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contesto familiare e sofferenza
Ho acquistato il libro a scatola chiusa, in quanto avevo già molto apprezzato l'Autore, specie in "se consideri le colpe". La prosa anche qui è sublime, t'incanta questa scrittura melodiosa, dolce, penetrante.
Il romanzo, breve, è un intenso racconto delle vicende e dinamiche familiari ricostruite a posteriori dall'io narrante che decide, adulto, di prendere le distanze dai genitori, di fatto abbandonandoli.
La leggerezza che prova, nel lasciarseli alle spalle, è pari alla pesantezza che ha pervaso la sua vita fin lì, pesantezza derivante dal contesto familiare in cui si è (suo malgrado) trovato a vivere.
È un romanzo totalmente introspettivo, psicologico, descrivendo il faticoso percorso del protagonista volto a liberarsi, emanciparsi dalla famiglia di origine, luogo violento, asfissiante, disfunzionale, che ha segnato profondamente la sua personalità. Non è una lettura scorrevole, a tratti l'ho trovata anche pesante, ma ciò è comunque bilanciato dal numero ridotto di pagine. Consente una riflessione importante. A volte si sentono commenti di incredulità di fronte a figli che decidono di troncare i rapporti con i loro genitori, che decidono di non prendersi a carico la loro vecchiaia, che decidono di andare a vivere altrove, molto lontano dai luoghi (bui) dell'infanzia. Non siamo nessuno per giudicare le scelte degli altri, non sappiamo come e dove le persone sono cresciute, come e dove hanno vissuto, quanto hanno patito. La famiglia, lungi dall'essere quel luogo che il sentire comune si ostina a dipingere come il nido, come il posto dove siamo cullati in una bolla di accoglienza, di calore, di amore, diviene a volte in realtà la fonte primaria di disagio e di sofferenza; bambini senza strumenti per capire e per difendersi da pesanti dinamiche relazionali vissute in famiglia; bambini che subiscono violenze, anche sottili, che poi da adulti sviluppano vulnerabilità se non vere e proprie patologie. Questo dunque: serve forza, ma è comunque possibile agire, liberarsi dai sensi di colpa per quello che la società ritiene abietto e pensare, secondo una logica di sano, sanissimo egoismo, a difendere sé, per iniziare a vivere pienamente, liberi dal passato che ingabbiava in sofferenze. E celebrare poi l'anniversario di questa rinascita.
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Attesa e rimpianto
Un uomo alla propria porta, rivelazione inconcepibile e concreta minaccia a una vita famigliare da rivisitare completamente, fragile, insostenibile, sospesa, forse cambiata per sempre.
A Eilis, irlandese sposata da vent’anni anni e residente a Long Island, un marito di origine italiana ( Tony ), due figli ( Rosella e Larry), arrabbiata, ferita, vilipesa, non resta che affrontare l’ inaffrontabile nella speranza di trattenere ciò che sente appartenerle, un viaggio nella propria terra d’ origine per festeggiare l’ ottantesimo compleanno della madre in attesa dei propri figli.
Un ritorno al passato nella disillusione del presente, che sia un nuovo inizio, la prosecuzione di quello che fu, un flusso insperato di ricordi e rimpianti, difficile dirlo.
Nella terra d’ Irlanda riabbraccia la madre, con la quale ha mantenuto rapporti epistolari, i fratelli, Nancy, ex amica del cuore, e ritrova Jim, un coetaneo con il quale vent’anni prima aveva vissuto un’ intensa storia d’ amore prima di tornarsene dal marito di cui lui ignorava l’ esistenza.
Oggi probabilmente tutto è cambiato, vita, condizioni, persone, sentimenti, Jim paradossalmente vive una relazione con Nancy, tuttora nascosta alla comunità e destinata a uno sbocco matrimoniale, giorni che scorrono tra passato e presente, il futuro da definire.
Eilis rivisita una dimora sentimentale che ritrova lentamente, momenti sospesi, perduti, lontana da una famiglia patriarcale devota a se stessa che non ha mai riconosciuto e rispettato il suo spirito irlandese, che comunque le manca, un luogo tutto per se’ che la riavvicini a se’, alle proprie origini, a un amore che poteva essere altro, a una scelta obbligata, a quello che è stato.
Anche Jim attraversa la turbolenza di una routine apparente, un passato di inspiegabili e improvvise menomazioni, abbandonato da due donne, ciascuna per motivi diversi, e, a differenza loro lui non ha saputo reagire, un tempo nel quale avrebbe seguito Eilis ovunque, persino in America, umiliato dalla sua partenza, rimasto solo con le sue storie.
Nancy, a sua volta, è desiderosa di ricostruirsi una vita dopo tante sofferenze, consapevole che tutto per lei sarebbe potuto andare diversamente, se il marito George non fosse morto, se Eilis non fosse partita per l’ America e avesse sposato Jim.
E c’è chi ha vissuto vent’anni separata da una parte di se’ e oggi vorrebbe ricominciare altrove.
Intrecci, fallimenti, rimpianti, fragilità esposte, una commedia di relazioni famigliari che ricorda la connazionale Catherine Dunne, meno poetica e più romanzata.
Sentimenti sospesi, complessi, rilasciati, quanto il bisogno d’ amore determina un caos affettivo-relazionale, la rivisitazione di un passato tronco, riassaporando ciò che si credeva perso, frammenti di felicità destinati a fine certa, sperando nell’ improbabile, affidandosi ai sentimenti, esposti ai desideri altrui?
Quanto il passato è presente, i rimpianti ci toccano, le responsabilità ci appartengono, sovrastati dalla complessità, dai sensi di colpa in una vita che poteva essere altro?
In una confluenza di anime sole, svuotate, perse, un vortice turbolento di accadimenti riporta a uno stato di attesa, di un fragore cangiante, di una resa dei conti, di un ritorno all’ ovvio.
Nel frattempo c’è chi resta nell’ ombra …
…si appoggiò al muro e chiuse gli occhi. Forse l’ indomani avrebbe avuto una qualche idea di cosa fare. Ma per il momento avrebbe aspettato lì, senza fare niente. Avrebbe ascoltato il proprio respiro pronto ad aprire la porta a mezzanotte, quando arrivava Nancy. Ecco che cosa avrebbe fatto…
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La storia come romanzo
Settembre 1939, le truppe tedesche dopo aver superato la resistenza della Polonia attaccano la Francia e sembra chiaro che i transalpini non potranno resistere a lungo, l'estensione del dominio nazista
sull'Europa è più di una triste possibilità.
La Gran Bretagna sembra l'ultimo baluardo di un certo spessore che possa fermare questa avanzata inarrestabile, ma lo è davvero ?
Non lo è nelle paure della gente comune che teme di vedersi invadere da un giorno all'altro dalla Germania e neanche in quelle del governo al cui capo c'è un uomo stanco e logorato come il
primo ministro Neville Chamberlain sfiduciato dal parlamento e costretto a rimettere il suo mandato nelle mani di Re Giorgio.
Il quale nomina primo ministro Winston Churchill, ultrasessantenne, visto dai più come un pò scorbutico, inviso a molti membri del Parlamento ma probabilmente , prorpio per il suo carattere tosto, la persona più indicata a guidare il paese in simile drammatico frangente, tanto più che nessuna candidatura alternativa pare un minimo credibile nè alcuno si infervori per avere un incarico che ha tutti i crismi della condanna. Il libro narra essenzialmente la storia del primo anno e mezzo di governo di Winston Churchill, in pratica quello decisivo in cui la Gran Bretagna , contro ogni pronostico degli stessi inglesi resiste alle violente e continue incursioni aeree tedesche grazie ad uno stato efficiente ed unito e ad un popolo resiliente e mai domo anche per i comportamenti e le parole del suo Primo Ministro : uomo pratico, deciso, abilissimo oratore capace di esaltare le vittorie e far sembrare la peggiore sconfitta come una lezione talmente utile che è come se si fosse vinto, ma soprattutto diplomatico geniale e paziente. Churchill si circonda di collaboratori fedeli ed efficienti che trasformano la produzione aerea inglese in una macchina quasi perfetta in grado di produrre un numero tale di aerei da stravolgere le stime di Goebbels e degli altri gerarchi nazisti consiglieri di Hitler che ritenevano la Gran Bretagna un avversario abbordabile e poco attrezzato.
Sviluppa i primi sistemi di intercettazione aerea ma soprattutto gioca una partita a scacchi diplomatica con il presidente americano Roosvelt, conscio che solo l'intervento diretto degli Stati Uniti nel conflitto
possa consentire all'Europa invasa di sconfiggere Hitler e la sua enorme potenza militare. Ovviamente dall'altra parte dell'oceano il presidente americano, che pure nutre per il Premier inglese una certa stima,
non può decidere un'entrata nel conflitto con tutte le conseguenze in termini economici e di sacrificio di vite umane, giustificandola solo come una necessità di un pur caro alleato.
