcuni casi, stupisce che l’abile investigatore si faccia fuorviare dagli apparentemente banali inganni che gli sono messi davanti.
In definitiva, nella trama si rileva quella pacata ingenuità, tipica delle trame gialle degli autori di fine ottocento, primi novecento: Gaston Leroux, Edgar Wallace e, non me ne si voglia, pure Poe e Conan Doyle, per altri versi eccelsi.
Tuttavia, forse, questo è un ulteriore motivo d’attrattiva: l’aria un po’ naif, che si respira leggendo il romanzo, spoglia l’inchiesta da gran parte di quei tecnicismi e sofisticazioni tipici dell’era moderna per riportarci in un mondo in cui l’intelletto era il solo alleato dell’investigatore e la sua capacità di superare, con la sua perspicacia, le torbide trame del nemico, l’unico mezzo per fermare il criminale.
Pure nello stile narrativo, ornato e talvolta desueto, c’è profumo d’antico. Ma ciò non disturba, poiché s’adatta benissimo all’ambientazione storica e aiuta a calarsi in quelle atmosfere d’antan attraverso le quali ci spostava solo in fiacre.
In vero, va precisato che non manca l’azione e la suspense. La dinamicità con cui s’evolve la storia ne fa un romanzo moderno che cattura l’attenzione e avvince. Inoltre è pregevole il fatto che l’A. abbia l’accortezza di documentare, in nota e con dovizia di ragguagli, ogni affermazione storica e ogni riferimento scientifico che potrebbe sollevare dubbi nel lettore. Addirittura, come nel libro che lo ha preceduto, in calce sono riportate precisazioni sulle cronologie e un’ampia bibliografia che consente, a chi lo gradisce, di approfondire gli argomenti e verificare i fatti storici.
Insomma un buon libro che non è solo poliziesco, ma anche storico e d’atmosfere, di gradevole lettura e sicuro svago.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
... il volume che precede, "L'ufficio degli affari occulti", indispensabile pure per capire la personalità e le motivazioni dei protagonisti
Trovi utile questa opinione? 
20
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
68 Opinione inserita da 68    19 Agosto, 2024
Top 10 opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

Una casa…

“…Può benissimo essere che il tempo stia giungendo al termine, che questi siano gli ultimi giorni dell’ uomo, ma io so per certo che la fine non sarà stasera perché non è buio affatto e non c’è alcuna notte e nessuno scatto tra una giornata e l’ altra, perché il tempo è una distesa infinita di luce’”…

Islanda, Alba, linguista in procinto di cambiare vita, impegnata a trattenere le parole e a incastrare espressioni e sentimenti in una struttura grammaticale definita, si dibatte tra l’ insegnamento universitario e la correzione di bozze con un desiderio impellente, la fuga da un reale ingombrante e molesto per ridefinirsi e ricostruirsi in una nuova casa.
Parrebbe una strana coincidenza, ma nella sua lingua parole come “ mondo intero ”, “ casa ”, “ l’ avere casa ”, sono definite da una radice comune.
Come affiancare e bilanciare il suo lavoro certosino di custode di lingue minoritarie in via di estinzione con la ricerca di un piccolo angolo personale in una terra circumnavigata dal mare e battuta dei venti in un tempo che forse sta per finire?
Alba stringerà un legame profondo con la natura, in particolare con gli alberi, dopo l’ acquisto di un vasto appezzamento di terreno dove piantare betulle per restituire ossigeno alla terra e risarcirla di tutte le emissioni di carbonio che ha generato nei suoi innumerevoli viaggi aerei da una località all’ altra. Un sentimento caritatevole e materno la avvicinerà a Danyel, profugo sedicenne con un talento per le lingue, venuto da lontano attraverso un oceano di acque bianche e tempestose, alla ricerca di un presente, che si confronta con la psicanalisi per sopravvivere alle insidie dell’ animo.
Il ricordo della propria madre, un’ attrice ondivaga che ha donato la propria vita all’ arte sottraendo affetto alla famiglia, un padre solo e triste ripetutamente abbandonato, una sorella, Betty, che vive la razionalità dei giorni e si chiede come Alba possa sopravvivere sola in una casa di campagna senza un lavoro fisso e una famiglia, l’ amicizia di Hakon, i consigli di Hlynur, i sospetti di Alfur, un piccolo mondo relazionale da costruire.
Alba e le lingue, un legame viscerale, quale il nesso tra pensieri e parole, la propria vita vissuta da sempre in uno stato di mezzo.
Che la fine sia vicina non importa, Il passato incombe, rapporti più stretti, una solitudine rappresa nell’ armonia dei gesti e nel significato di parole espressione di un senso primario.
Nessuna fine ma un presente che coglie il mistero della vita e delle parole, delle relazioni e dei sentimenti, un viaggio stanziale rivestito di realtà e di intimismo, un Eden personale dove prevale il silenzio, la responsabilizzazione nei confronti di un mondo devastato e fallimentare, un tempo atemporale che contempla l’oggi nella sua complessa semplicità, un luogo di senplici relazioni e di accoglienza.
Eden è una casa solitaria in cui sostare per incontrarsi, fatta di pensieri, parole, amicizie, persone, venti, alberi, case, paesaggio dell’ animo e realtà contingente, la sensazione vivida di un’ armoniosa presenza…

