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La Strigossa
"Fu proprio allora che la bambina si guadagnó il nome di Fumana, che poi nella bassa vuol dire appunto nebbia".
Nell’ultimo libro di Paolo Malaguti la storia di Fumana nata “vestita”, e quindi secondo le credenze popolari dotata di un talento non comune che si manifesta nella capacità di “sapere segnare” certe malattie, si riesce a comprendere a pieno solamente legandola al territorio in cui vive. La provincia di Rovigo ed il basso Veneto, quella terra di confine “dove non sai dire con certezza cosa è terra, cosa mare e cosa fiume perché tutto è impastato e confuso”, abitata da agricoltori e pescatori di anguille che frequentano “Il Canal Bianco” e le golene. Un territorio immobile in cui “le nebbie levano ogni prospettiva, che non sai più dove vai”, nel quale lo spazio si mescola con il tempo e la storia di Provincia si trasforma progressivamente nella storia d’Italia di fine ‘800 e metà ‘900, quando le vicende nazionali come l'avvento del fascismo prima e la Seconda Guerra Mondiale dopo, permeano e condizionano le vicende personali. In questo humus si colloca la storia di formazione di Fumana, allevata dal nonno Petrolio, pescatore di anguille, poi cresciuta dalla Lena, la “Strigossa” della zona che la inizia ai segreti delle erbe e della Natura con l’intento di curare la gente. Fumana a sua volta ne prenderà il posto, ma sta proprio in questa dimensione che Malaguti riesce a mostrare ai nostri occhi di lettori del XXI° secolo, l’arretratezza di un mondo contadino in fin dei conti non così lontano, nel quale essere guaritrice, diventare una "Striga" significa anche essere considerata un’emarginata, una diversa, una donna temuta ed odiata al tempo stesso, ad esempio dalla suocera che non le perdonerà mai di avere addescato e sedotto il proprio figlio.
Partendo da questi elementi il romanzo acquisisce un valore aggiunto perché si manifesta come una storia di ribellione, di emancipazione femminile. Fumana non teme le etichette affibiatele, ed orgogliosamente si costruisce il proprio futuro, decide di dare speranza ad una bambina rimasta orfana, soffre ed a denti stretti continua a progredire in quanto comprende “di essere in grado di fare del bene, e di avere quindi un senso, un ruolo preciso in quella fetta di mondo nella quale era nata”. Il tutto viene altresì raccontato avvalendosi di uno stile ibrido, in quanto il Malaguti veneto riesce ad alternare il registro della lingua italiana agli idiomi dialettali e popolari, con l'effetto di rendere la narrazione più realistica e piacevole.
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AVvincente
L'autore cambia registro rispetto al precedente romanzo "Le sette morti di Evelyn Hardcastle", non più una vicenda che si ripete ossessivamente,
vissuta da una moltitudine di punti vista ognuno dei quali dovrebbe aggiungere un tassello per completare il puzzle che risolva il mistero.
Qui torniamo su canoni più classici: una nave parte dalle Indie olandesi alal volta di Amsterdam con un carico che si dice preziosissimo ma altrettanto
misterioso nella sua natura, tra personaggi potenti e altri che aspirano a diventarlo, intrallazzi di corte, intrighi e una maledizione lanciata alla nave
prima che salpi. A bordo si verificano fatti gravi ed inquietanti e l'unico che potrebbe avere le abilità per dipanare la matassa è un famosissimo
investigatore, Samuel Pipps, che viene però tenuto prigioniero in una angusta cella per un motivo non specificato.
La vicenda si sviluppa in un contesto storico fatto di superstizione e particolare suggestione verso la magia e l'occulto e ben presto l'equipaggio si convince
che quanto accade sulla nave sia opera del diavolo o abbia a che fare con la maledizione lanciata prima della partenza.
La guardia del corpo di Pipps indaga, aiutato da una nobildonna poco inline a seguire i dettami di bon ton dell'epoca riservati ad una signora.
Si fatica un pò ad entrare nel vivo della vicenza anche per la mole di personaggi che la popolano, molti dei quali rivestono ruoli importanti ai fini della trama,
rendendola di fatto parecchio complessa e intricata con alcuni colpi di scena che scombussolano le carte in tavola quando al lettore pareva di aver capito
qualcosa di fondamentale. Bella descrizione storica e dell'ambiente e degli usi e costumi marinareschi, da metà in poi ci si ambienta e la lettura diventa
parecchio intrigante fino al finale che spiega tutto e riporta i fatti in una dimensione assolutamente razionale e spiegabile con la scienza e non
con l'esoterismo e la magia.
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Cagna-regina spuntafuoco non si può sentire
Nonostante io sia ormai entrata nel vivo della saga, ammetto che portare a termine la lettura di "Regina delle ombre" non è stata un'impresa da poco. E non solo perché si tratta di un tomo parecchio corposo, ma in particolar modo per la dispersività dell'intreccio, che mai come in questo quarto (o quinto, a seconda dei punto di vista) capitolo dimostra il talento della cara Sarah a raccontare in trecento pagine degli avvenimenti che qualunque altro autore avrebbe saputo condensare in cinquanta al massimo. Andiamo quindi a vedere quali sono gli spunti principali della trama.
In questo volume il continente di Erilea torna ad essere la sola ambientazione, e più in particolare si rimane all'interno dei confini del regno di Adarlan. Per quanto riguarda Aelin e la sua neonata corte, i loro obiettivi nell'immediato riguardano il ritrovamento dell'Amuleto di Orinto e la restaurazione della magia bandita dal re; questa linea di trama va ad includere un corposo numero di POV già visti nei libri precedenti, ma ciò non allontana mai di molto l'azione dal filone principale, al massimo vengono incluse delle quest collaterali per salvare determinati personaggi. Gli altri capitoli sono riservati quasi interamente a Manon ed alla neo-arrivata Elide, che dalla fortezza di Morath continuano a fornire al lettore un focus sui piani degli antagonisti.
A differenza di quanto successo ne "La corona di fuoco", queste vicende finiscono poi per collimare, tanto che l'intervento di Manon risulta decisivo al momento della resa dei conti con il re di Adarlan. Ovviamente ho apprezzato molto questa convergenza, perché contribuisce a dare un maggior senso di concretezza alla storia. Le vicende di Morath risultano piacevoli anche per l'introduzione di Elide (prima menzionata di sfuggita nei flashback), che si rivela un personaggio molto più interessante e combattivo di quanto la sua presentazione lasci intendere.
Rimanendo nell'ambito dei personaggi, Lysandra conquista a mani basse la mia preferenza in questo romanzo: già l'avevo apprezzata nella sua prima apparizione (avvenuta ne "La lama dell'assassina"), ma qui la sua caratterizzazione ha fatto passi da gigante, portando a termine un emozionante percorso personale e stringendo dei credibili rapporti di amicizia. Più in generale, mi sono piaciute quasi tutte le interazioni all'interno del cast; un paio rimangono ad un livello superficiale, ma la maggior parte dimostra una buona solidità e porta a diversi confronti significativi.
Non tutti i personaggi si meritano però le mie lodi! Aelin dimostra di avere ancora parecchia strada da fare nel suo nuovo ruolo di leader vista la sua mentalità molto orientata all'individualismo; Aedion e Dorian per motivi diversi sono spesso tagliati fuori dall'azione vera e propria, mentre Chaol parte con dei buoni spunti in mente per poi combinare poco o nulla: per la maggior parte del volume risulta quasi un comprimario. Ancora una volta sono però gli antagonisti a deludere, in parte perché la loro fama fa sperare in qualcosa di meglio (specie nel caso di Arobynn, infatti la stessa Aelin ammette di non aver capito a cosa mirasse alla fine dei conti) ed in parte perché la loro volontà di dimostrarsi malvagi ad ogni costo prevale sul buon senso.
Come già menzionato, il grosso difetto di questo libro rimane il ritmo fiacco della prima parte, che tra allungamenti e ripetizioni copre ben 400 pagine. Tra i punti a sfavore troviamo ancora una volta la traduzione poco scorrevole e le piccole contraddizioni interne, che in più scene lasciano interdetti. Ed un po' interdetti lascia anche il finale, il quale arriva a chiudere tante linee di trama, forse troppe se consideriamo i tre (gargantueschi!) volumi che ancora mi attendono in questa serie.
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Un'isola e i suoi segreti.
E' il quinto romanzo di Paula Hawkins, scrittrice e giornalista britannica, ben nota per il famoso best seller del 2015 "La ragazza del treno" . Ambientato in Scozia, narra le vicende di un'artista famosa, Vanessa Chapman, della sua amica Grace e di una facoltosa famiglia, quella di David Lennox, filantropo e mercante d'arte, titolare della Fondazione Fairburn, responsabile della raccolta e conservazione delle opere di Vanessa. Vanessa vive ad Eris, un'isola deserta, una sola casa, una sola via d'uscita, irraggiungibile dalla terraferma per l'alta marea che si alterna a periodi in cui una strada è percorribile. Vanessa ha un carattere bizzarro, è scontrosa, testarda, suscettibile, è sposata con Julian, un viveur spensierato, che va e viene, amato e odiato, sempre in caccia di soldi. Grace è l'amica inseparabile: un medico ormai in pensione, non bella, piccola, dal carattere tenace, piena di complessi, diventata nel tempo curatrice delle creazioni di Vanessa ( sculture, ceramiche, quadri , composizioni passate nel tempo dal figurativo all'astratto) e poi, dopo la morte per cancro dell'artista, esecutrice testamentaria per conto della Fondazione. Fondazione con personaggi forti, incisivi nella narrazione: David Lennox, già amante di Vanessa, fatto fuori dalla moglie, un'acida nobildonna, in un "incidente" di caccia, il figlio Sebastian, un bellimbusto superficiale fidanzato di quella che poi, d'improvviso, preferirà sposare Becker, l'amministratore della Fondazione, un personaggio di spicco del giallo, incaricato di tenere i contatti con Vanessa e di organizzare mostre e convegni. Queste le figure principali, che si muovono e agiscono in un'atmosfera quasi surreale, carica di veleni e sospetti, tra terraferma e la casa di Vanessa su Eris, battuta dai venti e dalle onde, dove l'artista cerca nuove ispirazioni e trascrive i suoi tormenti interiori su un diario, non datato, che la Hawkins riporta tra un capitolo e l'altro del libro. Il fatto decisivo del racconto è dato da una scoperta sensazionale: un osso riportato da Vanessa in una sua composizione non è di cervo, come descritto, ma umano, scoperta avvalorata da validazione scientifica. Vanessa ormai non c'è più, distrutta da un male incurabile, le indagini, portate avanti da Becker, coinvolgono Grace, che si chiude in ostinati silenzi. Ma altri misteri rendono inquietante l'atmosfera di tutta la vicenda: la scomparsa nel nulla di Julian, il marito di Vanessa, e di un altro giovane, amico di lunga data di Grace. E poi: quale potrebbe essere la provenienza dell'osso umano contenuto nell'opera d'arte?
I misteri si risolveranno negli ultimi capitoli, con un crescendo di colpi di scena emozionanti e magistrali, in un'atmosfera cupa e inquietante: la Hawkins ci dà in queste pagine il meglio del suo stile narrativo, elegante ed incisivo, sempre sospeso tra mistero e realtà dolorose e sofferte.
Raramente in un romanzo classificato "giallo" si evidenzia una così marcata e minuziosa introspezione psicologica dei personaggi principali. Vanessa e Grace emergono su tutti con i loro caratteri ed inclinazioni. Vanessa, tormentata e insicura, desiderosa di amore e nel contempo di solitudine per meglio affrontare le sue sperimentazioni artistiche, trova in Grace una compagna fidata, non l'anima gemella, ma una presenza sicura alla quale confidarsi nei momenti bui ma anche disposta ad essere accantonata ed insultata. Grace sopporta, si accontenta di vivere nell'ombra, apparentemente felice quando capisce di essere a volte indispensabile: dentro di lei però ribollono insoddisfazione e complessi di inferiorità, una sorta di pericoloso crinale che la condurrà a conseguenze inimmaginabili.
Nel romanzo, infine, c'è una definizione dell'arte che Vanessa cita in un'intervista, e che mi piace riportare : " L'arte è eredità, è conforto. Calma, consola, stimola. E' lavoro. E' quello che fai tutto il giorno. E' come risolvi le cose, come capisci il mondo. E' l'occasione per ricominciare, per cambiare pelle, per vendicarsi. Per essere buoni, per vivere a lungo".
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Perdere e ritrovare
Thriller, romanzo fantapolitico, ucronia, non so quale sia la definizione più calzante, sicuramente Fatherland è un’opera che non lascia indifferenti e stimola riflessioni sulla società attuale. Poco importa che parli di un mondo che non esiste, è proprio la cecità di quel mondo a imporre al lettore di interrogarsi sul proprio.
"- Cosa si può fare se si dedica tutta la vita a smascherare i criminali e a poco a poco ci si accorge che i veri criminali sono quelli per cui si lavora? […]
- Immagino che si perda la ragione.
- Oppure può succedere di peggio. La si può ritrovare".
L'autore parte da uno scenario già sperimentato in letteratura: un corso alternativo della storia. La Germania ha vinto il secondo conflitto mondiale e, nel 1965, si appresta a festeggiare il 75mo compleanno di Hitler. Berlino si è ridisegnata ergendo colossali monumenti a testimonianza della propria supremazia. Il resto del mondo si è piegato: l’Europa pullula di paesi fantoccio filonazisti, la Russia cerca di resistere con gli ultimi fuochi di ribellione e persino gli Stati Uniti sono ormai pronti a un accordo.
Nel potente e prospero Terzo Reich non si può parlare, tantomeno dissentire, perché le SS hanno orecchie ovunque e non perdonano. Eppure qualche voce sussurrata sfugge al silenzio. Cosa succede davvero a est? Dove sono finiti milioni di ebrei? Nel corso dell’indagine per omicidio di un gerarca nazista, l’integerrimo poliziotto Xavier March si imbatterà in indizi e sospetti che allargheranno la prospettiva verso interrogativi scomodi e pericolosissimi. March non potrà fare altro che lanciarsi all’inseguimento di una verità terrificante capace di sconvolgere tutto ciò in cui credeva.
"Parlano di fosse comuni, di esperimenti medici, di campi dove la gente entrava e non usciva più. Parlano di milioni di morti. Ma poi arriva l'ambasciatore tedesco tutto elegante e racconta che si tratta soltanto di propaganda comunista. E così nessuno sa cosa è vero e cosa non lo è. E posso aggiungere che alla maggior parte della gente non importa nulla".
Lo storico Robert Harris compone un romanzo in cui fatti documentati e veri personaggi storici si miscelano in modo davvero convincente alla fantasia dell’autore riuscendo, grazie all’espediente del giallo, a bilanciare il gusto per il dettaglio storico e la precisione descrittiva a una narrazione dal ritmo incalzante. Quello che sconvolge il lettore è rendersi conto di non trovarsi al cospetto di un’inconcepibile allucinazione ma di un mondo dalle sembianze credibili, di un potere che si insinua nella mente, di persone normali, concentrate sul proprio benessere, che vivono la propria quotidianità senza farsi troppe domande. Tutto ciò lo rende un romanzo interessantissimo, ieri come oggi.
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Potevo rimanere offeso!
La passione di Christie per il mondo della recitazione è indiscutibile, e "Tragedia in tre atti" risulta essere uno dei migliori esempi di come l'autrice abbia saputo intrecciare una solida trama mystery attorno alla tematica. In questo romanzo infatti non solo tra i personaggi troviamo attori e sceneggiatori, ma la struttura stessa del volume richiama quella di un'opera teatrale. E proprio per questo mi ha meravigliato realizzare quanto poco fosse presente un personaggio tanto plateale come il buon Hercule!
Richiamando (o meglio, anticipando) una vicenda simile a quella di "Assassinio allo specchio", veniamo trasportati nella località costiera cornica di Loomouth, dove da qualche tempo risiede il noto attore teatrale Sir Charles Cartwright. Nei primissimi capitoli del libro, il baronetto organizza una festicciola per amici e conoscenti, durante la quale il reverendo Stephen Babbington muore in circostanze poco chiare. Il tutto viene però archiviato, fino a quando una nuova morte sospetta spinge i personaggi a tracciare dei collegamenti ed a cercare un possibile movente per l'omicidio del mite pastore.
A portare avanti un'indagine parallela a quella delle forze dell'ordine non è però l'immodesto detective belga, bensì lo stesso Sir Charles; a supportarlo durante perquisizioni ed interrogatori troviamo la sua giovane innamorata Hermione "Hermi" Lytton Gore e l'amico di vecchia data Satter. Quest'ultimo è nei fatti il POV più ricorrente nel romanzo, oltre a rappresentare l'ennesimo caso di crossover all'interno dell'universo narrativo di Christie: personalmente l'avevo già incontrato in un racconto presente nell'antologia "Tre topolini ciechi" (del quale ammetto di non avere un ricordo granché positivo), ma la sua prima apparizione ufficiale risale alla raccolta del 1930 "Il misterioso signor Quin". È giusto precisare che in entrambi i casi veniva chiamato con il cognome esteso Satterthwaite, quindi non riconoscerlo immediatamente è del tutto comprensibile.
La prospettiva di Satter rientra per me tra i pregi del volume, perché lo reputo un personaggio affascinante e divertente; e questo nonostante il suo contegno sia molto lontano dalla frivolezza di Hastings, qui del tutto assente (sarà tornato in Argentina?). Ho trovato molto simpatici anche i tanti cenni metaletterari ed i commenti sopra le righe fatti dai protagonisti mentre portano avanti la loro indagine in modo decisamente amatoriale, e proprio per questo a tratti esilarante.
Come accennato il tema del teatro, ricorrente nelle opere christieane, rientra parimenti tra i punti di forza del libro. Il vero pregio a mio avviso è però da individuare ancora una volta nell'arguzia dell'intreccio narrativo: la cara Agatha è abilissima nel portare il lettore lontano dalla verità, fornendogli al contempo tutti i mezzi per decriptarla. E pur avendo già letto colpi di scena simili (ma in pubblicazione successive!), devo dire che la risoluzione mi è sembrata del tutto coerente e molto soddisfacente.
Ed i piccoli difetti, tra i quali la scarsa presenza di Poirot in scena, non riescono più di tanto ad offuscare la piacevolezza della lettura. L'unico aspetto sul quale ho davvero da ridire è l'eccessiva rapidità, che ho individuato ironicamente sia nelle prime pagine -nelle quali non viene concesso al lettore il tempo sufficiente per fare la conoscenza dei personaggi- sia nell'epilogo, dove l'aggiunta di un breve capitolo a parte per concludere la sottotrama romantica avrebbe reso il tutto meno forzato e di cattivo gusto.
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Vita destino
Frank Bascombe, oggi settantaquattrenne, una vita tra mille peripezie con un certo grado di soddisfazione, mentre riflette su ciò che ha attraversato e a cui è sopravvissuto ( due matrimoni, la morte del primogenito, della prima moglie moglie, dei genitori, un tumore, una ferita da arma da fuoco) , sul senso di una felicità che ritiene essergli appartenuta, è costretto ad aprire l’ ennesimo capitolo doloroso della propria esistenza occupandosi del figlio quarantasettenne Paul colpito dai sintomi della SLA, uno stato di precarietà al quale concedere ancora una parte di se’.
Frank e Paul, visioni inconciliabili all’ interno di differenze caratteriali, da una parte fierezza ed egocentrismo, dall’ altra introversione e precarietà, due pianeti allineati dal viaggio in un luogo dove Paul non vorrebbe andare, diretti al più nazionale dei monumenti nazionali, quel monte Rushmore con suoi presidenti rincorrendo uno spirito condiviso che non c’è mai stato.
Paul si mostra in una condizione di apparente normalità, in fuga da una clinica e da cure inefficaci, in realtà colpito dalla perdita progressiva di sensibilità, forza, autonomia, per Frank è complicato prendersi cura di lui, da sempre avvezzo solo a badare a se stesso.
È il momento di farlo, interrogandosi sulla propria finitezza prima che cali definitivamente il sipario, sondando vita e felicità’, uno stato di convivenza tra un recluso e un vecchio nostalgico, il senso riabilitato dalla propria presenza prima della morte dell’ altro e di una parte di se’, scongiurando la fine e affermando la vita in quel mentre, una meta turistica che non è il fine ne’ la fine del viaggio.
Frank e Paul vivono il presente, incontri eccentrici, battute sagaci, racconti surreali, una giostra di maschere e colori di un’ America roboante e paradossale, sovente in disaccordo tra loro, con visioni difformi, separati da lutti e affetti lontani, poco tempo condiviso, il sense of humor a stemperare una tensione latente, quella malattia che avanza inesorabile confrontandoli con l’ attualità.
Paul è da sempre emarginato, aveva un lavoro, una moglie, frequentava una piccola schiera di amici singolari quanti lui, una vita all’ insegna dell’ insuccesso.
La lunghezza del viaggio sembra inasprire la lontananza tra padre e figlio acuendo la paura di mettersi a nudo, l’ uno di fronte all’ altro, pensieri difformi, visioni egocentriche, immersi e sommersi dalla propria concezione dell’ esistenza, per aprirsi gradatamente alla condivisione e alla conoscenza, alla morte e al senso della vita, visualizzando la fine prossima, domandandosi cosa significa sopravvivere al proprio figlio.
C’è un momento in cui ci si trova al cospetto della morte, Paul impreparato ad affrontarla, lui che non è mai stato in grado di vivere la vita seriamente, che non ha avuto abbastanza esperienze.
Guardandolo Frank prova un’ innegabile senso di paura e di negligenza, per non averlo trattato da adulto, per averlo sottovalutato, dimenticato, un quarantasettenne pingue, mezzo pelato, poco pratico e propenso all’ ascolto, a volte noioso, un trombone, questi i pensieri di un padre al cospetto del proprio figlio.
Si confronta con la propria maturazione e invecchiamento, in se’ una certa somiglianza tra salute e malattia, sogno e veglia, contentezza e dispiacere, stupore e indifferenza.
