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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    08 Gennaio, 2025
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Come vivere una serena vecchiaia.

Erri De Luca, che ha superato i 74 anni, paragona la durata media della nostra vita a quella complessiva di tre cavalli. Lui sta già cavalcando, direi brillantemente, il terzo e si rende conto che, ormai, si vive sempre di più e che questo aumento di vita pone di volta in volta problemi nuovi finora mai affrontati. Ci sono più anziani, fortunatamente in buona salute, pronti a "sperimentare" questo nuovo stato ed a risolvere autonomamente situazione spesso imprevedibili.
Come comportarsi dunque in età avanzata, possibilmente con pochi acciacchi e ancora tante speranze: età, suggerisce l'autore, che non è più saggia ma che sembra quasi "sbalordita di poter proseguire ad oltranza", come se ogni giorno fosse l'ultimo per il quale dare fondo alle riserve di entusiasmo che ancora custodiamo.
L'autore fa un rapido excursus sul suo passato: via da casa dopo la maturità, simpatie per i movimenti giovanili di ribellione al conformismo imperante, lavori manuali come operaio in fabbrica, volontariato nei Paesi meno fortunati o colpiti da guerre, attività di scrittore sempre pronto a cogliere momenti di disagio, il tutto alternato all'amore per la montagna, da esperto arrampicatore quale è sempre stato fin dagli anni giovanili. Il tema della montagna ritorna sempre, con nostalgia : le scalate a quattro appoggi o in cordata gli scaldano il cuore, lo riconciliano con il prossimo e con la vita.
Senza trascurare attività più adatte ad uno spirito di studio e di ricerca, come numerose traduzioni di brani tratti da libri delle sacre scritture, pur da non credente.
Insomma un De Luca attento a sperimentare, anche da scrittore e conferenziere, non dimenticando mai neppure , come cita lui stesso, quell'illuminante affermazione di Marcello Mastroianni a Jack Lemmon nel film "Maccheroni" : " come è bello perdere tempo: non si spreca, ma lo si libera dall'obbligo di sottoporlo a un utilizzo.. Il tempo perso è quello salvato!".
Erri de Luca riesce anche a darci, negli ultimi capitoli, suggerimenti per vivere bene e serenamente a lungo. I consigli sono quelli che già dovrebbero essere ben noti: pratica sportiva, darsi agli altri con attività di volontariato, alimentazione sana, rinfrescare la memoria con l'enigmistica, pochi amici fidati... Tutto questo per affrontare con buone speranze una "vecchiaia volontaria", quella cioè così come dovrebbe essere naturalmente, che l'autore distingue dalla "vecchiaia involontaria", quella alterata da incidenti o malattie, e da quella "preterintenzionale", modificata da creme, abbellimenti, interventi conservativi o migliorativi.
E arriverà anche l'ultimo giorno. Come sarà, si chiede l'autore. "Sarà quello che non ha nessun diritto materiale al giorno successivo. Sarà quello che comincia con il ringraziamento al suo mattino".
Il libro, scritto con stile incisivo, senza fronzoli o inutili divagazioni, è impreziosito da foto tratte da un filmato di poco meno di mezzora sull'argomento trattato e da alcune lettere inviate all'autore da Ines de la Fressange, imprenditrice nel settore dell'abbigliamento di prestigio e coautrice dell'opera.
"L'età sperimentale" è un buon libro per riflettere sul tempo che passa, su quello che ognuno di noi ha fatto e su quello che ci si può attendere ancora dalla vita e quante possibilità possa racchiudere ancora la cosiddetta terza età. "E' un'età sperimentale" scrive de Luca "Ho la strana sensazione che nessuno è stato vecchio prima di me. La vecchiaia di chi mi ha preceduto non mi fa da modello e non mi prepara a niente. Per il corpo di ognuno, quando succede è per la prima volta".
Da "vecchio" ormai ultranovantenne, concordo con l'autore quando scrive che la vecchiaia non è il momento di guardare soltanto indietro. Diceva bene Pasternak ne "Il dottor Zivago": "vivere significa sempre lanciarsi in avanti ... verso la perfezione, lanciarsi e cercare di arrivarci".



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68 Opinione inserita da 68    08 Gennaio, 2025
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Destini incrociati

Donne e una vita che non pare meritarle, comprenderle, accoglierle, sorprenderle, confrontate con un universo maschile disapprovante, cinico, violento, misogino, e allora quanto è difficile vivere liberamente.
Donne che amano e hanno amato, disinteressate, altruiste, resilienti, diversamente uguali, il cui respiro alimenta i tre splendidi racconti di Claire Keegan, talentuosa autrice irlandese dalla scrittura realistica, essenziale ma anche poetica, evocativa, pochi tocchi sferzanti, con il sentore di una dolorosa presenza in una sospensione temporale che restituisce il percepibile, stati d’ animo e sentimenti violati nel cuore di una quotidianità inappagante.
Che sia un giovane uomo abbandonato dalla fidanzata al proprio rimuginio nelle stanze di un appartamento vuoto la vigilia del matrimonio, corroso da misoginia e da un egocentrismo che non riconosce, una scrittrice sola alloggiata per due settimane nella casa di Henrique Boll alle prese con uno strano professore in pensione, il desiderio carnale di una donna felicemente sposata esposta all’ imprevedibile, emergono un’ incomunicabilità di fondo e una cecità evidenti corredate da comportamenti, gesti, parole, sentimenti violenti.
Donne forti, fragili, sole, disperate, in cerca di comprensione, di un complimento, anche di una bugia, esposte all’ imponderabile, sopportate e non supportate, abbandonate a se stesse, che ripensano a tutti gli uomini che hanno conosciuto e che fortunatamente non hanno sposato, uomini non in grado di comprenderle, sostenerle, amarle, distanti, comodi, arrabbiati, silenti.
L’ Irlanda da sempre ha vissuto e convissuto in una struttura cattolica e paternalista intessuta di tradizioni e stereotipi, con una legislazione che vede la donna ai margini, uomini accomunati da un gergo volgare, svilente, da un cameratismo solidale, ignari della propria insensibilità e pochezza sentimentale, se non quando messi alle strette e abbandonati all’ insondabile vuoto che li circonda perché

… non siete in grado di dare…

E allora non resta che una beata solitudine autoimposta a scandire i singoli giorni, la scrittura
compagna di sogni, di storie da inventare, di finali sorprendenti, con la possibilità di vivere lunghi momenti di intimità e di intimismo,

…al suo risveglio senti’ svanire la coda di un sogno, aveva dormito a lungo e si sentiva profondamente appagata….

prima che qualcuno giunto dal nulla, imbevuto di falsità, stereotipi, rabbia, giudichi chi neppure conosce.
Non resta che il desiderio trasgressivo di una donna felicemente sposata, un tradimento prima di diventare vecchia nella certezza di rimanere delusa, l’ approdo a un vortice di sensazioni turbolente, persa tra le braccia di un uomo qualunque inabissandosi in un vicolo cieco, con un risveglio brusco e brutale

….poi pensò all’ inferno, poi all’ eternità…

Non resta che il lungo respiro di una presenza, voci, cuori, sentimenti nell’ anestesia del presente, eco di verità cadute nel niente, un desiderio di libertà sfociato in una solitudine riparatoria, un grido di dolore che fa riflettere, sempre che non sia troppo tardi…


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68 Opinione inserita da 68    08 Gennaio, 2025
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Quale tempo?

Kairos nella grecità classica esprime un tempo qualitativo, difficile da definire, plasmare, collocare, un attimo in cui sostare e afferrare l’ inafferrabile.
Berlino,1986, un incontro casuale sull’ autobus 57, sguardi, parole, gesti d’ intesa, una giovane studentessa e uno scrittore affermato, un luogo, la DDR, che vive a distanza di anni gli esiti della guerra, una separazione interna, l’ esposizione a est con mire a ovest, interrogandosi sul significato della parola libertà, la creazione di un nuovo stato investito dal capitalismo della modernità tra gli echi di un passato sopravvissuto e in parte rimpianto.
Hans e Katharina, trama irresistibile in un respiro condiviso, relazione intensa tra le difficoltà, stabilità indecifarabile tra intervalli di attesa, il vuoto di una possibile perdita, la ricerca improbabile di un senso compiuto.
Lui e’ sposato, con un figlio, relazioni estemporanee, un’ infanzia vissuta tra l’ ascesa del nazismo e gli esiti di una fuga obbligata, innamorato della poesia, della buona musica, del profumo dell’ arte, uno scrittore impegnato a

…” rendere non ovvio ciò che è ovvio”….

Due settimane indimenticabili ne cambieranno le vite per sempre

…” non sarà più come oggi”…

…” sarà così per sempre”… ,

un vocabolario personale pronunciato per nascondere al mondo i propri segreti, l’ intesa del silenzio, nessuna pretesa reciproca, almeno per Katharina, se non il conoscersi e l’ accettarsi fino in fondo.
Il loro e’ un tempo qualitativo ( Kairos ) vissuto nell’ intensità di uno sguardo, parole guidate dalla modalità di uno scambio, scivolando l’ uno nei gesti dell’ altra.
Per Katharina una sensazione nuova, l’ amore di un uomo maturo, lei giovane e inesperta, una scolara al cospetto del maestro, per Hans uno stato di beatitudine, qualcosa che non gli era mai riuscito al fianco di qualcun altro, rientrare totalmente in se stesso, ritraendosi da ciò che gli sta attorno,

…” emigrare dentro di se’”….

Lo scorrere di una relazione all’ interno di un tempo lineare, Kronos, che poco ha da spartire con la propria interiorità, il sentirsi per la prima volta se stessi nell’ altro, un matrimonio ostacolante, necessario per alimentare la relazione, un senso di solitudine che oltrepassa la paura di rimanere per sempre in un luogo che non ci appartiene nel senso più propriamente famigliare.
Che cosa può produrre una relazione siffatta, sguardi di una vita che sembra altrove, sospetti, pedinamenti, inganni, illusioni respinte, attimi di fragilità, altezze inarrivabili, che cosa sottende, la ricerca di una figlia, di un padre, il pericolo di un matrimonio in essere, uno stato di afflizione che sovrasta la felicità, quale ruolo all’ interno della coppia, il ricordo dei mesi che passano, di quel giorno perfetto in quel momento perfetto su quel tram dei desideri.
Le libertà acquisite confluiscono in un nuovo se’, la lontananza si perde nella solitudine del tradimento, e allora un’ altra storia, una cerimonia matrimoniale fasulla, cassette da incidere, da ascoltare, nuove parole, immagini nella propria testa.
Non resta che scavare nel passato, libri, taccuini, appunti degli anni di studio, lettere di amici, perché per legarsi di nuovo all’ altro bisogna capire chi è veramente e leggersi dentro. Dopo tanti anni una rilettura del passato nel presente riproduce una verità sottaciuta, una collaborazione senza prospettive a scandire un tempo esteriore, un desiderio viscerale riflesso di un tempo interiore…

…” Voglio che tu mi conosca, fino alla radice dei capelli e in ogni centimetro di pelle e in tutto ciò che sta dietro”…

Kairos è uno dei romanzi migliori del 2024, una scrittura ricca, intensa, intima, che sa fondere e contrapporre magistralmente una storia viscerale all’ interno della Storia, i sentimenti di un popolo ai limiti individuali, la forza di un amore a tempo alla sconfinata grandezza del proprio sentimento, il potere delle parole e dei pensieri forgianti, ma anche cronaca di una società in cambiamento, repressiva e libera al contempo, tutti elementi necessari a forgiare la grandezza di un romanzo assolutamente da leggere.



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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    06 Gennaio, 2025
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Come se fossero persone reali

Ai personaggi dei grandi romanzi spesso ci affezioniamo, vivono con noi, li giudichiamo, li valutiamo, come se fossero persone vere. Io, con L’amica geniale, mi sono spinto più in là e, un po’ per gioco, un po’ per deformazione professionale, al giudizio sintetico ho fatto seguire anche un voto. Niente a che vedere, ovviamente, con la vera critica letteraria. P.S. Ogni tanto si spoilera, ma tra libro e adattamento televisivo (con annesse repliche) dovremmo conoscere tutti il finale. Secondo P.S. C'è un'altra mia "opinione" in questa pagina sulla stessa opera, ma di taglio totalmente diverso.

Pietro Airota: Tutto casa e università, nella sua vita irrompe una donna da sempre innamorata di un altro. Pessima premessa per qualsiasi matrimonio. Qui comincia la sua disavventura, costellata di tanti episodi. Quando uno studente presentatosi agli esami totalmente impreparato gli punta addosso la pistola perché lo vuole bocciare e lui vuole denunciarlo, gli si scatena contro il coro unanime, vagamente omertoso, di madre, padre e consorte (è un compagno che sbaglia? E’ anche lui rampollo di accademici?). Quando Pasquale Peluso e Nadia li raggiungono a Firenze e bistrattano Pietro (vedi alla voce Pasquale Peluso), Elena si schiera coi due, terroristi e cafoni nel contempo. Chiuso nella sua torre eburnea e un pizzico maschilista, non presta molta attenzione alle fatiche letterarie della moglie. Del resto, ad uno così se non gli piazzi sulla scrivania un saggio sul De reditu di Rutilio Namaziano è difficile che lo smuovi. Va a cercarsi Sarratore e lo introduce in famiglia, ignorando che oltre all’intelligenza, da cui è attratto, possiede altre qualità meno accettabili per un marito. Lenù riscopre i segni dell’antica fiamma, ma scopre e testa anche i punti dell’appartamento più consoni ad accoppiamenti furtivi, non esclusi i servizi igienici. In preda ad una crisi di nervi , non priva di giustificazioni, costringe Elena a rivelare il suo tradimento a quelle due poverine delle figlie. E’ il suo punto più basso. Dopo la inevitabile separazione, continuerà però a stare accanto alla ex moglie e a sorreggerla con affetto nei momenti difficili, tipo il post-terremoto.. Al telefono, certo, ma Nino neanche quello…
Ingenuo, vittima: 6

Pasquale Peluso: E’ il primo amore di Lila, ma, almeno, ha evitato di farne un idolo e non è entrato nelle sue spirali perverse (a meno che non sia stata lei a programmare certe azioni violente, ma fa parte di un non detto). Militante comunista, segretario della sezione locale, diventa poi terrorista. Recita la sua scena madre quando si reca in visita ad Elena e Pietro a Firenze (in realtà è cominciata la sua fuga, è ricercato). Utilizza tutti i comfort borghesi che la famiglia Airota mette a disposizione, ma questo non gli impedisce di sferrare un incredibile attacco verbale contro il padrone di casa, reo di non fare un vero lavoro e di essere un parassita sociale. La sua tirata contro il ceto intellettuale rivela una visione reazionaria e criptofascista, come il povero Pietro fa notare, inutilmente, alla moglie (è scappata dal Rione, ma guai a chi glielo tocca). Non tornerà mai più a Napoli, ma Elena, quando i Solara verranno uccisi, sospetterà che dietro ci sia la sua mano. Pur con tutta la comprensione per aver visto da piccolo il padre, anch’egli militante comunista, portato in galera per un omicidio non commesso e la madre suicidarsi dopo la morte del marito,per la sua arroganza, la maleducazione, l’intolleranza, la rozzezza, l’adesione ad una causa che storicamente ha fatto solo danni alla nostra Italia, non va oltre il 4.

Gigliola Spagnuolo: si unisce a Michele Solara, che le costruisce intorno una gabbia dorata, la casa di Posillipo da cui si vedono il mare, il golfo, il Vesuvio. Quando Elena va a trovarla, le indica il panorama chiedendole se dal Rione si sia mai visto qualcosa di simile. Certo che no, ma a quale prezzo? In tanta illecita opulenza, si sente sola, la sua unica funzione è quella di fare figli e di badare alla faccende domestiche, il suo destino è vivere accanto ad un malavitoso che ne fa di tutti i colori, che la tradisce continuamente e che ama, non ricambiato, solo e soltanto Lila. Uno che non esita a mostrare in pubblico tutta la propria insofferenza nei suoi confronti e a definirla praticamente una rompiballe (penso alla grandissima scena del pranzo a casa di Marcello ed Elisa). Certo, la sventurata poteva fare una scelta diversa, ha sacrificato la libertà per la ricchezza e gli agi. Per questo si porta sempre appresso quel fondo di dolore, insoddisfazione, invidia, rabbia che divora se stessa. Arrampicatrice, moglie del peggiore dei mariti, le diamo 5 per aver sopportato un uomo del genere, però poteva calcolare meglio vantaggi e svantaggi di una simile unione. La sua morte, raccontata soltanto nel libro, conclude tragicamente un'esistenza infelice.

Michele Solara: Boss del quartiere col fratello Marcello, è affascinato, anzi soggiogato da Lila e soprattutto dalla sua intelligenza. La presunta, unilaterale fidanzata, si chiude nella sua stanza quando, entrambi giovanissimi, viene a farle visita, snobbandone attenzioni , regali, profferte matrimoniali, gradite invece alla famiglia Cerullo. Quando parla del suo concentrato di Beatrici, Laure, Angeliche, Dulcinee, si dimentica di essere un criminale e attinge parole ed espressioni alla sfera di un linguaggio inopinatamente lirico e poetico. Ah, l’ammore che fa fà. Cerca di coinvolgerla almeno nelle sue fiorenti attività economiche e ci riesce per qualche tempo, sfruttando le conoscenze di informatica che la sua mancata amante ha assimilato ripetendole la sera tardi con il compagno Enzo Scanno (er mejo fico der bigonzo: 8). La grande manipolatrice insegna ad Alfonso Carracci (6, per aver dovuto portare il peso della sua diversità a quei tempi e in quell’ambiente) a vestirsi da donna, ad imitarla, a diventarne quasi una copia. A portare fuori e vivere pienamente quella cosa oscura che si portava dentro da sempre: la sua reale condizione di genere. Riesce nel suo intento: Alfonso diventa agli occhi di Michele l’oggetto sostitutivo del suo amore impossibile per Lila. Nel frattempo Solara continua a seminare delitti e dolore. Ma verrà un giorno, come profetizzava qualcuno. E il giorno viene, sotto forma non di epidemia ma di agguato: lo uccidono insieme al fratello, che lo aveva redento da una relazione proibita, un tabù, ancor più tale in certi ambienti criminali (e poi, così ostentata… si fa, ma non si dice, caro MIchele). Nell'adattamento tv le mogli e i figli scappano via mentre i due cadono come tanti erano caduti su loro mandato. Merita 8 come personaggio letterario, 4 sul piano umano. Gli evitano un voto ancora più basso l'attenuante di essere incappato nei disegni contorti di Lila e quella vena di romanticismo che a tratti affiora in quella sua anima malvagia.

Raffaella Cerullo: si stenta a capire cosa voglia dalla vita. Il suo malessere deriva chiaramente dall’ambiente in cui è nata, ma lei non fa nulla per evaderne. Manda avanti, ad esplorare la possibilità di nuovi orizzonti, il suo avatar Elena Greco, vuole che studi, la incoraggia a scrivere, la rimprovera quando devia dal disegno che ha in mente per lei, cosicché nel suo rapporto con questa sorta di alter ego alterna amore profondo, attaccamento viscerale, odio, perfino invidia. Le grandi manovre della stratega si estendono a tutti ed in particolare hanno come bersaglio i Solara, con i quali pure entra in affari, e come strumento Alfonso (vedi alla voce Michele Solara). Anche quando sparisce dalla circolazione ed Elena è ormai anzianotta, le spedisce le due famose bambole del capitolo iniziale, a ricordarle che il loro legame è inscindibile al di là della lontananza e del tempo trascorso. In tutti quegli anni aveva nascosto all'amica di averle recuperate e anche questo sarebbe da approfondire. Ha evidenti problemi mentali, ogni tanto le pare che i confini delle cose si dilatino, che vadano soggette ad una “smarginatura”, termine tipografico a cui dà una personale interpretazione, estendendolo ad una visione catastrofico-lucreziana dell’universo. Il fenomeno si ripete il giorno del terremoto, quando questa patologia sembra uscire dalla sfera della sua soggettività e investire l’intero mondo. Il suo parto è una mezza tragedia, non spinge, non collabora. Già la gravidanza era stata un disastro. Il rapporto con la creatura che portava in grembo era, a dir poco, problematico. E’ distratta da Sarratore mentre le rapiscono la figlia (a qualcosa del genere allude la figlia maggiore di Elena quando la definisce una cattiva madre). Aveva trovato uno che la adorava ed era disposto a tollerare i suoi scatti, i suoi sbalzi d’umore, le cattiverie improvvise, le stilettate offensive, ma alla fine fa stancare anche Enzo Scanno (pure la pazienza dei martiri ha un limite), anche se è lei a fare il primo passo verso la separazione. Grande personaggio letterario (9), ma, sul piano umano, non merita più di 4.