Ma la fortuna si sa aiuta gli audaci e la buona sorte per Churchill ha le forme del drammatico attacco giapponese a Pearl Harbour che di fatto sancisce l'inevitabile intervento degli Stati Uniti nel conflitto.
Larson riesce a parlare di politica, di strategie militari, di storia senza mai essere noioso o prolisso, anzi in certi punti diventa quasi difficile lasciare il racconto ed è strano considerando che come sono andate
le cose lo sappiamo tutti, quello che non sappiamo, e che Larson ci spiega senza usare una parola di troppo è la varia umanità che c'è dietro quelle pagine di storia, i comportamenti i dubbi, le paure persino gli amori dei protagonisti della storia, più che una cronaca di guerra in certi momenti è una storia di famiglia, perchè questo sembra il governo inglese in quei mesi , una famiglia allargata di persone che per lo più si stimano in qualche caso si tollerano ma senza che mai eventuali divergenze possano intralciare in qualche modo il fine comune che è vincere la guerra.
Se tutto questo è possibile lo si deve alla salda guida del Primo Ministro Winston Churchill, divenuto famoso ai posteri per i suoi coloriti aforismi , ma uomo solido, indomito e saggio per quanto poco incline
all'etichetta e amante dei sigari e del buon bere. Gran bel libro, Larson trasforma i dettagli , su cui tanti scrittori inciampano diventando prolissi e dispersivi alla noia, in una parte imprescindibile del racconto.
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How to giustificare un instalove
Capiterà un po' a tutti i lettori di recuperare il libro di un autore molto popolare, solo per la curiosità di scoprire se sia nelle loro corde o meno. Succede spesso anche a me, con l'aggravante che ho il vizio di lasciare suddetto libro a prender polvere sullo scaffale; quindi se una decina di anni fa (ovvero quando acquistai la mia copia di "Ogni giorno") c'era la possibilità che mi piacesse, la mia attuale lontananza al target YA ha azzerato ogni chance per questo romanzo. Anche perché nel frattempo ho letto "Touch", che gestisce mille volte meglio la medesima premessa narrativa.
Strutturato come un dialogo interiore declamato dal protagonista -la coscienza auto-battezzatasi A-, il volume segue un breve periodo della sua esistenza bizzarra: infatti ogni mattino quest'entità si risveglia nel corpo una persona diversa, senza poter mai rimanere ancorato ad una singola vita per più di ventiquattr'ore. La sua risoluzione ad abbracciare questo destino nomade si sbriciola quando si trova a vivere nel corpo del sedicenne Justin, innamorandosi a prima vista della ragazza di lui, Rhiannon. L'idillio tra i due viene però oscurato da Nathan Daldry, una delle persone abitate da A che riesce ad intuire cosa gli sia successo e non intende lasciar correre.
Mi rendo conto che così descritta la trama, per quanto risicata, sembra dieci volte più avvincente ed intrigante di quanto non sia in realtà. Infatti la maggior parte dei capitoli -ossia delle giornate vissute da A- ruota attorno alle vite quotidiane dei suoi ospiti oppure alla sua ossessione (storia d'amore mi pare eccessivo) verso Rhiannon, oggetto del conflitto di fondo. Se vi aspettate che Nathan o Justin diventino vere minacce per il protagonista, oppure che l'intreccio acquisti un briciolo di verosimiglianza, fareste meglio a desistere. Magari avrete più fortuna nei seguiti, che personalmente non intendo infliggermi neppure se venissi posseduta di un'entità mistica!
L'assenza di una trama in senso lato passerebbe anche in secondo piano, non fosse per le altre gravi pecche del libro: personaggi, stile e romance. Ho indicato per primo quello che reputo il difetto peggiore, infatti ho detestato per l'intera lettura l'atteggiamento giudicante del protagonista; la sua controparte femminile sembra cavarsela un pochino meglio, ma pian piano diventa se possibile ancor più fastidiosa nei suoi comportamenti. Eppure la morale di entrambi non viene mai messa in dubbio -loro sono perfetti e predestinati-, a differenza di quanto succede con i caratteri che gli orbitano intorno. Per ovvie ragioni, risulta difficile interessarsi ai tanti coprotagonisti, ma il modo in cui vengono raccontati è imbarazzante: sembrano le figurine di album, collezionati dal protagonista per avere almeno un esempio per ogni tipo di rappresentazione, dalla malattia mentale al lavoro minorile passando per la dipendenza da sostanze. Tanto i personaggi sono caratterizzati in modo superficiale, quanto queste tematiche: non solo manca lo spazio su pagina, ma il protagonista stesso si sofferma il minimo indispensabile come stesse depennando una data voce dalla sua lista.
Come accennato, la scrittura di Levithan non mi ha fatto impazzire, soprattutto per l'eccesso di retorica e la presenza esasperante di frasi perfette per un biglietto dei Baci Perugina (o per una canzone di Tiziano Ferro). Per quanto riguarda invece la relazione tra A e Rhiannon -vero motore del romanzo, seppur resa inconcludente dall'epilogo- si basa su un instalove, che io non approvo per principio, ma ancor più quando viene giustificato da elementi pseudo-spirituali. Per come è raccontato, l'interesse di A per Rhiannon mi è sembrato più una cotta idealizzata che la base per un rapporto genuino.
Vorrei dire che almeno la rappresentazione di una persona non binaria sia ben fatta, ma mentirei. Parte della colpa va alla CE italiana, che non si è presa nemmeno la briga di includere una nota a riguardo nella traduzione, ma in generale la premessa stessa impone ad A di non avere un genere: così la sua identità sembra più un obbligo che una presa di consapevolezza. Ho trovato più convincente il suo orientamento come persona pansessuale, che viene spiegato in modo semplice e spontaneo.
C'è qualcos'altro da salvare in questa lettura? sicuramente la scorrevolezza della prosa -caratterizzata da frasi quasi telegrafiche- e la presenza di alcuni spunti validi sul tema della crescita individuale e delle relazioni interpersonali; messaggi teoricamente positivi che nel mio caso di sono un po' persi in una narrazione troppo artificiosa e priva di un reale crescendo emotivo, nonostante le tantissime scene teoricamente strappalacrime.
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'Addio giovinezza'
"Lily Bart era vittima della società che l'aveva prodotta" . "Era stata allevata per fini ornamentali", "paragonabile a un fiore raro coltivato per un'esposizione".
Apparteneva socialmente alla 'creme de la creme', ma non era ricca. Faceva di tutto per inserirsi adeguatamente; spendeva molto, sicuramente al di sopra delle sue possibilità.
Era considerata bellissima, di inconsueta eleganza e finezza; colta, intelligente e di morigerata amabilità.
A 29 anni un mesto rintocco le faceva intravedere l'orlo del baratro. E lo specchio le rimandava l'immagine del tramonto della sua primavera.
Poi c'era dell'altro ... E ci sono cose che feriscono "profondamente, al di sotto della propria superficie dell'orgoglio".
Libro che raccolse i primi elogi diffusi per un'autrice destinata alla celebrità. C'è critica sociale. un po' di paleo-femminismo ...
Il punto forte è però la scrittura già di una bellezza letteraria assai gradevole.
Il punto debole è invece la struttura del testo che non presenta certo quell'incisività riscontrabile poi in "L'età dell'innocenza" : questo soffermarsi su tanti accadimenti minori non giova affatto alla coesione narrativa col rallentamento dell'auspicato decollo della storia narrata.
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classici
Negato alla Storia e allo Stato
«Serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato»: è questo il manifesto che presenta i luoghi in cui l’io narrante è stato confinato per ragioni politiche (non si parla mai approfonditamente delle cause, vengono invece specificate quelle di altri due confinati: uno è un muratore comunista di Ancona, l’altro uno studente di scienze politiche di Pisa, ex ufficiale di Milizia, anch’egli comunista) in una condizione di «vita sotterranea». È un io narrante che ha studiato medicina ma non pratica la professione da medico ed è molto appassionato di arte, il suo hobby preferito è la pittura. I luoghi di cui si parla sono quelli della Lucania, da «Lucus a non lucendo», letteralmente la terra dei boschi che però si staglia sullo sfondo come «tutta brulla». Il periodo storico in cui si colloca la vicenda è quello della politica imperialistica del Fascismo: siamo negli anni Trenta durante le guerre di espansione in Eritrea e in Etiopia. L’intento di Carlo Levi è riassunto fin dalla premessa del testo: «Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia». I primi che non si sentono cristiani sono i contadini che popolano queste terre. Non si sentono cristiani perché nel loro linguaggio vuol significare essere uomini. Invece, in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale ma è un dolore terrestre, Cristo non è disceso. L’io narrante è stato confinato dapprima a Grassano, poi è stato trasferito a Gagliano e proprio in questa seconda località si svolgono la maggior parte dei fatti.