…” stringo a me il ragazzo in un abbraccio.
Si sistemerà tutto, dico.
Andrà tutto bene”…

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    19 Agosto, 2024
Top 10 opinionisti  -   Guarda tutte le mie opinioni

L'argine

Nina sull’argine è un romanzo bellissimo che riesce ad appassionare il lettore a un problema insolito, la costruzione di un argine in contrada Spina. A seguire i lavori troviamo Caterina, giovane ingegnere, alle prese con il suo primo incarico importante, con la difficoltà di farsi valere in un mondo dove le donne non sono ben viste. Assessori, geometri, colleghi e superiori sono tutti prevenuti sulle sue capacità, in quanto lo studio e il lavoro sono due diversi mondi e finita l’università i brillanti risultati conseguiti da una donna non contano più nulla.
La descrizione del cantiere e dei lavori è affascinante, innestata nel contesto non urbanizzato in modo all'inizio invasivo. Alla fine però l’argine quasi scompare integrandosi pienamente nel paesaggio. In tutte le pagine del romanzo la natura con le sue nebbie, istrici, uccelli, lepri e con i suoi alberi arbusti è sempre presente. In un certo senso la natura è il primo giudice di Caterina e della sua capacità e volontà di difenderla da se stessa e dalla rapacità del mondo. Sono descrizioni malinconiche, perché il cantiere e il paesaggio si armonizzano con l’umore di Nina, in crisi con il compagno, in crisi con il lavoro che ama, tesa nella gestione dei rapporti di lavoro. Nina non si sente perfetta, non si sente di acciaio ma ha un'anima di ghisa, fragile: giovane, puntigliosa, pignola. E' fuori posto in un mondo senza scrupoli con il collega che non esita a mettere in giro voci false sulla sua inesistente gravidanza. Un romanzo davvero molto bello. Non pensavo di appassionarmi tanto alla costruzione di un argine, anche se non è la prima volta che mi faccio prendere dai lavori edili, mi è capitato anche con il cantiere di Onetti e con la costruzione della strada di Eggers.
Un libro finalista allo Strega che si sarebbe senza dubbio meritato.
Ho letto con sorpresa recensioni critiche nei confronti dello stile e del linguaggio tecnico usato dall'autrice. Io non sono assolutamente d'accordo. Il linguaggio e lo stile sono perfetti e rendono il libro molto originale anche dal punto di vista stilistico, cioè meno convenzionale. Unico pelo nell'uovo a volerne proprio trovare uno: l'operaio. Avrei preferito che fosse di carne e ossa.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
48423 risultati - visualizzati 251 - 300 « 1 ... 3 4 5 6 7 8 ... 9 969 »

Le recensioni delle più recenti novità editoriali

Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
3.0 (2)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (2)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
3.0 (2)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (2)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)

Altri contenuti interessanti su QLibri

L'antico amore
Fatal intrusion
Il grande Bob
Orbital
La catastrofica visita allo zoo
Poveri cristi
Se parli muori
Il successore
Le verità spezzate
Noi due ci apparteniamo
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Delitto in cielo
Long Island
Corteo
L'anniversario
La fame del Cigno