Elena Greco: Ma insomma, chi delle due è l’amica geniale? Sicuramente non Lenù, letterata notevole, brava scrittrice, ma teleguidata da Lila con vera, pur se perversa genialità. La sua vita privata è una catena di disastri: attaccata “come l'ubriaco alla bottiglia “ (Baudelaire) al suo grande amore adolescenziale, pianta baracca e burattini appena questi le si dichiara. In realtà Nino Sarratore (voto:3) è affetto da dongiovannismo acuto. A lui si attaglia alla perfezione il famoso catalogo che il servitore del mozartiano sciupafemmine squaderna ad una Elvira allibita nella celebre aria: “Madamina, il catalogo è questo”. Il Leporello della situazione qui è Antonio, il primo amore di Elena: “Non si picca se sia ricca/ se sia brutta, se sia bella/ purché porti la gonnella/ voi sapete quel che fa”. Ma Lenù aveva già aperto gli occhi (era ora!) quando l’aveva visto all'opera ancora una volta nel bagno di casa (da Firenze a Posillipo, la sua location preferita non muta) con l’attempata collaboratrice familiare (Nino fraintende qui il significato della qualifica). Finalmente la letterata mette a frutto anche nella dimensione personale la sua vasta cultura e attribuisce al bellimbusto cui ha sacrificato mezza esistenza una sorta di “eterosessualità fragile”. Proprio quello che alcuni colgono nel personaggio di Don Giovanni e nella sua brama di donne perennemente insoddisfatta. Lenù, anche prima di cornificarlo, tratta malissimo il marito, parteggiando sfacciatamente per tutti coloro che lo contrastano, dal prode Sarratore agli amici d’infanzia, per quanto terroristi e maleducati. Arriva a dire che a Pietro manca la risposta pronta dei ragazzi del Rione. La salvano, nella valutazione complessiva, l'aver fatto della cultura un mezzo di promozione sociale e il suo culto dell’intelligenza l’ha aiutata a varcare i limiti e le angustie del suo ambiente, come la sua amica-rivale non ha saputo fare. Perciò: 6 1/2

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Tutti i romanzi ai quali ciascuno di noi, per una ragione o per l'altra, è legato perché ha sentito i suoi personaggi come persone vive e vere e le ha giudicate in quanto tali.
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FraPog93 Opinione inserita da FraPog93    06 Gennaio, 2025
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Un libro nato colossal

Mi sono avvicinato a questo romanzo incuriosito dal colossal che ne e' stato tratto.

Devo ammettere che, pur essendo stata una lettura piacevole, non mi ha rapito come mi sarei aspettato.

Il libro narra delle indagini di un ex capo della divisione scientifica della polizia di NYC, ora tetraplegico, e di un'agente affetta da artrite cronica. Nella Grande Mela un efferato e sadico serial killer emula le azioni di un maniaco di inizio 900, spargendo il caos fra le strade della citta'.

L'autore e' stato in grado di ricreare episodi particolarmente tesi, facendo nascere nel lettore un sentimento di ansia ed interesse. Sicuramente questo e' un elemento essenziale in ogni poliziesco degno di nota.

Tuttavia, devo ammettere che la presenza esageratamente massiccia di terminologia scientifica mina la piacevolezza della lettura, specialmente se tradotta in un'altra lingua.

Altro elemento spiacevole e' l'eccessivo riferimento culturale al mercato americano, quasi come l'autore pensasse gia' ad Hollywood ancor prima che il libro fosse finito. In sostanza, quest'opera manca di anima in moltissime scene e, quando il sentimento e' richiesto, si creano dinamiche imbarazzanti e poco studiate (ad esempio, quando i due si sdraiano insieme nel letto... perche'?)

Tutto sommato, e' un libro piacevole che consiglio di leggere senza troppe aspettative.

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Romanzi storici
 
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    05 Gennaio, 2025
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Musica

Dalla città di Edimburgo, "che abita i suoi colli con magnificenza superiore a quella della stessa Roma", la famiglia Aubrey si trasferisce nei dintorni di Londra.
Oltre ai genitori, la famiglia comprende quattro figli : tre ragazze e un bambino ; tutti sanno suonare uno strumento. Una casa molto musicale, dunque, dove il canto del pianoforte si alterna ai lamenti del violino o alle note leggiadre del flauto.
A essere stata nella giovinezza una bravissima musicista è la madre, che ora coltiva con assiduità il talento delle figlie votate al pianoforte.
Gli anni lentamente trascorrono e portano novità, alcune destinate ad avere significative ripercussioni.

La scrittura di Rebecca West è bellissima, direi veramente incantevole, dotata di armoniosa grazia.

Devo qui premettere di essere poco interessato alle storie di bambini, per cui la lieve sensazione che il romanzo, nella prima parte, stenti un po' a decollare penso sia da ascrivere soprattutto a mio carico come lettore.
Man mano che la prole esce dall'infanzia, infatti, m'è parso che il libro acquisisca maggiore levità per confluire in una fresca sinfonia di mezza stagione.

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letteratura inglese
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Romanzi
 
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    04 Gennaio, 2025
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Intelligenza sintetica

Questo è sicuramente uno di quei libri della mia libreria che in una casa danno la sensazione di avere un camino acceso. L’autore è un mago nel descrivere i sentimenti e la sua specialità sono soprattutto i rapporti di coppia. La coppia protagonista di questa storia, Fosco e Alice, è alle battute finali della loro storia e si raccontano a noi a capitoli alternati, con il punto di vista di lui ed il punto di vista di lei. Le litigate, le indifferenze, le cattiverie, le gocce che fanno traboccare il vaso, ma anche il rispetto, l’amore, il calore di una casa, i ricordi, il canalizzare la rabbia ma anche il liberarla un po' come capita. Nello stile dello scrittore, che è caratterizzato da una sempre molto piacevole ironia, il loro modo di dialogare, di battibeccare, di rispondersi con frasi che sono stilettate di intelligenza sintetica, è sicuramente la parte più bella del romanzo. Molto più degli intercalari nostalgici sulla casa dell’infanzia, molto più dei ricordi di lui, fin troppo invadenti, o dei suoi racconti letterati. Il lettore è forse portato a sperare in un lieto fine, ma dai dolori guariamo superandoli, letteralmente, ovvero lasciandoceli alle spalle, voltandoci e scoprendo di aver messo abbastanza strada fra noi e loro, in modo da impedire quasi loro di raggiungerci ancora. Fosco e Alice stanno cercando di mettere dello spazio fra di loro, anche se gli oggetti della loro casa sono pensieri, ricordi, testimoni e rimandano ai tempi vissuti insieme e questo vale tanto anche per le nostre case. Ma è liberandosi delle cose che si va avanti, perché gli oggetti di cui ci circondiamo recintano i nostri pensieri.

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Racconti
 
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    03 Gennaio, 2025
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Un manuale per lettori.


Ricordo che tanti anni fa un famoso scrittore di gialli (non ricordo purtroppo il nome) ebbe a dire agli appassionati del genere, ed io sono tra questi, di intervallare le loro letture con qualche cosa di diverso (una ventata d'aria fresca, la chiamava). Mi sono incuriosito allora di quest'opera di Amos Oz, un pò al di fuori dai generi consueti: "La storia comincia così" non è un giallo, ovviamente, e neppure un romanzo tradizionale nè una raccolta di racconti. E' un saggio letterario, una raccolta di lezioni e conferenze tenute in licei ed università alla fine del secolo scorso: l'argomento è piuttosto ostico, trattandosi di analizzare l'incipit di una decina di romanzi, approfondendo il contenuto e verificando quello che l'autore chiama "contratto" tra autore e lettore, cioè, in poche parole, se l'incipit avrà poi un effettivo riscontro nella storia raccontata. L'argomento non è semplice da digerire. Le prime pagine dei romanzi sono infatti sottoposte minuziosamente a critica, riscontri e analisi via via più serrate: non è detto che i "contratti" siano tutti uguali, o, meglio, che abbiano tutti riscontri positivi, anzi. Però, questa sorta di patto segreto tra scrittore e lettore, di per sè difficilissimo da capire a fondo, aleggia sempre nell'indagine di Amos Oz, incuriosisce e denota soprattutto una straordinaria abilità dell'autore nel definire i parametri delle storie narrate nei romanzi presi in considerazione. Romanzi che sono di vari autori e che trattano argomenti diversi: da "Effi Briest" di Theodor Fontane a "Il naso" di Gogol, da "Un medico di campagna" di Franz Kafka a "L'autunno del patriarca" di Gabriel Garcia Marquez ed a "Nessuno diceva niente" di Raymond Carver, tanto per citarne alcuni tra i più noti, fino ad uno dei miei preferiti, "La storia" di Elsa Morante. La trattazione che fa Amos Oz dei romanzi esaminati, da un punto di vista del tutto originale, è una specie di guida per il lettore, lo accompagna passo passo e, per che riesce a coglierle, dà importanti indicazioni, utili per orientarsi nella lettura e nell'esame dei rapporti tra i vari personaggi.
Ecco, non è certo un libro da spiaggia, come si suol dire: ostico al primo contatto , a partire dall'introduzione ( "Ma allora, che cosa c'era prima del Big Bang?"), coinvolge però immediatamente, cercando di mettere il lettore nei panni di uno scrittore di fronte alla famosa pagina bianca, una pagina che appare come " un impenetrabile muro di calce", pieno di insidie, tanto da indurre alcuni autori a " non cominciare dall'inizio" ma a "scrivere prima due o tre scene facili a metà". Proprio nell'introduzione, Oz spiega anche che, superato bene o meno bene lo scoglio della pagina bianca, l'incipit del romanzo è quasi sempre un contratto tra chi scrive e chi legge, contratti che non sono tutti uguali, "inclusi quelli che non si rispettano e che non si intende rispettare, che pure si chiamano contratti anche loro".
Esemplare, secondo l'autore, è il contratto che sta alla base di "La storia" della Morante, forse l'opera più amata e vivisezionata da Amos Oz: è subito un invito a stare "dalla parte giusta della barricata, che separa i figli della luce dai figli delle tenebre ", "i tiranni assetati di guerra dal distillato di purità e limpidezza". La giovane donna e il figlio sono santi e puri, riuscendo perfino a far apparire il soldato tedesco stupratore un grosso, biondo bambinone dallo "sguardo disperato", bisognoso di tenerezze e compassione.
E questo è un altro contratto dello stesso romanzo: un contratto interiore, come lo definisce Oz, religioso, occulto, tra la scrittrice Elsa Morante e il lettore "pronto ad accoglierlo.
L'opera termina con due capitoli aggiuntivi. Nel primo si esalta il piacere della lettura, che deve essere un piacere lento, che esige tempi lunghi, tutt'altro che frettolosi. Il secondo tratta, vedi un pò dove vanno a parare l'originalità e la fantasia di uno scrittore, la vera ragione della morte di sua nonna, una donna maniaca della pulizia, in perenne dissennata guerra ai microbi, al punto da immergersi più volte al giorno in bagni bollenti, per "arrostire i microbi". La morte in tardissima età avvenuta in bagno ebbe come causa un attacco di cuore, ma, secondo l'autore, sarebbe stato più veritiero scrivere nel referto " morta di pulizia". Di qui, una lunga e dotta disamina sulla distanza tra un fatto e la verità e su dove stia la tanto auspicata certezza e, soprattutto, se sia realmente auspicabile.
"La storia comincia così" si delinea in sostanza come un profondo, e non sempre di facile comprensione, manuale di lettura per comprendere meglio le storie narrate e tentare di creare una sorta di complicità tra scrittore e lettore. Lo stile è efficace, preciso, tagliente, diventando più garbato e ironico nei due capitoli conclusivi.
La lettura può sembrare ostica ma concordo pienamente con una recente recensione, che la consiglia vivamente a coloro che sono interessati ad avvicinarsi ai romanzi "con qualche strumento in più nella propria cassetta degli attrezzi".




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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    03 Gennaio, 2025
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Ed ecco perché non ho più fiducia nello YA

Da anni non mi capitava di essere così poco produttiva a livello di serie letterarie; e non contenta di averne terminate giusto una manciata in tutto il 2024, mi sono pure penalizzata a livello qualitativo. Temo infatti che Rebel of the Sands entrerà nell'Ade delle serie peggiori mai lette dalla sottoscritta, e vi assicuro che non sarei mai riuscita ad intuito a priori. Risulta ben chiaro quindi che "Rebel. La nuova alba" non è riuscito a salvare la sua trilogia; un'impresa senza dubbio improba, ma si può effettivamente parlare di fallimento quando non ci si prova neppure?

Proprio com'era successo tra i primi due libri, un elissi temporale ci dà il benvenuto dopo un breve primo capitolo. È passato un mese dal finale di "Rebel. Il tradimento" e la città di Izman è sotto assedio da parte dell'esercito gallan; a proteggerla c'è però una barriera infuocata eretta grazie alla magia dei Djinni, abilmente sfruttata dal Sultano. Amani ed i pochi ribelli rimasti cercano quindi un modo per aggirare questo muro di fuoco e seguire la bussola di Jin, con l'obiettivo di ritrovare Ahmed e scacciare una volta per tutte le forze straniere che mirano al controllo del Miraji.

Com'era prevedibile Amani prende in mano la rivoluzione, e com'era ancora più prevedibile questo si dimostra essere uno dei maggiori difetti del romanzo. Se già la trovavo irritante in qualità di ribelle testarda ed impulsiva, vi lascio immaginare cosa penso di lei in qualità di leader testarda, impulsiva e pure piagnona! sì perché i suoi pensieri per buona parte del volume ruotano attorno a quanto si senta inadeguata in confronto con il Principe Ribelle, con Shazad o con Rahim. Precisamente in quest'ordine, ogni volta. Nel frattempo, prende una decisione sbagliata dopo l'altra, rendendo la trama ancor più sciocca ed incoerente di quanto non fosse nei capitoli precedenti.

E non illudetevi che io tenga in serbo parole gentili per i suoi comprimari. Già poco caratterizzati, qui i personaggi regrediscono ulteriormente diventando delle vere e proprie macchiette, o meglio delle pedine che l'autrice muove in base alle necessità della trama senza alcuna considerazione per la verosimiglianza; di conseguenza anche le morti alle quali assistiamo sono prive di impatto emotivo. Perfino Jin, il grande amore di Amani, è carente in quanto a carisma e si limita a restare sullo sfondo dando blandi incoraggiamenti. La loro romance poi si conferma decisamente fuoriluogo, oltre ad essere basata su delle dinamiche a mio avviso discutibili, con lui che scappa davanti alle difficoltà e lei che lo vincola a sé senza riflettere o chiedere il suo benestare.

Cosa dire poi del sistema magico? tra espedienti convenienti, regole cambiate tra una scena e l'altra ed un utilizzo casuale dei poteri: la cara Alwyn ha fornito i Demdji di così tante capacità, che poi ha dovuto renderli scemi in modo da non dovervi ricorrere sempre, ma solo quando era necessario per far proseguire la storia. Un lavoro di scrittura decisamente infantile, che si riflette com'è logico nello stile, nell'intreccio e nella costruzione dell'universo narrativo; a risentirne in particolare questa volta è l'aspetto geopolitico, gestito con la stessa credibilità di chi si mette a dieta il primo di gennaio. Personalmente non ho apprezzato neppure i chiari tentativi di manipolare il lettore, ricorrendo tra l'altro ad un urticante femminismo di facciata: quando si tratta di giudicare l'operato degli antagonisti si adotta la morale contemporanea, mentre quando a commettere azioni discutibili è Amani tutto le viene condonato perché il suo mondo è brutto e lei deve fare tutto il possibile per sopravvivere.

Solitamente mi sforzo per trovare dei pregi da menzionare nelle recensioni, ma in questo caso non so proprio cosa dire. Forse potrei concentrarmi sugli elementi non negativi, come l'assenza di refusi nel testo, di violenza gratuita o di momenti fiacchi. Per lo meno non mi posso lamentare dell'edizione nostrana, alla quale riconosco anzi l'astuzia di aver omesso la mappa; fosse stata presente, i lettori italiani si sarebbero resi conto che gli spostamenti fatti dai protagonisti in giro per il Miraji non stanno né in cielo né in terra!

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    01 Gennaio, 2025
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Sangue grondante

Terzo episodio della serie del commissario Vivacqua, un personaggio sui generis, che ispira una grande simpatia, unitamente alla squadra con cui lavora. Il caso che lo vede coinvolto non doveva essere suo, lo aveva destinato ad altri per evitare di essere ancora personalmente coinvolto con la rete vischiosa di un serial killer, però la squadra anti-mostro dedicata è alle corde ed allora scende in campo lui, il migliore ad annodare i fili sospesi. Dopo alcune mosse false e dopo tanti errori, arriva a capire, perchè l’incredibile talvolta è l’unica spiegazione ragionevole e talvolta, per arrivare alla verità, bisogna concedere qualcosa all’assurdo. In un fascicolo tra le mani di un suicida si scopre un collegamento inimmaginabile, che aiuta a tessere molto velocemente tutta la trama, a capire che il killer assassino è uno sì, ma i colpevoli sono tanti, in una complicità che gronda sangue.

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Arte e Spettacolo
 
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Miriam Di Miceli Opinione inserita da Miriam Di Miceli    31 Dicembre, 2024
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LA CONDANNA DELLA BELLEZZA

Elena di Sparta? Elena di Troia? Elena colpevole? Elena innocente? Elena distruttrice? Elena figlia di Leda? Elena rapita da chi? Molte sono le domande che accompagnano questo personaggio straordinario e molte le versioni del mito che riprendono la sua storia e hanno voglia di raccontarla. Concentrerò quest’opinione soltanto sulla protagonista, partendo da considerazioni riguardanti la tragedia che porta il suo nome, cercando, però, di dare un punto di vista complessivo del personaggio e riflettendo sui vari aspetti che la sterminata letteratura mette in luce. Ciò non significa affatto che il personaggio di Menelao, preso singolarmente o all'interno del rapporto matrimoniale, sia di meno importanza, anzi, completamente il contrario e tengo a precisarlo proprio riconoscendone una parte fondamentale. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che scriverei un'opinione estremamente lunga che difficilmente troverebbe un punto finale, ma per fortuna studiosi di tutto rispetto gli hanno reso e continuano a rendergli le giuste considerazioni.
Nella tragedia di Euripide, Elena, per prima, prende subito parola con l’intenzione di raccontare tutti i suoi mali. Scopriamo che, fin da subito, Elena è al contempo individuo e molteplice. Il suo nome girovaga ovunque, corre veloce per le bocche di tutta la Grecia e oltre, dichiarandola il peggiore dei mali, eppure il suo corpo è uno e si trova in Egitto, luogo che, in un tempo voluto e determinato dagli dei, ha avuto il compito di proteggerla, ma adesso rappresenta solo prigionia, esilio e obliata speranza. Infatti, il suo vero protettore, Proteo, vecchio re dove le acque del Nilo scorrono calme e bellissime, è morto e la donna passa intere giornate sopra la terra in cui è sepolto, cercando, davanti la tomba, conforto nel paese straniero. Nessuno sa dove si trovi veramente Elena, ma tutti sono pronti a sputare sentenze su di lei per la famosa colpa commessa e per tutto il sangue che è stato versato a causa sua. Ma siamo sicuri sia stata proprio Elena a scatenare (o a muovere pretesto per) la guerra di Troia? Euripide, e così autori prima di lui e dopo di lui, ci pone di fronte a una complessa cifra enigmatica, scomponibile tra verità e opinione, autenticità e inganno. L’Elena che è andata a Troia, tradendo la stirpe degli Atridi, e consequenzialmente, secondo il famoso giuramento di fedeltà fatto a Menelao, tutta quanta la Grecia, non è l’Elena di Sparta, ma solo un simulacro, un doppio, che la dea Era ha voluto costruire con un frammento di cielo, messo in vita da un soffio d’aria, vendicando sé stessa per l'oltraggio subito dalla vittoria di Afrodite, avvenuta con il giudizio di Paride. Tutte le varianti del mito che riguardano il personaggio di Elena si presentano alcuni con degli episodi aggiuntivi, altri, spesso, contraddittori tra loro, altri ancora, come nel caso di questa tragedia, nettamente differenti dall’opinione maggiormente conosciuta dal pubblico. Eppure, nonostante questa varietà di contenuto, l’elemento distintivo di questo incredibile personaggio femminile è che in qualsiasi incognita variabile venga a trovarsi, rimane sempre identica a sé stessa. Elena è una donna coraggiosa, prende con la forza della giustizia qualsiasi diritto alla vita che spetta, per nascita, ad ogni essere umano: abbraccia lo spazio per gli errori, sa difendere sé stessa, non ha paura di giudicare le sue azioni che spesso apostrofa con violenta ira, senza mai raggiungere l’avvilimento, ma, al contrario, trasformando quell’accanimento in una rabbia costruttiva, a tal punto da saper affrontare i rimorsi con il coraggio, il desiderio di ritornare indietro e la forza di farlo. Di questo è fatta Elena e queste sono le sue più grandi e significative battaglie. Quanto coraggio ci vuole per ammettere un errore e ritornare indietro? Questa, per esempio, è una di quelle domande che il mito ha regalato all’eternità e su cui ognuno di noi può riflettere. Elena è padrona del tempo vissuto, del tempo che vive e di quello che ancora l’attende. Il tempo della necessità è sostituito dalla naturale transizione e dal sapersi muovere con destrezza nella mutevolezza degli eventi; tutto è ancora recuperabile per lei, così come tutto ciò che desidera doveva avvenire perché voleva avvenisse. Il simulacro di Elena è, dunque, esempio paradigmatico di questo temporale gioco ad incastro a cui la reale Elena decide di non sottostare, confermando, ancora una volta, la sua forza motrice. In quanto donna della scena tragica, però, non può fare a meno di scontrarsi con la vertigine liminale e profonda della solitudine, non appena scopre che i suoi affetti più cari sono morti per quel suo doppio, che pur non abitando il suo corpo è come se la tenesse legata, lei stessa, infatti, dirà: “non ne ho colpa, eppure è colpa mia”. Elena, “in un canto triste che non vuole la gioia della lira”, invoca la Musa per cantare e piangere insieme le pene che il destino le ha inflitto, ma la sua dinamicità cerca immediatamente di risolvere questo momento terribile con il pensiero salvifico della morte, ed è molto importante sottolineare che non è di una morte qualsiasi quella a cui fa riferimento l’eroina. La donna, infatti, riflette su quale sia una morte degna e valorosa quella a cui valga la pena aspirare. Il suo linguaggio, al pari di quello di un eroe, è estremamente lucido e vaglia criticamente le morti miserabili da quelle nobili, ed è sulla spada nel petto che cade la scelta di questo personaggio inarrestabile. È di estrema importanza riprendere un altro aspetto che tende ad essere presente in ogni Elena del mito: il rapporto con la bellezza che, personificata nello spazio del racconto greco, ha nome Afrodite. La bellezza di Elena è onnipresente perché intrinsecamente connessa alla sua natura esteriore e interiore, ma la protagonista sembra avere un rapporto sinistro e conflittuale con la dea. Sia nell’Iliade che nell’Elena di Euripide sono parole di sfida, funeste e ostili, quelle che la donna rivolge alla divinità, chiamandola “assassina” e denominandola come causa prima di tutti i suoi mali. Eppure Elena, senza quella bellezza, da lei stessa definita “tremenda” e "disgraziata", non avrebbe alcun valore, sarebbe il nulla, perché solo essendo protetta da Afrodite, e a lei sottomessa, Elena è capace di muoversi liberamente e di godere di tutti quei privilegi che altrimenti le sarebbero tassativamente esclusi, in quanto donna greca. A questo proposito, bisogna aggiungere che la libertà di cui Elena gode ha a che fare sia con la sfera pratica sia con quella intellettiva. Non è possibile pensare Elena senza menzionare l’uso e l’arte del linguaggio, i raffinamenti retorici, i dispositivi metateatrali e affabulatori che, anche nella tragedia che prende il suo nome, questo geniale personaggio mette in atto. Se non fosse, infatti, per l’astuzia di Elena, Menelao rimarrebbe esule e spogliato della sua gloria in terra straniera. Questo, però, è un particolare a cui bisogna prestare molta attenzione e, soprattutto, è necessario fare uno sforzo per tentare di trovare la giusta chiave di lettura interpretativa, perché quella che per noi moderni potrebbe risultare una grande emancipazione femminile, in realtà nel mondo greco si presenta come lo specchio misogino che riflette una donna severamente additata come prima portatrice di mali e capace di tramare e tessere inganni e ordigni di ogni genere. Credo sia un’opinione ormai consolidata, oggi, quella che rende omaggio ad Euripide per avere una visione più ampia del mondo rispetto ai suoi predecessori tragici, ma credo anche che definirlo “progressista”, sia, forse, un’opinione un po’ azzardata. Euripide, in quanto scrittore e tragediografo, ha un’innegabile apertura mentale e porta novità di contenuto sostanziale alle sue tragedie, che determinano una grande rimessa in discussione su alcuni valori consolidati, pensiamo, per esempio, all'importanza concettuale nel ridimensionamento dell'intervento divino, ma è bene ricordare che rimane comunque un uomo del suo tempo, dentro un clima culturale che proprio in quegli anni, ad Atene, subisce enormi trasformazioni di grande complessità. Dunque, spetta sempre a noi moderni la responsabilità e il desiderio di avvicinarci e incontrare il passato, ma mai il contrario.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    29 Dicembre, 2024
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Un ritorno, tante illusioni.