È un libro ricco di personaggi e ricco di socialità. Proprio questa fitta rete di personaggi permette di addentrarsi nel mondo di Gagliano. Il primo personaggio in cui ci si imbatte è il professor Magalone Luigi, maestro delle scuole elementari ma soprattutto sorvegliante dei confinati del paese. È il podestà di Gagliano, è il principale punto di riferimento fascista della narrazione, è colui che fa da tramite tra i monti sperduti della Lucania e la Prefettura di Matera. Poi, in rapida successione vengono presentati i due “medici” (le virgolette sono obbligatorie considerando le loro competenze scientifiche): il vecchio dottor Milillo e il dottor Gibilisco. Entrambi percepiscono l’arrivo dell’io narrante come una minaccia per il loro monopolio del sapere in ambito medico/scientifico. Interessante la concezione del proprio ruolo da parte del dottor Gibilisco. Per lui l’arte medica non è che un diritto, un diritto feudale di vita e di morte sui cafoni. Non pago ha sistemato le proprie figlie nell’unica farmacia del paese in modo tale da rendere ancor più evidente il monopolio. Ma come rileva l’io narrante «i contadini sono ostinati e diffidenti. Non vanno dal medico, non vanno alla farmacia, non riconoscono il diritto. E la malaria, giustamente, li ammazza». Inoltre, sulla piazza di Gagliano vengono presentati i cosiddetti “signori” del paese, i quali colpiscono l’attenzione per il tono generale di astio, disprezzo e diffidenza reciproca nelle loro conversazioni. La guerra dei “signori” si trova nelle stesse forme in tutti i paesi della Lucania. Tutti i giovani di qualche valore e quelli appena capaci di fare la propria strada lasciano il paese (ciò avviene ancora oggi con la tanto analizzata “fuga dei cervelli”), dove ci restano gli scarti, coloro che non sanno far nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi, i quali vengono resi malvagi dalla noia e dall’avidità. Questa classe degenerata deve per vivere dominare i contadini e assicurarsi i ruoli remunerati del paese, come quelli di maestro, farmacista, maresciallo dei carabinieri, prete. In realtà, il prete di Gagliano è un personaggio del tutto sui generis: si chiama don Giuseppe Trajella, è finito per punizione a reggere questa parrocchia ed è del tutto avverso alla comunità. Vive in uno stato di semiabbandono fisico e cognitivo, sebbene in passato abbia avuto esperienze di studio e di vita importanti. L’io narrante dice che «doveva essere stato un uomo buono, intelligente, pieno di spirito e di risorse. Scriveva vite di santi, dipingeva, scolpiva, si occupava vivacemente delle cose del mondo». A Gagliano è invece diventato un relitto posto su una spiaggia inospitale. In questo universo prettamente maschile spicca una donna sopra tutte le altre: donna Caterina Magalone Cuscianna, sorella del podestà, la vera padrona del paese, molto più acuta intellettivamente del fratello; sapeva di poter fare su di lui qualsiasi cosa pur di lasciargli l’apparenza dell’autorità. Tra l’altro, in quel dato periodo era senza il marito perché era l’unico volontario di Gagliano per la guerra in Africa, perciò donna Caterina era moglie di un eroe. Per donna Caterina l’arrivo dell’io narrante in paese è una benedizione perché attraverso le sue competenze mediche avrebbe potuto finalmente rovinare il dottor Gibilisco e il suo monopolio medico; in effetti, il dottor Gibilisco è una severa minaccia per l’onore della sorella del podestà perché una delle sue figlie farmaciste se la intendeva un po’ troppo con suo marito e la gente mormorava eccessivamente su questo disdicevole fatto.
Nella fitta rete di personaggi un ruolo meno distinto ma non meno importante lo hanno i contadini, coloro che non si possono sentire cristiani per le condizioni nelle quali sono perpetuamente costretti a vivere da secoli. Per loro «c’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire». La massa dei contadini è ricca di persone che hanno provato a coltivare il “sogno americano”, hanno attraversato l’oceano, sono arrivati negli States e lì hanno vissuto come avevano sempre fatto nella loro Lucania, ovvero lavorando la terra quanto più possibile. Poi, sono stati attratti dal ritorno, magari forti del gruzzolo accumulato, dalle condizioni favorevoli decantate in Italia. Tempo un anno e si sono ritrovati nelle medesime condizioni di quando erano fuggiti, riavvolti nella medesima condizione di perdizione, di smarrimento anche di Cristo. Una condizione alla quale sei destinato fin da infante. I bambini che l’io narrante incontra per le vie del paese «avevano qualcosa dell’animale e qualcosa dell’uomo adulto, come se, con la nascita, avessero raccolto già pronto un fardello di pazienza e di oscura consapevolezza del dolore. I loro giochi non erano i soliti dei bambini del popolo delle città. Erano chiusi, sapevano tacere, e, sotto l’ingenuità infantile, c’era l’impermeabilità del contadino, sdegnosa di impossibili conforti, il pudore contadino, che difende almeno l’anima in un mondo desolato». L’unica capacità di espressione utile per i contadini era l’arte, non avevano potuto farlo con il diritto e con la violenza, quindi provavano con l’usanza di recitare una loro commedia improvvisata per esprimere il loro sdegno. In una tragedia senza teatro come la loro vita questi residui di arte antica e popolare erano un loro moto spontaneo di rinascita.
Come si può intuire dalla pratica paramedica proposta dal dottor Milillo e dal dottor Gibilisco, il mondo di Gagliano e più in generale della Lucania è popolato da leggende, miti, riti, false conoscenze. Un mondo selvaggio, quasi primitivo, lontano anni luce dalla civiltà novecentesca. Un mondo stregonesco, tanto che Giulia, domestica che si occuperà della casa dell’io narrante per alcuni mesi del soggiorno, è a tutti gli effetti etichettata come una strega. Rispetto alle credenze diffuse un esempio vale per tutti. L’aria, a detta di chi viveva quelle terre deserte e tra quelle capanne, era piena di spiriti, alcuni maligni e bizzarri come i “monachicchi”. Si narra infatti che al crepuscolo, in ogni casa, scendono dal cielo tre angioli, uno si mette sulla porta, uno viene alla tavola e il terzo a capo del letto. Guardano la casa e la difendono; e così né i lupi né gli spiriti cattivi ci possono entrare per tutta la notte. In questa realtà che si fonda sulla credenza non è un caso che alla metà di settembre nella domenica della Madonna a Gagliano vengano spesi tremila lire, ovvero il risparmio totale di mezza annata, per i fuochi d’artificio. Nessuno rimpiange questa spesa, tanto che per l’occasione si consultano gli artificieri più noti della provincia. I fuochi d’artificio con la loro duplice natura, tra colore e suono, sono emblemi ancestrali, si legano indissolubilmente a dati e a motivi della discendenza o della tradizione sentiti come reconditi o inspiegabili. Fanno uscire dal tempo e dallo spazio, proprio come ha vissuto l’io narrante in una realtà sotterranea durante il suo confino, in una realtà mai toccata nemmeno da Cristo.
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I racconti di un'anima.
Leggendo questi racconti è impossibile anche non leggere la biografia dell'autrice, una vita breve, intensa, che l'aveva portata da Kiev dove era nata nel 1903 in Russia, e poi, in fuga in Finlandia e Svezia fino ad approdare in Francia dove aveva pienamente espresso la sua passione per la scrittura, lasciando ai posteri una lunga sere di capolavori letterari. Immagini ormai svanite nel tempo, come le riprese dei fratelli Lumière relative al Carnevale di Nizza, riprese dall'autrice insieme ad una lunga serie di altri racconti, alcuni giovanili, che fermano nel tempo immagini della prima metà del secolo scorso: situazioni e personaggi descritti minuziosamente, tanto da renderli presenti e vivi nella nostra immaginazione. Non per niente, come si legge dalla critica, il primo editore della Nemirowsky si era addirittura meravigliato come l'autrice fosse riuscita, pur giovanissima. a scavare così profondamente nell'animo umano.
Basta passare in rassegna alcuni dei personaggi che animano i racconti, cominciando dalle quattro scenette che hanno come protagonista una ragazzetta ironica e sfacciata, Nonoche, antesignana delle attuali forse più smaliziate discotecare: Nonoche, da sola o con l'amica del cuore Louloute, visita il Louvre, va al cinema, in villeggiatura, nello studio di una chiaroveggente, comportandosi sempre da svampita credulona ma nascondendo un animo da sognatrice, sempre alla ricerca di un principe azzurro, tra delusioni, situazioni buffe e incomprensioni.
Le avventure dell'impertinente Nonoche sono raccontate come fossero una sceneggiatura teatrale, seguite da altri racconti in cui primeggiano personaggi che lasciano un segno. Come, ad esempio, la borghese Claudine alle prese con un tema drammatico, un aborto, affrontato con piglio moderno, pur in tempi nei quali l'argomento era ancora tabù. E poi ancora la storia della governante Njanja al seguito di una famiglia russa fuggita in Francia a seguito della Rivoluzione: una anziana dolcissima, riservata, incapace di ambientarsi a Parigi, nostalgica della sua terra lontana e della neve...