Nel momento in cui ci si sta occupando di un figlio morente tutto il resto perde di senso, il lungo viaggio, metafora della vita, è condivisione di un qualcosa che non si sarebbe fatto insieme, mentre una voce risuona dentro di se’….
…”La verità è che non so cosa fare con te. E nemmeno se so fare qualcosa per te.”…
Frank sta vivendo qualcosa al di sopra delle proprie forze, lui e Paul accomunati da un certo conformismo e da uno scarso senso di avventura, gli basta guardarlo mentre dorme per certificarne la presenza, si commuove in questo crocevia dell’ esistenza colto dall’ inevitabile sconfitta di un padre percosso da un dolore così grande.
Eppure in lui c’è e si mantiene un se’ che ancora inneggia alla vita, che non si arrende al dolore della perdita, allineato a una felicità che abbia un senso, un soffio vitale che lo spinge a guardarsi dentro, a ritenere la morte in relazione con la vita, che lo spinge a condividere esperienze, conoscenze, passioni, desideri, azioni quotidiane ripetute, evitando un doloroso stato di isolamento, come desidererebbe il figlio Paul.
Giusto o sbagliato che sia questo è Frank Bascombe, a suo modo innamorato della vita.
…” che in fondo è il motivo per cui siamo qui. Rendere giustizia alla vita, a prescindere dal tipo di persona che siamo. O sbaglio?”…
“ Per sempre “ è una riflessione prolungata su vita e destino, sul senso di una felicità infranta da uno stato di precarietà, dal respiro futuro di una morte che si sente imminente, è un legame costruito all’ interno di questo stato, un viaggio che esula dal proprio senso primario.
Frank Bascombe tira le fila del proprio esistere, eccessivo, dissoluto, turbolento, scopre una porzione di se’ e tratti ignoti anche a se stesso, riconsidera il passato in funzione del presente, laddove la dolorosa e inspiegabile perdita di un figlio parrebbe arrestare ogni desiderio possibile.
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Il dolore che non si vede
La neve in fondo al mare è qualcosa che non ti aspetti. Così come non ti aspetti che un figlio, nel pieno della sua giovinezza, che dovrebbe essere una fase di esplosione di vita e di vivacità, si senta fuori posto nel mondo e anche in famiglia. Questa è la storia di un figlio e di un padre, che, insieme, si ritrovano a combattere il senso di estraneità del figlio nei confronti della vita. Così come succede a tanti altri figli e a tanti altri genitori. Non a caso, tanta parte della storia è ambientata in un particolare reparto dell’ospedale e i dialoghi fra i genitori ci fanno capire quanto non si tratti di un caso isolato. Fra di loro c’è un analogo spaesamento, una comune sensazione di impotenza e la sofferenza condivisa funziona da cemento per le relazioni umane, tanto che fra questi genitori si creano legami, sinergie, comprensione, condivisione. Sono genitori con i lividi della battaglia quotidiana con i figli, uomini e donne che, a volte, si sentono una fotocopia sbiadita di quella che una volta era la loro vita, ma che non smettono di cercare un dialogo. E quando succede che un figlio apre, anche solo timidamente, un piccolo spiraglio per il dialogo, a loro non si apre solo una porta, ma un mondo intero e si apre il loro cuore, perché il dolore che si era visto era la spia di quel dolore profondo e molto più grande che non si vedeva.
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Fermata senza viaggio
Uno scrittore di successo ha abbandonato la ribalta da alcuni anni, non ha più pubblicato alcun romanzo e si è silenziosamente eclissato dal suo pubblico.
Una sera tre uomini si introducono nella sua villa per quella che sembrerebbe una rapina ma uno dei rapinatori ha qualcosa di molto personale da rinfacciare allo scrittore e finisce per ucciderlo. I rapinatori fuggono con un bottino composto da denaro contante e da un certo numero di taccuini su cui lo scrittore avrebbe preso appunti per futuri romanzi .
Ma non riusciranno a godersi il malloppo, due di loro ci lasciano la pelle e l'unico sopravvissuto viene arrestato per un altro crimine e condannato all'ergastolo.
La valigia col bottino rimane sepolta per trent'anni in un bosco fino a che un ragazzino con problemi familiari non la ritrova casualmente , dapprima usa i soldi per aiutare la famiglia poi, crescendo si appassiona di letteratura, in particolare dell'autore di tre romanzi di grande successo assassinato
trent'anni prima durante una rapina finita male, ci metterà a questo punto molto poco a capire l'importanza dei taccuini che dapprima lo affascinano dal punto di vista letterario, immaginate di poter leggere i nuovi romanzi mai pubblicati del vostro autore preferito, poi protraendosi i problemi finanziari dei suoi ed essendo terminati i contanti nella valigia, decide di far fruttare i preziosi taccuini cercando di venderli sul mercato delle opere letterarie rare ma commette un'imprudenza che lo mette in serio pericolo. Nel frattempo il ladro dei taccuini ha scontato gli anni minimi previsti dalla legge americana come ergastolo e una volta uscito l'unica sua ragione di vita è tornare in possesso di quanto aveva rubato e accuratamente nascosto in un bosco, è disposto a tutto pur di tornarne in possesso accecato da una rabbia covata per oltre trent'anni.
La situazione per il giovane protagonista diventerà rapidamente drammatica ma troverà degli insospettabili ed inattesi alleati.
Tornano temi cari al Re come il rapporto a volte malato tra l'autore e i suoi lettori (Misery) , l'adolescenza con le sue difficoltà nel crescere e nel rapportarsi con il mondo degli adulti e via discorrendo .
King si avventura nel genere poliziesco portandosi appresso la consuetà capacità di raccontare storie e personaggi ma fuori dal suo territorio in cui il fantastico ed ilsoprannaturale trasfigurano la realtà o servono da espediente per descrivere le paure che ci portiamo dentro, alle prese con incubi totalmente reali senza ombre e sussuri, perde un pò di smalto e scrive una storia che scorre anche bene ma non da brividi, manca clamorosamente di pathos nonostante la drammaticità delle situazioni .
Ti sembra di stare guardando un telefilm alla TV in cui sai che i buoni alla fine la scamperanno (la scamperanno ? Non dico nulla) e in fondo non riesci ad entrare in quel mondo alternativo che di solito crea King perchè quello di questo romanzo assomiglia troppo alla nostra realtà quotidiana, non ti fa "viaggiare".
Un King in tono minore come ha giustamente sottolineato qualcuno, godibile ma che non rimane nel cuore e per un affezionato lettore del Maestro è una pecca enorme.
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I qui assenti
Un ragazzo un pò scapestrato, Oscar, reduce da problemi di droga ha come fidanzata una giovane di buona famiglia, studiosa e tranquilla, insomma due anime diverse che si sono però trovate e comprese più di quanto abbia fatto con loro il resto dell'umanità.
Una sera dopo l'ennesima notte brava, alla ricerca di un posto sicuro dove smaltire gli eccessi, Oscar va a dormire a casa della giovane .
Al mattino quando i ragazzi si svegliano si trovano di fronte uno spettacolo fantascientifico : il mondo è una immensa distesa di colore bianco, senza altri colori senza suoni, nulla.
I luoghi sono un nulla candido, le persone sono scomparse.
Oscar scopre che lui e lui solo, ha la capacità di far ricomparire parti di mondo semplicemente toccando quel bianco irreale, come se il suo tocco cancellasse il bianco che si è impossessato di tutto.
E facendo ricomparire parti di città ritornano anche altre persone, come loro smarrite in quella realtà alternativa.
Si scopre che sono tutte anime in qualche modo tormentate o irrisolte, la stessa fidanzata dietro la maschera di ragazza quasi perfetta nasconde una frustrazione di fondo data dalla convinzione di stare vivendo la vita che i suoi genitori vorrebbero per lei non quella che lei desidererebbe.
La TV e i telefoni cellulari funzionano ma la Tv proietta immagini di un mondo che non è quello dove stanno vivendo i ragazzi , una sorta di universo parallelo, quello dove a quanto pare le
loro persone continuano la loro esistenza inconsapevoli di questo doppio che si è creato : la vita va avanti lo stesso senza accorgersi della loro assenza.
Anzi, sui telefoni arrivano continuamente messaggi da amici e parenti diretti agli altri LORO che rispondono e interagiscono come se non se ne fossero mai andati.
E allora scopriamo le difficoltà dietro le vite di ogni singolo protagonista e il desiderio quasi inconfesabile di poter scegliere finalmente quali parti della propria vita far ricomparire e
quali eliminare o lasciare nell'oblio in questo racconto molto surreale.
Fabio Bartolomei ci regala una storia fantastica in cui la dimensione parallela in cui vivono i protagonisti diventa una sorta di realtà alternativa dove far approdare i desideri più
profondi e sentirsi finalmente liberi di vivere le proprie scelte e ambire alle proprie aspirazioni.
Meno immediato nella comprensione rispetto ad opere precedenti dell'autore ma sempre assolutamente originalissimo anche nello stile con cui vengono descritti i vari protagonisti
a cominciare dal linguaggio con cui si esprimono.
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Ispirato a Dickens
Libro fresco vincitore del Premio Pulitzer e descritto come un omaggio al famoso romanzo David Copperfield, di cui dovrebbe essere una trasposizione in chiave moderna liberamente ispirata appunto al racconto di Dickens.
Il primo motivo non mi ha intrigato più di tanto ma ho amato il racconto di David Copperfield da ragazzo e volevo vedere come l'autrice gli avesse reso omaggio.
Il tema era piuttosto interessante già dall'opera originale : una feroce e dissacrante critica ad uno stato incapace di prendersi cura dei soggetti più deboli in particolar modo questa incapacità si rifletteva nelle condizioni di vita spesso miserevoli dei bambini orfani o figli della povera gente.
Peccato che Dickens fosse un Gigante (con la maiuscola non a caso) e la Kingsolver una buonissima scrittrice : c'è tutta la differenza del mondo per quanto questo Demon Copperhead si faccia leggere con scorrevolezza e proponga qualche riflessione decisamente ben riuscita, dove Dickens diventava appassionante, ironico, creava apprensione nella quotidianità della miseria umana dei vari personaggi la Kinsolver da metà in poi perde brillantezza e il libro diventa noiosetto per riprendersi molto bene nelle ultime pagine.
Il racconto è presto fatto, Demon nasce da una madre single e drogata, non ha che notizie frammentarie del padre morto appena prima che luivenisse al mondo, e nonostante un carattere solare e piuttosto resiliente subisce le angherie di una madre sbarellata e del nuovo martito della madre, Stoner, che lo vede come un intralcio alla sua felicità coniugale comunque fragilissima data l'incapacità della donna di stare lontana dalle dipendenze fino ad arrivare a morire molto giovane .
Stoner non ha alcuna intenzione di farsi carico di quelle che sarebbero le responsabiliotà di padre, per quanto adottivo, e Demon si ritrova a fare i conti con l'inadeguatezza del sistema sociale americano in tema di affido e supporto agli orfani, passando dapprima per la fattoria di un vecchio iroso preoccupato più di portare a casa l'assegno mensile garantito dal fatto di avere in affido uno o più orfani che del loro benessere, infatti spesso neanche li manda a scuola pur di farsi aiutare nel duro lavoro della fattoria.
Qui Demon conosce Fast Forward, così chiamato per la sua rapidità sul campo da Football, e nella vita dove sembra avere una marcia in più degli altri infatti vivrà di un rapido quanto effimero successo sportivo. Fast Forward rappresenterà l'anima nera del romanzo colui che affascina ma corrompe e sfrutta chi si lascia abbagliare dalla superficie , da questo ragazzo brillante, bello, entusiasta ma fondamentalmente miserabile nell'animo.
Sarà poi la volta dell'affido presso una squinternata famiglia con quattro figli, sempre alle prese con l'incapacità del capofamiglia di trovare un'occupazione stabile che possa garantire una vita dignitosa .
Demon riuscirà a barcamenarsi in questi anni grazie all'appoggio di una famiglia di fatto, i Peggot, dei vicini di casa della madre anch'essi alle prese con una serie di disgrazie familiari ma di buon cuore e tutto sommato solidi che accolgono Demon per brevi periodi permettendogli di avere un rifugio nei momenti peggiori mentre Demon stringe amicizia con un nipote dei Peggot , Maggot, e con lui condivide le prime angosce adolescenziali .
Insoddisfatto delle prospettive che gli da la vita in affido Demon decide di andare all'avventura recandosi nella cittadina dalle quale la madre le aveva raccontato provenisse il suo defunto
padre, sperando di trovare sua nonna che , prima della sua nascita aveva cercato di allacciare un qualche rapporto con la mamma di Demon venendo allontanata maalamente da quest'ultima .
Come in David Copperfield il destino dopo tante sfortune da al protagonista un'opportunità favorevole: la nonna esiste e lo riconosce all'istante per via dei capelli color rame come quelli del defunto figlio.
La nonna si è sempre occupata di dare un'istruzione e una possibilità di una vita serena a ragazze in difficoltà ma per un suo preconcetto non vuole occuparsi di un maschio che reputa più problematico, così lo affida, dietro compenso, alle cure del marito di una sua ex assistita e li Demon vivrà il periodo più sereno della sua vita. L'uomo è addirittura il coach della squadra di football più famosa della contea ed ha una figlia quasi coetanea di Demon. Il ragazzo cresce e verrà iniziato al football e ai campionati universitari trovando anche qualche scampolo di gloria fino al giorno in cui durante una partita si infortuna gravemente al ginocchio. Da li inizierà un rapido declino dapprima sportivo, il ginocchio non guarirà mai completamente di fatto stroncadogli la carriera agonistica, ma soprattutto sociale, il periodo della convalescenza verrà infatti affrontato con una quantità irresponsabile di antidolorifici a base di oppiacei creando in Demon una dipendenza da Oxicodone.
Gli anni successivi saranno un lento scivolare nel mondo della dipendenza da Oxi, con tutti i traffici loschi e sotterfugi che contraddistinguono le dipendenze, l'unica luce sarà rappresentata da Dori, una bellissima ragazza, figlia del proprietario di un emporio locale , che si prende cura del padre e tra medicinali e reciproco supporto intreccia col protagonista una dolorosa e tragica storia di amore e reciproca distruzione per mezzo delle droghe.
Sarà il carattere forte di Demon e la mano sempre tesa di alcuni amici ad aiutarlo ad uscire dal tunnel mentre tutte le anime nere del racconto avranno una loro particolare resa dei conti col destino e la giustizia.
Tanti sono i punti in cui la Kingsolver ha preso spunto da David Copperfield, non si può non percepire l'aperta critica sociale ad un sistema di gestione degli orfani e dell'assistenza ai più deboli lasciato molto al caso e all'intraprendenza delle singole persone, dove gli assitenti sociali rappresentano addirittura uno dei gradini più bassi della scala sociale per quanto riguarda l'importanza e la remunerazione di un impiego, formidabili le righe in cui la giovane assistente sociale che aiutava Demon si dice felice di aver trovato finalmente un lavoro come maestra elementare !!.
Per non parlare delle famiglie affidatarie, spesso veri crogioli di problemi su larga scala che usano a loro volta gli orfani presi in custodia come fonte di reddito per via del sussidio statale, in pratica questi bambini passano da una miseria solitaria ad una in ottima compagnia dove non si condivide amore ma i bisogni più elementari puntualmente disattesi.
Questa leggerezza nell'affidare la vita di un bambino nelle mani di chiunque fa quasi amaramente sorridere o rabbia se paragonato alla trafila estenuante di adempimenti e controlli a cui si sottopone da noi chi vorrebbe un bambino in affido.
Nel complesso un bel racconto che avrebbe giovato di qualche spunto narrativo un pò più brillante o del taglio di un centinaio di pagine.
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Crepuscolare
Cavalli Selvaggi fa parte della "Trilogia della Frontiera" insieme ad altri due libri.
La vicenda è ambientata al confine tra Stati Uniti e Messico, con libero uso della lingua spagnola, non tradotta per rendere più avvincente e aderente alla realtà il romanzo.
Per chi parla decentemente l'idioma iberico è anche piacevole imbattersi in questi termini stranieri, per chi non conosce tale lingua può risultare antipatico.
Mc Charty è un autore che adora narrare le vicende di reietti e dimenticati, che si aggirano in lande desolate o comunque in terre dure e spietate.
In questo romanzo, che a mio avviso è minore, rispetto ai suo capolavori come Non è un paese per vecchi, l'azione è incentrata su due ragazzi vagabondi, che cercano in ogni maniera di sopravvivere alla spietatezza della povertà e dell'animo umano.
Il crepuscolo è l'immagine ricorrente che avvolge l'azione avvolge il pensiero dei protagonisti, la loro azione il loro incedere tra lande desolate e paesaggi spettrali.
Nessuno vuole nessuno, ognuno e nemico del suo prossimo. La dove si erge uno spiraglio di salvezza nel impossibile amore fra due giovani, arriva subito la scure del dolore a separarli.
La vita non vale nulla, la si baratta per un cassa di birra, i cavalli sono piegati al volere dell'uomo sono sfiniti nel percorrere terre immense e senza confine.
L'autore conosce bene fino a che punto si annidi la tenebra nel cuore di chi sopravvive alla violenza e alla corruzione dei costumi.
E' un libro che per come si sviluppa sin dall'inizio fa intuire che il cammino dei protagonisti sarà segnato dalle privazioni, dal freddo, dalle albe implacabile, dalla natura insensibile alle disperazioni umane.
Un pellegrinaggio lungo un confine invisibile che segna il passaggio dalla spensieratezza giovanile al dramma dell'età adulta. Non adatto ai malinconici e ai sognatori.
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Diventare grande tra solitudine e abbandono
«Non essere mai meschino in nulla, non essere mai falso, non essere mai crudele. Io potrò sempre sperare in te.»
Charles Dickens, “David Copperfield”.
L’ultimo romanzo che ho finito di leggere è stato “Demon Copperhead” di Barbara Kingsolver, vincitore del premio Pulitzer per la narrativa 2023 e edito da Neri Pozza. Vi si racconta, attraverso la sua stessa voce, la vita di un giovane orfano originario della Lee County sui monti Appalachi, Virginia.
Il modello letterario di riferimento espressamente dichiarato dall’autrice è il “David Copperfield” di Charles Dickens: anche qui il protagonista racconta la propria difficile esistenza, a partire dalla nascita. Fin dalle prime pagine la voce di Demon riesce a catturare il lettore e trascinarlo in una storia tanto drammatica quanto coinvolgente. Il suo racconto ci parla di un ragazzino abbandonato e solo, che ha dovuto lottare fin da piccolo per affermare il suo diritto a esistere, a essere accudito, protetto, rassicurato, amato. Ha dovuto combattere per conquistarsi questi diritti, che chiamiamo inalienabili, che ogni bambino dovrebbe avere garantiti solo per il fatto di essere al mondo.
Ma Demon è nato già orfano del padre e la bionda madre adolescente, anch’essa con una storia di abbandono e solitudine alle spalle, è tossicodipendente. Si prospetta una strada completamente in salita per questo bambino.
I pregi più elevati di questo ricco romanzo, secondo il mio modesto parere, sono sostanzialmente due: il primo è che tratta tematiche abbastanza note in modo però originale. Mi spiego meglio. È presente il tema del disagio sociale, dei diritti negati agli individui più fragili e alle comunità più in difficoltà, molto presente di solito nella letteratura americana. Ma qui si parla di individui e comunità che non ti aspetteresti di incontrare nella realtà degli Stati Uniti degli anni Duemila: bambini orfani sfruttati che vengono fatti lavorare, maltrattati, abbandonati; bianchi poveri, montanari e campagnoli, ex minatori o coltivatori di tabacco, i Melungeon, una popolazione diffusa nel Sud Est degli Stati Uniti, probabilmente discendente da colonizzatori spagnoli e portoghesi mescolata a tribù di nativi, di cui ignoravo l’esistenza. Di solito, pensando all’America vengono in mente altri scenari, invece questo romanzo ci offre uno spaccato su una comunità rurale poco considerata e un po’ disprezzata dagli stessi americani.
«Mostratemi quell’universo al cinema o alla tv. Montanari, gente di campagna e delle fattorie, noi non ci siamo mai, da nessuna parte. È un fatto, siamo invisibili. Arrivi al punto che cerchi di fare più rumore possibile solo per vedere se sei ancora vivo.»
È presente anche il tema della tossicodipendenza, soprattutto nella seconda parte del romanzo, quando alcune atmosfere mi hanno ricordato “I cieli di Philadelphia” di Liz Moore. Il contesto è però diversissimo, qui siamo di fronte a frotte di persone che hanno iniziato a drogarsi prendendo antidolorifici dati inizialmente su prescrizione medica, a ragazzi lasciati da soli, indifesi davanti alla complessità della vita, senza gli strumenti per poter crescere in modo sano e equilibrato.
«Se non conoscete il drago al quale davamo la caccia, le parole non bastano. La gente parla dello sballo, della botta che ti arriva, ma non è tanto quello che provi quanto quello che non provi più: la tristezza e il terrore viscerale, tutta la gente che ti ha giudicato inutile. Il dolore di un ginocchio esploso. Quel laccio che dovrebbe farti sentire attaccato a qualcosa per tutta la vita, che sia una casa o i genitori o la sicurezza, che ti ha lasciato sventolare attorno, sciolto, per tutto il tempo, strattonando le radici del cervello, frustando l’aria con tanta forza da rischiare di cavarti un occhio. E poi di colpo quel laccio si blocca a terra, e sei tranquillo.»
L’altro grande pregio di questo romanzo è lo stile, che dà vita a una narrazione ricca e complessa ma allo stesso tempo vivace e coinvolgente. La voce di Demon è una voce lucida nei confronti della propria realtà e della propria responsabilità, critica verso le ingiustizie che ha dovuto subire, compassionevole verso se stesso. Una storia che riesce a uscire dalle pagine di carta e arriva diretta a sfiorare il cuore di chi la legge.
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Due vittime eccellenti.