Il commissario Ricciardi della Squadra Mobile della regia questura di Napoli è uno dei personaggi preferiti di Maurizio De Giovanni ed è il protagonista di questo "Volver", quindicesimo giallo della serie. Ricciardi è preoccupato, e non a torto. Siamo nel 1940, in estate, ed i tempi sono oltremodo difficili. La guerra è alle porte, è stata dichiarata a Francia e Gran Bretagna, sulle ali di un illusorio entusiasmo da parte di Mussolini. Ma il nostro commissario è preoccupato soprattutto per i suoceri, di religione ebraica, passibili di persecuzioni: mette allora in atto una via di fuga, trasferendoli, con l'adorata figlia Marta, a Fortino, tra i monti del Cilento, dove ha residenza e possedimenti e dove è ancora stimato e riverito. Lascia quindi il lavoro mentre altri eventi si susseguono. Un'artista italiana trasferitasi in Argentina, Livia, sente nostalgia per il paese natale dove è sepolto suo figlio e, lasciando amici e lavoro, torna, accompagnata dalla nostalgica melodia di una celebre canzone, "Volver" (ritornare), che parla di un vecchio amore da ritrovare, di ricordi e di nostalgia: la donna, infatti, vuole rivedere Ricciardi, sua antica fiamma, ma non avrà molta fortuna. Intanto fallirà un attentato ad un gerarca nazista in visita al porto, e verrà messo in salvo il volontario attentatore, un medico offertosi come autore ma sicuramente candidato a morte certa. Ma ecco l'evento narrativo principale: Ricciardi vuole fare luce su un delitto di alcuni decenni prima, avvenuto proprio nei suoi possedimenti. Vuole svelare un mistero irrisolto, scoprire un dramma irrisolto da trentaquattro anni: l'uccisione di un giovane da parte di un marito, convinto che la moglie ne fosse l'amante. Molti sanno, pochi parlano, reticenti o smemorati, ma a poco a poco Ricciardi , indagando e interrogando personaggi vissuti all'epoca con pazienza e cocciutaggine, verrà a scoprire un'altra verità, del tutto inattesa e sconvolgente.
Il romanzo, nonostante gli eventi bellici terribili e la narrazione di un delitto avvenuto in un tempo che fu, segue il ritmo melodico di una canzone struggente e nostalgica: il tema è quello del "ritorno", un ritorno che non è mai quello che si vorrebbe. Un ritorno e l'illusione di cambiare le cose in meglio, l'illusione che è insieme nostalgia e speranza.
C'è l'illusione di Livia che torna in Italia sperando di ritrovare una casa, un amore perduto, una vita nuova. E ancora l'illusione del medico attentatore che vuole dare, immolandosi, un segnale di rivolta, l'illusione dello stesso protagonista, il commissario Ricciardi, che sperando di trovare tra i monti del Cilento pace e serenità, si troverà invece a scavare in un passato insidioso e pieno di imprevisti. E c'è anche, in sottofondo, la guerra dichiarata da Mussolini, che illuderà un popolo stremato a sperare in vittorie rapide e mirabolanti.
E poi, come secondo filone, il tema dell'amore. Un amore che, come sempre, non ha regole precise, andamenti regolari e prevedibili: l'amore, che viene rivelato alla fine del romanzo, ha unito in modo struggente e impetuoso, due personaggi tanto lontani e diversi, abbandonatisi al sentimento senza calcoli nè paure. Un amore che, forse, è stato solo illusione. "Chissà se si può davvero tornare...O se quello che ci illudiamo essere un ritorno è soltanto una triste, patetica illusione. L'ultima illusione". Così finisce il romanzo di De Giovanni, una conclusione amara, condita da tanta nostalgia.
Lo stile è ricco di annotazioni psicologiche, che scavano nei personaggi e li rendono vivi e ben calati nella realtà dei momenti vissuti, intrisi di risvolti drammatici ma aperti sempre alla speranza.
Sullo sfondo, il tango "Volver" (ritornare), fa da colonna sonora al romanzo, dramma e speranza si intrecciano, sottolineando l'intensità di una storia intrisa di emozioni ed illusioni.

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Altri romanzi dello scrittore.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    29 Dicembre, 2024
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Pulizia a fondo

Primo libro di una serie di gialli fiorentini al femminile, con protagonista Valeria Bardi, una commissaria donna dall’intelligenza profonda e capace di intuizioni e sensazioni che stanno a metà strada fra l’intuito tipicamente femminile ed il cosiddetto fiuto poliziesco. Con pizzichi di ironia e di leggerezza, dati anche dagli intercalari dialettali fiorentini, che, come sempre, danno un tocco di italianità pura ed ispirano simpatia. Valeria si ritrova a dover mettere ordine fra i tanti possibili sospettati di un omicidio che si scopre essere maturato nell’ambito di uno sporco affare di interessi e di famiglia. Con i suoi sensi sempre all’erta e con le sue deduzioni, a partire da piccoli particolari, analizza la posizione dei sospettati, li interroga, ne intuisce le emozioni, ne smonta gli alibi, scoprendo molte cose tristi, violente ed anche stupide, successe fondamentalmente per avidità. Fra tante piccole cose non perfettamente al loro posto, in questa brutta storia di famiglia, arriva a scoprire il colpevole ed a fare pulizia. Per un giorno. In attesa del prossimo caso.

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Racconti
 
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Miriam Di Miceli Opinione inserita da Miriam Di Miceli    28 Dicembre, 2024
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IL GIOCO GRAMMATICALE

Dürrenmatt mette in scena un libro molto complesso, scritto, forse, con l’intenzione di allestire un linguaggio che simuli una vera e propria rappresentazione teatrale. L’autore invita il lettore ad assumere lo stesso sguardo del protagonista, il Minotauro, ma, soprattutto, lo sfida nella sua completa natura di uomo, nella totale appartenenza al genere umano, e in quanto tale a provare su di sé certi momenti di forte intensità emotiva a cui il Minotauro, al contrario, un essere solo parziale, è condannato, cercando in questa maniera di far incontrare, quanto più vicino sia possibile, due punti di vista distanti e inconciliabili tra loro. È necessario, dunque, che l’autore porti il lettore anche fuori dalla scena, cercando di spiegare i desideri, le paure e i sentimenti primitivi che l’essere mostruoso non è capace di comunicare e l’uomo non è in grado di comprendere. L’opposizione tra uomo e animale è la prima grande tragedia del Minotauro, proprio perché questa netta distinzione è la sua identità, è il suo essere e il suo essere unico: mezzo uomo, mezzo animale, una condizione destinata alla convivenza e alla profonda solitudine, dentro un altrettanto ambiente unico, esclusivo e costruito appositamente per lui. Labirinto e Minotauro, luogo e personaggio, in questo caso, sono perfettamente rappresentativi l’uno dell’altro, entrambi rispecchiano l’originario caos e il paranoico disordine, un momento esistenziale a cui nessun uomo vuole volontariamente avvicinarsi. Fortunatamente il lettore può entrare in questo spazio abbandonato, vedere cosa succede al suo interno, dal momento che dispone anche lui di un filo rivestito di parole, costruito di proposito per orientarlo e guidarlo senza il rischio di essere toccato dalla follia, ma riuscendo, al contrario, con una calibrata distanza, ad osservarla in tutta la sua potente manifestazione dentro quegli specchi in cui il Minotauro, all’interno del racconto, si guarda e non sa ancora di vedere se stesso. Si capisce, allora, come uno dei temi principali del testo sia la riflessione sul rapporto problematico tra l’io, il doppio e l’altro, trinomi costruiti tramite un lessico specchiato, nel quale agisce un geniale gioco grammaticale imperniato nel dolore del singolare, una volta avvenuta la rivelazione del singolo, nella gioia del plurale, fortemente condizionata dal desiderio euforico e illusorio di appartenere ad una collettività e nell’intimità del duale, un momento di alto tradimento narrato in una danza scenica degli opposti e degli uguali. Un libro brevissimo, meraviglioso e difficile.

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Romanzi storici
 
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LuigiF Opinione inserita da LuigiF    28 Dicembre, 2024
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UN POPOLO E IL SUO PONTE

Un ponte maestoso quanto imperturbabile assiste impassibile alle umane vicende di un multietnico popolo di frontiera. Le illogiche violenze della guerra, le vane passioni umane e i convulsi mutamenti sociali durante i cinque secoli del racconto, non turbano il fluire del fiume che scorre senza scalfirlo sotto le sue possenti arcate.
Il ponte è l'unico vero protagonista del romanzo. Alla sua solidità si contrappongono le vane tribolazioni di una moltitudine di personaggi, i quali, piccoli frammenti impazziti di una realtà immutabile, si affannano pateticamente in una quotidiana battaglia dell'esistenza. In un paese che non conosce pace, il ponte ora unisce ora divide e vinti e vincitori si succedono nelle alterne vicende della Storia.
Il ponte è quello di Visegrad, alla frontiera tra Bosnia e Serbia. Nei secoli, una popolazione di serbi ortodossi, ebrei sefarditi, musulmani bosniaci e turchi ottomani convive in un improbabile quanto stabile equilibrio. Dopo secoli di dominio turco, l'intera regione passa sotto l'impero austro-ungarico aggiungendo al melting-pot balcanico la presenza cattolica. Ai vecchi oppressori ne subentrano di nuovi. All'inerzia ottomana si sostituisce l'incomprensibile frenesia degli efficienti ufficiali teutonici. In fondo però né gli uni né gli altri riescono a incidere profondamente sul carattere della popolazione, la cui natura multietnica appare impermeabile alle contaminazioni delle culture dominanti. Imperturbabili come il loro ponte, i cittadini di Visegrad, a qualunque etnia appartengano, restano ancorati a tradizioni secolari e appaiono refrattari ai cambiamenti e alla modernità.
Le pagine migliori sono quelle che restituiscono il carattere di un popolo fiero, ostinato, forse un po' anarchico di fronte agli stravolgimenti della storia.
Penso alla scena, straordinaria per crudezza e potenza visiva, del sabotatore pubblicamente impalato e a quella successiva in cui la comunità ritrova, nel mesto cerimoniale della sepoltura del malcapitato, il coraggio e l'orgoglio identitario.
Assai riuscite anche le vivide pagine in cui si descrive quella fauna da osteria composta da perditempo avvinazzati ora malinconici ora gaudenti, a volte derisi piu' spesso irridenti.. Ancora, nel capitolo della grande alluvione, memorabile è l'incontro di iman, pope e rabbino che responsabilmente discutono sul da farsi, annullando le divisioni di fede nel segno del reciproco rispetto e della ricerca del bene comune.
Giustamente celebre, Il ponte sulla Drina è un romanzo corale il cui valore trascende quello puramente letterario. È un grandioso affresco sociale, opera di uno scrittore profondamente consapevole e intimamente intriso della cultura del suo popolo.

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Letteratura rosa
 
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    28 Dicembre, 2024
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Arte trasparente

Romanzo dall’atmosfera incantevole, dal ritmo lento, armonioso, ricco di descrizioni dettagliate, di ambientazioni naturali e di una morbida lentezza che ti riporta immediatamente, con la mente e con l’animo, all’atmosfera di altri tempi. In questo bell’esempio di narrativa romantica percepisci un senso di profonda nostalgia, perché la protagonista intraprende un viaggio, per lei pieno di speranza, ma il suo cuore è sempre molto vicino ai suoi affetti, alla sua casa ed al suo paese, pur non chiudendosi a quello che di bello la vita le può offrire. Lei è un’artista, una donna artista ed un’energia magica scorre attraverso la sua mano, così come, attraverso la penna della scrittrice, arriva a toccare anche le nostre mani che sfogliano questo libro.

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Romanzi storici
 
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Stefano89 Opinione inserita da Stefano89    26 Dicembre, 2024
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il coraggio e la passione

L’abbiamo conosciuta nei libri di scuola per i suoi traguardi professionali e per i meriti in campo scientifico. La sua autobiografia restituisce l’affresco di una persona caparbia, innamorata della scienza ma poco incline a svelare il suo lato umano. Sara Rattaro completa questo quadro aggiungendo pennellate di colore e dando profondità e spessore al ritratto di una donna meravigliosa e appassionata. Il romanzo racconta in prima persona, attraverso la voce della stessa Marie Curie, le tappe fondamentali di un’esistenza memorabile. L’evento cruciale, cui tutti gli altri si ricollegano, è la morte del marito Pierre Curie: un incidente che di per se non ha nulla di eccezionale ma che ha il potere di stravolgere il corso di una vita intera. In fondo si sa che “il dolore fa male e quando entra nell'equazione il risultato è imprevedibile”. Le parole di Sara Rattaro dipingono la disperazione della scienziata e danno consistenza alla sua sofferenza rendendola autentica e tangibile. Possiamo sentire anche noi quel pianto da animale ferito riecheggiare nelle stanza segrete del suo cuore, un verso terrificante che assume i colori e le sfumature della solitudine e dello smarrimento di chi ha perso il proprio punto di riferimento. Pierre era tutto: compagno di vita, amante e marito passionale, collega di lavoro, amico e confidente. Ma nonostante lo strazio della perdita questa donna straordinaria riesce a riprendere in mano le redini della sua vita privata e professionale. Da questo momento la voce narrante ci riporta indietro nel tempo e, per usare le sue stesse parole, il passato “si ripresenta come un film” ai nostri occhi. Tutto inizia in una Polonia occupata dai russi dove alle donne non è permesso di studiare. È qui che la passione per la scienza fiorisce e si alimenta, grazie anche agli incoraggiamenti di un padre che, nonostante i pericoli e divieti, consente alle figlie di proseguire gli studi. Ogni capitolo ripercorre un periodo specifico della sua vita: dagli anni della giovinezza, caratterizzati da una cocente delusione d’amore che sarà poi la spinta per trasferirsi a Parigi, all'incontro con suo marito; dalla vita coniugale sempre accompagnata da una intensa attività di ricerca in laboratorio, al periodo successivo alla morte di Pierre, quando l’intera esistenza perde ogni sfumatura e colore; dalla riscoperta dell’amore, che la coglie in maniera del tutto imprevista e quasi dolorosa, alla battaglia per ricevere quel riconoscimento che nessun altro (uomo o donna che sia ) ha raggiunto e che più di chiunque altro merita: il secondo Premio Nobel. Screditata dai colleghi per la sua “condotta immorale”, sminuita dalla stampa per aver intrapreso una relazione clandestina con un uomo sposato, con il “cuore frantumato in mille schegge”, non si da per vinta e va avanti per la sua strada con la determinazione di chi sente ardere dentro di se il fuoco del cambiamento. Né da ragazza, né da moglie e madre, è disposta a patteggiare con una società che vorrebbe ingabbiare il suo genio tra le mura domestiche. Caparbia e coraggiosa non teme di dire la sua ed è disposta a tutto pur di seguire le proprie idee e vedere riconosciuti i meriti di scienziata e i diritti di donna.
Lo stile è fluido e la scrittura è essenziale e anche nei momento in cui viene dato spazio a descrizioni più tecniche o a nozioni scientifiche, l’attenzione resta alta perché queste piccole digressioni offrono la misura della passione che ha nutrito la sua anima.
La capacità di Marie Curie di sfidare i pregiudizi e di combattere i moralismi in una società che riconosce al cervello femminile solo l’abilità di sedurre e accondiscendere, accende delle tematiche purtroppo attuali e concrete. La situazione femminile continua sempre, distanza di anni, a far parlare di se come “una tartaruga che non riesce a uscire suo letargo”. Attraverso la voce di questa donna prodigiosa Sara Rattaro ci ricorda che le difficoltà sono tante ma ciò che rende autentica e speciale un’esistenza è la volontà di trasformare ogni sfida in un’opportunità. Con parole limpide e misurate ci regala una Marie Curie non più scienziata ma donna, una persona per la quale provare empatia e simpatia, un modello attraverso il quale ritrovare la libertà di scoprire chi vogliamo essere. Uomini o donne non fa differenza, tutti possiamo indossare il nostro coraggio e trasformarci in Marie Curie.

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Avventura
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    24 Dicembre, 2024
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Più puttane a parole che nei fatti

La lettura de "Il cuore di Derfel" mi ha dato l'ennesima conferma (nel caso ne avessi ancora bisogno!) che lasciar trascorrere tanto tempo tra un volume e l'altro di una serie è una pessima idea. Per fortuna nelle prime pagine viene fornito un utile riassunto degli avvenimenti principali ne "Il re d'inverno", che mi spinge a dare del credito all'edizione italiana, nonostante la maniera indecente con cui hanno pasticciato spezzettando senza vergogna i tre libri originali. Questo romanzo è composto infatti dalle ultime due parti di "The Winter King", alle quali viene aggiunta la prima di "Enemy of God", incidendo ovviamente sul ritmo e sulla tensione.

La narrazione riprende con il ritorno del narratore Derfel Cadarn in Dumnonia, dove si prepara la guerra tra Artù e Gorfyddyd, scatenata sulla carta dall'onta patita dalla figlia di quest'ultimo Ceinwyn, ma che in realtà è il sintomo di una lotta intestina tra i vari sovrani per il controllo della Britannia. Nel mentre, il protagonista si impegna nel salvataggio della sacerdotessa Nimue imprigionata sull'Isola dei Morti e ritrova Merlino, ancora alla ricerca dei tredici artefatti magici detti Tesori della Britannia necessari per riportare in auge il culto degli dèi, scacciando sassoni e cristiani dall'isola.

Tutte le vicende sono ancora una volta veicolate attraverso le parole del Derfel anziano, ormai diventato un monaco cristiano del Powis; la sua voce narrante puntuale ed ironica è sicuramente uno degli aspetti più riusciti della serie. Infatti lo stile di Cornwell risulta molto piacevole e riesce ad intrattenere senza sforzo il lettore; e questo nonostante l'accuratezza storica del contesto, che dovrebbe in teoria appesantire la prosa. In alcune scene sono presenti perfino degli spazzi di umorismo, in gran parte merito di Merlino e Galahad, personaggi che spero continuino ad avere un ruolo centrale nella serie.