Una serie di personaggi raccontati quasi con tecnica cinematografica, come se l'autrice fosse dietro ad una macchina da presa: ed ecco Christian Rabinovitch e l'incontro con un enigmatico barbone, Mario alla conquista di Parigi e di un sogno che via via si affievolisce, l'emozionante racconto "Le rive felici", "I giardini di Tauride" , ricco di appunti e riflessioni dell'autrice.
Una serie di racconti narrati con tecniche diverse, ma sempre illuminanti sul desiderio quasi impetuoso dell'autrice di "buttar fuori" d'impeto l'urgenza di comunicare, di esprimersi, di ricordare in tanti modi un passato lontano, rimpianti, nostalgie, illusioni di una giovinezza che fugge via e, forse, il presagio di un avvenire minaccioso.
La Nemirowsky infatti, di origine ebraica, sarà arrestata nel 1942, internata ad Auschwitz dove morirà poco dopo. Stessa sorte toccherà al marito, dopo vani inascoltati tentativi di salvare la moglie. Si spegneva così a soli 39 anni una delle scrittrici più sensibili ed avvincenti del secolo scorso.
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Crescere significa compiere scelte
“Credeva a tutto quello che non si vede. Credeva al destino già scritto, all’anima che vive dopo la morte, al malocchio che colpisce, all’invidia che affama a certi pensieri che spostano gli oggetti, alle voci dei defunti, ai sogni che si avverano, al potere misterioso della luna”.
Con questo incipit Domenico Dara nel suo ultimo romanzo, dopo il grande successo di “Malinverno”, presenta la protagonista del libro, Liberata, una ragazza sognatrice, fragile, spesso con la testa tra i fotoromanzi che divora letteralmente, sperando in una sovrapposizione tra finzione e realtà. Liberata sogna infatti che l’eroe maschile di quelle pagine patinate, il suo beniamino Franco Gasparri, possa materializzarsi realmente trasformando così la sua vita che trascorre senza particolari scossoni nel paese della provincia calabrese in cui vive, circondata dalle poche amicizie che fanno parte del suo cerchio magico. Proprio come accade nelle favole, così come l’autore ha già mostrato nelle pagine di Malinverno, ecco che la vita di Liberata cambia improvvisamente, inaspettatamente, incontrando il presunto amore, bello proprio come Franco Gasparri l’eroe dei fotoromanzi. Come tutti i cambiamenti ed in tutte le storie che alla fine insegnano qualcosa, anche Liberata, eroina di una sorta di romanzo di formazione, dovrà compiere scelte dolorose, capirà che le carezze che ti riserva la vita possono trasformarsi in schiaffi da un momento all’altro.
La narrazione intessuta dall’autore è un continuo crescendo ed elemento che ne costituisce valore aggiunto è il parallelismo con il mondo degli insetti che rappresentano un elemento cardine della storia, perché quel mondo dell’invisibile a cui appartengono cela in realtà preziosi insegnamenti per gli esseri umani. (“Liberata aveva imparato così che l’invisibile non è solo ciò che non esiste, ma anche ciò che si nasconde o non si vede”). L’istinto di sopravvivenza degli insetti, la loro capacità di mutare, di trasformarsi, di abbandonare l’esoscheletro in cui vivono rigenerandosi a nuova vita, costituisce un riferimento anche per Liberata che non è estranea a questo mondo proprio grazie alla passione del padre per l’entomologia. Crescere infatti, evolversi è un percorso paragonabile a quello di insetti che pur di sopravvivere scelgono di perdere parte dei loro arti e, figurativamente parlando, sarà così anche per Liberata.
Liberata non è tuttavia solamente una storia di invenzione con una morale, bensì una favola moderna ambientata nella prima metà degli anni ‘70 in un piccolo paese della provincia calabrese che trova compimento nei fatti di cronaca. Sono gli anni della lotta politica e di protesta, della sinistra comunista in contrapposizione alla violenza fascista calati in una realtà locale fedele alle proprie tradizioni. Il “piccolo mondo” descritto da Dara, quello delle processioni religiose di paese, degli allestimenti in onore del santo patrono, si mescola così alla vicenda di Liberata e dei suoi genitori, di Luvio (il ragazzo di cui è innamorata) e di altri personaggi non affatto secondari.
Un piccolo mondo nel quale i misteri che via via emergono troveranno una progressiva ricostruzione assolutamente credibile ed inaspettata rispetto al tono di partenza, tenendo il lettore incollato alla pagina fino alla fine del romanzo.
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IL PENSIERO E' TUTTO
Questo è un libro scritto al presente. Come a indicare, fin dall'inizio, che il presente è la sola cosa che conta; da esso si dipana il futuro che noi stessi decidiamo, per quanto è nelle nostre possibilità.
Il libro ha uno stile fluidi e incalzante, con tanti dialoghi che ben fanno entrare nella psicologia dei personaggi e nella dinamica della storia. La lettura provoca tantissima emozione. Non avevo mai letto in questo modo di una malattia genetica che arriva a sfigurare una persona e la sua psiche. Ma il bello del libro, il suo "cuore" è che fa capire che quello che vediamo è solo la malattia, ma che, dietro, c'è ancora la persona, per quanto possa sembrare lontana e nascosta. Non esiterei a includere questo libro tra i LIBRI CHE SALVANO. Lettura consigliatissima quindi, per tutti. Alla fine ognuno si sentirà migliore e con un gran senso di gratitudine per la vita e tutto ciò che ci è donato.
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Thriller al gusto incel
Nelle mie ricerche librose mi piace guardare oltre gli onnipresenti autori britannici e statunitensi per esplorare altre nazionalità; non si può dire che i risultati siano sempre incoraggianti, ma con la Danimarca finora avevo avuto decisamente fortuna. Ecco perché mi sono interessata ad "Il successore", attratta senza vergogna dalla bella copertina realizzata per la pubblicazione in Italia. Peccato che i miei elogi non si possano estendere anche alla sinossi scelta dall'editore nostrano, che fornisce informazioni non necessariamente false, ma formulate in modo tale da lasciar intendere dei presupposti narrativi errati. A quanto pare, anche questa volta tocca a me illustrare la trama in modo chiaro!
La narrazione è divisa tra due linee temporali: nel passato vediamo un gruppo di aspiranti scrittori di mystery - l'insicuro Laust Troelsen, lo spigliato Flemming "Flemmingway" Karlsen, il nervoso Poul Hansen ed il metodico Jørgen Brink- incontrarsi ad una masterclass a tema, mentre nel presente seguiamo principalmente Laust, che ha accantonato le sue velleità artistiche per dedicarsi all'insegnamento. Nel frattempo Jørgen, adottato lo pseudonimo di William Falk, è diventato un famoso giallista; proprio il giorno in cui viene pubblicato il suo nuovo romanzo, l'uomo si introduce nell'appartamento di Laust per suicidarsi, ma non prima di averlo inserito nell'elenco dei candidati che ultimeranno il volume conclusivo della sua saga.
Questo passaggio di testimone è sicuramente l'elemento che da subito ha catturato la mia curiosità, e continuo a ritenerlo un valido spunto anche a lettura ultimata. Nonostante la storia di Laust non mi abbia convinto su una quantità di fronti, le idee alla base sono buone ed offrono (almeno sulla carta) degli appigli adatti ad una narrazione ricca di mistero ed azione, nonché accattivante nell'ottica di un lettore appassionato visti i tanti rimandi al mondo dell'editoria. Un altro aspetto che confermo di apprezzare è senza dubbio la cover: a conti fatti è molto generica, ma rimane esteticamente stupenda. E per concludere questa purtroppo breve disamina dei pregi, devo menzionare lo stile di Birkegaard, che non mi ha fatto urlare al miracolo ma si può considerare promosso con un voto ben oltre la sufficienza.
Ho parlato tanto di potenziale perché l'intreccio ottenuto dagli elementi mesi in gioco dal caro Mikkel non rispetta le aspettative create, proponendo una trama farcita di eventi fortuiti e scene inutili, che tra l'altro fatica molto ad acquistare un ritmo accettabile. Una volta scoperte le carte in tavola, interi capitoli sembrano non avere senso, e così personaggi ed ambientazioni: a cosa serve creare tanto mistero attorno alla tenuta di Falk se poi lì non succedere letteralmente nulla di rilevante? quale ruolo svolge il personaggio di Versal nel grande schema della storia, così come nella sua sottotrama personale? In realtà, tutti i personaggi sembrano delle semplici pedine, non perché siano particolarmente stereotipati quanto per la loro mancanza di autonomia. E per assurdo il finale pare confermare l'insensatezza di questi caratteri e della narrazione nella sua totalità, infatti la risoluzione è talmente rapida e semplice che viene da chiedersi perché Falk abbia messo in piedi l'intera baracca.