Ennesima opera della premiata fabbrica pattersoniana, ambientata questa volta prevalentemente a Washington e in Alabama: opera che si diversifica, con molte emozioni in più, dai consueti cliché dei gialli dell'autore con protagonista il bravo Alex Cross, poliziotto a fine carriera e psicoterapeuta di ottima fama. Siamo nel 2020: la storia comincia con il ritrovamento di due ben noti personaggi ammazzati di notte in macchina, ferma nei pressi di una scuola, mentre amoreggiavano. Il fattaccio desta grande clamore per i nomi delle vittime: lei, Kay Willingham, ex moglie del vicepresidente degli Stati Uniti, lui, Randall Christopher, notissimo e rispettabile preside di una scuola del posto. Cross, aiutato dall'amico e collega Sampson, inizia le indagini, non certo semplici per l'identità dei personaggi coinvolti e i loro precedenti, soprattutto quelli di lei, di famiglia facoltosa, più volte ricoverata in ospedali psichiatrici per gravi crisi depressive e vecchia conoscenza di Cross, testimoniata anche da alcune foto compromettenti. Si indaga sulla vita delle due vittime, setacciando ogni ambiente e interrogando addirittura il vicepresidente, ex marito, e la moglie del preside ucciso, resasi irreperibile, che, dopo lunghe ricerche e intricati depistaggi verrà incriminata con l'aiuto di una dubbia perizia balistica.
Ma altre due vicende si intersecano con quella principale. La prima, molto marginale, riguarda una serie di attentati e sommosse cittadine contro i ricchi e l'aumento delle tasse, sommosse che includono sparatorie senza veri e propri incidenti mortali. I responsabili saranno comunque individuati. La seconda, più incisiva, ha punti di contatto con la storia principale: si dà la caccia ad uno stupratore seriale che rapisce e uccide ragazze seminando il terrore. Alex Cross indaga anche qui da par suo e scopre l'assassino dopo ricerche rocambolesche. Il finale è caratterizzato da un gran colpo di scena risolutore: indica anche chi doveva essere la vera vittima predestinata tra i due uccisi in macchina, contrariamente a tutti i sospetti e le previsioni.
Tutta la narrazione è ben congegnata e intrigante: se si eccettua qualche lungaggine soprattutto nei riguardi delle vicende private più o meno torbide, ospedaliere e legali, della ex moglie del vicepresidente che obbligherà gli investigatori ad inseguire la verità fino in Alabama, tutta la storia scorre riservando motivi di interesse ad ogni capitolo, oscillando sempre tra apparenti certezze e novità che aprono a nuove più approfondite indagini. Insomma, non è il solito Patterson che propina vicende prevedibili e dal finale scontato: in "Morte in Alabama" ci sono emozioni inattese e imprevedibili, una storia a tratti commovente ( ad esempio il sopralluogo di Cross nella tenuta patriarcale della famiglia di Kay, con la scoperta, accanto alla tomba della vittima, di una serie ordinata di tumuli di ex schiavi della piantagione di cotone), con personaggi credibili e convincenti.
Lo stile narrativo è incisivo, diretto, senza inutili divagazioni. Naturalmente non mancano brevi momenti di pausa dedicati alla ben nota famiglia di Alex Cross: Nanà, la nonna novantenne, la moglie Bree e i tre figli. Con loro Alex ritrova pace, serenità e gli stimoli giusti per proseguire nel suo lavoro. Un inno, sempre presente nei romanzi di Patterson, ad una tanto agognata "way of life" tanto americana quanto non sempre agevole da perseguire.
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Futuro scontato e incerto
In “ L’ attesa “( 1971 ), romanzo di Matsumoto Seicho (1909-1992), ritenuto il Simenon giapponese, i desideri irrefrenabili e scomposti di Isako, trentottenne dalla carnagione chiara, dalla pelle sottile e liscia e dalle forme prorompenti, cozzano con un reale invivibile e opprimente, il suo tranquillo e insoddisfacente matrimonio con il sessantasettenne Nobushiro.
D’ altronde il marcato egocentrismo della donna risponde esclusivamente alla realizzazione del suo desiderio più grande, affrancarsi dal legame entro tre anni per mettersi di nuovo su piazza godendosi l’ eredità del marito appena defunto, il proprio fascino totalmente al servizio della causa, schiere di ammiratori vittime sacrificali della propria esigenza autocelebrativa.
In una progettualità dove non c’è spazio per relazioni e sentimenti, il fine giustifica i mezzi, neppure l’ omicidio-suicidio di una giovane donna sembra placare l’ egocentrismo di Isako se non nel suo modus operandi, continuando a tessere la propria tela, indifferente agli accadimenti, cavalcando menzogne, false speranze, inscenando una verità cangiante scambiata per empatica presenza, semplice tecnica adulatoria verso lo scopo agognato.
Ci troviamo nel Giappone dei primi anni ‘70, una società maschilista con una corruzione diffusa dove il profitto personale sostituisce il senso etico e l’ individualismo la collettività.
Il matrimonio tra Isako e Nobushiro è corroso da un’ ossimorica presenza, inarrestabile crudeltà e mansueta arrendevolezza, infantile edonismo e fragilità della malattia, posizioni contrapposte e inconciliabili.
Nell’ incedere della trama, la lunga attesa rivolta alla probabile morte di Nobushiro si concentra sugli ondivaghi umori di Isako, circondata da stereotipi maschili sfuggenti e controversi ( l’ ex amante Shiotsuki, il machiavellico avvocato Sarkozy, il giovane Kanji, ) tutti dediti alla propria causa.
Nobushiro, reduce da due infarti, è appeso al flebile battito del proprio cuore, ammansito da una moglie interessata alla compilazione del suo testamento in un presente di apparenti e amorevoli cure domestiche.
Voci a contorno prevedono una ricostruzione dei fatti, narrazioni in prima e terza persona, appunti, diari, testi dattiloscritti, ciascuno a rappresentare una verità che ricomponga i pezzi di un puzzle indirizzato a un epilogo sorprendente.
I piani predeterminati subiscono l’ onta gravosa della propria sembianza imperfetta, il caso indirizza gli avvenimenti, anche quando la pochezza sentimentale di una fragilità disadorna affolla il presente.
In un crescendo di accadimenti che assumono i tratti del noir si smarrisce l’ idea primaria, l’ esercizio del controllo, vittime di se stessi, delle proprie bugie, di quelle degli altri, di una narrazione parallela che non ci si aspetta in una ricostruzione dei fatti che non è come sembra. E’ allora che va in scena un’ altra storia, epilogo insperato e stupefacente in un’ alternanza sovrapposta di vittime e carnefici, per difendere e salvare se stessi, vendicarsi, sfuggire alla disperazione, alla galera, distrutti dalla propria spietatezza.
Una prima parte immersa nel reale, dettagliata, scorrevole, ben scritta, a rappresentare i vizi capitali di un’ umanità superficiale, fragile, ossessionata e ossessionante, che risponde alle esigenze di una società cinica e stereotipata, dedita al profitto, al perseguimento di scopi illeciti, un finale che prevede una resa dei conti che non concede sconti, esito nefasto e semplice constatazione di un dato di fatto.
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Un giallo che convince solo a metà
«Hai una chiave che apre una cassetta di sicurezza. Dentro c’è un plico di documenti. Devi leggerli e prendere una decisione. Riporli nella cassetta e buttare la chiave dove nessuno possa trovarla. Oppure rivolgerti alla polizia».
Dopo “L’assassino è tra le righe”, successo dalla portata internazionale, torna in libreria Janice Hallett con un romanzo giallo altrettanto enigmatico e intitolato “Il misterioso caso degli angeli di Alperton” (edito per Einaudi).
Amanda Bailey, dopo anni di gavetta, finalmente ha ottenuto la notorietà. È giornalista ma il successo è arrivato grazie alla pubblicazione di titoli dedicati a ripercorrere omicidi celebri ma irrisolti. Nel caso di specie questa si ritrova a indagare su quello che può definirsi un delitto rituale e cioè un suicidio di massa occorso all’interno di una setta nel vano tentativo di uccidere il figlio di due adepti perché figlio del male. Tuttavia, l’intervento della madre riesce a impedirne l’esecuzione e il neonato si salva. Adesso che sono trascorsi quasi diciotto anni ella vorrebbe intervistare il ragazzo. Non sarà da sola nelle indagini, il suo collega, nel dettaglio, sarà tutto tranne che partecipativo alle indagini.
Avrà inizio da questi brevi presupposti un romanzo che mantiene lo stile narrativo che già avevamo conosciuto in “L’assassino è tra le righe” ma che al contempo se ne distacca per struttura e ritmo narrativo.
Il trend che usa è molto moderno, non mancano mail, chat, riferimenti a libri inventati e funzionali alla storia e questo permette di creare un titolo in costante cambiamento di prospettive. Ciò mescola anche le carte portando il lettore a interrogarsi spesso su chi possa essere il colpevole, su quale possa essere realmente il mistero che si cela tra le pagine.
Tanti sono i colpi di scena presenti in “Il misterioso caso degli angeli di Alperton” ma non tutti convincono, alcuni sono di troppo e il lettore non fatica ad arrivare a quelle che sono le conclusioni più logiche che portano al naturale epilogo.
Non può certamente definirsi un’opera originale, c’è tanto di meta narrativa ma c’è anche qualcosa che non funziona e non convince nella sua interezza. Se in “L’assassino è tra le righe” prevaleva la critica alla buona borghesia inglese, qui si gioca più sull’enigma e la sua costruzione con anche una buona dose di cinismo ma calcando troppo negli intenti.
Un mistero che convince ma solo a metà.
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Vocine nella testa, eh? Molto conveniente...
Procedere nei meandri di questa saga sembra sempre più un'impresa improba, eppure eccomi a parlare di quello che tecnicamente è il penultimo capitolo, ossia "L'impero delle tempeste". Dico tecnicamente perché da brava completista quale riconosco di essere mi sorbirò anche "La torre dell'alba" prima di approdare all'epilogo della serie. Non che Chaol mi stia antipatico come personaggio principale, ma l'idea di leggere un libro lungo quanto questo soltanto sul suo viaggio nel Continente Meridionale mi entusiasma pochissimo.
Per ora rimaniamo su questo volume, nel quale la narrazione si divide inizialmente tra tre prospettive. Ritroviamo Manon ancora agli ordini delle Matrone, ma decisa ad opporsi come può alle direttive crudeli impartite da queste ultime e dal duca Perrington, mentre Elide -da lei lasciata nella foresta di Oakwald- incrocia la strada di Lorcan nel corso della sua missione per raggiungere Celaena. Capitanato da Aelin, il gruppo più numeroso di POV lascia invece l'appena ritrovata Terrasen per cercare nuovi alleati con i quali combattere l'imminente guerra contro le creazioni demoniache di Erawan.
In precario equilibrio sul confine tra chiarezza e spoiler, non credo di poter dire di più, ma di certo la trama risulta meglio strutturata rispetto ai primi capitoli; inoltre sono presenti delle svolte narrative degne di questo nome per una buona parte dei personaggi. Da una prospettiva soggettiva, ho apprezzato specialmente come si è evoluta la storyline di Manon, non a caso lei, Elide e Lysandra sono i caratteri che reputo meglio scritti e con dei percorsi più significativi. Mi piacerebbe includere in questo elenco anche Aelin (così da fare l'en plein delle personagge!), non fosse che l'autrice si ostina a non voler riconoscere i suoi difetti come tali: di conseguenza lei vince sempre, oppure viene sconfitta solo in virtù della scorrettezza degli antagonisti.
Proprio gli antagonisti rappresentano per l'ennesima volta una delle più grosse debolezze della saga, perché le loro blande motivazioni e gli ancor più blandi piani li rendono al meglio dimenticabili. Non ho troppi elogi da fare neppure nei confronti dei vari coprotagonisti, dal momento che si adoperano ben poco per portare avanti la trama e spesso sembrano ridotti al ruolo di mero interesse romantico. E per quanto mi riguarda i continui ringhi animaleschi non aiutano la loro causa!
Questo porta inevitabilmente a parlare del lato romance che, devo ammettere, temevo avrebbe preso il sopravvento sull'intreccio principale in modo definitivo. Invece, la cara Sarah riesce ancora a mantenere un accettabile bilanciamento, relegando dichiarazioni di amore eterno ed amplessi vari ai momenti di stasi della trama. Le mie riserve cominciano quando si arriva ad analizzare le singole coppie: Aelin e Rowan sono di una prevedibilità soporifera, Aedion e Lysandra andavano bene fino all'inspiegabile reazione di lui nel finale, Manon e Dorian mi sembrano un'accoppiata totalmente casuale. Temo che, nonostante finiscano assieme per colpa delle voci nella testa, Elide e Lorcan siano a conti fatti la mia coppia preferita del romanzo.
Per quanto riguarda il lato editoriale non ho purtroppo note positive, perché sul fronte statunitense ritengo ci sia stato un debolissimo lavoro per editare il testo -e lo provano le numerosissime ripetizioni di termini e dinamiche-, mentre su quello italiano ci troviamo davanti all'ennesima traduzione frettolosa e sprecisa. E concludo con un'osservazione circa le novità introdotte da Maas in questo volume; mi sembra chiaro che abbia tentato di correggere il tiro su certi temi per andare incontro alle critiche mosse dai lettori, e pur apprezzando sempre chi si impegna per migliorare, temo che questo sforzo non sia stato sufficiente. Non basta mettere un paio di slogan femministi in bocca ai personaggi maschili, non basta dire che qualche personaggio è molto abbronzato, non basta rendere randomicamente gay dei caratteri secondari! soprattutto quando si avrebbe dell'ottimo materiale per scrivere due coppie omosessuali, volendo. Purtroppo mi sembra chiaro che la cara Sarah è determinata pilotare i suoi personaggi principali unicamente verso relazioni etero.
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In nome del figlio
Dario Corbo è un giornalista d’inchiesta che ha impiegato gran parte della sua carriera a puntare il dito contro Nora Beckford, (La Ragazza Sbagliata) accusata dell’omicidio di una sua coetanea con la pena di quindici anni di carcere. Dopo accurate indagini Dario scopre la verità , e cerca di riscattare l’ immagine di Nora scrivendo un libro in cui la scagiona e ora lavora per lei , alla fondazione che cura il lavoro del padre, artista, Thomas Beckford.
La vita di Dario viene stravolta improvvisamente da un grave problema familiare, suo figlio Luca, quasi maggiorenne, viene accusato di atti di stupro e violenza ai danni di una ragazza conosciuta ad una festa.
Luca è difensore di una squadra della Lega Pro, è una promessa del calcio, attentamente osservato dai procuratori a caccia di talenti.
Il libro inizia proprio con il racconto di una partita di pallone, giocata insieme ai suoi fedeli compagni, nella quale Luca ha la grande responsabilità di calciare un rigore decisivo, che va a segno. La festa che seguirà questo successo, sarà invece quella incriminata, e in qualche modo segnerà la fine della sua carriera, paradossalmente non ancora iniziata.
Il romanzo si presenta come una lunga lettera di Dario al figlio, in cui trapela non solo l’immenso amore di un padre, ma anche e soprattutto il senso di responsabilità di un uomo che dubita del suo ruolo di genitore, e che si domanda fino a che punto deve continuare a difendere suo figlio. Anche contro l’evidenza?
Da qui inizia la ricerca della verità
Perchè lo scopo di Dario è la Verità, tutta la sua vita e il suo lavoro si fondano su questa parola.
Un padre che vuole credere a tutti i costi alla sincerità del figlio e che invece guardandolo solo negli occhi scopre un mondo di menzogne, silenzi ed omertà.
Come può proteggerlo? Nascondendo la verità o portandola alla luce?
Oltre alla narrazione sentimentale, il romanzo scava nel mondo torbido del calcio, in cui gli interessi economici delle società e dei manager decidono il destino e la vita stessa di giovani ragazzi, calciatori in erba, promettendo loro un futuro agiato ma calpestando i valori morali dello sport.
Simi da giornalista quale è evidenzia anche la questione etica del ruolo dell’informazione, una stampa che punta allo scandalo, al sensazionalismo, che pur di fare audience, titola notizie senza regole deontologiche.
Inoltre l’autore accusa tutto il mondo dei social, dove gli adolescenti mettono in mostra la loro vita senza filtri o inibizioni, anche azioni di dubbia moralità, per qualche visualizzazione in più, perchè tutto si esibisce pur di stare al centro dell’attenzione.
Una generazione che non si guarda più dentro e che guarda solo fuori e soprattutto guarda gli altri, e che non comunica se non attraverso uno schermo.
Questo romanzo invece ci costringe a guardarci dentro, a riflettere sulla società contemporanea, a mettere in discussione i legami familiari, che troppo spesso sono costruiti sulle bugie, e sulle incomprensioni, solo perchè non si ha il tempo nè la volontà di confrontarsi, di mettersi a nudo, di instaurare un rapporto confidenziale, dove i segreti andrebbero svelati, e i rancori messi da parte, in nome di un amore unico e infinito che è quello che lega un padre e un figlio.
Un romanzo che si legge d’un fiato, con uno stile semplice e profondo, che arriva al cuore e a tratti commuove. Un romanzo per adulti che consiglio soprattutto ai giovani.
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Nel mirino
Quanto a volte si soffre per traumi che si ripresentano…Nella trama di questo thriller ad alta tensione ovviamente i traumi sono molto forti e molto incisivi, ma ognuno di noi ha nella propria vita micro-traumi, o forse a volte neanche tanto micro, che ci presentano il conto. Il serial killer è spinto da un qualche folle istinto morale che lo porta a voler ripulire la società. Prende di mira un poliziotto, ma soprattutto ne prende di mira l’uomo, per colpirlo nel profondo e si nutre della sensazione di sezionare la sua anima. Il ritmo è alto, incalzante, avvolgente, coinvolgente. I personaggi molto ben delineati, singolarmente e nelle loro interrelazioni affettive. I colpi di scena inaspettati lo rendono un ottimo thriller, molto ben progettato, disegnato e sviluppato.
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Mondi trasversali
…“ È calato il buio. Un buio infinitamente profondo e dolce”…
Cuore e coscienza, il se’ e la propria ombra, sogno e realtà, amore e desiderio, l’ ultimo romanzo di Haruki Murakami rivisita temi conosciuti in un’ alternanza non lineare e metatemporale che insegue una felicità solo assaporata, improvvisamente sfumata, fortemente agognata.
Due adolescenti uniti dalla passione per la scrittura iniziano una frequentazione basata su rari incontri, lettere, passeggiate, ascolto, silenzio, un mondo interiore da svelare reciprocamente, l’ invenzione di una città dalle alte mura, popolata da unicorni, un luogo con una biblioteca senza libri e innumerevoli sogni da leggere, senza orologi, al cui ingresso e’ obbligatorio abbandonare la propria ombra, dal quale è impossibile evadere, una palude, un fiume, basse colline, un luogo senza tempo dove gli abitanti conducono una vita frugale.
È un mondo immaginario dove coltivare un senso di reciproca vicinanza, soggetto a rinunce, restrizioni, a un’ essenzialità che soggiace a regole precise.
Che ne sarà della propria ombra abbandonata, compagna di sempre, destinata a un esito infausto, a quale dei due mondi appartenere, alla realtà svuotata di amore o all’ immaginario edificato nel proprio cuore in cui leggere i sogni altrui, ignorando motivo e significato di tale compito?
Il protagonista vivrà un’ alternanza misteriosa tra un mondo e l’ altro, attribuendo un senso a ciò che senso non ha, se non leggendo nel proprio cuore e nei propri desideri più intimi.
Nella città dalle alte mura vige uno stato di eternità, impossibile attribuirle regole di umana precarietà, anni dopo il protagonista, ormai quarantenne, da tempo rientrato in un reale che lo ha svuotato dentro, abbandona una vita ordinaria fatta di solitudine, di silenzio, di non amore.
Rimasto al se’ diciassettenne, a quei momenti di eternità, al sapore della tisana lenitiva a dei dolci di mele, ricerca rifugio e conforto in una cittadina situata tra i monti impiegandosi in una biblioteca che racchiude misteriose sembianze e indizi particolari a ricordare la vecchia biblioteca nel cuore di giorni uguali a se stessi.
Un luogo dove svernare confrontandosi con il silenzio della propria ombra, con il fantasma di un ex direttore appassionato ed eccentrico, con un possibile nuovo amore, con un ragazzo di poche parole che presenta caratteristiche di eccezionalità, con il desiderio di fare ritorno nella vecchia biblioteca, anche se tutto non è come sembra e sono tante le cose dimenticate, alcune vivide, altre lontane.
Come creare una simbiosi che permetta di comunicare in silenzio, di vedere oltre, di percepire un mondo di fantasia che sente appartenergli?
Prosegue il viaggio del protagonista nella propria interiorità sostando tra reale e immaginario o, viceversa, ricercando la verità, il confine tra cuore e coscienza, il limite tra i due mondi, un luogo difficile da scovare ignorando il vero se’.
Come attraversare i due mondi, ritrovare una persona scomparsa, vivere in un luogo abbandonato dagli spiriti con i quali ha condiviso una parte della propria vita tra affetto e solidarietà?
Come coltivare un amore imperfetto in un tempo mancante, che gli ricorda altro, qualcuno che ha lasciato, ripensando a cosa ha atteso in tutti questi anni e alla presenza di un muro divisorio tra reale e immaginario?
Che sia un luogo mutevole, che cambia forma e consistenza in funzione delle circostanze e delle persone, forse la realtà è qualcosa da scegliere tra tante possibilità.
...” Il tuo cuore sta cercando una svolta, ne ha bisogno. La tua coscienza, però, non l’ha ancora percepito. Il cuore umano è difficile da comprendere”..
Un lungo romanzo che sa di fiaba, scritto, nella prima parte, nel 1980, riscritto completamente e completato tra il 2020 e il 2022, arricchito dalla propria infinita esperienza letteraria. Nel 1985 venne scritto La fine del mondo e il paese delle meraviglie che ne riprende temi e contenuti. Diviso in tre parti, è evidente una spaccatura tra la prima, percorsa da un flusso di inconsistenza tra sogno e realtà e il resto, ancorato a un reale indigesto e a una concretezza più vera.