Parlando di personaggi apprezzabili, non posso che citare Nimue e Ceinwyn; la prima già mi aveva colpito in positivo nel primo romanzo e qui si è confermata essere una figura estremamente intrigante nella sua ambiguità, mentre sulla seconda il caro Bernard ha fatto un ottimo lavoro verso il finale per darle parecchia autonomia e rilevanza senza arrivare a stravolgere la caratterizzazione sua e di chi interagisce con lei. Tra i pregi del volume si conferma l'intelligente utilizzo del foreshadowing -che pur anticipando una quantità di informazioni, non fa diminuire la curiosità del lettore-, ma voglio includere anche l'elemento soprannaturale; non si tratta di un sistema magico vero e proprio, quanto più di una commistione tra la credulità dei personaggi e l'astuzia dei druidi, che ho trovato perfetta per l'ambientazione.

L'edizione nostrana si pone invece a metà strada, tra gli elementi più validi e quelli... meno piacevoli. Se da un lato la cura grafica e contenutistica si mantiene davvero alta (specie se messa a confronto con certi costosissimi abomini pubblicati di recente!), dall'altro la scelta di suddividere la serie mostra qui tutti i suoi svantaggi. In particolare, troviamo un climax significativo a metà volume dato dalla conclusione di "The Winter King", che cozza nettamente con il ben più debole finale; anche a livello di ritmo e coinvolgimento le ripercussioni sono negative, seppur l'esperienza di lettura rimanga abbastanza gradevole nel suo insieme.

Passando agli aspetti negativi in toto, mi sento di menzionare l'eccessiva semplicità con cui vengono risolte diverse problematiche: a livello relazionale ma anche militare, ci sono dinamiche estremamente squilibrate che trovano poi delle soluzioni fin troppo facili. L'esempio principe è dato dalla battaglia nella Valle di Lugg, che in un primo momento sembra un'inevitabile disfatta per le forze fedeli ad Artù, eppure si trasforma nella sua più celebre vittoria in poche pagine. Anche la componente romance -molto più rilevante rispetto al libro precedente- non mi ha convinto appieno, un po' per il cambio repentino di interesse amoroso da parte di Derfel, un po' perché non vengono mostrate interazione sufficienti a giustificare il legame che si forma tra loro.

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    23 Dicembre, 2024
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Bulli

Leah incarna una menzogna. Lo capisci fin dalle prime pagine. Senti salire la tensione. Percepisci il fascino magnetico del male che l’ha avvolta. Capisci che ha un segreto, più grande di lei. Intuisci che è un segreto doloroso, qualcosa che ha fatto male, non solo a lei, non ne indovini però la portata, perché il suo passato la risucchia con prepotenza, ma lei tende a respingerlo, per non farsi ritravolgere. Poi in un qualche modo lo cerca ancora, per comprendere, per confinare, per arginare e perimetrare il dolore. Però ne viene ritravolta. Lei, che è stata bulla. Lei, che è stata vittima. Lei, che è stata molto di più.

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alessio Opinione inserita da alessio    22 Dicembre, 2024
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BATEMAN

American Psycho di Bret Easton Ellis è un romanzo pubblicato nel 1991, noto per la sua crudezza e il suo sguardo impietoso sulla società americana degli anni '80. Il libro racconta la storia di Patrick Bateman, un giovane uomo che vive a New York e lavora come banchiere d'affari Wall Street. Bateman è l'immagine del successo: è ricco, attraente e benestante, ma dietro questa facciata perfetta si nasconde una personalità disturbata e psicotica.
La narrazione è in prima persona e attraverso gli occhi di Bateman vediamo una società incentrata sul consumismo, l'apparenza e l'immagine. Bateman stesso è ossessionato da questi aspetti della vita, ma la sua psiche è segnata da una profonda insoddisfazione e un vuoto interiore che non riesce a colmare. La sua ricerca di piacere e potere lo porta a compiere atti di violenza estremi e brutali, che vanno da omicidi efferati a torture sadiche.
Ciò che rende American Psycho particolarmente inquietante non è solo la violenza, ma la sua rappresentazione distaccata e spesso surreale. Bateman narra i suoi crimini in modo privo di emozioni, come se stesse descrivendo un'attività quotidiana,spesso la linea tra ciò che è reale e ciò che è frutto della sua mente instabile diventa sfocata. Questo crea un senso di confusione e disorientamento, facendo interrogare il lettore sulla natura del racconto stesso: Bateman sta davvero commettendo questi crimini o è solo una proiezione della sua follia?
Il romanzo affronta temi complessi come la disumanizzazione, la superficialità e l'alienazione nella società capitalista. La Manhattan di American Psycho è una città in cui le persone sono ridotte a meri oggetti di consumo, dove l'immagine esteriore e il possesso materiale sono le uniche cose che contano. La violenza che Bateman esercita sugli altri è in un certo senso una manifestazione di come la società stessa abbia perso ogni senso di empatia e di connessione umana.
Il modo di scrivere dell’autore è fluido e altamente accurato, quasi eccessivo; le descrizioni minuziose degli abiti dei personaggi mi sono sembrate estenuanti e troppo ridondanti, rallentando notevolmente il ritmo del racconto.
Un altro elemento che ho considerato superfluo e del quale non ho compreso il senso all'interno della narrazione sono i capitoli dedicati alla discografia degli artisti/gruppi musicali preferiti dal protagonista.
Le descrizioni delle azioni di Bateman e degli ambienti che lo avvolgono sono molto dettagliate, in particolare quelle di violenza risultano assai crude e inadeguate per i più impressionabili.
In definitiva, American Psycho è un romanzo provocatorio che sfida il lettore a confrontarsi con il lato più oscuro della natura umana e con i difetti della società che lo forma. Con il suo mix di violenza, critica sociale e confusione psicologica, il libro è diventato un'icona della letteratura contemporanea, sebbene continui a suscitare dibattiti su quanto la sua rappresentazione della violenza sia eccessiva o necessaria per il messaggio che vuole trasmettere.

Buona lettura.


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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    21 Dicembre, 2024
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Cose che capitano nelle migliori famiglie

Cesare Annunziata, protagonista di questo romanzo, è personaggio già noto a molti lettori, fin dal suo esordio nel fortunato” La tentazione di essere felici”, titolo che, oramai un decennio or sono, riscosse un lusinghiero gradimento di pubblico e di critica, contribuendo alla meritata notorietà dello scrittore napoletano Lorenzo Marone. Annunziata è il prototipo di un vegliardo burbero, scontroso e asociale, e tale è rimasto come dal suo primo apparire, però a modo suo sempre energico, deciso, capace; sa farsi valere, ci riusciva dieci anni prima, tuttora se la sgama alla grande. Però gli anni passano per chiunque, oggi sono aumentati ancora, e naturalmente pesano di più, come per chiunque. Nuove considerazioni gli affollano la mente. Annunziata non è mai stato tipo da piangersi addosso, o compatirsi in solitudine. Certo, resta burbero, e stizzoso: il motivo del suo perenne e critico malcontento che lo contraddistingue non è il rimpianto senile dei bei tempi andati, il ricordo dei tempi felici e spensierati quando era giovane e gagliardo, questo che normalmente vale per tutti, non è il suo caso. Ancora più anziano rispetto ai suoi esordi, vive i suoi giorni al meglio che riesce a trarne, rimuginando i momenti clou, i ricordi, i fatti essenziali del suo vissuto. L’input a tali flash mnemonici di riepilogo della sua vita passata glieli fornisce la sua regolare quotidianità: rapporti con i vicini, telefonate con i figli, questioni condominiali, e via discorrendo. Il suo umore però è più irrequieto, è cambiato, è maturato, quello che lo rode non è tanto considerare che la linea, il grafico che sintetizza l’andamento della sua esistenza, da lui stesso prettamente improntata a un certo pragmatismo di quieto vivere, sia negli affetti che nella professione, viri verso un saldo positivo o negativo che sia, quindi come di regola comune. No, affatto, gli dà noia accorgersi che l’indicatore non si direziona affatto con punta aguzza decisamente verso l’alto o il basso. Ne risulta invece una linea piatta, l’ECG tipico di un de cuius prima del tempo, senza scosse, senza sussulti, nemmeno color nero inchiostro ben marcato. Piuttosto un segmento tracciato lieve, in corsivo, tendente al grigio sfocato. La cosa gli scoccia assai: Cesare Annunziata è giunto alla ferale conclusione che non ha vissuto i propri anni con proba consapevolezza, e neanche con incoscienza, come nelle sue intenzioni; invece, si è fatto scorrere addosso l’esistenza come sabbia tra le dita, senza soddisfazione. Ecco, è questo che lo disturba: non è che ha vissuto la vita come capita, l’ha vissuta SOLO come A VOLTE capita.
Perché il più delle volte, quello che gli è capitato non è mai stato di suo gradimento, così nel matrimonio, e nella famiglia, in amore, nel lavoro e nella sua interazione sociale. Lorenzo Marone in questo è stato magistrale: non ha rievocato il suo Cesare alla soglia degli ottanta anni, stanco, depresso e deluso, assolutamente, lo ha rivisitato, è andato a fargli visita per accorgersi, con soddisfazione e malcelato orgoglio, che il buon vecchietto ama la vita come nessuno, come sempre ha fatto, a differenza di quanto tutto lascia supporre agli occhi degli stessi familiari. Cesare Annunziata è pervenuto su uno step qualitativo più elevato, così il libro e così il suo autore, che ne ha fatto persona nuova ma sempre uguale, un vino già ottimo di per sé che invecchiato diventa ancora più pregiato. Non era né facile e nemmeno scontato, ma Lorenzo Marone ci è riuscito per bene, con solerzia, dedizione, accurata rifinitura del suo lavoro. Cesare è sempre lui, gli scoccia che i figli finiscono di essere figli, che diventano a loro volta genitori e si defilano. Gli sembra davvero di pessimo gusto che finiscano le famiglie, e gli amori. Finanche quelli sbagliati. Tutte riflessioni che rimugina in pieno agosto, a Napoli, quartiere Vomero, durante una delle estati più calde e bollenti degli ultimi anni, la città si è svuotata per le vacanze, persino Dio è in ferie. Così la figlia di Cesare, divisa dal marito, si presenta al padre: illustrandogli un classico dei tempi, cose che capitano nelle migliori famiglie. Capita che il figlio trascorra l’estate con il proprio padre, ex genero di Cesare, la figlia altrove con il suo nuovo compagno, e il cane di famiglia, che per giunta neanche si chiama Fido, Boby, Fuffi o cose simili come si conviene a un rispettabile pet, ma rechi l’inconcepibile nome di Batman, un eroico e valoroso supereroe, a onta del suo essere innocuo e desideroso solo di compiacere gli umani in cambio di affettuosi grattini, debba venire parcheggiato dal buon Cesare a mo’ di pensione per cani, per il tempo necessario alla durata delle meritate ferie della prole. Annunziate non si tira indietro. Perché è cambiato, ora senza se e senza ma è una di quelle persone che ha imparato che a chi si vuol bene, si vuole bene e basta, senza spazio per torti o ragioni. Che a chi ti chiede aiuto, l’aiuto si dà, non capita a tutti di capirlo, ma a lui è capitato, forse suo malgrado, ha compreso in pieno che spesso soccorrendo, soccorri anche te stesso. Non c’è scusa, vale per tutti, neanche si è esentati per anzianità di servizio. Lo sapeva anche prima in verità, ma il suo cambiamento consiste proprio nel consolidarsi di questo pensiero, si intestardisce a credere nei miracoli, a cercare qualcosa di nuovo, ha voglia d'imparare ancora, porta a passeggio Batman, e sta attento a quanto capita. Perché la vita semplicemente a volte capita, e non bisogna farsela scappare. A costo di occuparsi, in mancanza di meglio, di un ulivo in pianta, che si porta a spasso in giro insieme a Batman, Cesare lo fa perché ha bisogno d'interessarsi agli altri, di prendersi cura degli altri, altrimenti si muore, ma si muore davvero della più tragica delle sorti, quella per malinconia. Gli è capitato di capire, dopo una vita, che le cose, qualunque siano, ci debbono stare a cuore, fregarsene rende tutti sconfitti. Questo vale per un ulivo, figuriamoci se non si industria per una giovane donna di cui intuisce il doloroso tormento interiore che la strugge; interviene allora, si mette in gioco a rischio di farsi venire un infarto, con la scusa di non impicciarsi e di farsi i fatti propri il mondo va alla rovina. Cesare Annunziata sarà pure vecchio, misantropo, eccentrico, anche asociale: dopotutto è una persona come tanti, con pregi e difetti, ma più di ogni altra cosa, è un essere umano, e tutto ciò che è umano gli appartiene. La vita a volte capita, se riesci ad aiutare qualcuno, se il tuo piccolo passaggio terreno cambia per sempre quello di un altro, allora la tua vita ha avuto un senso, la tua vita è capitata bene. A volte capita, più spesso di quanto immaginiamo, quasi sempre però manco ce ne accorgiamo. Capita anche questo, purtroppo.

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Lorenzo Marone
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FraPog93 Opinione inserita da FraPog93    18 Dicembre, 2024
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UNO PSICO-THRILLER?

Un'interessante prima opera di un riconosciuto autore tedesco.

La storia si svolge in un ospedale psichiatrico dove Ellen, giovane e promettente dottoressa, verra' in contatto con una serie di inquietanti situazioni.

Come accennato da altri, l'autore definisce questo libro uno psico-thriller, io non penso sia una definizione pienamente calzante. Lo trovo un thriller piuttosto ben strutturato, a tratti un po' banale, ma mai pienamente scontato.
I personaggi sono ben delineati, anche se a volte rispecchiano delle strutture pre impostate troppe volte viste in libri di questo genere.

Interessante e' il costante dubbio che ti assale mentre scorri le pagine: sei tu pazzo o l'autore incapace di creare una suspance adeguata?

Si percepisce la spirale sempre piu' profonda che ci trascina nella follia, fino al culmine nelle ultime pagine.

Il libro non è particolarmente lungo, un aspetto che, a mio avviso, amplifica il senso di inesorabilità nella discesa verso la follia.

L'ho trovato un libro piacevole, certamente non credo rispecchi il grandissimo successo avuto.

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Romanzi
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    17 Dicembre, 2024
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Universo di solitudini e silenzi

«Solo che… di recente mi chiedevo se avere tutti i bisogni materiali soddisfatti fin dalla nascita sia stata una cosa positiva, per noi. Ho l’impressione che ci sia mancato il desiderio, l’impulso verso le cose. Verso la ricerca, come mi piace chiamarla. Quando i genitori o i nonni hanno già cercato e conquistato, alle generazioni successive cosa resta da fare?»

Avvicinarsi a Liz Moore significa sempre intraprendere un viaggio non solo nella storia ma anche in noi stessi. Ogni sua narrazione è una storia unica ricca di emozioni, riflessioni e crescita. Tanti i temi che tratta, mai uguali, sempre diversamente introspettivi e magnetici. Ogni suo titolo è un viaggio all’interno di un differente mondo e con differenti prospettive.
Ne “Il dio dei boschi” ella ci propone un testo che già dalla sua struttura emerge per la complessità. In primis è composto da due spartizioni temporali, una prima ambientata nel 1961 e una seconda ambientata quattordici anni dopo e cioè nel 1975. Qui conosciamo un bambino, Bear, e una adolescente, Barbara, due fratelli, accomunati da un luogo e da una sparizione. Abbiamo ancora una madre, Alice, che vive nel dolore e che si anestetizza bevendo. Prima un bicchiere, poi due, poi chi più ne ha più ne metta. E se all’inizio questo concedersi un bicchiere è un modo per sopravvivere anche alle apparenze a cui si sente forzata per convivere con il marito e il suo mondo, poi diventa un modo per vincere il male che è dettato dalla perdita e la depressione. Ella deve conservare la reputazione della famiglia, non può far scomparire il contesto sociale in cui si ritrova.
D’altra parte, i Van Laar sono sempre vissuti tra privilegi e ricchezza. Tutti dipendono da loro e a loro si rivolgono sottovoce. Sono i fondatori del campo estivo di Camp Emerson, sono gente abbiente che frequenta locali e ambienti altolocati, famiglie più che benestanti di Manhattan e del New England, hanno un ruolo d’onore nella vita degli abitanti di Shattuk anche perché è grazie a loro che il paese ha una entrata economica.
Barbara Van Laar ha un carattere ribelle e sta attraversando una di quelle fasi della vita in cui accettare il cambiamento e comprendere il senso del vuoto, è difficile, per non dire impossibile. È l’estate del 1975 quando riesce a convincere i genitori a frequentare il campo estivo. Ed è sempre l’estate del 1975 quando il suo letto viene trovato vuoto. Di lei nessuna traccia, nessun segnale, nessuno motivo che possa far dedurre alcunché della sua sparizione. Tracy, che in quel periodo le è stata accanto, sa e non sa. Sa che ogni notte si alzava per un motivo specifico, sa che la ragazza nascondeva qualcosa ai più grandi. Ma sa anche che non può e non deve parlare. Un fatto che rimanda al 1961, alla scomparsa di Bear, il fratello. Al tempo le indagini si conclusero con un buco nell’acqua non portando a nulla.
Tocca a Judita Luptack far luce sul mistero. Perché per scoprire di quel che è successo nell’oggi è forse necessario tornare nello ieri, aprire il vaso di pandora, far luce su quella rete di intrecci, rancori, depistaggi, trame oscure, silenzi che regolano le dinamiche della società.

«Alice fece come le era stato detto. Certe volte aveva la sensazione che la sua vita consistesse nell’obbedire agli ordini di chi si trovava in una posizione superiore alla sua, o nell’impartirli ai suoi subordinati. Solo quello che aveva con suo figlio era un legame che esisteva al di fuori di qualunque gerarchia di potere. Lo amava e basta, senza condizioni o complessità. Ed era certa che lui la amasse allo stesso modo.»

“Il dio dei boschi” definisce e delinea un mondo fatto di solitudini e silenzi e dove il mistero del thriller ben si coniuga con l’aspetto più introspettivo ed emotivo. Al tutto si somma una perfetta caratterizzazione dei personaggi, e nello specifico di Barbara, TJ, Tracy, Judy, Bear, Alice, Louise etc, nonché temporale. Viene magistralmente descritta anche quella che è una società tipicamente maschilista e retrograda, una società dove spesso i destini sono già scritti senza possibilità alcuna di revisione.
Altro grande carattere degno di nota della Moore è dato dal fatto di essere riuscita a costruire una serie di microstorie in cui ciascuna ricompone un puzzle più grande. Ciascuna si interroga su un diverso aspetto e passo passo ricompone il quadro. Ci mostra un mondo dove verità scomode si fondono e intrecciano con altrettante verità scomode e con la consapevolezza che spesso nascendo ricchi si perde la passione, il desiderio, la conquista anche delle piccole cose. La propria reputazione diventa una ossessione vera e propria, una maschera imprescindibile a cui non ci si può sottrarre. E se si cerca di evadere? Di scappare da questa gabbia dorata, di ribellarsi a questa e a quel che essa determina e comporta? E se si decide di vivere il sentimento fregandosene della maschera, fregandosene di quel che viene imposto? Quali sono le conseguenze della propria ribellione a un mondo precostituito?

«Baciare qualcuno – qualcuno che vuoi baciare, intendo – è come vivere dentro la canzone più bella che tu abbia mai sentito. È la stessa sensazione.»

“Il dio dei boschi” si interroga su questo e molto altro ancora. Tra privilegi, potere, silenzio e soprattutto solitudini, si dipana un thriller psicologico che non delude le aspettative e che coinvolge e trattiene il lettore tra le sue pagine.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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FraPog93 Opinione inserita da FraPog93    17 Dicembre, 2024
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UN THRILLER LEGGERO

"Come uccidono le brave ragazze" è il romanzo d'esordio della giovane autrice inglese Holly Jackson.

Il libro segue le indagini di Pippa Fitz-Amobi, una giovane studentessa determinata a scoprire la verità sull'omicidio di Andie, avvenuto cinque anni prima nella cittadina di Little Kilton, appena fuori Londra.

La narrazione e' per la maggior parte avvincente e ricca di suspense. Definirei questo romanzo particolarmente indicato per un pubblico di giovani adulti, grazie a uno stile che richiama i classici romanzi degli anni 2000, in cui i protagonisti spesso utilizzano diari per raccontare le loro esperienze.

Tutto sommato, e' un libro piacevole che non spicca per suspance o per originalità', ma che probabilmente ha trovato in me il target sbagliato.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    17 Dicembre, 2024
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Realtà o fantascienza?