A peggiorare la situazione contribuiscono gli scontatissimi colpi di scena (vi sfido a non azzeccarli tutti con pagine di anticipo!), l'assenza di tensione per buona parte del romanzo e la descrizione a dir poco ridicola del mondo editoriale: se non sapessi che questo autore ha diversi romanzi all'attivo, penserei che si tratti di un esordiente autopubblicato per come parla idealisticamente di questa realtà. Il mio vero tallone d'Achille è stato però il protagonista, che ho mal sopportato sia a livello caratteriale -per l'atteggiamento lamentoso e la prospettiva sessista- sia a livello narrativo, infatti la sua indolenza è quasi sempre causa della lentezza con cui prosegue la trama. Sarete d'accordo che in un thriller mantenere viva l'attenzione del lettore con una storia adrenalinica è vitale!
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VERITA' E SEGRETI
“Tacere e parlare sono un modo di intervenire sul futuro.”
“Le mie mani sono del tuo stesso colore”, annuncia Lady Macbeth al marito, “ma mi vergogno di avere un cuore così bianco”. Similmente alla più famosa opera successiva, “Domani nella battaglia pensa a me”, anche il titolo di questo romanzo di Marias prende spunto dal verso di una tragedia shakespeariana (là il “Riccardo III”, qui il “Macbeth”). E’ un po’ come se le citazioni di Shakespeare, nel titolo o in esergo, fossero per lo scrittore spagnolo una sorta di puntello, di sostegno atto a supportare, conferendo loro un valore semantico più nobile ed elevato, la struttura di libri che del resto, anche al loro interno, fanno un abbondantissimo uso di citazioni (non solo del Bardo, naturalmente, ma anche di altri autori: si pensi a T.S. Eliot in “Berta Isla”). Per continuare con le analogie con “Domani nella battaglia pensa a me”, va poi sottolineato che anche “Un cuore così bianco” si apre con una morte drammatica, seppur avvenuta diversi decenni prima, ossia il suicidio di una giovane donna appena tornata dal suo viaggio di nozze e di cui all’inizio non si sa ovviamente nulla, e forse per questo viene raccontato in modo quasi asettico e distaccato, con inusuali e sconcertanti notazioni psicologiche (il padre della ragazza che ha ancora un boccone in bocca e quando accorre sul luogo della disgrazia non sa decidersi se masticarlo, inghiottirlo o sputarlo e continua a passarselo da una guancia all’altra, o l’ospite che osserva la raccapricciante scena dalla porta del bagno ma non riesce a esimersi dal controllare il suo riflesso nello specchio macchiato di sangue e ravviarsi i capelli). Questa scena è il cardine intorno a cui ruota l’intero romanzo, il convitato di pietra con cui tutti i personaggi devono, volenti o nolenti, fare i conti, un segreto familiare terribile e vergognoso, tenuto celato per tantissimo tempo e solo alla fine rivelato in una angosciante confessione serale. Il tema di “Un cuore così bianco” è proprio quello del segreto e della sua opportunità, del parlare e del tacere, dell’impossibilità di sapere e dell’altrettanto evidente impossibilità di ignorare. E’, in parole povere, la verità e la possibilità che le parole hanno di rivelarla. Non è un caso che il protagonista faccia di professione l’interprete, il cui compito consiste nell’ascoltare e tradurre in continuazione parole altrui, interpretando, memorizzando e intendendo ogni cosa che gli giunge all’orecchio. Ascoltare per Marias è un’attività molto pericolosa. La Lady Macbeth citata all’inizio non è infatti complice del marito per averlo istigato all’assassinio di Duncan, ma per aver appreso dalle sue labbra che il delitto è stato compiuto. “Le orecchie sono prive di palpebre che possano chiudersi istintivamente di fronte a ciò che viene pronunciato, non si possono proteggere da ciò che si presume stia per essere ascoltato, è sempre troppo tardi”. Sapere, essere informato, essere al corrente cambia tutto, rende responsabili anche degli atti che non si sono commessi. Ogni parola pronunciata, che sia sincera o ingannevole, ha, secondo Marias, ripercussioni inimmaginabili, trasformandosi addirittura in questioni di vita e di morte (come nel caso della seconda moglie di Ranz, suicidatasi - lo si apprende alla fine – per non essere stata in grado di sopportare il peso della confessione del marito, e fors’anche per essersi sentita, come Lady Macbeth, sua inconsapevole complice nel delitto da lui perpetrato). Non è un caso che una conversazione ascoltata casualmente dal protagonista attraverso la sottile parete di una stanza d’albergo inneschi in lui una catena di riflessioni capace di ingenerare nel suo matrimonio dubbi, inquietudini e sospetti. L’atto del raccontare, del confessare, del riportare non conduce peraltro alla verità, in quanto “raccontare i fatti deforma i fatti e li altera e quasi li nega, tutto ciò che si racconta diventa irreale e approssimativo benché veritiero”. La verità dipende più dal fatto che le cose rimangano nascoste e non siano conosciute né raccontate piuttosto che dal fatto che esse siano accadute, in quanto “appena si raccontano o si manifestano o si mostrano […] passano a formare parte dell’analogia e del simbolo, e dunque non sono più fatti, ma si trasformano in riconoscimento”. Raccontare le cose “significa spaventarle e far scappare i fatti”. Le parole pertanto non servono tanto a far conoscere quanto a confondere, a occultare e, in fin dei conti, a discolparsi, a liberarsi dalle proprie responsabilità per trasmetterle a qualcun altro. E’ una posizione estremamente pessimistica e negativa, che verrà in parte superata in “Domani nella battaglia pensa a me”, laddove viene detto che “ciò che non si racconta non esiste”. Qui invece raccontare è una sorta di maledizione (che ricorda l’”haunting” del romanzo successivo), come il morso di un vampiro che trasforma chi la riceve in un essere irrimediabilmente dannato. Se la verità non si può diffondere pena la rovina altrui, se il segreto è alla resa dei conti opportuno e financo necessario, la conseguenza inevitabile è che la verità in pratica cessa di esistere. La posizione nichilista di Marias assomiglia un po’ a quelle di certa filosofia contemporanea che negano, nel loro relativismo, che la ragione umana possa addivenire a una definitiva comprensione della realtà e del mondo. “A volte ho la sensazione – confessa il protagonista – che niente di ciò che succede succeda davvero, poiché niente persiste né persevera né si ricorda in eterno. […] Ciò che avviene è identico a ciò che non avviene. […] Tuttavia passiamo la vita… a tracciare una linea… che faccia della nostra storia una storia unica e da raccontare. […] Per questo siamo pieni di rimpianti e di occasioni perdute, di conferme e riaffermazioni e di occasioni sfruttate, quando l’unica certezza è che nulla si afferma e tutto si perde. O forse non c’è mai stato niente”. Nelle opere di Marias c’è sempre, se si riflette bene, una sorta di rovesciamento in negativo delle tematiche affrontate: se in “Domani nella battaglia pensa a me” il tema della sopravvivenza dell’io si ribalta nel suo contrario, ossia l’impermanenza, se in “Berta Isla” l’identità si trasforma nella spersonalizzazione, nell’impossibilità di conoscere l’altro, in “Un cuore così bianco” è la verità a capovolgersi nel suo inesorabile occultamento, nel segreto da preservare a tutti i costi per salvaguardare le apparenze e garantire una parvenza di innocenza.