La sensazione prevalente è di una ricerca ed esposizione che attinge alla propria poetica e ai temi ad essa più cari, lunghe digressione tra reale e immaginario, il potere dei sogni, mondi trasversali non riproducibili, l’ amore per la musica, l’ unicità e impalpabilità dei protagonisti, atmosfere ipnotiche, piuttosto fragile e frammentaria la costruzione dei personaggi in un quotidiano che possa legittimare e sostenere un costrutto così ampio.
Alla fine prevalgono riproduzione e scambio tra il se’ e la propria ombra, una lotta intestina tra cuore e coscienza, realtà e desiderio, tra il sogno di una vita e sogni ristretti, tra un reale percorso e sostenuto da innumerevoli possibilità e sentimenti difficili da comprendere.
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La cara Alwyn non perde neppure il pelo
Quando una serie comincia con un titolo debole come "Rebel. Il deserto in fiamme", le mie aspettative rispetto ai seguiti vengono notevolmente ridimensionate, così come l'interesse per la lettura degli stessi. Lasciata passare l'intera estate, mi sono però decisa a proseguire con "Rebel. Il tradimento", un secondo capitolo che conferma in toto i difetti del suo predecessore riuscendo comunque a fare qualche timido passo in avanti.
Dopo un salto temporale di ben sei mesi ritroviamo Amani come membro a pieno titolo della rivolta capeggiata dal cosiddetto Prinicipe Ribelle Ahmed contro lo strapotere del Sultano. Una serie di circostanze porta però la ragazza proprio all'interno dell'harem del sovrano, dal quale tenta di lavorare come spia a favore dei ribelli. Questa missione le permette di ritrovare alcune vecchie conoscenze e di scoprire quali siano i progetti del loro antagonista sul lungo periodo.
A fare da intercalare tra un'avventura e l'altra troviamo dei racconti folkloristici che -sebbene didascalici- risultano molto piacevoli ed in linea con il contesto scelto. Un altro elemento a favore del romanzo che però avrei voluto venisse trattato in maniera meno superficiale è quello delle tematiche; in primis, la violenza domestica e di genere: un po' di sottigliezza avrebbe giovato alla godibilità del contenuto, ma trovo comunque positivo impegnarsi per introdurre un pubblico giovane a determinati argomenti.
Tra i pregi di questo seguito mi sento di includere le nuove ambientazioni che risultano affascinanti ed abbastanza dettagliate, pur privandoci di una buona parte delle creature fantastiche presentate nel primo libro. Questo aspetto si compensa in parte con l'approfondimento fatto sui djinni e sulla loro mitologia di base, collegata ovviamente a quanto accade nel presente. Su un piano più soggettivo, ho gradito anche la minor presenza della componente romance, seppur sia necessario precisare che le poche scene romantiche sono quanto di più fuori luogo si potesse desiderare!
E passiamo dagli incerti punti a favore ai sicuri punti a sfavore. Come accennato, la maggior parte dei vecchi difetti è tutt'ora presente: svenimenti convenienti della narratrice, scene soltanto raccontate o lasciate all'interpretazione del lettore, intreccio banale, prosa infantile, descrizioni limitate, personaggi stereotipati, poca rilevanza per le scene traumatiche ed un'edizione italiana di certo rivedibile. Non escludo che la cara Alwyn si sia adoperata per migliorare, ma questo risultato fa capire quanta strada abbia ancora da percorrere.
Gli aspetti meno riusciti di questo capitolo nello specifico riguardano quasi esclusivamente l'intreccio, partendo proprio dagli eventi alla base dello stesso: l'allontanamento tra Amani e Jin da un lato, e la necessità di avere una spia a palazzo dall'altro. Il primo è causato da una serie di avvenimenti che non soltanto sono preclusi a noi lettori (visto che avvengono prima dell'inizio del volume), ma anche alla stessa protagonista che nel mentre era in fin di vita! Per quanto riguarda lo spionaggio, si tratta di uno dei tanti motivi per cui la strategia militare in questa storia fa ridere i polli: che bisogno c'è di una spia sempre in pericolo quando hai a tua disposizione dei demdji in grado di indovinare cosa fa il nemico e due mutaforma da poter inviare a palazzo con l'aspetto di animali?
Altri néi contenutisti (in)degni di nota sono le tante coincidenze -che permettono alla protagonista di incrociare sempre facce note in un regno vastissimo-, le dinamiche rubate ad un qualunque teen drama ambientato in un liceo americano, le regole magiche cambiate a seconda delle necessità autoriali, un'infelice scelta narrativa nel finale, l'assurdità di ogni elemento medico, le snervanti ripetizioni di nomi e parentele, e la presenza di scene del tutto immotivate. In quest'ultima categoria ricadono per esempio lo scambio fatto da Ayet per le forbici o Uzma che scopre la cicatrice di Amani giusto in tempo perché qualcuno la noti; la regola di fondo sembra essere: se è utile per la trama, per quanto improbabile succederà.
E come poteva la protagonista non rientrare nella categoria dei demeriti? Amani è fornita di una caratterizzazione a dir poco ballerina, che come tutto il resto varia per servire la narrazione. Hamilton cerca di spacciarla per una personaggia umile, che si incolpa in continuazione; peccato che le presunte colpe riguardino sempre elementi estranei, mentre le azioni per le quali si potrebbe in effetti chiederle conto e ragione vengano sapientemente glissate. È il caso del suo comportamento verso la cugina Shira (che cerca solo quando ne ha bisogno, senza preoccuparsi mai realmente per lei) e l'amico Tamid, con il quale dice di voler far pace ma si pone sempre in modo molto aggressivo. Le protagoniste imperfette mi piacciono, quelle passivo-aggressive molto meno.
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Uno spirito premonitore
«[…] Quando in sogno mi addentro nelle tenebre della memoria, mi accorgo che, a mano mano che scendo in profondità, ritrovo i capi di mille fili collegati tra loro. È come spostarsi sott’acqua ad a gran velocità. Quando poi mi sveglio, però, il rumore della mente si insinua dappertutto e mi confonde.»
Banana Yoshimoto, autrice prolifica nota al grande pubblico per il suo “Kitchen”, torna in libreria con “Lo spirito bambino. Le strane storie di Fukiage, vol. 3”. Con quest’ultimo scritto ella riprende il filone che già aveva avviato con i precedenti volumi della serie e in particolare si concentra sul misticismo, sugli spiriti, sui desideri e sulla costante e continua ricerca che attanaglia e accompagna l’essere umano nel suo percorso di vita. Per definizione i suoi libri sono viaggi nei viaggi, viaggi metaforici quanto empatici che suscitano riflessione sia che li si ami che non.
In “Lo spirito bambino” conosciamo una strana presenza che si aggira all’interno della casa di Misuzu. Per quest’ultima la visione del bambino altro non è che il preludio della gravidanza che si ritrova ad aspettare e a desiderare, o, ancora, è il ricordo di un passato ormai lontano e doloroso. Al contempo Mimi continua a vivere a Fukiage, è immersa in quella che è la quotidianità dell’atmosfera familiare della casa di Isamu e della calma propria di questa cittadina tra mare e monti.
«[…] E alla base di quella sensazione c’era la percezione di un respiro che abbraccia il mondo intero di un tempo creato dall’uomo per isolarsi da tutti gli altri esseri viventi.»
Mimi e Kodachi, le sorelle gemelle cresciute da una coppia di amici dei genitori dopo che il padre è rimasto ucciso in un incidente stradale e la madre mai è uscita dal coma a cui è dedicata la serie delle strane storie di Fukiage, si propongono tra queste pagine al lettore con genuina spontaneità e nuovamente offrono spunti di meditazione sulla vita, l’esistere, il sopravvivere e il vivere. Al contempo, lo spirito, è metafora del ricordo, della perdita, del dolore ma anche del ritrovare e ritrovarsi soprattutto quando i legami sono stati spezzati dallo scorrere del tempo.
Alla soglia dei suoi sessant’anni Banana Yoshimoto torna in libreria con un romanzo caratterizzato dallo stile fresco, semplice ed originale che rimanda all’impostazione dei manga. Negli anni la Yoshimoto è fortemente cresciuta e ha iniziato a dedicarsi anche a temi più complessi e più adulti che si distaccano da quelli con cui l’abbiamo conosciuta soprattutto nei romanzi d’esordio. Questo senza però mai perdere quello che è il suo tratto distintivo.
“Lo spirito bambino. Le strane storie di Fukiage, vol. 3” è certamente un romanzo di transizione. Non può definirsi uno scritto indimenticabile, in alcuni passaggi non è immediato, in altri resta sul vago ma è comunque un componimento che arricchisce la serie e dimostra gli intenti di maggiore maturità e crescita della narratrice.
«[…] Lamenti, parole di conforto e altre dette per gioco erano solo onde sonore. Così era la vita. Chi non è in forma può solo star peggio nel sentire gli altri che si lamentano. Ma quando la macchina funziona alla perfezione possiamo permetterci una certa leggerezza. Basta che il cielo sia sereno e le stelle ben visibili.»
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Diritto o rovescio?
Se siete alla ricerca di un libro originale e non banale “E Alla fine muoiono. La sporca verità sulle favole” di Lou Lubie è il titolo che fa per voi. L’autrice francese, con la chiave della graphic novel mixata a una corposa narrazione, compie una vera e propria analisi filologica delle fiabe che ci riporta alle versioni originarie tramandate per secoli e poi ancora al come nei secoli queste si sono evolute.
Un notevole lavoro di ricerca si cela dietro alle pagine di questo libro, un componimento che arriva sin da subito grazie alla profonda ironia ma anche per la sua versatilità prestandosi questo a una lettura eterogenea, anche a quel pubblico che solitamente tende ad essere più saggista.
Cosa si cela dietro quel “C’era una volta”? Si cela la consapevolezza che forse, dietro al modo in cui queste ci sono state tramandate c’è altro, un altro che se precedentemente conosciuto forse avrebbe cambiato il nostro modo di leggerle. Soprattutto se pensiamo alle versioni originalei dei fratelli Grimm o di Perrault che si distanziano nettamente dalle versioni Disney o ad ogni modo tramandate dai nonni ai nipoti, dai genitori ai figli.
L’analisi ha inizio da classici più famosi come “Cenerentola”, “La bella addormentata nel bosco”, “Biancaneve” ed arriva a favole più di nicchia e meno conosciute come “Il cane del mare”, “L’ebreo nello spineto” e che sono tutte accomunate da uno schema che si ripete. Non mancano nemmeno volutamente provocazioni che, tuttavia, talvolta possono diventare eccessive.
Ma attenzione, il lavoro dell’autrice non mira a demonizzare le fiabe che conosciamo bensì a leggerle con una diversa e più matura e concreta consapevolezza.
“E alla fine muoiono. La sporca verità sulle fiabe” è un fumetto che incuriosisce e che sprona a una lettura rapida e curiosa.
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Lyra, i Daimon e l’onnipresente Polvere
Lyra Belacqua è una undicenne orfana dei genitori (o, almeno, così le hanno sempre fatto credere) che è stata allevata amorevolmente al Jordan College di Oxford dagli Accademici e dalla servitù dell’augusto Ateneo. È cresciuta un po’ selvaggia e irrequieta e ora, con un comportamento da vero maschiaccio, è capo d’una banda di ragazzini che imperversa nella cittadina tra battaglie con i coetanei e scorribande sui tetti e nei sotterranei del College. Ma il mondo in cui lei vive non si trova nel nostro universo, ma in uno parallelo, davvero strano. Qui l’Inghilterra è separata dall’Oceano Germanico dalla New France (gli USA?), i crudeli Tartari minacciano i confini orientali dell’Europa e il popolo nomade dei Gyziani ha colonizzato i fiumi e i canali del mondo. Ma, soprattutto, ciò che distingue il mondo di Lyra dal nostro, sono i daimon. Ogni essere umano, sin dalla nascita, è accompagnato da un animale nel quale si incarna la sua anima, con cui si confronta e discute. Fino al raggiungimento della pubertà questi compagni di vita sono mutevoli nell’aspetto, com’è mutevole il carattere dei bambini, poi si stabilizzano in una forma definitiva che conserveranno sino alla morte dell’umano con cui sono accoppiati e che coincide pure con la loro sparizione. La simbiosi umani-daimon è così profonda e sinergica che se, per inconcepibile disgrazia, dovessero essere separati gli uni dagli altri per più di una distanza limite, si determinerebbe la morte di entrambi o quantomeno, un trauma psicologico tale da ledere gravemente il loro equilibrio mentale facendone delle specie di zombie. Un essere umano senza il suo daimon, per quella società, è concepibile come lo sarebbe un essere vivente che vive e cammina senza testa: un abominio.
Però c’è qualcuno che forse sta pensando proprio di operare questa separazione: molti bambini cominciano, misteriosamente, a scomparire, catturati da coloro che la voce popolare ha definito gli Ingoiatori, termine che, da solo, fa intendere le non certo benevole intenzioni di questi individui.
Ma Lyra e il suo daimon, Pantalaimon, non si interessano a tutto ciò: lei è concentrata sui giochi coi coetanei ed è affascinata dalle ricerche che suo zio Lord Asriel sta facendo nell’estremo Nord sulla Polvere – sostanza eterea e visibile solo con appositi strumenti “filosofici”, ma che pare ammanti in abbondanza tutti gli esseri umani tranne i bambini – e su una misteriosa città aerea che appare e scompare, evanescente, nelle aurore boreali.
La sua vita, tuttavia, subirà una drammatica svolta. Affidata dal Maestro del Jordan alla misteriosa, ma affascinante, signora Coulter, conoscerà un mondo nuovo a volte seducente, ma, più spesso, pericolosissimo. Farà scoperte sconvolgenti sulla propria vita che la lasceranno frastornata; si unirà ai Gyziani per andare alla ricerca dei bambini scomparsi. Dovrà lottare più e più volte per la vita propria e delle persone che le sono care, ma soprattutto si troverà ad affrontare a una serie di sfide e missioni che, alla fine, potrebbero influire in maniera drammatica e definitiva sulla stessa trama del mondo come lo ha sempre conosciuto lei.
La Bussola d’oro è il primo romanzo di una trilogia intitolata “Quelle oscure materie” nella quale l’A. in un’atmosfera dai toni steam-punk, affronta molteplici temi inquietanti e discutibili oltre che effettivamente discussi nelle critiche successive all’uscita dell’opera.
La lettura di questo primo libro mi ha lasciato piuttosto perplesso per la sua intrinseca ambivalenza e ambiguità.
Ha la tipica impostazione che ormai è diventata un classico di questo genere letterario: abbiamo un giovanissimo eroe, dotato di volontà e capacità uniche, che lotta strenuamente contro il mondo degli adulti che minacciano di distruggere tutto. La magia e le arti esoteriche aiutano e influiscono pesantemente sul succedersi degli eventi. Animali parlanti (orsi guerrieri corazzati!) e, più genericamente, creature fantastiche e misteriose svolgono ruoli non secondari nelle vicende. L’ambientazione, poi, è in un universo immaginario o, quantomeno, distopico non troppo dissimile dal nostro, ma nel contempo inquietante.
Tuttavia, nonostante queste struttura e ambientazione fantasy, i contenuti effettivi del romanzo ne sono solo marginalmente influenzati, perché appare evidente che il bersaglio dell’A. sia il nostro mondo, al quale, entro la metafora narrata, porta un attacco diretto.
Proprio per i temi trattati non può essere considerato un romanzo rivolto a un pubblico giovanile o adolescenziale. Molti, troppi sono i contenuti che possono essere compresi e valutati compiutamente e criticamente solo da un lettore intellettualmente e culturalmente più maturo.
Ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte a una trattazione speculare, cioè uguale ma contraria, sia negli argomenti che negli intenti, rispetto alla saga de “Le cronache di Narnia”. Dove nei libri di C. S. Lewis, praticamente ogni situazione, ogni paragrafo è permeato da un afflato religioso e i precetti del cristianesimo si respirano ovunque, qui è proprio l’apparato ecclesiastico, la Chiesa, con il suo organo deliberante e decidente, il Magisterium, il nemico da battere, la cupa minaccia, la cappa plumbea calata su una società soffocata e guidata in modo tirannico che Pulman pone sul banco degli imputati e non certo in modo velato. Ogni crimine, ogni turpitudine è fatto risalire ad essa.
Non solo le attività quotidiane, ma pure tutte le ricerche che noi definiremmo “scientifiche” (e qui sono definite “filosofiche sperimentali”) sono caricate di contenuti teologici e hanno come unico scopo quello di acclarare la verità dei dogmi religiosi negando il libero pensiero. L’ortodossia ecclesiastica è così autoritaria che discostarsene può significare la condanna per eresia e, in ultima analisi, la morte.
Gli Ingoiatori, o, meglio l’Intendenza per l’Oblazione, come realmente si chiama l’organizzazione che perpetra abominevoli esperimenti sulle anime incarnate nei daimon, è approvata e sostenuta dalla Chiesa, ma commette crimini che noi assoceremmo solo ai cosiddetti scienziati nazisti di cui Josef Mengele è da ritenersi il prototipo.
Dove, a Narnia, tutti gli esseri viventi sono accumunati da una fratellanza quasi francescana, qui si assiste a una pesante segregazione razziale e classista. I nobili e gli accademici appartengono a una aristocrazia che non si mischia con il popolino o la servitù, considerati appartenenti a una classe inferiore relegata a svolgere solo i lavori manuali che gli altri disdegnano. La cesura è così netta che pure i daimon ne dànno una visibile testimonianza: i servi sono accompagnati solo da daimon in forma di obbedienti e disponibili cani, ben diversi dai felini, dai rapaci, dai minacciosi rettili o dai primati che sfoggiano le classi superiori.
I Gyziani, poi, rappresentano il popolo inferiore, il diverso; il nome stesso (evidente crasi tra gypsy, zingaro, e egyptian, da intendersi come africano non cristiano) ne fa degli emarginati, tollerati solo per le eventuali utilità che se ne possono trarre, ma, per il resto invisibili; perciò il rapimento dei loro figli per gli esperimenti è tollerabile e ignorato dalle autorità. Il nemico alle porte, poi, (i Tartari con le loro lupe-daimon) è accreditato di comportamenti barbarici, crudeli e, sostanzialmente inumani.
In questa ambientazione plumbea la trama si svolge in modo coerente con le premesse, portando con sé perennemente la sua carica d’ansia per i protagonisti, gli eroi buoni e bistrattati della vicenda, mentre per il lato oscuro di questa società c’è solo un cumularsi di crimini e crudeltà. Scene sanguinarie e violente si incontrano spesso e, in genere, la storia è cruda, non edulcorata e, non di rado, crudele. La separazione rigorosamente manichea tra gli attori del dramma aiuta sicuramente a immedesimarsi, ma, una volta di più, mostra come il pubblico a cui è destinato il libro non sia quello dei ragazzini.
I colpi di scena, i rivolgimenti di fronte sono ben calibrati e lo stile è fluido e leggibile, anche se, talvolta può risultare un po’ lento e pesante.
Per le ambientazioni, poi, l’A. ha scelto, o gli austeri ambienti di un college dall’aura vittoriana, o le gelide e buie terre dell’inverno a nord del circolo polare. Queste, contribuiscono ad aggiungere cupezza alla storia che, ovviamente, essendo questo solo il primo dei romanzi della trilogia, si interrompe senza un epilogo catartico, lasciando il lettore con il fiato sospeso su quale potranno essere i futuri sviluppi.
In definitiva il romanzo è un ibrido non perfettamente comprensibile, proprio perché collocato a cavallo di più generi ben distinti. Alle narrazioni avventurose e appassionanti che ne sono la colonna portante, fa da contraltare la critica sociale e teologica, l’allegoria crudele della nostra società.
Proprio per questo motivo il mio giudizio, per quanto positivo, resta in sospeso in attesa di scoprire come si evolverà la storia e quali saranno le conclusioni finali a cui deciderà di giungere l’Autore.
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Molto coinvolgente e originale
Mallory è una ragazza che in seguito a tragici eventi ha avuto problemi di droga. Il suo percorso di recupero, dopo essersi disintossicata, prevede che cominci con qualche impiego e tramite il suo sponsor riesce ad avere un colloquio con la famiglia Maxwell che cerca una bambinaia per il loro figlio. Ottenuto un pò a sorpresa l'incarico Mallory inizia ad occuparsi di Teddy un bambino di 5 anni dolcissimo, curioso, intelligente che ha da poco sviluppato una passione sfrenata per i disegni , ne fa di continuo e li consegna a Mallory come regalo quasi ogni giorno.
Teddy ha una amica immaginaria, Anya che dorme sotto il suo letto, questa situazione non preoccupa minimamente i genitori del bambino che la considerano una stranezza abbastanza comune a quell'età .
In effetti tutto sembra perfetto : Teddy è un amore di bimbo, i genitori gentili e premurosi anche con Mallory, la casa una meraviglia circondata dai boschi, le giornate trascorrono serene tra giochi , bagni in piscina, pisolini pomeridani e la sera Mallory va a dormire in un piccolo cottage a poche decine di metri dalla casa dei Maxwell .
Poi un giorno i disegni di Teddy iniziano a cambiare, diventano più cupi ed inquietanti, lo stesso bambino a volte sembra non fidarsi del tutto di Mallory, è meno sereno e origliando attraverso la porta della stanzetta di Teddy, Mallory è sicura di sentirlo parlare con qualcuno che però non c'è, Anya sembra interagire silenziosamente con Teddy e con i suoi comportamenti.
A questo aggiungiamo una vicina di casa parecchio singolare che parla di cose strane e preoccupanti, dileggiata dai Maxwell che la ritengono una svitata.
Quando però la situazione di Teddy peggiora e i disegni sembrano fatti da una mano più "adulta", diventano piccole opere d'arte quanto a realismo e precisione dei dettagli , Mallory decide di parlarne con i genitori del bambino ma diventa lei stessa oggetto di preoccupazione per il suo stato mentale .