Kay Scarpetta, la protagonista di tanti romanzi della Cornwell, è impegnata questa volta, da ottima anatomopatologa forense quale è, nell'autopsia di una bimba, Luna, morta per un colpo di pistola partito accidentalmente mentre maneggiava l'arma del padre: verrà fuori un'altra verità, l'indagine necroscopica rivelerà come vero colpevole il padre, Ryder Briley, un riccone potentissimo, immanicato con mafie e politici di alto livello. Nel contempo Kay riceverà una pessima notizia: la morte di Sal Giordano, astrofisico di fama mondiale, premio Nobel, al quale era legata sentimentalmente decenni prima. Morte violenta: il cadavere viene ritrovato in un parco a tema, scaraventato nel vuoto da un oggetto volante non identificato. La vicenda coinvolge emotivamente Kay, che comincia ad indagare, unitamente alla nipote Lucy, impiegata nei servizi segreti ed abile elicotterista, il marito Benton e l'inossidabile agente in pensione, nonchè fedele amico, Marino. E ne scopre di belle: viene a sapere che Briley è il padrone del parco a tema, che l'eterna nemica Carrie Grethen, un tempo agente dei servizi segreti ed ex collega di Lucy, lavora per i russi ed è stata avvistata nel parco. Ma non basta: durante l'autopsia del povero Sal viene alla luce un indizio che porta gli investigatori ad un complesso di edifici dove viene lavorato uno strano materiale, la polvere lunare artificiale. Sal, grazie alle sue conoscenze in campo astrofisico, desiderava trattarla, per trasformarla e costruire uno straordinario telescopio addirittura sulla luna... Non aggiungo altro, se non un tentativo di uccidere una giornalista compromettente da parte della onnipresente Carrie, che getta una luce cupa sulla famiglia di Briley.
La trama, che si svolge in Virginia nei pressi di Langley, sede dei più importanti servizi segreti, è complessa, l'atmosfera sembra avvolta nel mistero anche per il continuo richiamo al possibile coinvolgimento di creature di altri mondi e ad un clima perennemente piovoso, con tanto di tuoni e lampi: ciò nonostante, la narrazione procede faticosamente, con un finale a tratti inverosimile, che mette a rischio la vita stessa di Kay Scarpetta.
L'autrice si dilunga poi per vari capitoli sulle procedure dell'esame autoptico del cadavere di Sal Giordano, con minuziosi, lunghi particolari ai quali gli affezionati lettori della Cornwell sono abituati: forse per mettere in risalto il coinvolgimento emotivo di Kay, un tempo legata sentimentalmente all'astrofisico, ma poco attinenti con le vicende narrate.
Un giallo particolare, non uno dei migliori dell'autrice. Il riferimento a veicoli alieni sembra avvalorare il concetto che qualcosa di vero ci possa essere (e la Cornwell sembra crederci), confermato anche dal riferimento ad aree segrete, non riportate sulle mappe, ove potrebbero essere custoditi reperti organici e rottami di origine sconosciuta.
Comunque, i consueti personaggi (Kay, Lucy, Marino, Benton e comprimari) se la cavano sempre egregiamente, ben caratterizzati anche in una trama ai limiti della fantascienza.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    16 Dicembre, 2024
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Ma davvero repetita juvat?

Ernest Cunningham è diventato famoso. Dopo aver pubblicato un romanzo giallo tratto dalla truce storia di omicidi della quale, suo malgrado, si era trovato a essere tra i protagonisti e nella quale una buona parte della sua famiglia era restata vittima o autrice, è entrato nell’empireo degli scrittori polizieschi.
Proprio per tale motivo si trova a bordo dell’Afghan Express, più brevemente chiamato il “Ghan”, un lussuoso treno turistico che attraversa da nord a sud l’Australia centrale, da Darwin ad Adelaide. Infatti sul treno è stato organizzato il 50° Festival Australiano del Giallo e, assieme a lui, condividono gli scompartimenti dei vagoni riservati al Festival, un famoso autore scozzese di best sellers; una autrice di legal thriller, una di gialli psicologici e uno scrittore che basa le sue trame sulla patologia forense, oltre a un super-premiato scrittore di opere letterarie di alta levatura. Ognuno ha un ospite; inoltre una piccola comitiva di appassionati di letteratura poliziesca fa loro da contorno per assistere alle conferenze, ai dibattiti e alle tavole rotonde che si terranno nei quattro giorni di viaggio.
Purtroppo dove c’è Ern ci scappa sempre il morto e, così, dopo il primo giorno di viaggio in cui si sono avuti solo battibecchi e invidiose ripicche tra gli invitati, uno degli ospiti muore improvvisamente, la seconda mattina. Morte naturale o omicidio? Ern, che non riesce a trovare lo spunto per scrivere il suo secondo romanzo, punta sulla prima ipotesi, però chi è stato a commettere il crimine e, soprattutto, chi aveva il movente per farlo?
Toccherà a lui e ai colleghi giallisti (superstiti) scoprire il colpevole, tuttavia, su quel treno, tutti hanno un buon motivo per quell’omicidio e per quelli che seguiranno…

Il primo romanzo di Stevenson era stata una piacevole sorpresa, con uno stile leggero e scanzonato, l’A. era riuscito a scrivere una storia non banale che, ripigliando gli schemi dei gialli classici alla Christie, Conan Doyle, o Van Dyne, aveva ridato vita al filone del giallo investigativo/deduttivo, un po’ giocandoci sopra con discreto umorismo, un po’ provocando i lettori con continui interventi e riflessioni in prima persona rivolte direttamente a coloro che si trovano dall’altra parte del foglio di carta stampata.
Con questa seconda opera, però, l’A. ha erroneamente supposto che ripresentando il medesimo canovaccio e cambiando solo l’ambientazione e i personaggi coinvolti, l’alchimia avrebbe nuovamente funzionato. No, errato: certe invenzioni funzionano solo la prima volta, proprio perché è la novità a giocare il ruolo principale nel rendere piacevole la narrazione. Se non si hanno nuove idee e non si cercano nuove strade, il riproporre il medesimo schema diviene solo un riscaldare la stessa minestra; cambiare le spezie non è sufficiente a renderla più appetitosa.

La trama appare eccessivamente e artificiosamente arzigogolata e contorta e, a dispetto delle dichiarazioni iniziali dell’A. di essere totalmente onesto e trasparente coi lettori, sono decisamente troppe le trovate con cui viene infarcito il libro, i conigli estratti magicamente dal cappello al momento più opportuno, le scoperte spiazzanti stile soap opera; e non tutte, ahimè sono davvero plausibili. Lo stile continua a essere leggero e scanzonato, talvolta anche un po’ troppo, ma tocca le medesime corde che hanno fatto da sottofondo al primo libro, quindi, risulta ripetitivo e, alla lunga, stancante.
Poi, Ernest non perde occasione per ammiccare in modo che non è più goliardico, ma, direi, gigionesco, ricordandoci le regole per il giallo classico o, peggio, spoilerando i troppi colpi di scena che sono disseminati lungo la storia e che, alla fine, non risultano più tali.
Quanto a questi ultimi, si raggiunge l’apice; in questo romanzo non ci viene risparmiato nessuno dei luoghi comuni della letteratura di genere: agnizioni, disvelamenti di enigmi, segreti che vengono dissepolti, morti apparenti che ricompaiono improvvisamente, scambi di persone e personaggi che si celano dietro a pseudonimi o prestanome.
Tra le innumerevoli trovate di “spiritosa onestà” nei confronti del lettore ho trovato decisamente ostentato e sciocco aver precisato il numero delle volte in cui il nome dell’assassino sarebbe stato fatto prima della sua identificazione e il continuo aggiornamento del conteggio per ognuno dei sospetti, quasi ci si trovasse davanti al tavoliere di Cluedo o ad un Giallo-quiz televisivo.
Insomma il voler raccontare una vicenda di per sé seria e grave (com’è un omicidio) in modo burlesco può essere divertente come prima trovata, ma non può essere certo lo schema ideale da replicare all’infinito. Alla fine il romanzo non annoia, ma neppure diverte troppo e non si vede la fine di giungere all’epilogo che, in questo caso, è pure scivoloso a causa di una trovata finale che poteva pure essere evitata.
Poi, permettetemi una domanda conclusiva: ma l'A. doveva proprio scimmiottare e, sostanzialmente, burlarsi di uno dei romanzi più iconici della letteratura poliziesca (mi riferisco, ovviamente a "Assassinio sull'Orient Express") utilizzando la medesima ambientazione e, in sostanza, gli stessi ritmi?
Dalì si permise di sostituire al volto di Monna Lisa il suo ritratto con tanto di baffoni, ma era pur sempre un grandissimo della pittura mondiale, mr. Stevenson non è neppure lontanamente emulo di Agatha Christie e forse le deve un maggiore rispetto.

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Non è un no deciso al romanzo, solo perché a qualcuno potrebbe piacere il ritrovare le stesse atmosfere giocose di "Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno".
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68 Opinione inserita da 68    15 Dicembre, 2024
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Realtà o fiction?

Realtà e fiction nel nuovo romanzo di Jonathan Coe, un viaggio in un paese sopravvissuto alla Brexit, martoriato dall’ epidemia di Covid, in lutto per la scomparsa della regina Elisabetta II ( settembre 2022 ), guidato dal governo più breve della storia del paese, durato solo 44 giorni, con Liz Truss come primo ministro.
Nel cuore della nazione vige uno stato di precarietà, la contrapposizione tra boomer e generazione Z, una crisi economica sfociata nel tentativo estremo di detassazione, un sistema sanitario al collasso, giovani privati dei propri sogni, incarcerati in un paese aggrappato ai privilegi di una classe di settantenni senza risposte per il futuro.
In un contesto siffatto Phyl, la giovane protagonista, neo laureata in lettere con un lavoro precario al minimo salariale nella filiale di una catena di ristoranti giapponesi, ritornata a vivere dai genitori, spera di raggiungere il proprio sogno di scrittrice, fermando la realtà per dare spazio alla fantasia.
In un’ alternanza di pubblico e privato, realtà e fiction, più trame all’ interno dello stesso filo conduttore, l’ evoluzione e gli intrighi politici di una deriva conservatrice, ci si addentra in un giallo dalle tinte fosche, un’ indagine investigativa divisa in tre parti ciascuna rispondente a un preciso genere letterario.
Quanto i generi sperimentati, ( Cosy story, Dark Accademia e Autofiction ) sono opera di fantasia, appartengono ai propri giorni, quanto la penna di Phyl è sagace, arguta, ricca d’ immaginazione, o trattasi di semplice capacità narrativa?
Difficile dirlo considerando la realtà come una semplice percezione e trasposizione personale dei fatti, generata dalla mente di uno scrittore che mira a lasciare il segno nelle generazioni future, una realtà romanzata, discutibile, artefatta, anche se i morti di Covid, il decesso della regina e il governo di Liz Truss paiono quantomai reali e ogni racconto potrebbe esserlo.
Nell’ alternarsi di possibile e improbabile, di reale e immaginario, una parte del paese guarda con nostalgia agli anni ‘50, Phyl si rifugia costantemente nella leggerezza atemporale della serie Friends in fuga dall’ amarezza dei propri giorni, i suoi genitori faticano a riconoscersi nel presente mentre un gruppo di destra ( Processus Group ) fondato a Cambridge negli anni ‘80 e’ sempre più presente nella politica del paese, un misterioso incidente d’ auto coinvolge un caro amico di famiglia, riemergono frequentazioni scolastiche condivise, il suicidio di uno scrittore, un memoir scritto da un medico in fin di vita, una deriva conservatrice che condurrà il paese al di fuori della realtà per dare spazio alla fantasia.
La scrittura di un romanzo può riferirsi al reale non eccedendo in tratti autobiografici, rimane una storia da definire e una verità da svelare, la propria.
Il complesso intreccio narrativo insegue un assassino senza nome, ricerca il senso di un gesto estremo, ricostruisce l’ origine di un gruppo di pensiero, guarda agli indizi e agli indiziati, riflette su un messaggio da decodificare.
In questo giuoco di scatole chiuse all’ interno di un puzzle scomposto una vita che scorre nella storia tracciando la propria storia, una fine accertata, nuovi indizi e verità presunte, forse era solo fiction, la verità per il momento può attendere, un grosso dubbio rimane.
Un romanzo pensato e costruito inseguendo tracce vere e presunte, che si rinnova continuamente interrogandosi sul valore intrinseco della scrittura, sul suo rapporto con il reale, sul ruolo dello scrittore all’ interno di una vita vissuta in un determinato periodo storico.
L’ idea è lodevole, meno la rappresentazione, l’ omogeneità della narrazione, l’ incastro delle singole parti.
Che sia realtà o fiction, nella difficile definizione di un genere dominante e nella prolungata sperimentazione letteraria predomina una certa fragilità espositiva, presenza malinconica rivolta a un passato dissolto in una nazione tramontata, senza via d’ uscita, un mondo a parte difficile da definire, sempre lo stesso, e allora l’ idea di un romanzo generato dalla fantasia di uno spirito creativo in una parvenza di realtà è evasione dall’ invivibilita’ e non rappresentatività del presente.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    14 Dicembre, 2024
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Ritrovarsi

«Alla fine avevo ceduto e Bambina e io avevamo cambiato casa.

Ci eravamo trasferite nel Quartiere Triste, dove, da quando erano andati in pensione, si erano trasferiti i miei genitori.

Un posto tranquillo, Chiara.

Pieno di verde.

Non sembra neanche di stare a Roma.»

Torna in libreria Chiara Gamberale, autrice amata dal grande pubblico, che con “Dimmi di te” (Einaudi, Stile Libero) ci fa destinatari di un racconto intimo e intimistico, un testo che ha anche tratti autobiografici e che conduce in quella che è una ricerca personale, sul proprio essere in costante divenire, in piccoli e grandi abissi che sono sinonimi di perdizione.

Un figlio è sempre un qualcosa di potente e sconvolgente nella vita di una persona. Cambia i ritmi delle giornate, cambia le abitudini, cambia il punto di prospettiva da cui si osserva; una prospettiva che non è più focalizzata solo sull’io individuale bensì sul “noi/lui/lei”. La figlia, Bambina, di anni sei, è capitata ed è una nuova responsabilità per Chiara. Quest’ultima ha adesso bisogno però di uscire dal guscio, di ritrovare il proprio io donna. Sente la collisione tra ciò che era prima e ciò che è adesso. Per uscire da questa fase che può definirsi ristagnante, decide di ricostruire una mappa affettiva delle sue “stelle polari”. Come fare? Ripartendo da quel che era un tempo, da quegli amici che durante gli anni della sua adolescenza considerava essere colonne portanti imprescindibili.

«Come hai fatto a crescere? Ho chiesto in questi mesi alle mie stelle polari di quel tempo andato che non se ne andrà mai».

Ed è necessario ripartire da piccole cose, da piccole grandi domande per ricostruire un ponte tra lo ieri e l’oggi. “Dimmi di te”. È questa la domanda che ella pone a Raffaello, Riccarda, Stefano, Ivan. Un registratore alla mano, una domanda e le orecchie e la testa pronte all’ascolto. È troppo presto però per sentirsi rivolgere ella stessa delle domande, ecco allora che queste sono a lei impossibili da fare. Nessuna domanda sulla sua vita personale è ammessa. Questo non è il suo momento, è il loro. Se vuole davvero crescere, il primo passo da fare è affrontare il confronto. Lo sa bene. Deve mettersi in gioco con realtà diverse, far proprie le confidenze, imparare dal vissuto altrui, correggersi ove necessario, interrogarsi ove occorre.

«Mi dispiace. Riuscivo a ripetere solo mi dispiace, ma avevo la sensazione che Cate non avesse bisogno di troppe altre parole, dentro di sé, dove c’era la sua frana, rispetto a quelle che si sforzava di trovare da sola.»

Chiara Gamberale si mette a nudo in “Dimmi di te”. Scrive un romanzo in cui parla di emozioni, legami, sensazioni. Parla d’amore, parla d’amicizia, parla di sogni, parla di illusioni, parla di disillusioni e parla ancora di storie di vita. Perché la vita è così, uno spartiacque tra lo ieri e l’oggi, tra un vivere in costante crescere e vivere, tra sogni realizzati e sogni non realizzati, tra obiettivi raggiunti, cadute, rialzate e fallimenti.

Alla soglia dei quarant’anni, con un futuro ancora da vivere, con un futuro ancora da scrivere e con un passato già scritto, Chiara butta giù il suo bilancio personale. La scrittura è piana, piatta. Lo stile è quello noto ai lettori.

Siamo davanti, con “Dimmi di te”, a un romanzo introspettivo che oscilla tra dovere e necessità, che riflette ruotando sulla sua essenza e che per questo o si ama o non arriva. Occorre cioè essere nel momento giusto per leggerlo ed apprezzarlo, altrimenti rischia di restare fine a se stesso.

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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    13 Dicembre, 2024
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Una melodia in tre movimenti

Ultimo romanzo di Tondelli scritto nel 1989 (l’autore è scomparso nel 1991), si può sicuramente definire il romanzo della maturità, nel quale la componente autobiografica emerge chiaramente nel protagonista Leo. Lo scrittore emiliano infatti costruisce attorno a lui una storia architettata in tre movimenti, con l’intento di fare un parallelismo tra il romanzo ed una melodia musicale classica.

Se il primo movimento (Verso il silenzio) introduce il tema dell’amore tra Leo e Thomas, della passione che progressivamente fiorisce per poi terminare tragicamente con la morte di Thomas, il secondo (Il mondo di Leo) è una discesa agli inferi nella realtà avvelenata di Leo, nel dolore e nella solitudine che prendono il sopravvento, oltre che nel ricordo della propria adolescenza, vista come origine del suo malessere esistenziale. Il crescendo sta tutto nel terzo movimento però, in quel “Camere Separate” che fornisce il titolo del libro e sintetizza la dimensione dell’amore viscerale tra Leo e Thomas: un amore totalizzante si, ma che Leo sente necessario vivere a distanza prendendosi la propria libertà per essere padrone del proprio tempo e della propria vita. Leo “Voleva continuare a essere un amante separato, voleva continuare a sognare il suo amore e a non permettergli di infangarsi nella quotidianità”. Una visione che inevitabilmente conduce a incomprensioni, tensioni, in quanto le esigenze di Leo non sono certamente quelle di Thomas che invece desidera una vita di coppia completa.

Dalla combinazione dei tre movimenti, “la melodia” che ne scaturisce è un suono di solitudine necessaria che ha una valenza positiva però, a dispetto del concetto di solitudine generalmente espresso, in quanto “sta cercando di abbracciare la parte più vera di se stesso recuperandola attraverso il ricordo, la riflessione, il silenzio”. La solitudine infine è il mezzo che conduce alla catarsi, alla rinascita che per Leo-Tondelli è tutta definita dal potere salvifico della scrittura, “che questa sola cosa gli importa ed è questa, non lui, a dirigere gli spostamenti interiori della sua vita”.

Tondelli non amava definire “Camere Separate” un libro che narra di amore omosessuale in quanto non c’è assolutamente bisogno di questa etichettatura (talvolta invece sottolineata dalla critica), considerato che in sostanza il romanzo rappresenta la narrazione di una storia d’amore, di vita, di solitudini che si incontrano e poi si perdono.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    13 Dicembre, 2024
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Una tigre celata

«Una cosa però è vera, quando si riesce a parlare di trauma, vuol dire che si è già un po’ salvi. Ciò non significa che siano la parola o la letteratura a costituire la terapia. Al contrario, la scrittura può avvenire solo quando il lavoro, una parte del lavoro, è stato fatto, quel pezzetto di lavoro che consiste nell’uscire dal tunnel. […] Se si riesce a parlarne, scrive Virginia Woolf, è perché l’evento è staccato dalla sofferenza pura, che viene vissuta nella modalità dell’irreale.»

Neige Sinno, francese di origine e trapiantata in Messico, dona ai suoi lettori uno scritto forte e duro che nulla cela. “Triste tigre” diventa sin da subito un caso editoriale in Francia e in tanti altri paesi. Vince il Premio Strega Europeo 2024 e in 230 pagine di testo delinea la storia di una bambina che viene abusata dal patrigno sin dall’età di circa sette/nove anni e sino all’adolescenza.
Non è solo una testimonianza, ancor meno solo un memoir. È un testo che muove da frammenti autobiografici, di memorie, di ricordi, di riflessioni a posteriori, di riferimenti letterari e tante tante altre tematiche sottese.
È bene dire sin da subito che non si tratta di una lettura semplice e ancor meno è caratterizzata da una scrittura leggera. È un testo che mette a nudo e si mette a nudo, con tutte le sue caratteristiche più intime. Uno dei più grandi meriti di Sinno è quello di riuscire a trattare il tema in modo oggettivo, distaccato, ben focalizzato. Non cade mai nel vittimismo, parla sempre con cognizione di causa e giusta riflessione.

«Camminare come funamboli sul filo dei nostri destini. Inciampare, ma ancora una volta non cadere. Non cadere, non cadere.»

Ancora, l’opera di Neige Sinno non è una ricerca di giustizia personale. Al contrario, il suo è un tentativo per salvare e mettere in guardia altre persone che possono, per qualsivoglia motivo, trovarsi nella stessa situazione.
Ed è questa la forza ennesima della letteratura, delle parole: riuscire a parlare del dolore, riuscire a sensibilizzare anche quando le tematiche trattate toccano aspetti di grande intensità e personalità, come i più piccoli, delicate.
Quale può essere la cura per far fronte al male? Come combatterlo? Come vincerlo? Come comportarsi davanti a un dolore indescrivibile? Probabilmente rispondendo al male con il bene, con la dolcezza, con la voglia e il coraggio di ricominciare e andare avanti una volta per tutte.
“Triste tigre” è un messaggio corale in cui i confini tra vittima e carnefice sono labili e associati alla propria unicità. Non vi è un verdetto finale, vi è al contrario il desiderio di trovare un modus operandi per ripartire, muoversi, agire. Ricominciare davvero dopo un mondo che è crollato in pezzi.

«Io ho voluto crederci, ho voluto sognare che il regno della letteratura mi avrebbe accolta come una delle tante orfane che vi trovano rifugio, ma neppure attraverso l’arte si può uscire vincitori dall’abiezione. La letteratura non mi ha salvata. Io non sono salva. […] L’importante non è ciò che hanno fatto di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi.»

E noi vogliamo crederci con te, Neige. Vogliamo credere che ci sia un rifugio, che l’arte possa salvare, che la letteratura salvi. Anche se forse non saremo salvi nell’oggi, anche e forse siamo tutti un po’ orfani, anche se forse la letteratura non ci salverà, anche se forse la strada sarà un continuo di ricerca e crescita nei corpi che scorrono e vagano.