Come si è forse già capito, nei romanzi di Marias le idee contano assai più della trama. I pochi spunti narrativi (il dialogo tra Guillermo e Miriam i quali, ignari di essere ascoltati dietro la parete dell’hotel dell’Avana, potrebbero star progettando un omicidio, il pedinamento di Bill da parte del protagonista per le strade di New York) vengono infatti lasciati in sospeso, letteralmente abbandonati in favore di un continuo, infaticabile sillogizzare. Marias si muove su un terreno instabile, scivoloso, in quanto non sorretto da una solida impalcatura diegetica, sembra quasi che non sappia che direzione far prendere al romanzo, se farlo essere un giallo, un romanzo d’amore e di gelosia oppure una storia familiare che attraversa diverse epoche e generazioni. Non è un caso che i suoi periodi siano pieni di avverbi come “forse… forse” (per esprimere tutte le possibili, innumerevoli alternative che ogni fatto, anche il più banale, può nascondere) o “se… se” (per manifestare gli assillanti scrupoli del protagonista, come quando egli prima dà dei soldi a due zingari che si sono posizionati con l’organetto sotto la sua finestra, impedendogli di lavorare, per farli spostare in altro isolato, e poi si preoccupa di avere, con questa transazione monetaria, deciso i loro movimenti e comprato le loro volontà, magari influenzando con questo semplice gesto le loro vite future). In apparenza sembra che ci siano solo, lunghe, interminabili digressioni senza importanza (le descrizioni minuziosissime del lavoro di interprete del narratore o dei loschi traffici del padre, esperto d’arte), che rischiano di mettere a dura prova la pazienza del lettore. Eppure, contro ogni aspettativa, alla fine tutto si incastra alla perfezione come i pezzi di un puzzle ben congegnato, rivelando una architettura narrativa che appare estremamente elaborata e funzionale (sebbene l’autore abbia sostenuto spesso nelle sue interviste di non sapere, quando inizia a scrivere un romanzo, come lo stesso si svilupperà, o quanti saranno i personaggi né come andrà a finire). Lo stesso stratagemma (che è un po’ il marchio di fabbrica di Marias) di ripetere più volte le stesse parole, le stesse frasi nel corso del romanzo non risulta tanto essere una mera ridondanza stilistica, quanto un mezzo ottimale per consentire loro, dopo che tante cose nel corso della storia sono trascorse e si sono evolute e fatte più evidenti, di apparire in una prospettiva migliore, più giusta, quasi che alla fine quelle stesse parole e frasi acquistassero una pregnanza di significato, una simbolica chiarezza, che all’inizio, scritte com’erano quasi distrattamente, con leggerezza, non potevano affatto lasciare immaginare. Perfino il mestiere di interprete del protagonista, come si diceva più sopra, acquista un valore metaforico ben preciso (al modo in cui lo avranno quelli di ghost writer e di spia dei personaggi di “Domani nella battaglia pensa a me” e di “Berta Isla”). Al termine di “Un cuore così bianco” tutto quindi miracolosamente torna, le decine di pagine apparentemente prolisse e inessenziali si rivelano quanto mai necessarie, e il romanzo dimostra di possedere una configurazione estremamente organica e coerente, quasi fosse un trattato filosofico, con in più uno stile elegante, raffinato e mai superfluo che mi ricorda alla lontana un autore come Stefan Zweig, oltre a una capacità sopraffina di descrivere la psicologia umana che ne fa una sorta di McEwan, solo con un enorme talento in più rispetto al celebre scrittore inglese.
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Chi non dorme, si rivede...
«Il giorno in cui il destino ti busserà sulla spalla ti sembrerà uguale a tutti gli altri. Il monito che suo nonno le ripeteva quando era piccola assomigliava tanto a un antico proverbio africano. Forse per questo, da quando era arrivata a Pakali, lei ci pensava ogni mattina. Fin da bambina, Erica De Roti non sopportava l’idea di essere sorpresa dalla sorte o di trovarsi impreparata davanti alle giravolte dell’esistenza. Per cambiare questa sua attitudine aveva deciso di intraprendere un viaggio alla fine del mondo. A trentacinque anni voleva provare a diventare fatalista. Dopo aver trascorso un gelido Natale a Firenze, a gennaio si era improvvisamente ritrovata in un luogo dominato dal calore, una forza invisibile che consumava e prosciugava. Perciò il vero problema non erano i quaranta gradi di temperatura, costanti anche di notte.»
È da questo breve incipit che ha inizio “La casa dei silenzi”, ultima fatica a firma Donato Carrisi e che si dedica nuovamente al protagonista Pietro Gerber portando avanti quella che è la trilogia iniziata con “La casa senza ricordi” e proseguita con “La casa delle luci”.
L’addormentatore di bambini ancora una volta dovrà vedersela con un bambino e i suoi incubi. Le paure di quel bambino lo riporteranno a vivere altrettante paure che oscillano tra mondo dei sogni e realtà. Scopriremo dei tanti meccanismi del sonno, meccanismi che andranno ad avvalorare e arricchire la narrazione e le varie e molteplici dinamiche descritte. Questo favorirà la comprensione degli eventi e permetterà al lettore di entrare sempre più nelle varie vicende e di conoscere di tematiche di grande attualità tra cui l’universo femminile e la cronaca nera.
Matias è sconvolto ogni notte da un sogno ricorrente in cui appare una donna misteriosa. Ma può l’immaginazione prendere il sopravvento su quella che è la percezione dei fatti effettivi?
«Perciò, se ammettiamo che ognuno di noi possa avere una propria percezione delle cose, come possiamo escludere che esistano realtà che alcuni riescono a cogliere e altri invece no?»
Ne “La casa dei silenzi”, l’autore, ci propone una storia fatta di abusi, violenza, ingiustizia e paura. Ci porta anche ad essere scettici e a ricordarci che non tutto è come sembra e che la verità non è necessariamente quella che noi vediamo. Per far ciò gioca anche con l’aspetto della suggestione.
La scrittura è la canonica di Carrisi, il cerchio si apre e richiude in totale e perfetta linearità. Tuttavia, questa serie persiste ad avere qualcosa che convince fino a un certo punto. Trattiene e incuriosisce ma è anche priva di quel mordente che spinge ad andare avanti e a voler scoprire ancora e ancora.
Per quanto sia innegabile il desiderio del narratore di soffermare l’attenzione sulle dinamiche femminili e una lotta interminabile alla libertà, l’impianto narrativo è debole, un po’ scontato e anche ripetitivo. Stessa cosa vale per la forma stilistica che riprende e ricalca le stesse linee dei lavori pregressi. Difetta di originalità.
Buono negli intenti ma non completamente riuscito. Lascia con quel senso di insoddisfazione che porta a chiedersi se sia veramente opportuno proseguire e portare avanti una serie che sin dal principio ha dato molto da pensare.
Tropper meno convincente del solito
Ho letto tutti i romanzi di Tropper e devo dire che questo è per distacco il meno brillante di tutti.
Il tema è sempre vagamente lo stesso : i rapporti familiari , gli uomini incapaci di prendere in mano la propria vita che combinano disastri a ripetizione per la loro condizione di eterni irrisolti.
Drew Silver è un ultraquarantenne divorziato che vive in un Residence per divorziati dove condivide le serate con altri uomini nella sua condizione , alcuni rassegnati ad aver perso definitivamente la compagna e la famiglia e si consumano lentamente tra alcol e solitudine, altri che ancora provano a combattere per riconquistare il loro posto nella vita delle persone che amano. Drew Silver è stato per un breve periodo della sua vita una rockstar sull'onda del succeso di un brano del gruppo in cui cantava , poi il successo è terminato ma lui ha continuato per inerzia a comportarsi in modo sconclusionato e irresponsabile come le peggiori rockstar arrivando a far naufragare il matrimonio. L'unica persona che ancora gli concede la sua fiducia è la figlia Casey che nonostante un rapporto burrascoso si rivolge a lui in un momento di difficoltà. Ma Drew Silver sarà la persona giusta per aiutarla ? In realtà Drew scopre di avere un problema di salute grave che potrebbe costargli la vita ma a salvarlo potrebbe essere proprio il nuovo compagno della ex moglie , in procinto di sposarla, che si offre di effettuare un delicato intervento chirurgico a suo dire un pò rischioso ma risolutivo. Drew rifiuta e nella motivazione della sua risposta c'è tutto il suo mondo a brandelli e la consapevolezza di esserne stato la causa. Il rapporto riallacciato con Caseuy porta Drew ad avere contatti più frequenti con la ex moglie e a combinare ulteriori disastri, ecco in questo ho trovato tutto un pò forzato e davvero poco credibile. Finale aperto in linea con il modo di essere del protagonista.
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Luci e Ombre
Per giudicare l'ultimo libro di Stephen King ho deciso di lasciare trascorrere qualche settimana dopo averlo terminato e cercare nei ricordi le emozioni che hanno suscitato i 12 racconti che compongono la raccolta. Devo dire che alcuni mi sono rimasti impressi lasciandomi anche un certo velo di inquietudine come il King dei bei tempi, altri seppur appaganti al momento sono già scomparsi dalla memoria . Al solito l'orrore di King è nel quotidiano, parte da dentro i personaggi spaziando da giallo a fantastico passando per la fantascienza fino ad arrivare all'horror dove comunque il maestro dimostra ancora di trovarsi a suo agio e sforna uno dei racconti più lunghi e convincenti della raccolta "Serpenti a sonagli" che davvero mette i brividi. I temi trattati vanno dalla difficoltà di accettare le tragedie alla difficoltà delle scelte , molto bello "L'uomo delle risposte", ci sono tanti temi presi dalla quotidianità e una serie di espliciti rimandi ad opere e perfino la presenza di personaggi già incontrati in passato. Paranormale e follia tracciano il solco del quasi disturbante “L’incubo di Danny Coughlin” altro racconto da segnalare. Insomma ce n'è per tutti i gusti non siamo ai livelli eccelsi di "Quattro dopo mezzanotte" o "Stagioni Diverse" ma resta un King molto godibile.