La vicenda come è facile capire sconfina abbastanza in fretta nel paranormale in un crescendo di tensione fino ad un finale dai risvolti sorprendenti che spiegherà tutto, i disegni di Teddy sono parte integrante della storia e vengono mostrati tra le pagine del libro rendendolo originale e coinvolgente.
Quando si parla di spiriti e paranormale spesso si cade nel "già letto" o in clichè banali, il merito dell'autore è stato di riuscire a catturare l'attenzione fino in fondo con una conclusione degna di questo nome.
Anzi...da un certo punto in poi non riuscivo a smettere di leggere.
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Molto bello
Anni '30 Vallo di Diana al confine tra Campania e Basilicata si svolgono le vite della famiglia Trezza, lavorano la terra affittata loro dai proprietari e se la passano dignitosamente meglio di tanta povera gente che tira a campare come può , come la famiglia Pinto.
Cono Trezza è il primogenito, un ragazzo atletico, timido, buono e con un profondo senso di giustizia , Serenella Pinto è la più grande della famiglia, è una bellissima ragazza solare che riesce a smuovere la timidezza intrinseca di Cono.
I due ragazzi si amano e fanno progetti ma le loro famiglie sono guardate con sospetto dalla gente , la famiglia d Pinto perchè tacciata di essere socialisti, la famiglia Trezza per una adesione troppo tiepida agli ideali e alle pacchiane manifestazioni fasciste.
Sono tempi diffcili, il fascismo comincia a muovere i suoi artigli sulla vita sociale del paese, chi non si adegua nella migliore delle ipotesi viene messo da parte se non addirittura punito con botte o ostracismo.
Esempio della prepotenza e protervia del regime è Romano, figlio del Podestà, allora una figura di una certa importanza sociale, un ragazzo arrogante e cattivo che sfrutta l'influenza del padre per dare libero e impunito sfogo alla sua stupidità. Più volte ha modo di scontrarsi con Cono del quale ha un timore di fondo dovuto alla forza atletica del ragazzo e al fatto di aver già preso una certa "ripassata" dallo stesso, Romano provoca Cono ma mai direttamente da buon vigliacco.
Ma una notte la situazione precipita, Romano fa qualcosa di terribile e Cono , che lo coglie sul fatto, lo picchia a sangue.
Il ragazzo è costretto a dire addio a Serenella e a fuggire dal paese, finirà per arruolarsi ed essere deportato allo scoppio della seconda guerra mondiale. Nel campo di concentramento il pugilato è considerata un'attività importante , la praticano le guardie e soprattutto i detenuti, un modo per usarli per rendere interessante i tornei in cui i poveri deportati, fiaccati dalle condizioni disumane in cui vivono con lavori massacranti, poco cibo e nessuna cura alle malattie , finiscono per diventare carne da macello.
Non Cono, che non ha mai boxato in vita sua ma ha un fisico da atleta allenato dal duro lavoro nei campi, ed è sostenuto nello spirito dalla promessa fatta a Serenella la notte in cui hanno dovuto separarsi "tornerò da te e ti renderò felice".
Il pugilato diventa per molti una possibilità di riscatto, il giovane Cono , che nonostante le privazioni stende i kapò sul ring come fiossero pupazzi , diventa una specie di giustiziere , toccanti i momenti in cui i compagni di baracca gli mettono da parte qualcosa del quasi niente delle loro razioni quotidiane, magari un pezzo di pane duro, perchè lui possa essere più in forze quando combatte.
Marone punta molto sui rapporti umani tra i prigionieri, in particolare la complicità tra Cono e un ragazzo romano un pò più grande di lui , Palermo, che lo sostiene e lo accudisce come un fratello maggiore, tenedone a bada gli impeti pericolosi con l'obiettivo di riuscire a sopravvivere a quella prigionia e tornare ai propri cari. In quello che è uno dei posti più terribili del mondo Marone racconta quella che è una grande storia di amicizia, vera, essenziale, senza troppe parole, fatta di gesti tutti importanti, direi vitali, in un mondo in cui molti persero la famiglia trovarono dei fratelli, uniti dall'istinto di sopravvivenza ma soprattutto da un sentimento di umana fratellanza .
Finale emozionante , l'autore è riuscito a tornare su un tema trattato ormai innumerevoli volte in letteratura con la sua sensibilità leggera e incisiva.
“Spossessato d’ogni bene, denudato, intorpidito e umiliato, avrebbe affrontato la tempesta con in testa una preghiera quotidiana tra le tante, che la paura della morte
non gli togliesse l’unica cosa che gli era rimasta al mondo, la sua irrinunciabile dignità.”
Molto molto bello.
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Intrighi d’amore e scambi d’identità
P.G. Wodehouse è uno dei più celebri e prolifici interpreti della commedia umoristica inglese, capace di giocare con le atmosfere patinate dell’aristocrazia britannica condendole con ironia, arguzia e una serie di improbabili peripezie tra cui i suoi personaggi devono destreggiarsi. Molti di essi, tra l’altro, ricorrono in diverse delle sue numerosissime opere dando vita a vere e proprie serie narrative.
Questo romanzo, in particolare, fa parte del filone che vede protagonisti Bertie Wooster, ricco ed eccentrico perdigiorno, e il suo maggiordomo Jeeves, in grado con le sue ingegnose trovate di trarlo sempre in salvo da ogni impiccio. La trama è tutta qui: intricati scambi di identità, divertenti errori e problemi banali, che a Bertie e ai suoi altrettanto sciocchi e sfaccendati amici, vagamente sganciati e sconnessi dalla realtà, appaiono determinanti e insormontabili, e che Jeeves prontamente risolverà.
La rappresentazione è satirica, sì, ma una satira deliziosamente fresca, che non corrode ma sbeffeggia con garbo. Non si tratta a mio avviso di una lettura che lascia traccia nel cuore, forse mi aspettavo le battute geniali delle commedie di Oscar Wilde o una trama coinvolgente a cui potermi appassionare, ma si tratta comunque di pagine gradevoli, spensierate e stilisticamente di qualità, che consentono di lasciarsi alle spalle per qualche ora i problemi della quotidianità.
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Padre Yarvi è il più scaltro, l'ho capito
Quest'anno sto dedicato decisamente poco spazio alle serie, rispetto ai volumi autoconclusivi, però ci tengo per lo meno a continuare quelle già cominciate. Tra le altre, è il caso della trilogia Il Mare Infranto, cominciata lo scorso febbraio con "Il mezzo re"; un inizio più entusiasmante di quanto la premessa lasciasse intendere, soprattutto per la presenza di una trama chiara e grossomodo solida da seguire, elemento non scontato nella prosa del caro Joe. Ironicamente una trama -fosse anche oscura e traballante- è proprio ciò di cui si sente la mancanza in "Mezzo mondo", in cui i personaggi sembrano mossi da tutto fuorché dalla loro volontà.
Il nuovo romanzo si ambienta tre anni dopo lo stupefacente finale del primo volume e porta con sé anche due nuovi punti di vista, dei quali leggiamo a capitoli alterni. Da un lato abbiamo Hild "Thorn" Bathu, una giovane determinata a diventare una guerriera rinomata come suo padre, e dall'altro Brand, un tempo apprendista fabbro ma ora diventato a sua volta aspirante combattente; i sogni di entrambi vengono però contrastati dal dispotico Maestro Hunnan, e questo li fa finire sotto l'ala (non troppo) protettrice di Padre Yarvi. Il Ministrante del Gettland ha infatti bisogno di persone coraggiose che lo accompagnino in una missione verso sud, dove spera di trovare potenti alleati nella guerra imminente contro il Gran Re.
La sarcastica e parecchio sopra le righe prosa di Abercrombie non piacerà a tutti, ma io la trovo sempre divertente, specialmente quando si arriva alle esagerate prove di forza fisica date dai suoi personaggi. Ed anche questi ultimi si confermano un solido punto a favore: ho trovato apprezzabili sia i vecchi caratteri che tornano in scena sia i nuovi entrati, perché tutti riescono a ritagliarsi uno spazio per quanto piccolo ed a risultare memorabili per le loro particolarità. Sull'intero cast brillano però i due protagonisti, ai quali viene riservato un approfondimento psicologico molto più curato, facendo pian piano chiarezza sul loro passato e su quale sia il ruolo adatto a loro all'interno del tumultuoso Gettland.
Altro punto a favore è l'ambientazione, che in confronto al capitolo precedente ottiene una sostanziosa espansione. Al fianco dei personaggi usciamo dai confini del Mare Infranto per esplorare i territori dell'impervio principato di Kalyiv e dell'afoso Impero del Sud; luoghi che non si limitano a fare da sfondo inconsistente alle vicende ma diventano parte fondamentale di esse, anche perché veniamo messi a conoscenza di nuove usanze e ammiriamo architetture inedite, tra gli altri dettagli. Fra i pregi mi sento poi di includere il tono più maturo dato alla narrazione, seppur con una piccola riserva: il target infatti non è cambiato, e per questo alcune delle scene risultano a mio avviso eccessive.
Passando ai motivi per cui, pur reputando godibile la lettura, non l'ho trovata all'altezza del primo libro, troviamo la già citata trama. Nonostante sia Thorn sia Brand compiano una crescita personale durante l'anno in cui si ambienta la storia, ciò che fanno non è quasi mai una conseguenza delle loro intenzioni: si trovano ad essere delle marionette nelle mani di Maestro Hunnan, Padre Yarvi, antagonisti assortiti e -più in generale- dell'autore, il quale li fa spesso arrivare in luoghi dove non avrebbero davvero ragione di trovarsi se non per la necessità di piazzarvi un POV all'uopo.
A questo intreccio poco omogeneo si aggiungono poi dei passaggi esageratamente repentini tra un capitolo e l'altro (non si tratta più di lasciar passare qualche giorno, ma mesi interi!) ed un'attenzione eccessiva nei confronti della sottotrama romantica. Quest'ultima ha inoltre il demerito di focalizzare il proprio conflitto su delle incomprensioni degne di una commedia degli equivoci, che personalmente mi hanno trasmesso un forte second hand embarrassment.
Come ultimamente sembra capitarmi una volta sì e l'altra pure, l'edizione italiana rappresenta un ulteriore ostacolo all'apprezzamento di questo romanzo. Il lavoro di traduzione si dimostra di nuovo approssimativo -in particolare nella coniugazione dei verbi- e costellato da refusi, perfino nei nomi dei luoghi riportati sulla mappa! mappa che tra l'altro non troverete aggiornata per includere le nuove ambientazioni, come invece è stato fatto nella versione inglese. E per ultimo voglio menzionare un elemento che si trova invece ancor prima dell'inizio, ossia la sinossi; oltre ad essere immotivatamente lunga, quella scelta da Mondadori semplicemente non presenta la storia in modo adeguato, ponendo l'attenzione su Yarvi ed in parte su Thorn mentre Brand (il coprotagonista!) viene appena nominato. Costava tanto mettere un po' di attenzione in più e scrivere un'introduzione coincisa e veritiera?
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LO SCANDALO DEL VERO
Uno spettacolare pugno alla bocca dello stomaco. A sferrarlo è uno scrittore cui soltanto la realtà dell'uomo, con le sue fragilità, fobie e meschinità interessa davvero. Niente infingimenti, niente edulcorazioni. Solo schietta e violenta realtà. E se deve essere scandalo, che scandalo sia.
"Il lamento di Portnoy" in questo è semplicemente devastante. Attraverso l'espediente di una prolungata seduta psicanalitica, il protagonista Alex Portnoy racconta, con la veemenza dell'urlo di Munch, le sue ossessioni erotiche, le oscure depravazioni e le raccapriccianti pratiche onanistiche. Non c'è spazio per giri di parole o sottintesi accomodanti: la realtà è oscena e soltanto un gergo da bordello può renderne l'idea in modo compiuto.
Alex è malato e sa di esserlo. Un erotomane senza dignità, capace di calpestare spietatamente le occasionali vittime del suo desiderio. Non cerca giustificazioni. Al più rincorre una possibile via di uscita.
Qualche attenuante a ben guardare ci sarebbe. Cresciuto in una famiglia ebrea, Alex è bombardato fin da bambino con continui richiami alla responsabilità e alla stretta osservanza di doveri morali che il suo status di giudeo comporta. Gli ossessivi formalismi cristallizzatesi in millenni di storia ebraica sono come enormi macigni che gli pesano sulle spalle.
Lui si ribella, certo. Appena può sfugge al soffocante abbraccio di una famiglia e società oppressiva e claustrofobica. Si proclama non credente. Rivolge inconsciamente il suo sfrenato desiderio sessuale verso donne non ebree (shikse) alla disperata ricerca di essere accettato da una società "altra".
Eppure la fuga non riesce mai completamente. Inevitabile tributo a quella educazione che lo voleva vincente ed integro, la sua carriera professionale porta Alex a ricoprire prestigiose cariche pubbliche ammantate altresì da un nobile impegno sociale. Agli occhi della società benpensante, egli realizza quell'ideale di uomo di specchiata moralità e primo della classe cui era evidentemente predestinato.
Quale stridente contrasto con quella seconda inconfessabile e sconcia natura! L'universo ebraico, con la sua millenaria tradizione e il suo simbolismo opprimente, alimenta in lui un costante conflitto interiore tra l'uomo che avrebbe dovuto essere e lo sporcaccione che invece è diventato.
Roth si muove su un crinale stretto e difficile. Chi legge è scioccato dal linguaggio sguaiato e scurrile nonché dalla crudezza delle immagini proposte. Il rischio di scadere nella volgarità fine a se stessa disgustando l'incauto lettore è elevato.
Che ciò non avvenga è in parte dovuto al registro grottesco cui l'autore ricorre per smorzare la violenza espressiva ogni qual volta si rischi di superare i limiti della decenza. In altra parte sono la raffinata ironia ed il graffiante sarcasmo (anch'essi tratti imprescindibili della cultura ebraica) ad alleggerire i toni ed evitare che tanta abiezione umana disgusti ed allontani. E così nel tratteggiare la famiglia middle-class ebraica newyorkese Roth sembra quasi riecheggiare il Woody Allen di Radio Days.
Soprattutto però, ciò che rende questo romanzo un capolavoro invece che un libro trash, è l'adesione senza compromessi alla realtà e quindi la percezione di verità che chi legge ne trae. Una verità non mediata che svela una umanità messa ostentatamente a nudo. In questo Roth è un assoluto maestro.
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Il thriller matrioska
Hannah è una scrittrice australiana che ha avuto un discreto successo con i suoi romanzi mistery: ha venduto parecchio, anche negli Stati Uniti. Leo, invece, è un suo fan sfegatato; vive a Boston e, pure lui, si cimenta nello scrivere libri, ma con molto meno successo editoriale: il suo romanzo, ormai, ha collezionato sin troppi rifiuti. Così Leo si consola scrivendo lettere su lettere alla sua autrice preferita, la quale, condiscendente, gli invia, in anteprima, i capitoli della sua nuova opera, ricevendone consigli, suggerimenti relativi alla città di Boston (dov’è ambientato) e sproni a continuare.
“Omicidio in biblioteca”, dell’australiana-cingalese Sulari Gentill, è uno strano romanzo che dei thriller o dei polizieschi classici ha solo la parvenza esteriore, senza averne anche la carica emotiva e senza suscitare la curiosità e il mistero che ci dovremmo aspettare.
In effetti si tratta di un inconsueto libro matrioska, ove lo strato esterno è costituito appunto da questo rapporto epistolare tra il misterioso Leo Johnson di Boston e la scrittrice australiana della quale non sentiamo mai la voce, ma di cui leggiamo, assieme a Leo, i capitoli man mano che vengono redatti.
Più all’interno troviamo, poi, la storia, raccontata da Hannah; quella di Winifred Kincaid (per gli amici Freddie) — giovane scrittrice australiana che si trova a Boston grazie a una borsa di studio per la letteratura e che si sta impegnando a scrivere un romanzo thriller ispirandosi alle vicende che le stanno accadendo — e di tre giovani da lei conosciuti nella Boston Public Library: Cain McLeod, scrittore con già un successo all’attivo, ma con un passato oscuro, Marigold Anastas, studentessa di psicologia super tatuata, ma fragile come un biscotto, e Whit Metters svogliato studente di diritto con una falsa sicurezza di sé.
Ancora più all’interno in questo gioco ad incastri, c’è il romanzo di Freddie: perché l’occasione per conoscere i suoi tre nuovi amici, le è stata data da un urlo risuonato in biblioteca dove si trovava per concentrarsi. Il grido era stato lanciato da una ragazza trovata poi morta in una delle sale. Così Freddie cerca di ricavare un mistery da questo fatto tragico e dalla personalità dei suoi nuovi amici e nel frattempo di indagare, come investigatrice dilettante, su chi possa essere l’autore del crimine. L’autore, tra l’altro, potrebbe proprio essere una delle sue nuove conoscenze, come lei stessa ci anticipa nei suoi scritti.
Più all’interno ancora ci sono il passato turbolento e misterioso di Cain e quello delle persone che, da giovane, ha frequentato e conosciuto: peraltro anche lui era arrivato al successo letterario con un libro autobiografico sulla violenza e la vendetta. Ma pure l’ossessiva passione di Marigold per Whit e le storie d’amore che si intrecciano e ingarbugliano con le indagini della polizia, e i sospetti reciproci hanno un loro corso semi-autonomo. Insomma, sono anch’esse, altre, tante “bamboline” inserite l’una nell’altra.
Non conosciamo nulla del romanzo di Freddie, se non quello che lei ci racconta, ma si può facilmente intuire che ricalchi, come un’ombra proiettata su un muro, le vicende che la vedono come protagonista. Insomma, abbiamo una aspirante scrittrice (Freddie) che altri non è che l’alter ego di una scrittrice affermata (Hannah) a sua volta alter ego dell’unica autrice in carne ed ossa (la Gentill).
La matrice poliziesca si sposta continuamente in avanti e indietro su tutti questi livelli, non mancando neppure di coinvolgere il livello più esterno, quello di Hannah e Leo, cioè, in teoria, quello della vita reale. Tuttavia nessun livello riesce a raggiungere un vero pathos che coinvolga e attragga.
Così, se, da un lato, ho trovato l’idea di partenza abbastanza originale e ben trovata, purtroppo, però, a mio avviso, la realizzazione non è risultata all’altezza dei propositi.
La vicenda poliziesca è solo imbastita e neppure con troppa cura. In alcuni passaggi prosegue in modo fiacco, svogliato e, anzitutto, impacciato. In generale la trama è prevedibile, abbastanza banale e impalpabile. Ma soprattutto, m’è parso che la costruzione generale sia troppo approssimativa e non regga a una attenta analisi sulla logica conseguenzialità degli accadimenti. Ma, se c’è una qualità essenziale in un thriller, è proprio la precisione con cui il meccanismo narrativo si muove e agisce; qui la debolezza e ingenuità dell’impalcato è sin troppo evidente.
Lo stile è decisamente semplice e abbastanza immaturo. La stessa Boston ci viene descritta come potrebbe farlo chi la conosce solo attraverso le descrizioni altrui o dopo una sbirciatina rapida a Google Maps. In definitiva il romanzo di Hannah è piuttosto povero e i capitoli, sin troppo brevi e senza un vero approfondimento di personaggi, luoghi e situazioni, sono interrotti con fastidiosa frequenza dalle lettere di Leo, il quale, addirittura, tenta di spoilerare gli sviluppi futuri della trama o di forzarne lo svolgimento verso quelle che sono le sue speranze di autore fallito. L’effetto che ha suscitato in me è una irritazione generale per i suoi reiterati puntigli. Che poi, alla fine, anche questa sua ostinazione trovi una motivazione finale nell’epilogo, è insufficiente a rendere graditi gli intermezzi.
Traendo le conclusioni da quanto sopra non mi sento di promuovere a pieni voti questo romanzo. La Gentill è autrice affermata in Australia e con un buon seguito di pubblico, mentre questo è il primo libro pubblicato in Italia. Mi viene solo da augurarmi che questo romanzo non rappresenti il meglio della sua produzione, perché è un’opera molto acerba e piena di difetti, anche se non è del tutto immeritevole di lettura.
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Il rovescio delle fiabe
Ma davvero siamo convinti che le fiabe siano racconti gratificanti per bambini, dove bellissime principesse incontrano sempre il loro fascinoso principe Azzurro e dove tutti, proprio tutti, alla fine, vivono felici e contenti?
Ormai siamo avvezzi alla versione disneyana delle fiabe (mi raccomando “fiabe”, da non confondere con le “favole” morali di Esopo e Fedro), ma Cenerentola non era solo quella povera, sventurata ragazzina che veniva bullizzata dalle sorellastre a cui normalmente pensiamo; Raperonzolo (o Petrosinella, come la chiama Basile) non era una nobile principessa rapita da una perfida strega per sordidi motivi e il suo amore per l’impavido principe era tutt’altro che platonico; Cappuccetto rosso, forse, non riusciva a spuntar fuori viva dalla pancia del lupo e non è escluso che il bel principe che svegliò la Bella Addormentata nel bosco prima, quand'era incosciente, l’avesse stuprata e, poi, dopo, si fosse reso colpevole di bigamia.
In sostanza i finali di queste storie, nelle loro versioni originarie, erano molto meno mielosi, romantici e sdolcinati di quanto supponiamo e di quanto ci hanno insegnato i lungometraggi a cartoni animati americani.
Riesaminando i testi scritti da Giovan Battista Basile (Il cunto de li cunti), Charles Perrault (I racconti di mamma oca) e dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm (Fiabe), l’A. ci fa riscoprire il vero senso, cruento e terrifico, di questi racconti fantastici, tipici della cultura europea; in Oriente le storie avevano un contenuto e un andamento del tutto diverso.
Le fiabe si sono state trasmesse prima attraverso la tradizione orale, che era ancor più truculenta di quanto non lo siano stati, poi, i racconti su carta. In seguito quelle storie il cui originario scopo era quello di intrattenere gli adulti attorno al focolare, mentre si terminavano gli ultimi lavori della giornata agricola, divennero oggetto di trasposizione letteraria a opera di quei famosi favolisti, a motivo di sollazzo per le corti nobiliari europee o, infine (nei Grimm), quale tentativo di conservare delle tradizioni popolari etniche. Ma nei vari passaggi molto della tematica e dello spirito iniziali s’è perso o è mutato in qualcos’altro.