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FraPog93 Opinione inserita da FraPog93    13 Dicembre, 2024
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Un'opera magistrale degna dei migliori maestri

"Perché hai paura" è una gemma imperdibile, frutto della penna di un autore che può essere accostato ai grandi maestri del genere.

La storia ruota attorno a Sandrine, una giovane donna che, alla notizia della morte della nonna, ritorna sull’isola dove quest’ultima risiedeva per reclamare la propria parte di eredità.

Il romanzo è un’opera complessa e intensa, che non teme di mettere a nudo il lato più oscuro e crudo dell’animo umano. Pur evitando descrizioni eccessivamente grafiche, l’autore non si tira indietro nel rappresentare scene forti e di grande impatto emotivo, mantenendo sempre un equilibrio narrativo.

Lo stile, intriso di eleganza e raffinatezza, richiama in pieno la tradizione letteraria francese, con un linguaggio ricercato e un lessico impeccabile.

La trama è orchestrata magistralmente, con sapienti salti temporali e colpi di scena che tengono il lettore avvinto fino all’ultima pagina.

Ho davvero apprezzato la scorrevolezza e la profondità dei dialoghi, la magistrale creazione dell'ambientazione gotica e le descrizioni piene dei personaggi principali.

Un libro da non perdere!

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    13 Dicembre, 2024
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CENTRO DI GRAVITA’ IMPERMANENTE

Ho approcciato questo libro, con impressa nella memoria una vignetta che apparve anni fa su un noto quotidiano nazionale: Emmanuel Carrère seduto al bancone di un bar chiedeva al barman “dammi qualcosa di forte”.
Sorrisi, pensando che il vignettista con poche, semplici, parole aveva colpito nel segno. La specialità dei libri di Carrère, in effetti, è rappresentata proprio dalle storie forti e Yoga, ad un primo sguardo, sembrava discostarsi da questo filone.
La mia predisposizione alla lettura ha così seguito il doppio binario della curiosità per la variazione sul tema e dell’aspettativa di una storia comunque a tinte forti. E dato che i binari sono rette parallele che non si incontrano mai, mi sono chiesta se alla fine avrebbe prevalso l’una (la variazione su un tema zen) o l’altra (la storia a tinte forti), ritenendo che le due tematiche non si potessero incontrare e accordare.
E invece, alla fine, mi sono dovuta ricredere almeno per ciò che concerne l’accordo. Perché sì, un’altra specialità di Carrère è quella di riuscire a fare sintesi tra le tante contraddizioni delle storie, delle idee, della vita, anche e soprattutto della sua.
Una sintesi, tuttavia, irrisolta, nel senso che non rappresenta una unità, una fusione di due poli contrapposti, bensì ha la forma di un pendolo che oscilla da un capo all’altro del proprio campo di azione, in uno stato di equilibrio stabilmente instabile che trova la propria summa nel disturbo bipolare che affligge l‘autore e che solo nella scrittura sembra trovare un centro di gravità permanente.
In tal senso, appaiono sintomatiche le tante definizioni congegnate attorno alla disciplina dello Yoga, ognuna con una sua verità originale e intrinseca e che pure Carrère nello scorrere del libro sembra tradire e scartare a una a una, come se nessuna di esse fosse mai quella assoluta, definitiva.
Emblematico, ad esempio, è lo stare qui e ora, che Carrère prima professa e poco dopo smentisce. Nel bel mezzo di un ritiro presso un centro di meditazione, difatti, il nostro d'un tratto leva le tende e corre a Parigi in soccorso a un’amica colpita negli affetti dall’attentato terroristico a Charlie Hebdo. Da quel momento in poi, lo Yoga, seppur continui a innervare la narrazione, diviene meno pregnante e lascia il campo al divagare erratico della penna di Carrère attorno alla precarietà della sua condizione umana e alla sofferenza derivante dalla propria patologia mentale.
E qui, a dirla tutta, sono stata piacevolmente colpita dal modo in cui la malattia è trattata da Carrère: con uno sguardo e un tocco al tempo oggettivo e soggettivo, proprio di colui che si pone alla giusta distanza dalle cose (arte difficilissima!) e riesce a osservarle e a ad analizzarle in modo lucido e al tempo compassionevole, senza mai scadere nella banale e melensa retorica che accompagna l’oscura galassia delle malattie mentali e polarizzata attorno alla demonizzazione dei farmaci e all’esaltazione del genio folle, romantico e disadattato sociale.
Carrère ha il coraggio di chiamare le cose per nome: le malattie mentali sono una brutta bestia e vanno curate, ebbene sì, anche e soprattutto con l’aiuto dei medici e dei farmaci
E così ci troviamo di fronte ad un continuo oscillare tra un intellettuale affermato, risolto, grato alla vita, e un uomo bisognoso di aiuto, sull’orlo del baratro, in procinto di perdere tutto per puro spirito di auto sabotaggio. Uno scrittore sincero, disarmato e nudo di fronte al lettore, e altresì un personaggio un po’ costruito, che presta la propria storia all’utilità della narrazione.
Una storia a tinte forti, si sa, come non poteva essere altrimenti.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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FraPog93 Opinione inserita da FraPog93    13 Dicembre, 2024
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Un'eroina "sporca"

La storia narra di Mallory, ragazza dal passato turbolento ed ex-tossicodipendente e della famiglia di Teddy, bambino taciturno e solitario di cui la ragazza diventera' babysitter per un'estate.

Riponevo molte aspettative in questo libro vista l'enorme spinta commerciale che ha avuto negli scorsi mesi e, devo ammettere, non mi ha deluso.

Il libro, primo dell'autore, gode di una trama lineare e abbastanza semplice da seguire, in cui i colpi di scena si susseguono fino al grandissimo ribaltamento finale. Mi sono davvero goduto la storia, in cui i pochi personaggi presenti (al massimo 7/8) sono sufficientemente descritti ed approfonditi.
Certamente punto focale della narrazione e' la protagonista, un'eroina "sporca", non certamente senza macchie.

Sicuramente mi ha tratto di sorpresa l'uso grafico di disegni e schemi fra le pagine del libro, che simpatica scoperta! In questo modo il lettore e' aiutato nel capire le particolari descrizioni di situazioni altrimenti complesse da figurare.

Un ottimo thriller, senza pretese, che puo' aiutarvi ad apprezzare i libri di questo genere.



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Se ti piace Stephen King, questo puo' essere un libro adatto alle tue letture.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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FraPog93 Opinione inserita da FraPog93    12 Dicembre, 2024
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Un piacevole esordio per Teresa Battaglia

Un nuovo commissario e' in città' ed il suo nome e' Teresa Battaglia.

Partiamo da Traveni, un piccolo paese incastonato fra le montagne del nord-est Italia. Macabri omicidi e terribili sparizioni dilagano in una, altrimenti, pacifica comunità'.

Lo sviluppo del libro segue il percorso naturale di tutti i grandi gialli che vanno per la maggiore al momento: protagonisti forti, ambientazioni suggestive e casi sconcertanti.

Ho trovato il personaggio di Teresa ben studiato, a tratti reale, e adoro la sua tragica condizione di persona affetta da morbo di Alzheimer. Certamente l'autrice pensava a libri successivi al primo, perché' e' evidente che mancano dei tratti descrittivi importanti a quasi tutti i personaggi principali, mostrando l'intenzione (nemmeno troppo nascosta) di creare una collana di libri relativi a questo commissario.

Il libro l'ho divorato in meno di una settimana, la lettura e' stata davvero piacevole anche se lo stilo e' leggermente elementare. Si riconosce la mano inesperta della scrittrice, sia per il lessico poco sviluppato che per la sintassi davvero semplice, a prova di adolescente.

Non ho dato il massimo al contenuto, in quanto ho trovato la trama un pochino spinta e contorta in alcuni punti, elementi narrativi i macchinosi per giustificare situazioni altrimenti impossibili da costruire.

Tutto sommato, per essere il libro d'esordio l'ho trovato piacevole e un ottimo thriller.

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lego-ergo-sum Opinione inserita da lego-ergo-sum    12 Dicembre, 2024
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Ancora postmoderno

Due scienziati, il Professore (chiamato semplicemente così nel corso del racconto) e il suo collega Pesumai, diretti ad un convegno dove dovrebbero presentare la loro ricerca: il loro soggiorno forzato a causa del maltempo presso il castello in cui vive un erudito esperto in lirica provenzale, Osmoc, asserragliato tra i suoi cinquantamila libri (anticipazione dell’io narrante di Locus desperatus, l’ultimo romanzo di Michele Mari): queste le premesse da cui prende l'avvio la prima, giovanile opera dell’autore. Siamo in piena ambientazione gotica (scene notturne intrise di mistero, strane creature che battono alle finestre, castelli secolari, entità sovrannaturali che sembrano aleggiare su tutto). Fuori, una tempesta di neve interminabile, tale da meritarsi anch'essa per la sua eccezionalità un neologismo, “Tarasso” o “Taratto”, non diversamente dall'argomento oggetto della scoperta: “deltatibioresi degli isopropattoni” (termini inesistenti, che fanno balenare sin dalle prime battute l’impressione di un gioco e di una esibita finzione…). Dentro, tra cunicoli, segrete, sotterranei, incombe la presenza di Osac, gemello di Osmoc, demente, bestiale, suo apparente rovescio.
Si delinea così una contrapposizione, un dualismo, un meccanismo binario che presiede all’intera struttura narrativa: da una parte la cultura, dall'altra la natura. In entrambi c’è però un eccesso, un’esagerazione letale: la cultura, nel primo, ha prodotto una totale sublimazione degli istinti materiali e del desiderio sessuale, in una scriteriata pretesa di obbedire ai canoni della diletta poesia provenzale; nel secondo, la natura, priva di qualsiasi forma di controllo e di affinamento, si configura come forza selvaggia e rovinosa. L’episodio centrale di tale dualismo è la trovata di Osmoc di delegare al fratello il compito di adempiere ai propri doveri coniugali, abbandonando la moglie Emilia, inconsapevole dello scambio di persona, alla furia incontrollata del mostro.
Si citava il romanzo gotico. Viene in mente anche il tema del doppio presente in Dottor Jekyll e mr. Hyde, mentre proliferano i richiami alle storie di Frankstein o di Dracula: i riferimenti letterari, la cosiddetta intertestualità, sono la caratteristica principale del romanzo. Essa, unita ad un lavoro costante sul linguaggio, determina una presa di distanza dalle orride atmosfere descritte: il lettore viene come distratto da un vero coinvolgimento emotivo nella storia, dalla piena immersione nella classica suspense fatta di attese, di ansia, di paura e di piacere dell’aver paura. Come anche nei romanzi dell’età matura e nello stesso Locus desperatus, il lettore non si cala completamente in una vicenda che potenzialmente dovrebbe far nascere in lui spavento e senso di orrore, ma in realtà è “divertito” (nel significato letterale e in quello proprio) dalle citazioni continue, dalla parodia letteraria, dalle invenzioni linguistiche. E’ preda insomma più del gioco letterario che della vicenda narrata, chiamato ad un impegno di decodifica basato sull'intelletto e sulla cultura più che sul cuore e sulle emozioni. E perfino in un momento tragico, mentre Osmac affronta un rischio mortale, Mari gli fa pronunciare un elenco di saluti che i sopravvissuti dovranno portare da parte sua alle persone che ha conosciuto nel corso della sua esistenza di studioso e che gli hanno fornito la loro collaborazione: “Un’ultima cosa: in patria ho lasciato molti conoscenti, amici veri nessuno,ma tutte brave persone, benemeriti degli studi tassiani, editori del Folengo e del Trístino (sic), studiosi di vaglia… Vorrei che porgeste loro i miei saluti…Anche il professor Chiarmo, Luigi Ettore Chiarmo, se passate da C**** andate a salutare per me, che non ho mai scordato la liberal cortesia con che a disposizione me mise le carte Bastrozzi-Vagheggi…e il professor Grolla, sì, Mascheroni-Grolla, direttore della sezione di Patristica della Civica Raccolta di C**** e succeduto da poco al Rummigliano nella direzione della…un ringraziamento particolare vada al professor Rantoli e ai pazienti amici Giordano Capcaudatase e Vanni Trighi, che mi hanno benevolmente assistito nella mia fatica…”. Un uomo in pericolo di vita non pensa e non parla così! Il romanzo rivela, qui come altrove, la sua assenza, voluta, di realismo e questo contrasto tra la tragicità della situazione e la compitezza tutta formale e accademica di quelli che sembrano le note e i ringraziamenti finali che un autore appone al suo libro, genera un effetto comico anziché drammatico. Il linguaggio è dunque anch'esso, a sua volta, un grande tema del romanzo: l’erudito Osmoc parla con le parole, le frasi, i versi dei libri, che ha raccolto, letto, assimilato e mandato a memoria, pronti per essere adoperati e adattati a qualsiasi contesto. E questa cura della parola, propria di un filologo quale Mari è nella vita reale, consente una padronanza e produce un’inventiva di prim'ordine, una raffinatezza lessicale, un preziosismo sintattico che si rinnoveranno in tutte le opere successive dello scrittore. Tra le creazioni linguistiche, un posto di rilievo spetta anche alla lingua parlata dal fedele servitore dell’ipercolto bibliomane, Epeo, un misto tra quella che il suo padrone e maestro gli ha insegnato e le parlate locali, di cui viene fornito un assaggio nelle primissime pagine del libro. Di tali parlate è unica esperta Ebeblechei, la segretaria del Professore, stranamente somigliante ad Emilia (un altro doppio, affidato al luogo ricorrente del quadro dietro il quale si cela un mistero: Dorian Gray docet).
Questo continuo citare, riferirsi ad altri testi, parlare attraverso le parole degli altri, spaziando attraverso una smisurata enciclopedia senza confini, questo giocare con la letteratura, con i suoi generi e i suoi topoi, ci ricordano che Di bestia in bestia (prima edizione nel !989, ma testo originale, poi rielaborato, del 1980) è praticamente contemporaneo di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1979) e de Il nome della rosa di Umberto Eco (1980). Si può quindi considerare un frutto non trascurabile della fase più alta del postmoderno italiano. Non all'altezza degli altri due capolavori, ma ricco di spunti e di invenzioni interessanti ed efficaci, che inducono a consigliarne la pur impegnativa lettura.

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Il nome della rosa di Umberto Eco; Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino; le altre opere dell'autore e, in modo particolare, Locus desperatus, il cui protagonista presenta alcune delle caratteristiche del bibliomane Osmac ed in cui si ritrovano con la medesima frequenza richiami e rimandi letterari e culturali di tipo intertestuale.
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FraPog93 Opinione inserita da FraPog93    12 Dicembre, 2024
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Un libro di difficile lettura, prolisso e lento

La storia di Lisey e' un romanzo diverso dai soliti libri di Stephen King, sia per stile che per contenuto.
Purtroppo, non posso dire che il titolo sia all'altezza di altre opere dell'autore.

La trama narra di Lisey, vedova di un famoso scrittore, che si strugge fra il lutto ed il ricordo del perduto amante. Alla questo intreccio, si legano altre storie secondarie che aggiungono del mistero e del soprannaturale alla narrazione.

Innanzitutto, devo ammettere che ho trovato quasi sempre forzato l'uso del soprannaturale in questo libro. Non e' ben collegato alla storia principale e, a tratti, mi sono chiesto se avessi capito bene quello che stavo leggendo.

Un libro di 600 pagine deve avere molto da raccontare... beh non e' questo il caso. L'autore spende pagine e pagine in descrizioni semi-inutili di situazioni e pensieri irrilevanti. I dialoghi sono prolissi, le pagine scorrono davvero lentamente in certi punti. Per la prima volta in tanti anni di lettura, ad oltre meta' romanzo ancora non avevo ben chiaro cosa l'autore volesse raccontare.

Credo che lo scopo di SK fosse quello di riavvicinarsi a lavori come Carrie, in cui l'aspetto principale era l'orrore della vita quotidiana. Purtroppo il tentativo e' tremendamente fallito.

Mi e' dispiaciuto molto assistere ad un lavoro cosi approssimativo, difficile da leggere e da godersi.

Purtroppo per ora e' decisamente il peggior libro che abbia letto nell'ultimo anno. Se amate l'autore, risparmiatevi questo titolo.

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68 Opinione inserita da 68    11 Dicembre, 2024
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Ritorno a casa

Il mistero della morte di zia Colette, avvenuta due volte a distanza di tre anni, nel 2007 e nel 2010, ha dell’ incredibile, dell’ improbabile, dell’ impossibile, semplicemente segna l’ inizio di un’ altra storia.
In se’ l’ eco di una vita dedita al proprio lavoro di calzolaia, una donna nubile, fine, senza figli, con un bel portamento, poco loquace, solitaria, la passione per la locale squadra di calcio del Gueugnon che segue da sempre, amante dei gialli di Agatha Christie e di Simenon.
Agnes Dugain, sua nipote, trentottenne cineasta di fama, emigrata in America, oggi sola, svuotata della propria arte, separata da un marito attore che continua ad amare, ritorna a Gueugnon per le sue esequie e si confronta con la voce della zia registrata su cassette a lei destinate, frequenta vecchi amici di infanzia, cerca di scoprirne il vero volto e chi è stata per l’ amato fratello Jean, suo padre, grande talento musicale prematuramente scomparso, a cui aveva sacrificato la propria giovinezza, per la piccola comunità di Gueugnon, per le poche conoscenze fidate, per se stessa, per l’ enigmatica Blanche.
Tata’ e’ un corposo romanzo di matrice famigliare che scorre piacevolmente all’ interno di una suspance crescente, percorso da ripetuti colpi di scena, con tratti di profondità e di intimità che ricordano gli intricati e turbolenti grovigli umani di Fredrik Backman, meno humour e medesima brillantezza, sbalzi temporali, un microcosmo inaspettato e cangiante, segreti conservati gelosamente, verità celate, una giostra imprevedibile e bizzarra che annulla le proprie certezze svelando porzioni di altro.
E allora la vita di Colette ripropone ad Agnes gli anni della propria infanzia e giovinezza, le consente di ricostruire pezzi di vite altrui, piccoli grandi misteri irrisolti, volti sconosciuti, l’ eco della diversità, passioni insospettabili, amori celati, addentrandosi nelle persecuzioni belliche, ripercorrendo episodi di violenza domestica, segreti famigliari, relazioni impossibili, frequentazioni durature, tradimenti, abbandonandosi all’ idea che ciò che sembrava estraneo e ripugnante possa appartenerci, smascherando origini lontane.
La voce di Colette si apre lentamente alla propria essenza più vera, una semplicità corredata da indiscutibili doti umane, da una forza dirompente, archetipo e collante di tante altre storie, sovente parallele, simbiotiche, multiformi, dolorose, una donna che conquista con il proprio entusiasmo, i prolungati silenzi, la bella voce, i suoi due sorrisi, uno triste e uno gioioso.
Una donna diversa da quello che Agnes aveva sempre creduto, il ritorno nella sua casa vuota la riavvicina a se stessa e a Colette immergendola in un universo sorprendente, sconosciuto, sommerso, voci, volti, speranze inattese, traumi, dolori vissuti dentro, resilienza, passioni, sentimenti, esternando una dimensione personale di incertezza e fragilità, uno stato di attesa e di non ritorno.
Grazie a lei Agnes rivisita passato e presente, uniti da una dimensione atemporale di vicinanza emotiva, accarezza la propria ombra, assalita dai dubbi, riconsidera una famiglia ristretta, l’ amore per il fratello, riflettendo sul fatto che c’è chi mai si riprende da una separazione amorosa, scopre di non essere mai stata bene come in quei giorni, una parentesi indimenticabile conclusa con il funerale della zia.
Grazie alla sua seconda morte Colette è ritornata alla vita, una vita in cui è ancora presente, …

…nascosta nell’ urna come in una lampada magica…

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Fantascienza
 
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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    11 Dicembre, 2024
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Illegibile per me

Se avessi potuto, avrei messo zero a ogni voto.
Di questo autore ho letto il bellissimo "Ma gli androidi sognano pecore elettriche" da cui è stato tratto uno dei più grandiosi capolavori della storia del cinema, con le struggenti composizioni di quel genio che fu Vangelis.
Poi leggendo varie recensioni in giro, mi sono fatto prendere dalla curiosità su questo Ubik e mi sono preso la nuova versione con una copertina molto bella di cartone in stile retro.
Iniziando a leggere la premessa mi sono cominciati a venire dei dubbi, in quando si parla dell' LSD e come questa sostanza tanti decenni fa aiutasse gli artisti a tirare fuori il meglio di se nel creare arte, ma allo stesso tempo li lasciasse in uno stato diciamo così psichedelico arruffato.....
Per esempio avevo letto altrove che nella scena finale dell'immenso "Odissea nello Spazio" di Kubrik tutte le visioni di flash colorote dell'astronauta, fossero state il risultato dell'utilizzo di sostanze del regista prima di filmare le sequenze.
Ubik è un libro incomprensibile, perchè l'autore da per scontato che noi sappiamo cosa siano dei termini da lui inventati e che sono solamente nella sua mente.
Quindi il lettore leggerà delle sequenze di frasi apparentemente senza senso che dovrebbero avere un significato compiuto nella narrazione.
E come quando andate a una collezione di arte contemporanea e magari all'angolo di un sala museale trovate un secchio di vernice e dentro il pupazzo di plastica di un oca macchiata....uno si chiede e mo sta cosa cos'è?? che ci vuol dire l'autore?? allora andate a leggere la didascalia e trovate scritto: "passaggio del tempo con sacrificio animale-naturale".....lo rileggete e non capite nuovamente.....vabbè passate oltre, magari l'opera appresso sarà più facilmente recepibile.
Purtroppo con Ubik la cosa non funziona, tralasciate alcune parti incomprensibili di un paragrafo pensando che magari leggendo avanti ne uscirà fuori un significato che ci è sfuggito e invece no, la cosa diventa ancora più oscura, confusa, contorta.
Una serie di idee, immagini, termini, uso di verbi, aggettivi, salti di tempo, donne conturbanti, gente che mette i soldi dentro a un armadio per farlo aprire, persona che parlano con gente morta che sta ancora morendo di più....il morto non morto che dopo muore.....l'amico del morto che torna in vita e vuole sfogarsi perchè si sente solo, la ragazzetta bella e conturbante, Ubik che può essere un oggetto di utilizzo quotidiano come una delle più grandi scoperte dell'umanità. La Luna che a sto punto l'autore decide di chiamare confidenzialmente Luna. La moglie morta, congelata, scongelata e poi nuovamente ricongelata, ma prima di ciò il protagonista gli chiede come migliorare le finanza dell'azienda anche se lei fluttua in una non morte che presto diventerà morte, poichè ogni volta che viene svegliata le forse si dissolvono.....boh
Poi arriva un'altra ragazza, che entra dentro casa di uno e vuol farsi la doccia. Questo le dice, si vieni quando ti pare.....
Sono arrivato alla fine del libro facendo sforzi enormi per non abbandonare il tutto e mi sono chiesto: "ma che ho letto? e quindi?? ma non mi potevo prendere un hamburgher con una Guinness al pub irlandese, invece che spendere sti soldi per sto accrocchio??"
Poi magari io non lo ho capito, però sono dell'idea che come in un pasticcio di carne, più cose ci ficchi dentro e più diventa una matassa immangiabile invece di deliziare il palato.
Poi ripeto è un opinione mia, tanti ci leggeranno un capolavoro, lo apprezzeranno, bene per loro, per me va oltre la mia comprensione attuale e forse futura.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    10 Dicembre, 2024
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Più una matrioska che un labirinto

Nel 2023 "Il manoscritto" era riuscito a stupirmi ed intrattenermi, ma questa primavera "C'era due volte" non è stato in grado di replicare la magia del primo libro, per quanto rimanga un titolo apprezzabile sotto diversi aspetti. Per capire se la serie stesse davvero prendendo una brutta china, ho deciso di recuperare entro l'anno "Labirinti", un capitolo conclusivo in cui ritornano con ancor più forza tutti gli elementi caratteristici della trilogia: persone affette da amnesia, ragazzine rapite, bande di criminali sociopatici e forze dell'ordine non proprio competenti.