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Le luci e le ombre del tempoe
Dopo una decina di gialli con l'autore televisivo Carlo Monterossi e la sua variopinta compagnia e una quindicina di romanzi, Alessandro Robecchi ci propone questa nuova storia, un incontro tra un passato da dimenticare e un presente che pone non pochi interrogativi. Il protagonista è un anziano regista, Manlio Parrini, ormai settantenne, autore di un film celebratissimo e famoso, premiato più volte, "Le verità spezzate", tanto da garantirgli per anni e anni la fama di "Maestro" del cinema. Ora Parrini vive nella comoda e ben arredata dependance della villa di un vecchio amico, un ricco industriale che, prima di morire, gli aveva ceduto la proprietà dell'abitazione per una cifra esigua. Ha un sogno: tornare dietro la macchina da presa per un altro film, un film speciale su un personaggio degli anni '30, Augusto De Angelis, pioniere del giallo italiano con una serie dedicata al commissario De Vincenzi. De Angelis ha avuto vita difficile, in anni in cui il regime fascista esercitava la censura: meglio non scrivere di ebrei, il dialetto vietato, i suicidi ere meglio interpretarli come morti improvvise, niente americanate ... Ogni scritto era supervisionato, consigli e certi avvertimenti non mancavano, tutto era sotto rigidi controlli : anche la morte in ospedale del povero De Angelis, dopo un pestaggio subito sul lungolago di Bellagio, era un caso mai risolto, archiviato troppo in fretta.
Parrini si mette con rinnovato entusiasmo a preparare il suo nuovo film. Il fascismo è un brutto ricordo del passato, ora le cose sembrano cambiate, certe libertà sembrano ormai assicurate. Ma ecco che un altro giallo viene a irrompere nella sua vita: la vecchia vedova del padrone della villa viene trovata strangolata, evento che muove indagini minuziose e che portano alla luce attività immobiliari truffaldine della vittima, complice il nipote, noto rampollo di un potente politico. Le indagini andranno per le lunghe, altri personaggi sulla scena del delitto andranno di mezzo, la verità dovrà attendere per farsi strada.
Anche il film troverà difficoltà a trovare un produttore italiano serio e capace. Vorranno imporre a Parrini sceneggiature di comodo e attori non adatti al punto tale da costringere il nostro irriducibile regista, ben coadiuvato da una brava amica sceneggiatrice, a cercare aiuto in Francia, dove troverà produttori più capaci e preparati.
Parrini scoprirà anche le vere cause della morte di De Angelis, una vendetta politica, tenuta per anni nascosta. un delitto d'altri tempi, la cui matrice verrà finalmente alla luce nel nuovo film a produzione francese.
Un bel romanzo: Robecchi, come insegna il titolo, ci conferma che non esiste una verità assoluta. "Non è che le verità si spezzano" pensa Manlio Parrini " ma che le verità non ci sono, non esistono, semplicemente ... le verità che conosciamo sono quelle che ammettiamo come tali, che noi decidiamo siano verità". Tutti subiamo condizionamenti, ieri come oggi: li aveva subiti il giallista De Angelis, come continua a subirli oggi il regista Parrini, costretto ad espatriare per produrre il suo nuovo film Perchè, come insegna la Storia, è necessario cambiare tutto perchè tutto resti, più o meno come prima.
Lo stile del narratore è avvolgente, ad ampio respiro: Robecchi ama indugiare sui particolari, sugli stati d'animo, costruendo pagina dopo pagina una storia che ci parla di tempi bui e di rinascita, con luci ed ombre sapientemente dosate, e di un protagonista, il regista Manlio Parrini, che di luci ed ombre se ne intende parecchio, convinto più che mai che la "la verità", come scriveva Franklin D.Roosevelt nel '36. " si scopre solo quando gli uomini sono liberi di cercarla".
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Furio il mostro
“Si dice che molti uomini abbiano una seconda vita.
Io sono uno di loro.
Di sicuro sono pochi gli uomini che possono raccontarla.
Io sono uno di loro.
Il mio nome è Furio Guerri.”
Furio Guerri è un arrampicatore sociale, sa quel che vuole e fa di tutto per averlo, donne, soldi, carriera.
Ha sposato la più bella della classe, Elisa, la donna che tutti gli invidiano.
Lavora come rappresentante per un’azienda tipografica, e con il suo Duetto d’epoca, al quale non rinuncerebbe per niente al mondo, attraversa in lungo e largo tutta la Toscana per arrivare dai suoi clienti e raggiungere gli obiettivi che la sua azienda gli impone.
E’ il padre amorevole di Caterina, per la quale è sempre presente e disponibile.
Ma Furio Guerri è un mostro, due volte a settimana è seduto su una panchina a spiare le ragazzine adolescenti di una scuola superiore e tra tante si concentra su una in particolare. Per arrivare fino a lei seduce prima la sua insegnante di sostegno, e poi si iscrive a un sito porno, dove le ragazzine vendono foto del proprio corpo nudo per pochi euro o una ricarica al cellulare.
Per tutta la prima parte del libro il lettore si domanda se Furio Guerri sia uno stupratore o un serial killer, fino a quando , a un determinato punto del romanzo, passato e presente s’intrecciano e la storia si svela, con un climax che lascia senza respiro.
Il romanzo è narrato in prima persona dal protagonista, ed è il punto di vista tutto maschile di un femminicidio: i pensieri di un uomo, malato, ovviamente, che non potrebbe essere altrimenti, che crede che la donna sia un suo possesso e che compie azioni violente crudeli e indicibili contro di lei, delle quali sembra non rendersi conto, questa almeno è l’interpretazione di Simi.
Un romanzo a tinte gialle intenso e avvincente sia per il contenuto, quanto mai attuale, una delle innumerevoli tragedie familiari, sia per lo stile che ti cattura e non ti lascia più, fino all’ultima pagina, dove tutto torna alla perfezione, nonostante il voluto disorientamento iniziale, quando ancora il lettore non distingue la storia passata da quella presente e il nodo che le lega.
Anche questa storia conferma la bella e coinvolgente scrittura di Giampaolo Simi, sceneggiatore e soggettista toscano, che sapientemente rapisce il lettore e lo conduce esattamente dove vuole.
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LO SDEGNO, L'ORRORE, LE LACRIME
Premetto che ho letto il libro prima che uscisse il film, e non ne avevo mai sentito parlare. Ma ho visto questo librino sullo scaffale della libreria, con una bellissima copertina raffigurante un paesaggio innevato e con questa scritta sul retro: "sublime, un romanzo che ricorda Cechov"". Visto e preso! Ma mai avrei pensato di trovarmi catapultata nello scandalo delle Magdalene Laundies in Irlanda, le cosiddette "lavanderie" in cui venivano rinchiuse giovani orfane o figlie di ragazze madri ritenute "immorali", da cui sono passate circa 30.000 donne! Il libro è molto toccante e coinvolgente, facendoci vivere, attraverso gli occhi del carbonaio Bill Furlong, la scoperta e la reazione (sua personale, ma destinata a diventare anche quella del lettore) a tale inaspettato scempio. Il primo pensiero è lo sdegno, poi l'orrore e, infine, le lacrime. E il sentimento di angoscia vedendo come, in fondo, la società immaginasse qualcosa di brutto e crudele, ma lo accettasse per quieto vivere e perchè la mentalità retrograda del tempo in fondo pareva trovare qualche giustificazione. Quando la moglie dice a Bill che, in fin dei conti, quelle ragazze se l'erano cercata (dimenticando che anche Bill era figlio di una ragazza madre, solo più fortunata di loro perchè aiutata dalla sua datrice di lavoro) vien davvero da stringere i pugni dalla rabbia. Bravissima la scrittrice ad aver fatto un libro su questo argomento, la cui lettura risulta struggente ma delicata al tempo stesso. Scorrendo le pagine, quasi senza accorgersene, si notano i momenti salienti della vita di Bill, le "piccole cose da nulla" che sono rimaste impresse nel cuore del protagonista e che lo porteranno poi alla sua decisione, contro tutto e contro tutti.
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NON E' MAI TROPPO TARDI...
Bellissimo romanzo sulla fine e il nuovo inizio di un'esistenza, lasciando la giusta leggerezza a una vicenda che altrimenti sarebbe solo tragica e funesta. Ma la vita ha sempre delle sorprese, e l'autrice ce lo ricorda bene in questo libro scritto amabilmente e con maestria. E non serve neanche tanto per ricominciare a "sentirsi": basta il profumo dell'erica e un gatto che fa le fusa proprio a noi...Marianne, la protagonista, arriverà a conoscersi e a capire ciò che vuole.... ma quanta fatica però! Quanti dubbi, sensi di colpa, paure... e il fatto di non essere più giovanissima da un lato aggrava la sua condizione dall'altro la sprona a decidere, finalmente! O adesso o mai più. Leggere questo libro mi ha fatto provare una tenerezza infinita, quasi un applauso nel finale...per Marianne, ovviamente, ma anche per gli altri personaggi che contornano la storia, prima fra tutti la "strega del bosco", accudita, coccolata e amata dal marito anche se ammalata di alzheimer. E quando lei ringrazia Marianne per averla accettata mentre tanti la schivano mi sono commossa alle lacrime.... Il libro nel complesso è godibilissimo, la lettura non stanca mai e sono stata felice di essere in compagnia di Marianne. Tra un po' tornerò a leggerlo...