Questo libro godibilissimo ci mostra il vero lato oscuro delle fiabe più tradizionali. Sebbene abbia la veste grafica di una lussuosa graphic novel, con copertina in splendida quadricromia e pagine labbrate in oro, in realtà è una accurata analisi filologia, storica, etnica, semantica e psicologica delle storie che ci sono state narrate quand’eravamo bambini. E le scoperte a cui ci conduce sono davvero sconvolgenti anche per chi abbia memoria di alcune delle fiabe dei Grimm nel testo classico.
Dal riesame critico dei testi originali dei Grimm, di Perrault e di Basile apprendiamo che Cenerentola (o Zenzola per Basile) in effetti era una bambina subdola che s’era macchiata pure d’omicidio e, alla fine, viene premiata (ingiustamente?) mentre le due sorellastre subiscono (in alcune versioni) una crudele punizione; che la vendetta di Biancaneve sulla strega cattiva è atroce come lo erano le più terribili torture medievali; che Barbablù era sì uno schifoso femminicida (come si direbbe ora), ma che in fondo, le sue vittime se l’erano pure andata a cercare. In ogni caso in giro per il mondo delle fiabe c’erano molti altri personaggi (e non solo gli orchi) che facevano a gara con lui per crudeltà efferata e brutale malizia, amputando braccia alle sorelle o smembrando donne innocenti per mera gelosia. La malvagità e il sesso sfrenato, poi, non mancavano mai in quel loro mondo incantato.
Il libro analizza gli scopi e il senso vero delle fiabe, partendo dalle labili tracce lasciate dalla tradizione orale dei narratori (anche della Cina, lontana da noi nel tempo, nello spazio e nelle tradizioni) per giungere sino alla edulcorazione finale impressa dalla tradizione Disney.
Se le fiabe evolvettero sino a diventare un cupo, cruento monito per le giovani generazioni, con esempi orrorifici e cruente punizioni che dissuadevano dal deviare dalle regole morali usualmente accettate, non è affatto detto che la loro morale fosse impeccabile.
Per quanto riguarda l’insegnamento che sarebbe dovuto promanare da esse, infatti, oggi noi avremmo più di una obiezione da sollevare sulla morale delle fiabe di Basile e Perrault,. Anzi in alcuni casi il precetto che viene fornito ci lascia perplessi se non del tutto sgomenti per l’etica che vorrebbe imporre.
Questa analisi attenta, curata e documentata è contrabbandata dall’A. e illustratrice in modo scaltro con tavole disegnate con un tratto delizioso e aggraziato, con scenette lievemente caricaturali esplicitate da fumetti con battute di salace umorismo, di satira intelligente e con divertenti, ma glaciali battute, che trasformano quello che, in diversa veste, potrebbe essere definito un tedioso trattato di saggistica letteraria, in un godibilissimo libro da leggere e guardare con piacere e interesse.
Unica obiezione, forse, è sulle conclusioni finali che prende. In esse si pretenderebbe di stigmatizzare, con puritano dogmatismo moderno, quelle novelle osservandole da una prospettiva che oggi si definisce “woke” e che vorrebbe farci sentire colpevoli per le ingiustizie, il razzismo, le disuguaglianze di genere, economiche e sociali che in esse si evidenziano. Tuttavia non dobbiamo mai dimenticare in quali tempi venivano raccontate quelle storie: nel XVII secolo (quando scrivevano Basile e Perrault) alle donne era riservato un mondo ben distinto da quello degli uomini e non necessariamente più disprezzabile, anche se il massimo obiettivo finale a cui potevano ambire era il bel matrimonio con un ricco giovane.
Gli omosessuali e quelli che, genericamente, vengono oggi definiti “queer”, rientravano nella categoria dei fornicatori, puniti dalla legge degli uomini e da quella divina. I mori, per l’immaginario dell’epoca, erano le popolazioni mussulmane con le quali lo scontro era continuo senza esclusione di colpi da nessuna delle due parti. Quindi prima di giudicare con la morale odierna, è necessario ripensare al contesto storico in cui le fiabe furono scritte.
Salvo questa precisazione, ho trovato il libro molto interessante e di piacevole e istruttiva lettura. Ovviamente, però, è sconsigliabile alle giovani generazioni come, del resto, le vignette della seconda pagina esplicitamente avvertono, ma per un lettore adulto e preparato può essere fonte di sorprese e interessanti insegnamenti. Da leggere con attenta visione disincantata. Tra l’altro stimola la curiosità: sulla scia di quanto appreso, io sono stato spinto a prendere in mano “Il cunto de li cunti” di Basile per rileggere nella versione prima le storie, ad esempio, della “Gatta Cenerentola” o di “Petrosinella”.
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Passato nel presente…
Un segreto condiviso e taciuto in un giorno d’ infanzia, una madre da quel momento assente, una sparizione misteriosa conservata dentro di se’, che ha tracciato la propria essenza, angolo buio di presente e futuro.
Il dottor Édouard Malempin vive quell’ istante più o meno consapevolmente, ancorato a quei giorni, un sentimento assaporato per anni, incertezza, paura, sospetto, la convinzione che qualcosa sia andato storto, l’ improvviso allontanamento dalla propria famiglia mentre piccoli indizi della memoria riportano oggetti, sapori, odori nella casa della propria infanzia, fragranze smarrite nel presente.
Oggi, al capezzale del figlio Bilot, affetto da difterite maligna, giorni trascorsi tra la vita e la morte, in compagnia della moglie Jeanne con cui vive da quindici anni ignorandone l’ interiorità, ripercorre i giorni che ne hanno segnato l’ infanzia, la scomparsa improvvisa dello zio Tesson, una bugia che sa per certa, silenzi parlanti, l’ allontanamento dalla famiglia, la convivenza con la placida e florida zia Elise in seguito accusata di follia, il ritrovamento di un polsino con un gemello d’ oro, momenti di malattia e di assenza scolastica, l’ombra di una inquietante presenza accanto al proprio letto.
Quanto il presente restituisce il passato, immagini, sensazioni, comportamenti ne popolano le notti, che cosa gli altri vedono di lui oltre un buon padre e un buon marito, quanto il reale esiste veramente?
Eduard staziona tra il presente e il ricordo, un’ immagine semi cosciente sembra appartenergli, indizi più o meno presunti ricostruiscono giorni nebulosi e monchi del se’ bambino per concludere che gli unici anni di vita reale sono quelli dell’ infanzia.
Per anni ha cercato di ricostruire una figura paterna che per lui più conta ma che meno conosce, di cui fatica a ricordare il volto, un uomo affetto da innato egoismo, lui che deve tutto alla propria madre, dalla educazione ai vestiti di tutti i giorni, una donna alla quale oggi ancora chiede il conto, che guarda freddamente pur visitandola quotidianamente, impegnati in dialoghi scontati e ripetitivi che tuttavia sembrano appartenergli e ai quali non rinuncerebbero.
La parola castigo lo accompagna da sempre avvicinandolo alla propria colpa, un sentimento cresciuto e alimentato dal silenzio, dalle domande che non ha mai posto, una certa ritrosia a entrare nella camera del figlio come se con la propria presenza avesse paura di interrompere e rompere il sentimento condiviso da altri che non sembra appartenergli, dal quale si sente escluso,
…” perché ho imparato che tutto è fragile, tutto quanto ci circonda, tutto quanto prendiamo per la realtà, per la vita: la fortuna, la ragione, la quiete… e la salute, soprattutto!…. E l’ onesta’….
In certi giorni, se mi fossi lasciato andare…”
Malempin è un dettagliato e ossessivo viaggio a ritroso nel presente, un’ infanzia nebulosa che conserva la propria essenza in pochi momenti di assolutezza. L’oggi ripercorre e restituisce un trauma, tacitamente sepolto nei meandri della memoria, respiro di totale incertezza mentre le maschere del presente fingono di appartenerci nascondendo il vero volto della paura, un senso di menomazione, di esclusione, di assenza che si fa presenza, un’ apnea del profondo compagna di sempre che tuttora assaporiamo quotidianamente.
Ci sono immagini, fragori, fragranze, sembianze opalescenti venute da lontano, vissute, interiorizzate, scolpite dentro, a metà tra il sogno e la veglia, che raccontano interamente la propria storia, da sempre. Magistrale.
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Scava Teresa, scava
Ma chi è Teresa Ciabatti? Una donna incompleta, a pezzi, egoista, asociale, incapace di prendersi cura degli altri, di instaurare relazioni sane e di fiducia. Si conosce molto bene e sa come evitare il dolore. Un’inetta, incapace di fare le cose più semplici, come pagare la bolletta, tronca i rapporti perché si sente migliore; collezionista compulsiva di amori non corrisposti. Una donna che all’età di 44 anni decide di fare un viaggio a ritroso per scoprirsi, capirsi. Qual è il seme che ha generato questa donna incompiuta? Scoprire il suo passato; ci deve essere per forza un evento scatenante. Rivolge quindi uno sguardo verso le sue radici, ricordando, collegando, inventando. L’autrice tesse una insieme di eventi che portano all'auto fiction; quindi non tutto ciò che descrive è vero. Ma è senza dubbio il suo modo catartico per trovare il nodo che unisce il tutto. I ricordi si focalizzano sulla figura del padre: Lorenzo Ciabatti: il Professore, e sulla benevolenza che chiunque aveva nei loro confronti al punto da sentirsi “la più amata”. Ma chi era realmente quest’uomo? Il primario dell’Ospedale di Orbetello, un uomo ricco, di potere, un marito anaffettivo e calcolatore? Un benefattore? Un massone? Teresa scava nelle identità dei genitori e degli altri familiari, er scoprire che prima di diventare un padre e una madre erano persone diverse. Ma che poi, per una serie di eventi, hanno portato alla sua nascita e a una vita lussuosa ma piena di segreti, come quel giorno in cui il Professore è stato sequestrato. Il libro ci riporta indietro a quell’innocenza infantile di occhi che vedono la vita e le relazioni umane con una minima comprensione della stessa. E la nostalgia di una vita che non può più tornare e della difficile realtà adulta che si schianta con un forte impatto. Si può solo provare ad andare a ritroso, nel tentativo di trovare qualcosa.
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Cambiare il passato si può?
Andrea Acardi ha una bella famiglia e un bel lavoro e vive una vita apparentemente tranquilla, finché un giorno si ritrova incriminato per aver stuprato una compagna di classe del liceo, e aver legato e drogato moglie e figlio.
Andrea soffre fin da bambino di una patologia, allotriofagia, un disturbo del comportamento alimentare, che lo porta a ingerire sostanze come cotone, terra, gesso, legno…
Inoltre possiede la memoria del gusto
“L’impatto con un nuovo sapore non era solo un’esperienza delle papille: una scossa a mille volt. Il tale alimento inviolato sfiorava la lingua e arrivava la folgorazione; per un nanosecondo diventava tutto bianco.”
"Reviviscenza Significa ricevere il potere e le conoscenze che un altro immortale ha acquisito nel corso della sua vita…Equivale a una tempesta magnetica…Con i sapori mi succede lo stesso”
Ed ogni cibo lo riporta al momento in cui lo ha assaggiato la prima volta, e non è solo un ricordo (come le famose madeleines proustiane) ma diventa realtà del presente.
“Se ne mangio un morso piombo di nuovo là…Intendo letteralmente”
Per lui il cibo è un viaggio emotivo nel tempo, o meglio nel passato, con tutto quello che ne consegue.
A un certo punto della sua analisi con vari psichiatri che si succedono nel corso degli anni, scopre che questo disturbo in realtà può essere anche un dono, perchè rivivere in modo totale momenti del suo passato, può cambiare anche il futuro. Ed è così che Naspini sperimenta il multiverso: attraverso il cibo Acardi torna nel passato e crea ogni volta una sorta di sliding door, e una serie di mondi paralleli, e sperimenta una strada diversa della sua stessa vita, con l’intento di trovare quella migliore per sé e per la sua famiglia. Tutto ciò che lo muove è l'amore per la moglie e per il figlio, che vuole a tutti i costi salvaguardarsi dai momenti di dolore, senza capire che ciò è praticamente impossibile.
Il dubbio sta tutto nel capire se Acardi è solo uno psicopatico o un romantico sognatore che entra in un loop creato da lui stesso, per darsi un futuro migliore.
Il libro ovviamente è tutto un flashback, con diverse linee temporali, e in ognuna di esse si sviluppa uno scenario diverso. Stilisticamente discutibile perché difficile da seguire, e molto impegnativo, ma sicuramente quando si entra nel loop non si riesce ad uscirne, proprio come il protagonista, d’altronde chi non vorrebbe sapere cosa sarebbe stata la sua vita se a quel bivio avesse preso l’altra strada? Chi, se fosse possibile, non vorrebbe poter cambiare il futuro preservando se stesso e i propri cari dal dolore e dalle sofferenze della vita?
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Viola
Viola vive sola, non ha legami nè relazioni, ha perso da un anno sua mamma, suo padre non l’ha mai conosciuto. Il forte legame con la madre, venendo meno, l’ha completamente destabilizzata, è incapace di qualsiasi decisione, di intraprendere una strada e un percorso di vita soddisfacente.
“Faccio quello che devo, ma non so più quello che voglio”
Ha un laboratorio di essenze, ma fa consulenze olfattive, ossia una sorta di psicoterapia attraverso i profumi, che lei stessa insieme al suo amico Marcello compongono.
Profumi su richiesta che risvegliano ricordi e sensazioni sopite e curano l’anima.
Ma dagli incontri con i suoi clienti, si rende conto di non poter aiutare gli altri se prima non aiuta se stessa.
L’unico suo sfogo è nuotare, e nella sua routine quotidiana riesce sempre a ritagliarsi del tempo per mettere su una cuffia, e un costume e tuffarsi in acqua, dove la sua mente stacca dalla realtà e lei si perde solo nel conto delle bracciate ed è come rientrare nel grembo materno.
Quando sua madre la lascia ha quasi quarant’anni, ed entra in un periodo di profonda tristezza e immenso dolore, un vuoto che non riesce a colmare e a cui non sa dare un senso.
“Guardo la camera vuota. Penso al dolore che la riempie in certi giorni, al desiderio di sentire la sua voce, poterle parlare, che non si estingue. Rivedo il suo viso, lo spirito fragile e impavido, e vedo me stessa, mentre la guardo spegnersi senza potere nulla”.
“Poi la sofferenza si è trasformata in un sentimento incolore, un ronzio dell’anima. E infine il silenzio, questo silenzio, dentro di me.”
Gradualmente Viola si accorge di vivere la sua vita all’ombra di quella presenza/assenza, e piano piano riemerge, per istinto di sopravvivenza, cercando un’altra verità, nel passato, tra le cose non dette, o mai dette, e tra lettere e fotografie, recentemente scoperte, di cui ignorava l’esistenza.
Attraverso questa ricerca Viola scopre, in sua madre, un’altra donna, una donna di cui non sapeva nulla, e soprattutto scopre come anche lei è venuta al mondo.
E poco a poco la cortina si dirada e Viola riaffiora da quel dolore che la teneva legata a una vita che non era la sua, e che non voleva più vivere.
Un romanzo intimista, che ci regala profonde emozioni, avvolto da un filo di mistero che lo rende al contempo magico ma banalmente reale. Perchè poi la vita è anche banale a volte, e certe scelte sono legate al caso, ed è solo il nostro amore a renderla speciale.
Un romanzo che tocca le corde dell’anima, che insegna che il dolore si può superare, e che non c’è gioia senza sofferenza, semplicemente perchè non sapremmo riconoscerla.
Un romanzo scritto da una penna superba, che è quella di Carofiglio, Francesco, che non si smentisce mai, e non ci delude mai, un romanzo scritto da un uomo di quasi sessant’anni che narra l’elaborazione di un lutto di una donna di quaranta, e che ci sorprende soprattutto perchè noi lettori non ci accorgiamo della differenza. Lui stesso , in un’intervista, descrive così questa sua esperienza “ Sono entrato nella loro vita silenziosamente, provando a nascondermi, a non esserci mai, facendo sforzi di misura e silenzio, esercizi di equilibrio nelle stanze vuote. È durata mesi, anni, e adesso non riesco a dire nulla, di quelle giornate di vita in bilico, così dense, dolorose, inevitabili.” “Io so che scrivendo questo romanzo ho preso una decisione, ho corso un rischio, mi sono immerso in acque profonde, lasciando che l’energia fluisse senza filtri, nel buio, e alla fine, forse sì, oggi mi sento una persona migliore.”
E chissà forse anche noi…
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Un figlio preferito c'è sempre
Quando ho cominciato la lettura de "La custode di mia sorella" ero tanto esaltata per il titolo in sé (che continuo comunque a considerare una scelta geniale!) quanto dubbiosa del contenuto effettivo. Non si può negare che lo spunto sia decisamente interessante, ma capita spesso di leggere buone idee svilite in trame poco solide; da questo punto di vista, Picoult non mi ha propriamente deluso, ma ciò non toglie che da una premessa simile si potesse ricavare un romanzo più coerente e lineare.
La narrazione si apre su Upper Darby, città fittizia nello Stato del Rhode Island; qui vive tra molte difficoltà la famiglia Fitzgerald, causate soprattutto dall'aggressiva forma di leucemia che anni prima è stata diagnosticata alla figlia mediana Katherine "Kate". Letteralmente concepita per essere la donatrice perfetta per la sorella, la tredicenne Andromeda "Anna" si trova di fronte all'ennesima richiesta dei genitori: donare uno dei suoi reni per salvare ancora una volta la vita a Kate. In questo caso Anna decide però di opporsi, assumendo l'avvocato Campbell Alexander per intentare una causa di emancipazione medica contro la sua stessa famiglia.
Il volume è narrato in prima persona, alternando però diversi POV che mostrano le riflessioni di tutti i Fitzgerald, oltre a quelle di Campbell e della tutrice ad litem Julia Romano. Questa decisione inizialmente non mi convinceva troppo (specie per l'eccessiva retorica nei capitoli di Anna), ma pian piano ho realizzato che la cara Jodi era riuscita a rendere ben distinguibili le voci dei protagonisti. In generale, ho trovato caratterizzati in modo solido tutti i personaggi, attorno ai quali si sviluppano delle affascinanti dinamiche relazioni disfunzionali che sono forse il maggior pregio del libro.
Il volume è molto interessante anche per gli ottimi quesiti etici che suggerisce al lettore, a prescindere dal modo in cui l'intreccio li sfrutta: è giusto fare pressione morale su un donatore? o anteporre il benessere di una persona sana alla possibilità di salvarne una malata? oppure ancora concentrare la propria attenzione in via prioritaria su uno soltanto dei propri figli? Un altro pregio -decisamente inaspettato- si nasconde nella traduzione, che fornisce al lettore nostrano una gran quantità di utili informazioni socioculturali tramite note a fondo pagina. E per concludere questa carrellata di punti a favore, devo assolutamente nominare la partenza: le prime scene sono molto incisive, con Anna che prova a racimolare qualche soldo per poi presentarsi a Campbell, dando già un'idea della sua determinazione.
Questo incipit incisivo non viene però supportato dal resto della trama, anzi si percepisce quasi una lentezza narrativa, che si scontra nettamente con la teorica urgenza della donazione alla base della storia. Il rallentamento è dovuto in parte alla volontà dell'autrice di rendere ad ogni costo sensazionalistiche le sue scelte narrative, ma anche alla quantità di sottotrame inserite successivamente. Alcune di queste servono soltanto a distrarre e fuorviare (come nel caso del padre abusivo di Campbell), altre avrebbero effettivamente beneficiato di maggior attenzione per potersi amalgamare al resto dell'intreccio -e penso in particolare a quanto viene mostrato sul personaggio di Jesse, il figlio maggiore dei Fiztgerald-, e poi c'è Julia. L'inutile Julia, con i suoi immotivati pipponi moralisti, con l'ancor più inutile sorella gemella e con una delle romance più casuali e fuori luogo di cui abbia letto recentemente.
Altri demeriti a margine sono le battute inadatte al contesto (quella del cane guida soprattutto diventa fastidiosa dopo un po'), l'esasperazione delle disgrazie che capitano alla famiglia protagonista, la presenza ridottissima della prospettiva di Kate -di cui capisco la ragione, ma ritengo ugualmente che avrebbe meritato più spazio- e la scelta di limitare quasi sempre al passato il POV della madre Sara: sarebbe stato interessante scoprire i suoi pensieri prima del finale, anche perché gli altri protagonisti raccontano dei flashback senza per questo interrompere la narrazione al presente. E proprio l'epilogo condensa l'altra grossa critica al romanzo, perché a quel punto Picoult ha deciso di immolare sull'altare della commozione ad ogni costo tutte le riflessioni fatte prima sull'autodeterminazione; e le tirate paternalistiche ed inconcludenti durante il processo fanno da adeguato contorno.
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Chi ha ucciso Diabolik?
Francesca Fagnani, giornalista con articoli su politica e cronaca, è anche esperta conduttrice televisiva, e, devo dire, ha anche molto coraggio: scrive infatti soprattutto di mafia e criminalità, senza paura e senza reticenze. Questo è il suo primo libro, un lungo e dettagliato excursus, con tanto di nomi, cognomi e soprannomi, sui narcotrafficanti e sulle varie mafie che straziano Roma, imponendosi con violenza e spregiudicatezza.
Il libro si apre con un delitto: il 7agosto 2019 un pericoloso boss mafioso, Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik o Diablo, viene ucciso con un colpo di pistola alla nuca mentre, seduto su una panchina del Parco degli Acquedotti a Roma, era in attesa di qualcuno.
Un boss secondo solo a Michele Senese, detto O' pazzo, capo indiscusso di tutto il traffico di droga nella città: pur in carcere, Senese dettava legge tramite pizzini e sorveglianti compiacenti.