La prima scena è ambientata all'interno di un ospedale, dov'è stata ricoverata una donna non ancora identificata dopo che le autorità l'hanno trovata sulla scena di un delitto bizzarro. Veniamo subito introdotti alla prospettiva della poliziotta Camille Nijnski, che interroga il dottor Marc Fibonacci a riguardo; l'uomo spiega che la paziente ha perso la memoria, ma non prima di avergli confidato tutto. Per illustrare al meglio gli eventi, si passa alla narrazione alternata di tre storie: quella della giornalista freelance Lysine, della psichiatra elettroipersensibile Véra e dell'adolescente rapita Julie. A queste si aggiungiono poi altre figure femminili, ed ovviamente ritorna anche lo scrittore Caleb Traskman.

Il tutto si delinea all'interno di una struttura narrativa solida e mai noiosa: il rapido passaggio da un POV all'altro potrebbe lasciare frustrati a volte -quando si è in prossimità di una rivelazione importante, ad esempio- ma permette al volume di mantenere un ritmo ed un dinamismo eccellenti. Il lettore viene letteralmente trascinato verso un finale sorprendente ma non incredibile; e lo dico in senso positivo, perché gli indizi nel corso della lettura vengono forniti, quindi per quanto ci si muova in un contesto inusuale i colpi di scena non sono mai campati per aria. Tutto considerato, mi è sembrata una conclusione soddisfacente anche nell'ottica della serie, perché mantiene una nota agrodolce in linea con le vicende raccontate.

Come già accennato, nel volume abbondano i rimandi ai due capitoli precedenti, che per quanto possa sembrare un escamotage paraculo è una decisione autoriale valida e coerente, tesa a tracciare un filo conduttore all'interno della trilogia, elemento che personalmente ho molto apprezzato. Allo stesso modo mi è piaciuta la scelta di presentare ai lettori parecchi quesiti di tipo etico e morale, primo fra tutti la legittimità del delitto con cui si apre la storia, che in un primo momento sembra il risultato del raptus di una squilibrata per poi assumere i contorni di una vendetta forse più che giusta.

La presenza di questi livelli introspettivi è resa possibile grazie all'approfondimento psicologico relativo non tanto ai singoli caratteri quanto ad un'analisi più ampia della mente umana e dei suoi meccanismi. Purtroppo questo svilisce i personaggi, che non vengono caratterizzati in modo adeguato ma rimangono un'incarnazione della loro condizione psicologica, la quale ne influenza la personalità nonché qualunque azione compiano. Sembra un paradosso, ma per quanto la condizione mentale dei personaggi sia attenta e rilevante, non sono riuscita ad individuare carisma o emotività in nessuno di loro, e questo mi ha tenuto distaccata dalle vicende pur reputando intrigante l'intreccio.

Tra i punti a sfavore del romanzo troviamo inoltre l'elemento horror, un po' eccessivo e ridondante a mio avviso: personalmente non mi faccio alcun problema con le scene splatter, però leggerne così tante le priva di rilevanza ed impatto. In modo simile, penso che il caro Franck si sia giocato una buona fetta della tensione a causa della premessa iniziale, perché anticipando la conclusione ha reso impossibile per il lettore preoccuparsi della sorte di alcuni personaggi. Non ho gradito poi le numerose convenienze di trama, sicuramente utili a far progredire la storia, ma al contempo capaci di depotenziarne la credibilità.

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barbara.g.76 Opinione inserita da barbara.g.76    09 Dicembre, 2024
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Ritrovare sé stessi tramite gli altri

Chiara si è lasciata col padre di sua figlia, vive la sua vita di madre single mettendo la figlia al centro di tutto e dimenticandosi di sé stessa. Tutto però cambia quando casualmente incontra un vecchio compagno di liceo, Raffaello, che inevitabilmente la porta indietro negli anni.
Il titolo del romanzo #dimmidite è la classica frase che diciamo quando incrociamo qualcuno che non vediamo da molto tempo. Da qui Chiara decide di cercare quei compagni, quegli amici, che hanno contribuito a formare la sua persona e chiedere di loro, indagare sulla loro vita, sapere cosa sono diventati, chi sono ora. Conosciamo Riccarda, la ragazza perfetta e inarrivabile, corteggiata da Stefano, in arte, Terence, l'amore segreto di Chiara ai tempi del liceo. Marcolino e Gabriele, due ragazzi troppo religiosi, Ivan il rappresentante di istituto così rivoluzionario e affascinante, Paloma, conosciuta durante una vacanza in Irlanda...
Tante figure, tante storie che negli anni non sono più le stesse, ma che fanno bene a Chiara, alla sua crescita personale, a quel lato triste che l'accompagna e soprattutto alla sua riscoperta personale.
Ho incontrato Chiara Gamberale durante la presentazione di questo romanzo, ho capito mentre lo leggevo quanto è stato importante per lei aver trasposto su carta questo racconto:, il bisogno di incontrare qualcuno pet scoprirsi e autocapirsi.
#dimmidite è un romanzo molto introspettivo che guarda al presente traendo spunto dal passato, un viaggio doveroso per ritrovare sé stessi.
Chiara Gamberale, persona estremamente interessante e vivace, mi sarebbe piaciuto che mi avesse rivolto la domanda : dimmi di te ... avremmo chiacchierato a lungo.
Leggetelo!

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    08 Dicembre, 2024
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Eccesso di disgrazie

“Certi soprannomi ti trovano e tu gli corri incontro come un cane, fino al giorno della tua morte, e te li scrivono persino sui documenti accanto al nome vero che nessuno ricorda più”.
“Essere un bambino è una cosa tremenda, non puoi decidere niente. Se superi quella fase e diventi adulto, è più facile dimenticare quel periodo miserabile e fingere di avere sempre saputo cosa stavi facendo. Sempre che tu sia diventato qualcuno di cui andare fiero.”
“Eppure avevo cominciato come qualsiasi ragazzino per bene, dicevo grazie e per favore, facevo i compiti a casa e cercavo di guadagnarmi un sorriso da tutti. Giocavo per vincere con tutto il mio minuscolo orgoglio e i miei piccoli sogni. Che importava se erano sogni da seconda squadra.”

Una vita di sfortune quella del protagonista di questo romanzo premio Pulitzer 2023 che annovererei proprio fra i libri ai cui protagonisti non manca nessuna delle sfortune del mondo. L’ispirazione dichiarata è al David Copperfield che nel raccontare le sventure del protagonista è in realtà un romanzo di denuncia sociale.
Lo stesso vuole essere questo Demon Copperhead che richiama vagamente il romanzo di Dickens anche nel titolo. Qui la denuncia è alla società americana di fine anni 90 che ha lasciato che la diffusione di oppiacei proposti come antidolorifici e che creavano invece dipendenza si sia fatta strada nelle provincie povere del paese (qui siamo nella regione degli Appalachi, depredata dallo Stato e poi abbandonata a degrado e povertà). Questo ha generato morti e conseguenti stuoli di ragazzi orfani seguiti in maniera discutibile dai servizi sociali, sfruttati da chi li ospitava solo per ricevere il sussidio dallo Stato.
Il protagonista è Demon Copperhead, che nelle disgrazie non si lascia abbattere e attraversa con una discreta leggerezza le terribili situazioni che la vita lo costringe ad affrontare. Una delle sue valvole di sfogo è il disegno: racconta infatti le situazioni della sua vita ed i personaggi che incontra in fumetti fantasiosi.
Demon Copperhead, che è il suo soprannome, è dovuto ai suoi capelli rosso intensi ereditati da suo padre defunto (copperhead = testa di rame), nasce in casa da una madre diciottenne alcolizzata e drogata aiutata per caso a partorire. Vive tra una madre in perenne tentativo di disintossicazione e parenti vicini di casa che gli offrono scampoli di vita normale e si pongono come i nonni che Demon pensa di non avere.
La madre si sposa con un uomo violento, Stoner, che la porterà a riavvicinarsi ad alcol e oppioidi fino a venire ricoverata e, alla fine, a morire. Demon viene quindi affidato ai servizi sociali in quanto orfano e passerà da diverse famiglie affidatarie interessate solo al contributo che ricevono per tenerlo con loro e che lo faranno vivere in ambienti sporchi e degradati oltre a costringerlo a lavorare nonostante sia ancora un bambino.
Stufo di questa alternanza di famiglie impossibili Demon decide di fuggire per cercare la nonna e per sapere qualcosa di quel padre del quale non gli è stato lasciato neanche il nome perché la madre gli ha dato il suo.
Riuscirà fortunosamente a raggiungerla e verrà da lei affidato al coach delle più famosa squadra di football del paese.
La sua vita sembra avere finalmente svoltato la curva giusta: la casa è molto bella, i soldi non mancano, il cibo è finalmente più che sufficiente e Demon trova perfino una “sorella”, la figlia del coach rimasta orfana di madre piccolissima. La nonna veglia da lontano su di lui.
Il coach vede in Demon doti sportive e ben presto entra a far parte della squadra dei riservisti e riprende con profitto la scuola.
Tutto bene? Ovviamente se il romanzo vuole collezionare disgrazie no e Demon conoscerà il baratro delle dipendenze, degli affetti persi, e di quanto di peggio si può pensare.
Saranno di sostegno i pochi punti fermi della sua vita.
Il romanzo è lungo, circa 700 pagine, forse per descrivere quanto il libro racconta si sarebbe potuto tagliare almeno in parte senza nuocere all’impianto complessivo.
Ho trovato (e non ho apprezzato) la quantità di problemi che Demon deve affrontare e che pare tirarsi addosso direttamente, almeno talvolta. Non mi spiego anche come una persona in quella situazione e con il suo spirito non possa afferrare subito le braccia tese per aiutarlo che spesso si vede proporre.
Poco mi sono anche spiegata la leggerezza con la quale Demon affronta quando di peggio gli avviene, benché sia ciò che alla fine lo salva tenendolo in piedi.
Ho trovato alla fine ripetitivo nel susseguirsi di disgrazie la storia che alla fine ha un unico tema e filo conduttore. Tenerlo per 700 pagine senza aggiungere altri elementi è sì, forse un po’ troppo.
Sicuramente le pagine scorrono e si leggono facilmente pur risultando un po’ monotematiche. Alla lunga la storia mi ha un po’ annoiato e la figura del protagonista non mi ha completamente coinvolto e convinto.
Una luce invece sulla figura dell’amico Tommy che è riuscito in quel percorso di uscita dalla disgrazia per forza nella quale l’autore invischia il protagonista.

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La Lettrice Raffinata Opinione inserita da La Lettrice Raffinata    05 Dicembre, 2024
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I retelling non (mi) hanno ancora stancato

Quando tutti sembrano star leggendo un determinato romanzo, quello è proprio il momento in cui la sottoscritta decide di evitarlo. In seguito, le strade percorribili sono due: mi intestardisco nel non voler recuperare il libro in questione mai e poi mai (com'è capitato negli anni con i famosissimi "Eragon", "Il cacciatore di aquiloni" o "I sette mariti di Evelyn Hugo", solo per nominarne alcuni) oppure capitolo dopo aver lasciato scemare l'hype rimanendo quasi sempre delusa dal risultato. Entrambe le alternative non sono il massimo, quindi quando ho ricevuto in regalo una copia di "Demon Copperhead" per il mio ultimo compleanno ho preso la saggia decisione di leggerlo entro la fine di questo poco soddisfacente 2024 letterario.

Ispirandosi per il titolo e non solo al "David Copperfield" di Dickens, Kingsolver racconta la vita di Damon Fields, nato sul finire degli anni Ottanta nella Lee Country in Virginia, da una madre tossicodipendente ed un padre morto diversi mesi prima. Narrato dal protagonista stesso, il romanzo ripercorre la vita del cosiddetto Demon Copperhead, dalla difficile nascita alla troppo breve infanzia, fino ad un'età adulta raggiunta ben prima di aver compiuto diciott'anni. Nel mentre vediamo l'alternarsi di fortune e sciagure, con il desiderio di far parte di una famiglia senza vincoli o date di scadenza sempre sullo sfondo.

Un altro cardine dell'intreccio è la dipendenza da sostanze, analizzata dall'autrice nei giusti tempi e dando ai risvolti più tragici il peso che meritano. La tematica della tossicodipendenza si collega bene agli altri argomenti toccati nel testo -come l'inadeguatezza dei servizi sanitario ed assistenziale, la dispersione scolastica, le disparità sociali- e riesce al tempo stesso a farsi allegoria di quella necessità trascendentale di affetto che caratterizza l'intera esistenza di Demon. Un bisogno che lo porta a compiere gesti tanto eclatanti quanto autodistruttivi, incapace di vedere delle vere alternative al suo declino.

Il tutto è convogliato tramite la prosa curata ed incalzante della cara Barbara, una narratrice capace di donare al lettore delle metafore dalla rara potenza letteraria. Le sue descrizioni genuine e particolareggiate rendono poi l'ambientazione un membro a pieno titolo del cast, permettendo una facile immedesimazione nelle vite dei personaggi. Tra tante esistenze disgraziate, a spiccare è ovviamente la figura di Demon, con la sua voce disinvolta e sagace ci accompagna attraverso dei momenti genuinamente emozionanti, ma privi di quella retorica e di quel patetismo che un po' temevo sarebbero stati presenti.

Una spinta empatica non indifferente verso il protagonista, che si conferma il più grande punto di forza del titolo. A differenza del personaggio dickensiano medio, Demon risulta estremamente sfaccettato sul fronte caratteriale: capace tanto di impegnarsi in risoluzione positive, quanto di cedere alla tentazione delle scorciatoie e di farsi abbindolare dal prossimo. Una personalità molto più adatta ad un contesto contemporaneo -in cui la linea tra giusto e sbagliato non è mai netta-. resa ancor più incisiva dalla sua spigliata ed autocritica voce interiore, che si percepisce con chiarezza nelle sue battutine rivolte ai lettori.

Le stesse lodi non si possono però estendere ad una buona fetta dei comprimari, e penso specialmente ai personaggi adulti. C'è ben poca sottigliezza nella loro caratterizzazione: Mrs Peggot è buona e cara e tale rimane a prescindere da quante disgrazie le capitino, mentre Porta-Qui viene descritto come viscido ed infido sempre, non tenendo in considerazione che per la maggior parte del tempo lui ignora del tutto Demon. Tra i più giovani c'è un maggiore approfondimento, merito del percorso di crescita nel quale li vediamo impegnati; anche così non mancano comunque gli stereotipi indice di pigrizia narrativa, come quello del ragazzo emo-goth autolesionista.

In generale, questo libro non ha tanto degli evidenti difetti, quanto delle mancanze minori: il ritmo non è abbastanza incalzante, i commenti di Demon non sono abbastanza presenti, il comportamento del protagonista non è abbastanza in linea con la sua età anagrafica. La grande assente è però la trama, dal momento che la narrazione si limita ad essere una versione più attuale del romanzo di Dickens, con qualche piccola variazione; sono inoltre presenti diverse svolte all'apparenza molto importanti, ma nei fatti di ben poco conto tanto da venire riprese solo parecchi capitoli più avanti. Ed è così che difficoltà presentate come insormontabili vengono superate con grande facilità, incidendo sulla tensione narrativa.

Il problema dietro queste scelte autoriali poco convincenti è dato senza dubbio dalla volontà di rimanere fedele al materiale di partenza, un difetto comune a molte rivisitazioni di leggende mitologiche e di romanzi classici. In questo modo risultano depotenziati, ad esempio, l'antagonismo con Porta-Qui (che pur avendo libertà d'azione e molte leve a sua disposizione, agisce in modo caotico) o le relazioni romantiche che Demon intreccia nel corso della storia: prive di una solida base sentimentale, si concretizzano soltanto perché la sua controparte dickensiana aveva quei medesimi interessi amorosi. Per questo aspetto, un po' di coraggio narrativo in più non sarebbe affatto guastato.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    04 Dicembre, 2024
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"Che decadenza..."

Lorenzo Marone torna con il suo Cesare Annunziata, nove anni dopo La Tentazione di Essere Felici.
Cesare Annunziata è anziano, schivo, apparentemente cinico e asociale. E’ vedovo con due figli adulti e un nipote adolescente che soffre la separazione dei genitori.
Questo pezzo della sua vita è ambientato a Napoli, al Vomero, nel periodo caldo e afoso del sole di pieno agosto.
La città si spopola e spesso accade che gli anziani rimangano soli, come Cesare , il suo amico Marino, vedovo come lui e con cui gioca interminabili partite a scacchi e la sua dirimpettaia Eleonora, la “gattara”.
Sua figlia deve partire col suo nuovo compagno e gli lascia il suo cane Batman.
Cesare è poco propenso a tenerlo con sé, non è capace di gesti affettuosi e non sa neanche come coccolare un animale, ma poi acconsente.
Con la città che si svuota e l’inevitabile solitudine, che si fa sentire ancor di più in questo periodo, Cesare ha modo di riflettere sul suo passato, sui suoi errori e i suoi amori, la sua vita con Caterina, sua moglie, morta da un anno, e sull’amore per i suoi figli probabilmente mai esternato abbastanza. Solo ora ormai ottantenne trova spazio per i sensi di colpa e i rimorsi, d’altronde arriva sempre il momento di fare i conti con la vita.
“Nessun peggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria. Ma poi, ero felice allora? Posso dire di esserlo stato mai? Sì, certo, a pensarci oggi lo ero, ma la felicità è una filibustiera, nel presente si degrada in nostalgia, che tra le tante forme di tristezza è la più sleale.”
Ma l’incontro fortuito con Iris, la ragazza dai capelli viola, gli darà una nuova speranza, e riempirà quel vuoto che si crea quando ci si sente ormai inutili.
Quel senso di inutilità tipico della vecchiaia, quando nessuno ha più bisogno di te, e quando si percepisce invece di essere spesso un peso per i propri cari, a causa delle proprie fragilità, e degli acciacchi dell’età.
“..non riesco a convivere con l'idea del niente, la mancanza di obiettivi mi sembra la maggior pena da sopportare”
Per la prima volta dopo anni, con Iris, Cesare riscopre il piacere di prendersi cura degli altri, e sente che la vita lo può ancora sorprendere.
Un libro ironico e commovente, pieno di riflessioni sulla vita , sulla società moderna, sull’amore, sulla morte, sul senso di genitorialità e immancabilmente sulla nostalgia della gioventù, su tutto quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto,
“E poi a volte giunge improvvisa come adesso la malinconia e mi sembra di essere travolto da un’onda, impazza in me la voglia di ritornare indietro, per provare ad aggiustare le cose, per essere diverso da quel che sono stato.”
Un romanzo che è un inno alla vita, colmo di pensieri profondi che fanno riflettere sul senso del nostro passaggio in questo mondo, di quanto sia precario tutto questo, perchè la fine è proprio dietro l’angolo, e vale la pena allora cogliere ogni più piccola opportunità quando si presenta, anzichè annegare nei rimpianti quando ormai si può fare ben poco per cambiare.
“A volte il significato profondo dell’aver vissuto sfugge, altre volte sembra così facile: te lo trovi davanti e ti chiedi come facevi a non vederlo. A volte basta un’altalena arrugginita, basta avere il coraggio di coltivare la memoria e di non arrendersi, Di continuare a credere nei miracoli, intestardirsi a cercare qualcosa di nuovo, aver voglia di imparare ancora. La vita è un’ubriacatura, una lunga trasformazione. La vita semplicemente a volte capita e non bisogna farsela scappare”.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    03 Dicembre, 2024
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Innocenti in carcere.