L'ombra di Diabolik aleggia su tutta la narrazione: intelligente, ironico, spietato, un narcos sfuggito al carcere, in grado addirittura di far pressioni sul presidente della Lazio, tramite il giocatore Chinaglia per acquisire la società, sempre in curva tra gli irriducibili. Alla sua morte, cordoglio dai tifosi, striscioni inneggianti, messaggi da altre squadre, a significare come la mafia sia in grado di infiltrare ogni ambiente e condizionare comportamenti sociali. Ma altri boss inquinano la vita della capitale: ognuno desideroso di acquisire potere, tramite alleanze strategiche, ricatti, protezioni. La droga è il grande traffico, fonte di arricchimento. Arrivano ingenti carichi dal Sudamerica, soprattutto nei porti di Fiumicino e Civitavecchia: l'autrice cita addirittura un carico di 7 tonnellate di coca, arrivato e scaricato nottetempo con l'aiuto di un'altra mafia nascente, quella degli albanesi. Una mafia arrivata a Roma come manovalanza e affermatasi piano piano in città, fino ad impadronirsi di interi quartieri: il suo capo, Elvis Demce, si distingue per spietatezza e ferocia. Una mafia sanguinaria, che si diffonderà anche nel Norditalia ed in Europa, seconda solo alla 'ndrangheta calabrese.
La Fagnani, da vera giornalista esperta di mafia e criminalità, non trascura nulla. Si addentra con precisione chirurgica nei rapporti più complicati tra i vari clan che si contendono i mercati illeciti, con tanto di nomi e cognomi, dai Casamonica alla banda della Magliana, da Francesco D'Amati (Zio Ciccio), anziano, "custode di tutti" e "pacificatore", a Nasca, distinto, rapidamente salito ai vertici perché amico del boss dei boss Senese ("poteva anche essere ministro") e a Matteo Costacurta, detto "il Principe", di famiglia altolocata, ma con l'istinto dell'assassino. Una carrellata di criminali ben assortiti, dediti soprattutto al lucroso traffico di droga ed al recupero crediti. Sono riportate intercettazioni e addirittura interviste che la giornalista riesce a fare ad alcuni di loro, senza trascurare il minuzioso lavoro di indagine e le scoperte che coinvolgono Diabolik: il "Diablo" è spesso citato, i motivi del suo assassinio variano di volta in volta, l'autrice indaga e ricerca da par suo e, alla fine, la verità emerge, anche piuttosto banale.
I personaggi citati dalla Fagnani sono tantissimi, gli intrecci complicati, le ricerche approfondite: il lettore a volte può perdere il filo della narrazione, ma il quadro complessivo della Roma criminale resta sconvolgente, dominato da una rete malavitosa capillare, che vive e prospera grazie soprattutto al traffico ed allo smercio di droga. Smercio che rende, come si sa, introiti milionari e che permette ricatti e connivenze di ogni genere.
Lo stile è prettamente giornalistico, da vero libro-inchiesta, secco, preciso, scorrevole, senza fronzoli. Pecca forse nell'eccesso di particolari che, anche se ben giustificati dall'indagine minuziosa su persone ed eventi connessi alla malavita, possono distrarre il lettore nella comprensione della trama narrativa.
"Mala, Roma criminale" è stato definito una "pietra miliare" per la conoscenza approfondita della malavita a Roma: una pietra miliare che ha costretto la prefettura ad istituire un servizio di vigilanza nei confronti della scrittrice, minacciata seriamente dalla criminalità organizzata. Una criminalità che induce a paragonare Roma a certe città sudamericane ("non è Tijuana, no: è Roma!) ed a far riflettere chi ancora si illude di poter sconfiggere agevolmente chi ha in pugno un mondo sotterraneo dove scorrono vagonate di droga e di soldi e che prospera anche grazie a protezioni particolari.
Un'inchiesta da leggere assolutamente, per rendersi conto e riflettere.
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Segreti
Nessuno è chi sembra. Girandola di personaggi. Girandola di maschere. Si potrebbe riassumere così questo thriller, scritto in maniera (forse, quasi) impeccabile a livello di stile, costruito come un puzzle, un vero e proprio mosaico. Forse un po' (tanto, troppo) lento nel ritmo, con tanti flashback che rallentano lo scorrere dell’adrenalina e che fanno perdere il mordente nel corso della lettura. L’autore è uno specialista nel costruire trame articolate e nel sorprendere, però il ritmo non è paragonabile a quello che altri scrittori sanno trasmettere ed è un elemento importante in questo genere di storie. L’intreccio di segreti, bugie e tradimenti lascia aperte diverse strade da percorrere per il lettore, che cerca di scoprire il colpevole ben prima del tempo, quasi sfidando lo scrittore. Lo scrittore ha posizionato tanti specchietti, che confondono e che un pochino stancano, perché sono fini a se stessi, solo per distrarre, appesantendo, un po' inutilmente, lo storytelling.
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Tra oroscopi e morti
«[…] Lunghi anni di infelicità degradano l’Uomo più di una malattia mortale.»
Janina Duszejko è una donna molto particolare. Eccentrica sessantenne vive isolata nella campagna, tra animali e boschi, crede nell’astronomia, ama Blake e ama tradurne le poesie, insegna inglese in una scuola primaria di un paese vicino e ha dei “Disturbi” che vanno man mano peggiorando a seconda del tempo che passa, dell’umore e delle circostanze in cui ella si trova. Vive sul limitare della foresta che segna il confine tra Polonia e Repubblica Ceca, sull’Altopiano circondato dalle Montagne Argentate che delimita la Conca del Klodzko, la donna, vive circondata e sommersa dalla neve in inverno, è abituata ad avere tutto a disposizione perché se vivi da sola in un luogo isolato, non puoi contare su nessuno, devi avere tutto l’occorrente per sopravvivere ed ancora ama le sue traduzioni e le difficoltà che vi ravvisa per la metrica e la ritmica delle parole, ama condividere quei momenti con pochi e selezionati amici come Dyzio o Bietolone, ama leggere le persone tramite gli oroscopi che redige, ama la sua vita fatta di piccole cose ma che la fanno considerare strana dagli altri.
È in questo scenario magistralmente dipinto che accade l’impensabile: un giallo, una morte inattesa, un evento violento e drammatico che riguarda il cacciatore di frodo che abita vicino casa loro e che sembra essere stato punito proprio da quella natura che spesso e volentieri violava. E seguono altre morti, inaspettate quanto inattese, morti che ancora una volta si traducono agli occhi della donna quale un conto da sanare da parte dell’uomo verso l’ambiente naturale. Perché a perire sono cacciatori, perché a perire sono uomini che violano le regole, che vanno oltre il bene, perché a perire sono i cattivi.
«[…] Esiste cioè una forma idealmente armoniosa verso la quale il nostro corpo tende d’istinto. Scegliamo negli altri le caratteristiche che potrebbero realizzare questo ideale. Il fine dell’evoluzione è puramente estetico, l’adattamento non le interessa proprio. All’evoluzione interessa la bellezza, il raggiungimento della forma perfetta in ogni configurazione.»
“Guida il tuo carro sulle ossa dei morti” di Olga Tokarczuk è un romanzo che prende per mano e conduce in quella che è una narrazione non immediata ma che si sviluppa poco alla volta, passo dopo passo, lasciando al lettore una serie di perplessità iniziali che si risolvono ed esauriscono nel finale. Nel tempo che passa nelle pagine di questo racconto, la protagonista si fa conoscere ed amare nonostante quelle che dovrebbero essere le sue perplessità, al contempo si sviluppa e snoda anche un giallo che solo nella sua conclusione si svela nell’arcano.
Per una buona parte del libro, però, il lettore si interroga sul dove voglia andare a parare l’autrice, è attratto e al contempo respinto dalla narrazione. Gli viene richiesta una buona dose di pazienza che la Tokarczuk ben gestisce e sviluppa. L’ambientazione è intrigante ma quel che alla fine davvero coinvolge e colpisce è ciò che si cela dietro la facciata e cioè una storia di vita e di solitudine, una storia di bruttezza umana e di sapore amaro che resta.
Premio Nobel per la Letteratura 2018 è Olga Tokarczuk, autrice che con questa sua fatica non delude le aspettative e lascia il segno.
«[…] Tutto è collegato a tutto, e tutti ci troviamo dentro una rete di corrispondenze varie.»
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'Il mare, il mare'
Pubblicato nel '35, questo libro rappresenta il periodo di Napoleone tra la fuga dall'Isola d'Elba alla disfatta di Waterloo e all'imbarco definitivo verso Sant'Elena.
J. Roth non intende però proporci un libro di Storia. A lui interessa sondare la 'verità poetica' nella figura storica di Napoleone, ora finalmente 'umano' .
Parallelamente racconta il destino di un oscuro personaggio femminile, Angelina Pietri, una delle tante donne 'innamorate' dell'imperatore.
Napoleone giunge al castello fra le acclamazioni del popolo; "tutto gli dava gioia e insieme brividi di sgomento. Gli pareva di essere finalmente ritornato e, nello stesso tempo, portato via da qualche bufera". "Ora si trova solo in mezzo a molta gente".
Una scrittura magnifica, maestosa e talvolta quasi solenne; a volte teneramente evocativa, come avviene per la prima comparsa di Angelina Pietri, quasi evocata dalla pioggia cadente, nel folto del parco, al cospetto dell'imperatore.
Poi Napoleone, che ora pare un rivisitato Adelchi manzoniano, "per la prima volta (...), da quando era salito al potere, provava la beatitudine della rinuncia", "provava oggi un primo barlume di quella felicità che viene dalla debolezza ed è donata dalla rassegnazione". Intanto "gli uccelli inneggiano al mattino trionfale" e "il sole (..) sorgeva da tempi immemorabili, come se nulla fosse accaduto".
Il compimento di una vita : "Ma il mare, signori, almeno quello vorrei rivederlo, perché ogni mare mi rammenta la Corsica" .
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romanzi a sfondo storico
Estetica dissolvenza
Una coppia noiosamente assorta in ripetute cadenze, una vacanza in una città di mare dettagliatamente reale e in parte immaginaria, un incrocio a quattro pericoloso, Colin e Mary, Robert e Carolin, cibo, passeggiate, sonno, sesso, lettura, silenzio, una cortesia all’ eccesso e una dose di sadismo figlia di un passato torbido e violento con un presente che lascia strascichi di sofferenze fisiche evidenti.
Colin e Mary, coppia di fatto, i figli altrove, una conoscenza profonda di se stessi e dell’ altro, un’ intimità da preservare gelosamente e di cui preoccuparsi costantemente, goffi e lenti movimenti condivisi, l’ attenzione ai minimi cambiamenti umorali, chiusi nella reciproca presenza, liti condotte in silenzio.
Un legame nato casualmente o forse pensato e costruito dettagliatamente, una galleria piena di oggetti esposti, stanze sconosciute e inafferrabili, intense fragranze, odori nauseanti, un’ infanzia di percosse e di amore vissuta dentro, un’ unione rafforzata da uno stato di acquiescenza, il giudizio sospeso nel cambiamento, la presenza di una macchina fotografica, la fredda assenza della vicinanza, una rinascita in cui vivere all’ interno del momento, incapaci di allontanarsi temendo che solitudine e pensieri intimi possano distruggere quello che si è creato.
Il turbine degli avvenimenti, in parte sconosciuti anche a se stessi, attimi degenerati in una violenza inaspettata e gratuita, in un sonno-veglia forzatamente indotto, in uno stato inafferrabile di estatica permanenza mentre si osservano dettagli di se’ dei quali non si era a conoscenza, si addentra in una bellezza primigenia adorata dai presenti, prima che il vuoto inafferrabile e molesto ricopra uno stato di totale dissolvenza.
Un breve romanzo di difficile collocazione laddove estetismo e accuratezza di forma sanciscono particolari definenti, personaggi sospesi nel flusso degli accadimenti, osservati dall’ esterno, che dialogano con se stessi, un senso inafferrabile all’ interno di una dimensione onirico-estetica-sentimentale.
Tutto ciò rivela un thriller sui generis, strutturato e sviluppato nella statica definizione del momento, cresciuto nell’ immaginario, accresciuto da una tensione latente sfociata nell’ ovvio, quando la stortura emotiva era già presente e la colpa pareva evidente, nel frattempo…
…” per un attimo il quotidiano prevalse, e lei ebbe una percezione minima del dolore che la aspettava. Si schiarì rumorosamente la gola, e il suono della sua stessa voce si portò via quel pensiero”…
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L'isola che non c'è
Una storia in frantumi ma senza lacrime. Elsa Morante è stupefacente nel lasciarci tra le mani un romanzo dal fiato spezzato, avviluppato in un terribile nodo alla gola che non si scioglie mai in pianto. Ha tutte le ragioni per farlo, perché l’età vissuta dal protagonista che mette in scena, si muove tra l’infanzia e l'adolescenza, un momento dell’esistenza che appartiene al sogno e si avvia, pian piano, al gioco sregolato dell’avere e del perdere di continuo, indirizzato verso una strada che parte da un bivio e irrimediabilmente arriva ad un altro bivio, in quanto ignorante, giovane e, di conseguenza, troppo indifferente ancora alla capacità autodeterminata nel prendere qualsiasi tipo di scelta. Inevitabilmente, nel percorso di Arturo Gerace, come il romanzo seguirà a raccontare, crescere significa diminuire la proporzione fantastica delle innumerevoli possibilità del mondo dell’infanzia, fino a ridurre la visione del reale ad un'inquadratura dolorosa e insopportabile, che chiede ostinatamente di sconfessare quelle “Certezze Assolute”, viste come i primi comandamenti di vita. Fin dall’inizio, il lettore è catapultato in un principio di favola. Arturo, detto il “moro”, grande avventuriero dalla mente affollata di terre lontane, profumi orientali, pirati all’arrembaggio, spedizioni nobili e lotte giuste, spera ben presto di partire per un meraviglioso viaggio al fianco del padre, Wilhelm Gerace, capitano fiero e superbo, che anima vivacemente la fantasia e l’amore del figlio.
Arturo vive come un selvaggio, solitario, nell’adorazione mitica di un padre, che ai suoi occhi si presenta come l’eroe più straordinario di qualsiasi leggenda mai raccontata.
Fino all’ultimo, e oltre la storia, Arturo, con il cuore ormai a pezzi, non riuscirà mai ad abbandonare quest’illusione mitica, che fin da bambino gli ha tenuto compagnia nei suoi giochi solitari. Dunque, solo come un bambino è capace di fare, Arturo costruisce ad arte, mistificando la realtà, il carattere egoista di Wilhelm, disperatamente malinconico, aggressivo e indifferente alla vita e alle cose, adattandolo ha un’enciclopedia mitica, portatrice di misteri profondi e nobili. Ogni vizio e difetto del padre si trasforma in un’inconoscibile e incontestabile virtù dell’eroe. Arturo, innamorato del prezioso mistero del padre, lo carica di magnificente santità, perché, nelle difficili contraddizioni del reale, è proprio l’assenza del padre e la leggenda del padre che costituiscono per lui la vera e unica figura paterna che adempie alle sue funzioni di paternità, dentro il godere di questo mondo fantastico.
Procida vive su una dimensione sospesa nel tempo, anch’essa affascinante protagonista di questa storia, non semplice sfondo, ma isola viva e parlante. Una Procida sempre al fianco di Arturo, che mostra i suoi segreti, i suoi spiazzi, le sue alte vedute, i suoi colori fiammeggianti, i suoi inverni superbi, le sue onde, a volte quiete, altre burrascose che si infrangono sugli stessi punti di quelle rocce consumate e antiche. Una Procida dal carattere contraddittorio, che mostra i suoi vicoli, gli ampi spazi e alcune curiose strade, che al principio del romanzo avanzano e ritornano di continuo, come figure familiari e che, durante la crescita di Arturo, arretrano e si nascondono alla vista, quasi venissero misteriosamente assorbite dall’isola stessa. Procida si rivela come un’amica sicura e, tuttavia, nasconde oscuri presagi, in una soporifera calma che, lunga tutto il tempo che Necessità richiede, attende la rivelazione e il compimento della profezia pronunciata alla nascita del protagonista. Arturo, infatti, più che vivere una vita, sembra camminare verso quell’unica via di destino profetizzata, miserabilmente distruttiva eppure unico agente identitario a cui sente di appartenere, come se al mondo esistesse un solo specchio capace di ricambiare il suo riflesso, e in questi pochi termini misterici e intraducibili si presenta l’intera furia tragica di questo romanzo.
Quell’Arturo che sembrava un’entità eterea e senza età, dalla pura essenza di un forte slancio verso forme di idealizzazione e trasfigurazione del reale, si avvia verso un cambiamento concreto, che si mostra immediatamente nella metamorfosi fisica di un corpo allungato, una voce irriconoscibile e che, una volta uscito dall’infanzia, porta gravosamente in cuore, all’improvviso e con terribile lucidità, tutto il peso dei suoi anni. La migrazione dal regno fantastico verso la via del reale, è segnata da un vento violento che lo spinge a far naufragio e lo costringe all’incontro con un nuovo, altro da sé, il quale assume le fattezze di una donna ancora acerba. La prima apparizione di questa figura femminile, si presenta come aliena e distante da Arturo, e quel pomeriggio d’inverno, attraccando a Procida, oltre a portare pochi bagagli con sé, conduce nel palazzo dei Gerace, con un vano tentativo di ripetizione, i racconti personali di un’intima esperienza familiare, la quale, al contrario, sembrava, fino ad allora, tenere severamente le distanze da Procida. In questa difficile esplorazione, in Arturo sfogano pulsioni conflittuali di gelosia, maternità e amore; tutte parole sconosciute, che danno vita a comportamenti istintivi, a cui il protagonista non riesce a dar nome. Il primo incontro tra Arturo e Nunziata è un ritrovarsi tra bambini, che sembra realizzarsi oltre un territorio fisico e localizzato, forse, ancora una volta un’isola, ma un’isola che non c’è, luogo in cui si produce innocenza, curiosità, dispetto, degnazione velata e scontro inarrestabile per la difesa delle cose più personali e a loro care.
L’incontro - scontro tra i due è simbolicamente rappresentato dalla condivisione di Wilhelm Gerace, uomo per lei, eroe per lui. La condivisione obbligata di questo essere, dapprincipio unico, porta Arturo ad un odio irrefrenabile nei confronti di quella che assume, per lui, il ruolo di “matrigna”, ma nello stesso tempo, agisce in lui con la forza propulsiva di un pendolo, che lo spinge, dall’altra parte, verso la curiosità di conoscere una natura femminile ancora inesplorata. La condizione tripartita di donna, nemica e madre sembra trovare risvolto nella notte del parto. Come un sogno impossibile da conservare, Arturo sovrappone alla figura della matrigna l’immagine di sua madre, in una notte che ha già vissuto ma non può ricordare. Proiettandosi nel passato, il protagonista, in quella notte annebbiata e terribile, correndo per portare soccorso alla donna, riavvolge il filo della propria esistenza e cerca di porre rimedio alla colpa originaria della sua nascita, la cui luce, ha portato in eterna ombra la sua giovane madre biologica.
La gelosia di Arturo si allarga ancora un po’ e sfocia in acque pure e incontaminate, il cui suono allo schiocco di baci, fino ad allora sconosciuti alla sua vita, ardono, adesso, di desiderio d’intimità e riconoscimento, come chi esige di appropriarsi di un onesto diritto di fronte alla giustizia per un'esistenza che chiede di esser degna di vivere.
Ma come può un essere umano destreggiarsi nelle cure e nelle attenzioni amorevoli di qualcuno, dopo aver abitato e vissuto una così grande solitudine? E’ una risposta difficile da dare, misteriosa, che aleggia in Arturo come un richiamo profondo di una voce estranea, che viene da chissà dove.
Questa voce interiore spinge il ragazzo a provare, per la prima volta, sentimenti palpabili, reali, mescolati nella confusione vorticosa del vuoto, del pozzo, metafora di un nulla che instilla in lui il nuovo desiderio di riempire e di colmare mancanze primigenie. Anche Arturo Gerace, come un valoroso eroe dell’epica, attraverso potenti farmakos, fa esperienza dell’al di là, nell’esplorazione di un regno inabissato che per lui non vale nulla, non ha significato alcuno, ma che gli è funzionale e di cui si mette al servizio, per cercare nel buio sotterraneo la strada dell’amore attraverso il mistero della morte.
In questo romanzo è presente uno dei baci più vertiginosi ed enigmatici della nostra letteratura. Queste labbra di fanciulli che si avvicinano, poi si incontrano e si premono fin dove la sazietà lo chiede, contiene il sapore dell’erba, dell’acqua del mare e del desiderio di vita. Lo si potrebbe definire un bacio colpevole? Ci sono tanti baci colpevoli nella letteratura, ma questo è forse uno tra quelli d’innocente colpevolezza, perché racchiude all’interno tutte le presenze dell’incontro con l’altro. E’ un bacio, infatti, travolto dalla forza materna e dalla pulsione erotica, due categorie impossibili da comprendere, se osservate come elementi separati, ma che agiscono in una forza complementare, quasi indistinta e mimetica, la cui reciprocità esplode in un’unica dinamo circolare, in cui il moto dell’una, trova all’interno la forza dell’altra. Un incontro tra la Madre e l’amante in un principio di contraddizione amorosa, inseparabile e folle.
Arturo, dunque, si separa dalle vaghezze di sogni lontani ed esplora le esperienze empiriche rivolte alla sessualità, al proprio dolore, al pianto altrui, al mistero della Madre e alla verità delittuosa del padre, le cui sembianze dell’uomo in carne ed ossa, visto e riconosciuto per quello che è, spinge Wilhelm Gerace ad uccidere, nell’unico duello epico che abbia mai combattuto in vita sua, quel doppio immaginifico, quell’eroe idilliaco, che il figlio aveva rivestito di un’armatura scintillante. La morte dell’eroe, spazzato via come un granello di sabbia, trasforma la favola di Arturo nel primo inganno originario, nella sua più potente tragedia. L’incapacità di Arturo di onorare e dare degna sepoltura a quell’eroe, da lui inventato, porta il suo cammino verso quel destino che Procida tanto attendeva, e che, come un Edipo accecato, con gli occhi nel buio, abbandona in un confine oltre la storia del romanzo stesso.