"Dove è un tribunale, è l' iniquità", così diceva Platon Karataev in "Guerra e pace" di Tolstoj, e così viene amaramente confermato in questo interessante libro di John Grisham, il famoso autore americano di gialli a sfondo legale, e del coautore Jim McCloskey, scrittore con dottorato in Teologia, fondatore di Centurion Ministries, una benemerita associazione per la scarcerazione di presunti colpevoli condannati ingiustamente (già settanta liberati sino ad oggi).
L'opera illustra dettagliatamente dieci casi giudiziari, cinque descritti da Grisham e cinque da Mc Closkey: tutti riportati nei minimi particolari, dalla descrizione del caso alle indagini preliminari, e successivamente all'imputazione del presunto colpevole , al dibattimento processuale ed alla condanna finale, condanna che comporterà in quasi tutti i casi la pena capitale. Sono tutti casi di omicidio, avvenuti nelle più varie circostanze: donne, anche anziane, stuprate e uccise selvaggiamente, rapine terminate con l'eliminazione della vittima, delitti tra coniugi o amanti, fino al caso che fece più scalpore a livello nazionale e mediatico riguardante un padre sospettato di aver ucciso tre figlie in tenera età appiccando il fuoco all'appartamento.
Gli autori riescono a dimostrare e portare coraggiosamente alla luce, esaminando minuziosamente caso per caso in tutte le fasi processuali, errori procedurali inimmaginabili: false testimonianze con promesse di denaro o riduzione di pena, necessità di trovare a tutti i costi un colpevole per placare i media e l'opinione pubblica, priorità alla presunzione di colpevolezza, indagini mal condotte, caratterizzate da insufficienza di prove convincenti o da esami errati, male interpretati o addirittura falsati da negligenze, corruzione o documentazioni ritenute, con il progredire della ricerca scientifica, non più attendibili. Ci sono dentro tutti: investigatori superficiali, esperti poco aggiornati, pubblici ministeri condizionati, avvocati d'ufficio svogliati o corrotti. Ne esce, come appare dalla lettura dei casi discussi nel libro, un quadro della giustizia che lascia l'amaro in bocca, mettendo anche in conto il serpeggiante razzismo, soprattutto negli Stati del sud, evidenziato da una costante maggiore severità nei confronti dei neri. Mi ha anche colpito, se non altro per motivi professionali, il capitolo nel quale viene discussa l'attività di un famoso medico legale ("Giocare all'autopsia" di Grisham), il dr. Haynes, autore di migliaia di autopsie, senza rispetto delle regole e zeppe di errori, a partire dal 1941: chiamato a prestare la sua opera nei tribunali di molti Stati, passava incessantemente da un cadavere all'altro, fornendo risultati fasulli e contribuendo ad avvalorare la presunta colpevolezza di molti innocenti.
In sostanza, emerge una verità, come sostengono gli autori, e cioè che "è molto più facile condannare un innocente che farlo uscire dal carcere". Nonostante ciò, l'associazione di McCloskey, sostenuta da uno stuolo di avvocati e di esperti, è riuscita nell'intento di annullare alcune condanne, dopo anni di ricorsi e tentativi respinti: alcuni ingiustamente condannati hanno ottenuto la libertà, pur dopo decenni di prigione, altri invece attendono ancora nel braccio della morte, con la speranza di un annullamento della condanna.
Da notare che, negli Stati Uniti, la pena di morte, dopo quattro anni di moratoria, è stata reintrodotta nel 1976 nei 35 Stati che la praticavano, e che da allora nel solo Texas sono state condannate 586 persone, almeno 20 delle quali innocenti. Il libro di Grisham e McCloskey si pone come coraggiosa e non inutile testimonianza che si può sempre sperare di salvare vittime innocenti, anche quando apparentemente ogni speranza sembra perduta.
Ovviamente il libro non è uno dei consueti gialli avvincenti di Grisham, ma una revisione dettagliata di casi giudiziari. La lettura può rivelarsi difficoltosa, consistendo essenzialmente nell'esposizione di resoconti di dibattiti processuali, testimonianze, arringhe di pubblici ministeri e difensori, con uno stile narrativo prettamente giornalistico da parte del coautore McCloskey e qualche spunto di riflessione in più da parte di Grisham. Non mancano commenti puntuali degli autori sulle situazioni più deprecabili nè, in alcuni casi, i lodevoli difficilissimi tentativi di salvare persone erroneamente sospettate di crimini. La lettura sarà molto apprezzata da cultori della materia, o più semplicemente da curiosi di questioni e problemi legali. Offre anche uno spaccato dell'America più profonda, con i suoi pregiudizi e certe convinzioni radicate, e può essere utile per comprendere quanto sia difficile giudicare serenamente e senza pregiudizi.
Apprezzabili, alla fine del libro, alcune "note sulle fonti" da parte degli autori: Grisham, arrivato alle vicende narrate attraverso giornali, riviste, atti processuali, McCloskey invece più direttamente "sceso in trincea", per le strade, nei vicoli, nelle prigioni e nei tribunali, soprattutto tramite la sua associazione ed il continuo confronto con i protagonisti delle vicende.
Un inserto fotografico finale ci mostra i volti di quasi tutti i presunti incriminati per crimini non commessi: molti hanno passato in prigione decenni della loro vita, alcuni colpevoli solo di essersi trovati nel luogo sbagliato in un momento sbagliato. Testimoni viventi della affermazione tolstojana : "Dove è un tribunale, è l'iniquità".


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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    03 Dicembre, 2024
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Cadute, traumi, contusioni

Come è noto, questo è il romanzo vincitore del prestigioso Premio Strega 2024. Chapeau, nulla da eccepire, si tratta in effetti di una lettura piacevole.
Una discreta prova di una autrice che ha già avuto modo in precedenza, con i suoi lavori, di farsi apprezzare da molti, sia in termini di critica che di vendite.
Un testo scritto con uno stile tutto suo, inconfondibile, leggibile in breve, mai i suoi libri contano troppe pagine. Una scrittura essenziale, un linguaggio asciutto, preciso. Donatella Di Pietrantonio va subito al dunque, magari anche in modo spiccio, forse eccessivamente sintetico, qualcuno direbbe una prosa scabra, però efficace, e anche efficiente per il suo voler dire. Tuttavia, a mio modesto parere, il premio più che a questo libro in sé, è stato dato, come dire, alla carriera, al complesso dei suoi elaborati e non specificamente a “L’età fragile”. Un premio meritato sì, ma alla scrittrice, al complesso della sua produzione. “L’età fragile”, in sé e per sé, non mi convince in pieno; per esempio “ L’Arminuta”, colei che ritorna, la riportata a forza, partita e rimandata indietro quasi fosse un campione deteriorato, che è il suo testo forse più noto e di buon successo, e a ragione, mi piacque tantissimo, molto di più dell’ “Età fragile”, era veramente un piccolo gioiello. Una storia di abbandono, molto incisiva, commovente ma terribilmente reale, raccontava un ritorno coatto che però si tramutava in una occasione, una opportunità di riscoperta delle proprie radici, e di un affetto unico, quello che solo una sorella può darti. Anche il sequel di questo, “Borgo sud”, mi è parso di una spanna superiore all’”Età fragile”, e dire che è appunto una continuazione, e si sa, la puntata successiva, l’opera seconda, non riesce mai bene come quello che lo ha preceduto, sarà perché il lettore si aspetta inconsciamente il “già visto”, il rischio di deluderlo è alto. Insomma, finanche i più datati “Mia madre è un fiume”, storia di una anziana che si perde nella nebbia dei suoi ricordi che svaniscono e di una figlia che se ne prende cura aiutandola a ricostruirli, o “Bella mia”, un testo attualissimo, non tanto perché ambientato all’epoca del terremoto all’ Aquila, ma per il tema, quella della maternità per interposta persona, mi sono apparsi, come dire, superiori. Di molto superiori. Intendiamoci, la penna è la sua, pregevole; però a mio parere, “L’età fragile” è appunto fragile, si ferma in superficie, non incrina la linea piatta delle acque, si limite alla trasparenza anziché tuffarsi per esplorare, e descrivere, al meglio i fondali. Che pure sembrerebbero meritevoli di più accurata osservazione: per me, non è la sua opera meglio riuscita. Detto questo, Donatella Di Pietrantonio prende spunto per questo suo ultimo da un tragico episodio di cronaca nera realmente avvenuto sulle pendici boscose della Maiella anni fa. Vittime, povere ragazze, giovani turiste, un femminicidio commesso a scopo di libidine da un individuo in cui erano incappate del tutto casualmente. L’assassinio, un giovane slavo, era un pastore confinato in estrema solitudine nell’assolvere il suo miserabile servizio, davvero in assoluto isolamento, mal retribuito e in condizioni miserevoli, uno schiavo, letteralmente, che l’esistenza di stenti e privazioni aveva desensibilizzato di ogni umanità regredendolo ancor di più alla condizione di bestia selvaggia. Ancora più bestia erano da etichettare però coloro che, persone cosiddette “civili”, avevano pensato bene, tra l’altro, di provvedere certosinamente ai propri meschini interessi, e cioè di armare la bestia perché meglio custodisse le greggi affidategli, infischiandosene delle conseguenze, salvo poi negare ogni responsabilità, scaricando tutte le colpe su quel disgraziato, ancora più colpevole perché un bruto, un diverso, una bestia selvatica, giustappunto. Ecco, tutto questo è preso a pretesto, sullo sfondo agisce il vero protagonista di questo romanzo, la terra natale della scrittrice, l’Abruzzo, il luogo vero protagonista, il personaggio principe e ambivalente, il solo che ha una grande età ma non è per niente fragile, reso a perfezione, e con orgoglio, nei suoi due aspetti precipui: la durezza e la magnificenza. Questa la location, e il pretesto narrativo: poi il romanzo è una storia di famiglia, un rapporto madre figlia. La madre, Lucia, che quel tragico evento che abbiamo detto lo ha vissuto, e la figlia Amanda che, tra un lockdown da covid e accidenti vari, ritorna alla casa natale abbandonando improvvisamente gli studi, e si rinchiude in se stessa, oltre che nella sua camera. In ambedue i casi è una storia di dolori, di cadute, di traumi, ma così è la vita, né più né meno, è quanto succede a tutti, a tanti, a molti, quello che differenzia gli uni dagli altri è il modo come reagisci al dolore, ti rialzi dalla caduta, ricomponi i traumi. Quello che non ti uccide, non è detto che necessariamente ti rafforzi: ma certamente ti insegna che, se vuoi vivere, sarai pure fragile per età o per altro, ma devi darti una mossa, in qualche modo, devi raccogliere almeno i cocci più grandi, e ricostruire un manufatto più o meno funzionante, almeno alla meno peggio. Qualcuno ci riesce, spesso più di uno, e talora davvero bene proprio quelli insospettabili, creduti meno capaci, che al momento utile sanno tirare fuori tutto quello che hanno, capacità volitive ignote finanche a se stessi, e bene o male ce la fanno. Perché è così che si fa, siamo tutti fragili, e forti a un tempo, se solo lo vogliamo. Il che significa che possiamo farcela tutti, a volerlo. Serve però…parlarne.
Ecco, è questo che non funziona. È un romanzo di silenzi, d'interruzione delle comunicazioni, quelle tra madre e figlia protagoniste, ma anche tra coppie, tra amici, tra le vittime di eventi tragici. Un libro che dice, non a parole, con i silenzi, troppi però. I vuoti silenzi non sono utili a indurci alla riflessione, resta un distacco tra libro e lettore, le emozioni ci sono, ma appena accennate, in superficie.
Così però non ti coinvolgono, non evolvi, resti fragile, a prescindere dall’età.
Libro compreso.

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Donatella Di Pietrantonio
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    03 Dicembre, 2024
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Ada & David

«[…] Ada percepì una tensione tra David e Liston. Anche se era giovane, ne conosceva la causa: il desiderio di Liston di proteggerla con l’onestà, il desiderio di David di proteggere lei da se stesso, con ottimismo, speranza e un po’ di beata ignoranza del destino che lo attendeva.»

Il rapporto tra Ada e suo padre David non è come il normale rapporto tra un padre e una figlia. Loro prima di essere una famiglia sono una coppia intesa come una squadra. David Sibelius è un uomo di grande spicco, lavora in uno dei più importanti e all’avanguardia laboratori di informatica nella Boston degli anni Ottanta e lavora a un programma dal nome Elixir, un programma che anticipa un po’ quello che sarà il progresso dell’intelligenza artificiale e che porta a replicare il linguaggio umano. Per Ada il programma rappresenta una sorta di diario segreto, di amico informatico con cui dialogare e che costantemente aggiorna. Il programma replica tutto quello che Ada dice, acquisendo vocaboli, struttura, dialogo. La dodicenne è cresciuta con costanti stimoli dal padre, quest’ultimo la porta con sé in laboratorio, le ha fornito una serie di codici da decrittare, le ha trasmesso il suo sapere. Per Ada lui è tutto. Liston e tutti gli altri membri del laboratorio ne sono appendici. È abituata a frequentare adulti ma non anche ragazzi, vede il mondo con gli occhi del genitore. Tuttavia qualcosa di inaspettato accade: David scompare. Si tratta di una scomparsa temporanea, dopo quarantotto ore tornerà a casa ma attorno a questo gesto si nasconde una più grande verità che porterà allo stravolgimento totale e completo del mondo di Ada. Una serie di circostanze la porteranno a vivere da Liston, a conoscere i suoi figli, a dividere uno spazio comune, a staccarsi da quel che è sempre stato. Tante saranno le crepe che si manifesteranno nel passato di David e scoprire quella che ne è la verità sarà uno dei più grandi obiettivi di Ada non solo da adolescente ma anche da adulta quando avrà un ruolo importante in una azienda della Silicon Valley.

«Decrittare la rinfrancava sempre: era una maniera semplice di restituire ordine all’universo, di raddrizzare qualcosa di storto, di rimettere il latte versato nella bottiglia. Era un’operazione che implicava giustizia.»

“Il mondo invisibile” di Liz Moore è un romanzo molto particolare per struttura e storia in sé. Lo sviluppo è ben cadenzato, il ritmo narrativo ben distribuito in un accelerare e rallentare costante. Lo stile è fluido, ben articolato. Ben strutturati anche i salti temporali che si alternano con maestria e senza difficoltà in quella che è una narrazione che porta il lettore a entrare a far parte di un mondo completamente sconosciuto ma intenso.

Tante le peculiarità che colpiscono e che vanno dal legame tra il padre con questa figlia al mistero che si cela nel loro passato e che riporta la protagonista al bisogno incessante di ritrovare le proprie radici.

«[…] Immaginava che per accettare la mano tesa di Liston avrebbe prima dovuto lasciare quella di David. E che, se l’avesse fatto, lui sarebbe precipitato a picco nell’abisso che si apriva sotto i suoi piedi.»

“Il mondo invisibile” è uno scritto in cui Liz Moore sviluppa in modo consistente le vicende e dove i personaggi sono vividi. Pagina dopo pagina il lettore è sempre più incuriosito da quel che legge e brama di sapere ancora e ancora. Non si è davanti a un elaborato scontato, anzi. È un componimento appagante e corposo, ricco di spunti di riflessione e magnetico. Un libro da non perdere, uno dei migliori dell’autrice. Un libro letto oltre un anno fa ma che resta indimenticabile.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Dicembre, 2024
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Teatro antico

Se non fosse stato per un Gruppo di Lettura a cui ho preso parte nei mesi scorsi, a me non sarebbe neanche lontanamente passata per la testa l’idea di rispolverare il buon vecchio T. Maccio Plauto. È stata, in definitiva, una lettura interessante che mi ha rievocato gli anni della scuola, quando questo autore si studiava per letteratura latina.
È da allora, infatti, che mi è rimasta impressa la grande vivacità linguistica (dai neologismi ai doppi sensi, senza tralasciare le battute ben colorite) come caratteristica distintiva del teatro plautina, e infatti nelle “Bacchidi” se ne trova ampia conferma. Il plurale del titolo si riferisce a due sorelle etère, le quali tuttavia non sembrano essere le protagoniste dell’opera in quanto la scena viene presto dominata da personaggi maschili ben precisi, anzitutto i due giovani innamorati e il servo scaltrissimo. L’inizio vero e proprio della commedia risulta perduto e di esso la tradizione ha conservato una trentina di versi piuttosto mutili. Il modello è indubbiamente greco: il “Dis exapatòn” di Menandro, a cui il testo di Plauto, in generale, si mantiene fedele, non rinunciando però a una rielaborazione a tratti contraddistinta da grandi libertà (si pensi anche alla mancanza del coro, elemento invece fondamentale nel teatro greco).
Da un certo punto in poi, forse a partire dal terzo atto, i ritmi divengono più veloci e pressanti e la trama, con il suo intreccio certo complesso, entra nel vivo; la figura dello schiavo furbo e ingannatore (una costante della commedia plautina) non può non andare a segno, rivelandosi molto apprezzata nonché abbastanza divertente: nel suo significativo monologo all’interno del quarto atto Crisalo (o Rubaloro, a seconda delle edizioni in traduzione) paragona se stesso addirittura a Ulisse (e non solo) e la sua impresa truffaldina all’espugnazione di Troia. Molto importante anche il personaggio del pedagogo che, ovviamente, finisce per ammonire a vuoto e il quinto e ultimo atto dimostra che giovani e anziani (in questo caso, figli e padri), alla fin fine, non si discostano affatto nei loro comportamenti. La questione educativa, pertanto, emerge in modo chiaro da questo testo.
Lettura scorrevole e piacevole, forse non sempre pienamente spassosa; sebbene forse non si tratti di una delle migliori opere di Plauto, induce a leggere (o rileggere) anche altro di questo autore.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Dicembre, 2024
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Una favola tra mondo greco e latino

Ricordo di aver letto ai tempi del liceo, e forse anche tradotto dal latino, qualche brano tratto da questa favola contenuta ne "Le metamorfosi o l'asino d'oro" di Lucio Apuleio, autore di lingua latina nato e morto in Africa tra i territoti delle attuali Algeria e Tunisia nel corso del II secolo d. C.
Si tratta di una favola a tutti gli effetti, tradotta e celebre nel mondo, che offre una lettura molto piacevole e scorrevole; sono felice di averla finalmente letta nella sua interezza. Le peripezie della povera Psiche, la cui vicenda sottolinea quanto possa essere pericolosa per i mortali la proverbiale invidia degli dei, risultano coinvolgenti, mentre non stona la scrittura spesso squisitamente ironica di Apuleio, il quale non manca, man mano che procede la narrazione, di riportare osservazioni che appunto strappano un sorriso pur nella drammaticità degli eventi in cui precipita la bellissima ma ingenua protagonista; così come sparsi qua e là nel testo, nonostante la chiara ambientazione greca, compaiono riferimenti alla realtà giuridica del mondo romano (si veda, per esempio, il richiamo alla legge che a Roma vietava di dare accoglienza agli schiavi fuggiti dai loro padroni o alla ben nota Lex Iulia sull'adulterio), curiosamente applicata a un mondo di immortali con le virtù e soprattutto tutti i vizi di quello degli uomini.
Epilogo, dunque, che non poteva tradire le aspettative, con il trionfo dell'amore che ha superato qualsiasi infelice prova e la benedizione ufficiale da parte degli inquilini del sacro Olimpo riuniti al gran completo! Voto complessivo: quattro stelle!

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davide.crimaldi Opinione inserita da davide.crimaldi    02 Dicembre, 2024
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Un noir a dir poco geniale

Questo è un testo a tratti davvero complesso da seguire: le vicende sono spesso raccontate in maniera molto veloce, sincopata, con lo scopo di dare al noir un ritmo davvero incalzante; il "contro" di questo approccio è che sono dovuto tornare spesso indietro di qualche pagina per capire dove fossimo finiti.
La trama è geniale e le ultime pagine volano!
Consigliatissimo

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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    01 Dicembre, 2024
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Ritratti di signora

Bellissimo! Fra i libri più belli della mia non breve esperienza di assiduo lettore.
La scrittura è splendida, atta a cogliere ed esplorare caratteri e relazioni con intensa profondità : vite e destini che s'intrecciano nello spazio di una località inglese.. Giovani donne soprattutto, nei momenti salienti della vita di ragazze, poi di mogli.

Tra queste, la bellissima Dorothea. "Si diceva che fosse di un'intelligenza fuori del comune, ma con la postilla che sua sorella Clelia aveva più buon senso" ; "signore di rango", benché non propriamente aristocratiche.
Poi c'è Rosamund : "recitava il proprio personaggio così bene che non sapeva se fosse precisamente il proprio". Del giovane medico venuto in paese, pensava che fosse "un uomo di talento (...) che sarebbe stato particolarmente piacevole sottomettere" .

Uno stile fatto di eleganza, intelligenza e sensibilità, con brillanti tocchi di umorismo lieve e profondo.
Un libro magnifico insomma, ricco di fascino, che fa pensare a come possa essere gradevole e fruttuosa anche la rilettura.

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classici della letteratura
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