"Leggero"
"Leggero" e piacevole romanzo giallo storico con venature di thriller.
Scritto bene, con una buona trama ed alcune idee interessanti, ma anche con diverse "situazioni riciclate" da altri romanzi e film (Cliché usati), qualche caduta di stile (poche) ed alcune ingenuità evitabili che rendono l'insieme troppo prevedibile.
Il libro è colmo di enigmi "alla Umberto Eco" un po' troppo forzati che in alcuni casi sembrano proprio "inseriti a forza" tra le pagine.
Il protagonista è Ignazio da Toledo alla ricerca dell' l’Uter Ventorum, manoscritto proibito (che sembrerebbe in grado di donare potere inaudito grazie all’evocazione degli angeli) e del suo vecchio amico creduto morto Vivïen de Narbonne. Braccato dalla Saint Vehme una congregazione segreta, guidata dal temibile “dominus”.
Al suo fianco Willame il suo "fin troppo fedele" amico (sembra una macchietta) abile con la spada e coraggioso ai limite dell'impossibile e Uberto, giovane studioso, cresciuto nel monastero di S. Maria del mare a Venezia, il quale lascia sbigottiti per l'ingenuità (ma questo è molto più credibile vista l'età e la sua storia).
La storia nell' insieme è piacevole e si lascia leggere volentieri, come ho già detto è un buon romanzo scritto molto bene. Non mi sono piaciute invece le descrizioni dei duelli che risultano poco credibili ai limiti del "cartone animato per bambini".
Consiglio la lettura ma solo se partite senza grandi aspettative.
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Intrigante
Parigi 1824 : la Francia è in fermento politico , il potere della monarchia è messo sempre più in discussione dall'insoddisfazione popolare e da segrete trame per rovesciare
l'ordine costituito. Durante la festa di fidanzamento di Lucien Dauvergne, figlio di un deputato della Camera di fresca nomina , il ragazzo inspiegabilmente si suicida sotto gli occhi
della madre. L'ispettore capo della Suretè sotto le pressioni dell'influente deputato, che vuole approfondire le eventuali ragioni del tragico gesto, affida le indagini ad un giovane
ispettore della buoncostume Valentine Verne, abile investigatore inviso a buona parte dei colleghi per il suo carattere ombroso e i metodi giudicati poco ortodossi.
Valentin è impegnato da tempo in una indagine molto personale sulle tracce del Vicario una sinistra figura che abusa di fanciulli e riesce sempre a sfuggire alla cattura e dapprima
vede questo spostamento di ufficio come una enorme seccatura di cui sbarazzarsi il prima possibile risolvendo quello che è un semplice caso di suicidio quindi in teoria nemmeno materia
per le indagini di polizia se non fosse per l'influenza del padre della vittima.
Ma ben presto il giovane ispettore scopre che la questione è molto più complessa e inquitetante e nel racconto si intrecciano i due piani paralleli delle vicende di un fanciullo rapito
dal Vicario e da lui tenuto prigioniero e le indagini sul suicidio di Lucien.
Bel racconto dove si intrecciano un pò di esoterismo, psicoanalisi, storia e dei colpi di scena intriganti sull'identità dei vari personaggi, la Parigi di inizio '800 è ben descritta sia a livello topografico
che sociale, la storia scorre fluida e non manca di sorprendere. Rimane un finale aperto al seguito che è già in libreria.
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Bagno Antaura
Edo è il bagnino tuttofare del Bagno Antaura, un lido di Viareggio. Guia è sua moglie e l’amore della sua vita.
Si sono conosciuti proprio al Bagno Antaura, a un evento letterario organizzato proprio da Edo, per la padrona del Lido, la signora Bardi, che scoprirà poi essere la mamma di Guia.
Guia è una aspirante scrittrice, o meglio è in cerca di un editore che la aiuti a pubblicare i suoi libri. Ma il mare, la notte, la noia, gli sguardi complici e Edo e Guia finiscono a fare l’amore nella cabina n. 7.
“Cos’è rimasto dei due sensazionali sconosciuti che eravamo quella sera?”
Su questa riflessione si centra tutto il romanzo.
Così inizia la loro storia che oggi, a distanza di anni da quell’incontro passionale, vive una profonda crisi dovuta a un figlio che non arriva. E negli svariati tentativi per ottenerlo, pian piano l’amore che li univa si spegne.
In questa crepa si insinua Anna.
Anna lavora per una ditta edile che Edo ha contattato per i lavori di ristrutturazione al Lido.
Tra loro nasce una profonda confidenza, sincera e complice allo stesso tempo, che alla fine culmina con un’inevitabile incontro passionale di un solo pomeriggio, dopodichè Anna scompare e di lei si perdono le tracce.
E’ inutile dilungarsi sulla trama, che comunque venga narrata, sembrerebbe molto banale, l’amore vero, il tradimento, i sensi di colpa, la negazione.
Ma questo non è il libro di Simi, quello che lui riesce, sorprendentemente, a fare è legarci ai personaggi, e ai luoghi, oltre che a appassionarci alla storia.
Leggendo vediamo il mare, ne sentiamo l’odore, gli ombrelloni che si aprono in estate e che si chiudono alle prime mareggiate che annunciano l’inverno, sentiamo la sabbia sotto ai piedi, e la malinconia della bella stagione che se ne va, le risa che si dissolvono ai primi temporali estivi, il sole che tramonta sempre prima e che segna i giorni, i mesi, le stagioni, gli anni.
“L’estate ci mette tre mesi per diventare perfetta e lo fa a Settembre. E a quel punto, raggiunta la perfezione può, solo finire.”
Percepiamo, come se fosse nostra la malinconia del protagonista, il suo dolore per l’amore che sta perdendo, il freddo vuoto che gli lascia dentro.
“Mentre inizia a piovere rimango a guardare fuori. In ogni goccia si riflette un minuscolo mondo chiuso sotto una volta trasparente e uguale a tutti gli altri. Sembrava non finisse mai quest’estate, invece stava solo morendo di nascosto. Che la pioggia se la porti via prima che inizi a marcire.”
La trama ci cattura sin dalle prime pagine, un intricato mistero che ci tiene incollati fino alla fine, e che nonostante sia narrata con un pizzico d’ironia, ci lascia tanta amarezza.
Simi ha uno stile inconfondibile, unico, che pur trattando di contenuti, se possiamo dire, banali, ci regala spunti di profonda riflessione, che ci portano anche a rileggere alcuni passaggi.
“Mi sembrò odioso e insopportabile come un’erba infestante. Sono quelli così che vanno avanti, mi dicevo. Gli indifferenti, i voraci, quelli che chi se ne frega…Non sono i migliori…sono semplicemente i più insensibili. Quelli che attecchiscono dove non si dovrebbe, nel freddo e nel marcio, nella sabbia e nelle crepe dell’asfalto. Sono i predatori indomiti…Loro lasceranno la traccia sul Pianeta…dall’alto della loro rapace, intransigente mediocrità.”
Un libro che si divora, un noir, psicologico, ma anche sarcastico, scritto con la giusta leggerezza, senza abbassare mai il ritmo e la tensione narrativa.
Il romanzo è anche un tuffo nel passato, in un tempo nostalgico, fatto di ricordi che ti allontanano dal presente e dalla realtà.
“Il tempo non è sempre lo stesso. Il tempo non è oggettivo, cambia densità, si fa vischioso. Non si ferma mai, è vero, ma altre volte gira su stesso e ha il potere di risucchiarti in un gorgo.”
Una lettura imperdibile per gli amanti del genere.
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Ritrovarsi, riconoscersi, scegliersi
Scambio di emozioni, amicizia che è fratellanza, senso di appartenenza e istinto di fuga, reciproca solidarietà, accettazione, stupore, legami… è ciò che ho sentito durante questa lettura.
Dice Paolo Cognetti: “E’ un romanzo che parla di due amici e una montagna, che non è solo neve, dirupi, creste, torrenti, laghi e pascoli, bensì un modo di vivere la vita, un passo davanti all’altro, silenzio, tempo e misura.”
Ambientazioni e personaggi mi sono apparsi ben descritti.
La linearità del racconto anche. Seguiamo i protagonisti da un certo momento nel loro tempo fino ad un altro. Di alcuni sapremo cosa accadrà, per altri possiamo solo immaginarlo.
L’incipit è dedicato a Giovanni Giusti, questo padre “ostinato” ad andare sempre più su, finché più su in montagna non si può più andare ma solo ridiscendere “a rotta di collo.” Nel dubbio prendere sempre la strada che sale, superare chi ci precede. Vietato fermarsi per bere, lamentarsi, riposarsi o per il freddo o la fame. La sua ossessione per i ghiacciai.
Pietro racconta che, avrà avuto sei o sette anni, una mattina si è fatto trovare vestito di tutto punto dal padre e gli ha detto “vengo con te.” O forse questo è ciò che al padre piace ricordare.
La madre è una figura che può apparire secondaria ma io l’ho amata molto. Lei che ama rendere accogliente persone e cose che la circondano. Quando arrivano nel paese di Grana ridà vita alla vecchia stufa non accesa da tanti anni, riempie di fiori le finestre, riaccende i fornelli e mette a scaldare il latte osservando, con una coperta sulle spalle a proteggersi dal freddo, insieme a Pietro, il latte che fuoriesce dal bricco, brucia i fuochi e il fumo che invade la cucina.
Dice che in montagna ciascuno ha la sua quota, quella si sente di star bene e dove può stare. Per lei sono i 1500 metri, dei rododendri, abeti, mirtilli, ginepri e caprioli. Per Pietro è un po’ più su, dove ci sono pascoli, erbe e torrenti. Per il padre ancora più su, verso i 4000 dove compaiono i ghiacciai, la vegetazione scompare e la montagna si fa ostile e aspra.
Bruno che guida le sue mucche verso la stalla con quel verso, dice eh, eh, eh, oh,oh,oh…sarà quel verso che aiuterà Pietro a ritornare verso casa, ritrovando l’equilibrio perso al crepaccio, e quello stesso verso se lo diranno reciprocamente, in futuro, per richiamarsi, per dirsi, io ci sono, anche io.
La loro amicizia ha un’intimità che non creerà loro mai imbarazzo, neanche quando Pietro gli si aggrappa sulla schiena, in moto, insieme.
Pietro e Bruno, è il 1984 e hanno 11 anni. Inizialmente si osservano, nessuno fa il primo passo. Fino a quella mattina a colazione quando Bruno gli dice seguimi, andiamo. E Pietro va.
Sembra non accadere nulla, ma invece di cose ne accadono tante. Ciascuno prenderà la propria strada.
Pietro che va, Bruno che resta.
Sul muro la cartina geografica attaccata con le puntine, tre colori tracciati con il pennarello. Nero per il padre, rosso per Pietro, verde per Bruno. A volte il nero cammina da solo, altre volte cammina con il verde, altre con il rosso, raramente camminano tutti e tre colori insieme. E’ un’immagine che dice tantissimo e che mi ha molto commossa. L’autore riesce a raffigurare perfettamente questo momento. Mi sembra di vederli, ora che leggo, camminare e camminare.
E’ un racconto di nostalgia e di rimpianti ma con leggerezza, c’è solo un velo di malinconia. Il tono non è mai sdolcinato, mai piagnucoloso, è una narrazione di suggestioni. Non ci sono pagine solo per riempimento, mi pare un racconto bilanciato e misurato che evoca ricordi per risvegliarne altri.
Tra questi due amici, Pietro e Bruno, c’è un filo che li unisce e si tende all’infinito quando Pietro va e Bruno resta. Ma poi lo stesso filo si riavvolge. Sempre a Grana, sempre in quelle montagne del Grenon che sono anche le montagne di Pietro. Si ritrovano sempre. Come se non si fossero mai lasciati davvero. Anche ora che di anni ne sono passati tanti sa quel loro primo incontro.
La storia delle otto montagne narra che il mondo è raffigurato come un cerchio, al centro un monte altissimo, il Sumeru, e intorno otto raggi che sono otto mari e otto montagne.
Ha imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne o chi è arrivato sulla vetta del Sumeru?
Buone prossime letture.
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Ieri, oggi, domani
«[…] Allora, forse, io scrivo per tutti quelli che nella mia famiglia non hanno potuto farlo. Leggo per quelli di loro che non sapevano leggere, ma avrebbero voluto entrare in quei mucchi di segni incomprensibili attraverso i quali spesso venivano ingannati, frodati, umiliati da chi aveva avuto la scuola.»
Ultima fatica di Carmen Pellegrino, storica già nota al grande pubblico per opere quali “Cade la terra”, è “Dove la luce”, un testo che se da un lato ricorda un memoir dai tratti intimi ed esistenziali, dall’altro assomiglia e ricorda un piccolo saggio sulla generazione che si ipotizzava salva ma che in realtà era già perduta in partenza. Lo stesso titolo è significativo e ci riporta al mondo letterario, essendo “Dove la luce” una poesia di Giuseppe Ungaretti del 1930. Non siamo davanti ad uno scritto canonico: è un componimento atipico che ci rimanda a un episodio e poi all’altro senza di fatto seguire quello che è un ordine cronologico ben definito. La storia è dunque composta da salti temporali che si susseguono, ancora è composta da un flusso di coscienza che non si imbriglia e che segue le sue logiche senza che le sue logiche siano coerenti. Un po’ come un blando ricordo che sopraggiunge nel momento meno aspettato.
In apparenza siamo davanti a tre storie per tre volti che tra loro si intersecano. In realtà due personaggi confluiscono nei ricordi di una donna che diventa anche voce narrante. Realtà e fantasia perdono i confini netti che le tengono distanti. Anno da tenere come punto di riferimento è certamente il 1987.
Conosciamo il professore Federico Caffè, economista di scuola keynesiana realmente esistito, è un uomo che si preoccupa dei ceti disagiati e che è attivo nel dibattito politico-economico. Se ne perderà ogni traccia dal 15 aprile 1987. Milo Marsico, al contrario, è un uomo che ha perso tutto, vive per strada e attende la morte. Infine una donna, classe 1977, nata a Postiglione, che narra, racconta, fonde. Sullo sfondo la generazione, la Storia, i fatti che hanno determinato gli anni ’80 dagli omicidi di Mino Pecorelli e Giorgio Ambrosoli, alla P2, la strage di Ustica e molto altro ancora. Ma cosa è successo a Federico Caffè? Che ne è stato di lui? Che sia vivo? Che sia morto? E il cadavere, nel caso, perché non è mai stato rinvenuto? E se avesse davvero seguito il suo amico clochard verso un luogo abbandonato e dove finalmente perdersi avvalorandosi della decreazione del proprio io?
«[…] Parlo di ciò che manca e della grazia di ciò che c’è.»
Carmen Pellegrino non è nuova a certi temi, molti la ricorderanno o conosceranno per la sua abbandonologia (me per prima). “Dove la luce” ha due caratteristiche molto importanti: se da un lato sono presenti tanti autori dei quali vengono menzionate le opere a mo’ di devozione verso la letteratura (da Nizan a Tondelli passando per Anne Carson e Witod Gombrowicz) che influenza la nostra vita, dall’altro si ritorna proprio al tema dei luoghi abbandonati.
E per quanto i paesi siano in disfacimento, le moltitudini disilluse e le costruzioni fragili, con “Dove la luce” l’autrice ci invita alla resistenza e al volgere uno sguardo verso il futuro. Tra lo ieri e l’oggi, le colpe delle generazioni del passato, la concretezza di quelle del presente ed ancora le colpe dei padri che ricadono sui figli, lo stare dentro e fuori dalle proprie radici ma senza mai davvero poterne fare a meno.
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IL FILO ROSSO DEL DESTINO
SPOILER
Edimburgo, 15.07.1988 durante la festa di laurea Emma e Dexter si incontrano per caso. Quella stessa notte, al posto di fare sesso, nella stanza di lei si mettono a parlare del proprio futuro, dei loro sogni, di chi sono e chi vogliono diventare. Così inizia la loro amicizia che dura 20 lunghi anni. Em vuole cambiare il mondo, Dex sembra più interessato alla bella vita e alla fama. Per un giorno all’anno, esattamente il 15 Luglio, vengono descritte le vite dei due ragazzi, che rimangono in contatto nonostante le esperienze di vita diverse, crescendo in qualche modo insieme seppur come due linee parallele. Dex diventa un presentatore tv, nemmeno poi tanto bravo; ma è un ambiente di donne, droghe e di sballo, Emma rimane più umile, prova a sfondare in una piccola compagnia teatrale, per poi arrendersi a lavorare in un ristorante messicano. Loro sentono di provare qualcosa per l’altra ma questo legame, per varie circostanze della vita, non si riesce né a creare, né a recidere. Dopo un viaggio in Grecia, le cose vengono semplicemente dette ad alta voce, ma non cambiano. Em inizia una relazione con Ian, un ragazzo che non ama come vorrebbe. Gli anni passano, la madre di Dex muore, lui entra in un circolo vizioso distruttivo e un giorno Em, stanca di vedere Dex in questo stato, senza rispetto per se stesso né per gli altri, decide di troncare l’amicizia. Inizia per Em la realizzazione del fatto che tutta la vita che si era costruita, non era la vita che voleva. Altri anni passano e molte cose succedono nel frattempo fino a quando, dopo essersi incontrati nuovamente ad un matrimonio Dex annuncia il suo matrimonio e la nascita di sua figlia. In quell’occasione i due si baciano. Dopo il divorzio di lui, arriva a Parigi ma lei, ormai stufa di essere usata da lui gli parla del nuovo compagno. I ruoli si ribaltano, è Dex che sente, per la prima volta di provare qualcosa per lei, e lei ha rinunciato. E’ l’inizio della loro relazione, degli anni felici insieme, prima della morte di Em per un’incidente. Dopo diversi anni immerso nel dolore, Dex decide di tornare nei luoghi del loro primo giorno insieme. Rendendosi forse conto, di quanto tempo ci ha messo per realizzare che l’amore della sua vita era proprio lì davanti a lui, ma per la tragicità della vita stessa, per molte ragioni, non era il momento giusto. E quel momento non è stato altro che una lunghissima attesa per avere così poco tempo per la vera felicità.
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L'ossessione della vendetta
SPOILER:
Con questo libro Dorn, inizia a unire i puntini delle storie precedenti che erano rimaste in sospeso. Ritroviamo l’ex psichiatra Mark Behrendt ormai diviso tra la sua vita passata e il suo presente da ormai ex alcolista grazie al supporto dell’amica Doreen e dei gruppi di aiuto. Nonostante ciò, il tarlo del passato è ancora lì: Tanja, il suo amore è stata uccisa da un folle e ancora non è riuscito a mettere un punto sulla questione che lo dilania ormai da troppo tempo; ma nonostante tutto la vita continua ad andare avanti finchè non accade qualcosa di totalmente folle e inaspettato. Durante una cena, Doreen scompare, Mark si risveglia dopo essere stato narcotizzato; una chiamata gli spiegherà le prossime mosse che deve fare: se vuole rivedere l’amica, lui deve trovare qualcuno, senza indizi, e ha 2 giorni, 9 ore, 23 minuti per risolvere il rebus. Ed è qui che ricompare la figura di Ellen Roth, protagonista de “La psichiatra”, una donna che ormai non esiste più perché frutto di una crisi dissociativa in conseguenza e un trauma enorme che la donna (Lara Baumann) ha subito da bambina e che poi ha portato a un’escalation di eventi tragici. Ed è proprio così che i due si ritroveranno, ma solo perchè Mark ha il compito di ucciderla. Passo a passo i pezzi del puzzle iniziano ad incastrarsi e si scopre che il folle responsabile della morte di Tanja è esattamente lo stesso psicopatico che sta minacciando di uccidere Doreen. Ma qual è la ragione? Bisogna risalire al passato, a una concatenazione di sfortunati eventi di cui Ellen sembra essere responsabile. Come al solito Dorn, è in grado di raccontare storie in cui la follia è davvero all’estremo e di come, un trauma irrisolto e davvero tragico, possa poi sfociare in un’ossessione estrema e la vendetta una missione macabra dove non importa il male fatto, ma solo il narcisistico risultato, senza pietà. Di Dorn, amo la capacità di descrivere con accuratezza i traumi e la malattia mentale di ogni personaggio con una estrema veridicità. Le sue storie sono sempre ben costruite e piene di colpi di scena e le connessioni tra i dettagli per poi risolvere il “dilemma” sono sempre ben riuscite.
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Confessioni
Io non so se a quest’autore viene prima l’idea della storia e, di mano in mano che la scrive, ne decide il titolo o se addirittura gli viene prima l’illuminazione del titolo e, attorno a quella parola magica, costruisce la storia. Fatto sta che ogni episodio ruota attorno a quella parola, che viene declinata, raccontata, dipinta, tratteggiata, colorata in mille forme. Il nostro Ricciardi è sempre solitario e malinconico, in questo episodio la sua storia personale evolve e, verso la fine del libro, lo diventa ancora di più. Direi finalmente… così si sblocca questo empasse nella sua vita privata, che sta tenendo congelata la sua vita. E non solo la sua. Però tutti attorno a lui evolvono: Nelide, la nipote di Rosa, si sta rivelando un personaggio speciale, tanto quanto Bambinella; la donna gatto e la donna cigno, che girano attorno al commissario come falene, stanno diventando personaggi sempre più positivi; il brigadiere e la moglie Lucia stanno diventando una coppia di sempre più spessore umano. Tutti crescono, tutti maturano, tutti cambiano. Guardarli da lontano è quasi come viverli nel quotidiano ed è bellissimo, è come se si creasse un rapporto con il lettore. Al centro della vicenda specifica di questo episodio ci sono il dolore e la mancanza, che rendono sordi e ciechi. Ne conseguono le confessioni ed ogni confessione comporta una rivelazione, ma anche una richiesta di perdono. Apriamoci alle nuove strade che tracciano queste confessioni.
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