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Quella croce che fa ancora discutere
Ho appena terminato la lettura e scrivo queste note un po' di getto.
Di solito, finito un libro, mi prendo alcuni giorni di riflessione per metabolizzare le impressioni, rielaborarle, raccogliere i pensieri. In questo caso però avverto l'urgenza di fissare alcuni concetti il prima possibile, forse per esorcizzare angosce, possibilmente per rinsaldare la fiducia in un benevolo progetto divino o forse più semplicemente, per lasciarmi guidare dall'emotività del momento.
Inutile rammentare quanto scriva bene Saramago; la sua prosa avvolgente e mai banale è un flusso incessante di emozioni. Valga per tutti il bellissimo episodio della morte di Lazzaro in cui pathos e lirismo sostanziano una prosa raffinatissima.
Ciò che mi preme invece fissare su carta è la profonda, disturbante, sconcertante impressione del messaggio che questo scrittore convintamente ateo ha voluto lanciare ai suoi lettori con gesto forse un po' disperato.
Chi è dunque il Dio cristiano per Saramago? Un essere supremo e onnipotente che con cinismo e crudeltà opera unicamente per soddisfare ambizioni malsane, incurante del dolore e della devastazione che le sue azioni produrranno nei secoli. Un dio malvagio che simbolicamente siede sulla stessa barca del diavolo, suo alter ego, in uno degli episodi più sconvolgenti di questo Vangelo. Un Dio che, per pura brama di potere, sacrifica un figlio e con lui generazioni di perseguitati e martiri morti nell'illusoria speranza di salvezza eterna. Gli dei greci antropomorfi, coi loro patetici difetti umani, appaiono minuscoli rispetto a questo titanico ed onnipotente despota. Immagine grottescamente negativa cui dunque va la condanna assoluta dell'ateo scrittore portoghese, da intendersi diretta alla religione in quanto tale, piuttosto che a un Dio in cui ovviamente non crede.
Forse però c'è qualcosa di più. Qualcosa da ricercarsi nella figura di Gesù.
Chi è dunque Cristo per Saramago? Cristo è, suo malgrado, l'Eletto del Signore, inconsapevole strumento di una volontà malvagia, portatore della croce fin dai primissimi vagiti nella culla di Betlemme. Una perenne condizione di turbamento e travaglio lo tormenta nel scoprire su se stesso quei segni di divinità che non è in grado di interpretare. Opera miracoli meccanicamente, come un automa, un burattino senza fili.
Quel disegno che per lui Dio ha concepito si svelerà soltanto con l'apparizione sul lago di Tiberiade. Il figlio di Dio dovrà morire in croce e da quella croce, da quel sacrificio, nascerà una religione nuova a gloria di Dio e soddisfazione della sua vanità. Chi non proverà empatia per il Figlio di Dio che si offre in sacrificio ad espiazione dei nostri peccati? Chi potrà resistere all'illusorio messaggio di amore e salvezza che si offre al popolo tutto, agli umili, ai poveri, agli emarginati? Gesù sa che quel messaggio di cui lui stesso, con parabole e allegorie, sarà portatore, non è il frutto dell'amore divino come la religione professerà nei secoli a venire, quanto piuttosto squallido espediente di un Dio bramante gloria in cerca di nuovi osannanti credenti. A questo disegno Gesù tenterà di opporre una estrema ribellione rifiutando la sua natura divina, ma come per tutte le più nobili ribellioni, anche la sua risulterà vana.
Quod scripsi scripsi. Il destino che Dio ha previsto per Gesù non si può cambiare così come ineluttabile appare il carico di sciagure che si riverseranno sull'umanità intera. Per tutti sulla croce morirà il figlio di Dio e non quello di un modesto falegname di Nazareth. La nuova religione si aggiungerà alle altre, non meno intolleranti e malefiche. Martirii, violenze, stragi e guerre di religione si susseguiranno e la Storia continuerà a registrarle senza che peraltro l'umanità impari mai la lezione.
Ecco, io credo che in qualche modo in quel Gesù umanissimo e ribelle, Saramago forse si riconosca. Il suo acceso ateismo, l'avversione al Credo di qualsiasi natura, è la molla che lo spinge a scrivere questo libro provocatorio. In nome di questo ateismo, Saramago conduce, come il Gesù del suo Vangelo, una battaglia vana, persa in partenza, ma non per questo indegna di essere vissuta.
Ovviamente, c'è tanta amarezza. Meglio sarebbe invece abbandonarsi all'amore della Maddalena per quel suo Gesù così sofferente. In lei e nel suo amore gratuito e incondizionato sopravvive una speranza per l'umanità.
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Stupore e tremori: sono i miei che leggo
La sinossi racconta praticamente tutto. Ma leggere gli accadimenti è tutt’altra cosa.
Amélie ha ventidue anni quando, grazie alla sua conoscenza del giapponese e del francese, riesce a trovare impiego, come traduttrice, con contratto di un anno, presso la Yumimoto, un'importantissima multinazionale giapponese.
Torna finalmente a vivere in Giappone, suo paese d’origine.
Il racconto, autobiografico, narra la sua esperienza lavorativa in un crescendo di situazioni che giudicherei inverosimili se non sapessi che nulla è inventato.
Gli accadimenti sono così surreali che penso, più volte, fino alla fine, siano frutto di immaginazione.
Mi sorprendo a chiedermi come faccia a prendere gli incarichi che le vengono via via affidati sul serio, come faccia a non abbattersi, ribellarsi, urlare, denunciare, fuggire, restare allibita, ridere per non piangere.
E’ una narrazione che offende e sconvolge, tutto mi appare comico, un umorismo senza intenzione, tale lo percepisco io.
Cosa la motiva? Competizione? Volercela fare a tutti i costi? Credere che gli incarichi che le vengono assegnati abbiano un fondo di utilità o logica?
Ogni incarico è per lei una sfida. Il modo in cui l’affronta mi crea stupore.
“Il signor Saito lesse il mio lavoro, lanciò un gridolino sprezzante e lo strappò: Ricominci.
Mi venne voglia di chiedergli dove sbagliavo, ma era chiaro che il mio capo non tollerava le domande.”
Mi domando il perché dell’assunzione. Perché ignorino, anzi ritengano offensive le sue competenze. Il suo saper correttamente svolgere l’incarico che le viene affidato è quanto di più odioso, intollerabile, ingiustificabile, inammissibile, inconcepibile possa accadere agli occhi dei suoi piramidali superiori.
“I giorni trascorrevano e io continuavo a non servire a niente.”
Ochakumi: “l’onorevole cerimonia del tè.”
“Lei ha profondamente turbato la delegazione dell’azienda amica! Ha servito il caffè con formule di cortesia che lasciavano intuire la sua perfetta conoscenza del giapponese!”
Una bianca, un cervello occidentale capisce perfettamente la loro lingua! Non è dunque anche questo il motivo dell’assunzione? No, è uno scandalo.
“Avevo l’impressione di essere stata dimenticata.”
Di sua iniziativa inizia a distribuire posta: un’iniziativa personale, senza permesso!
“Posso aggiornare i calendari?” Strappare la pagina da febbraio a marzo, è ben di più che spostare il quadratino sul singolo giorno!
“Mi fotocopi questo” diventa un compito impossibile da espletare. Il vassoio di alimentazione automatica della fotocopiatrice è estremamente impreciso, i migliaia di fogli vanno fotocopiati uno per uno affinché siano perfettamente centrati e tutti uguali. E’ ovvio che sia per lei un compito impossibile da svolgere.
E del rapporto sul nuovo burro light vogliamo parlarne? Il signor Tenshi le lascia carta bianca, la mia mente pensa all’istante: attenta! Lei che studia, indaga, guarda le statistiche, contatta la cooperativa belga per un confronto, insomma ne viene fuori un rapporto eccezionale. Il signor Tenshi non aveva dubbi.
La catastrofe al arriva al galoppo, per entrambi. La competenza viene travisata come comportamento da traditori e individualisti, serpenti sono. Osare una difesa è impensabile, significherebbe mettere in dubbio ciò che il superiore le contesta. “Un simile pragmatismo odioso è degno di un occidentale”
D’accordo è un racconto comico, sto’ per scoprirlo mi dico…
E la sua diretta responsabile, la stupenda, incantevole Fabuki Mori? Che Amélie osserva incantata? Fabuki pensa di lei che sia scema, minorata mentale, ultima delle imbecilli, vigliacca…
La faccenda della contabilità, che si riduceva a copiare elenchi ha dell’incredibile.
L’incarico del calcolo per il rimborso delle spese di viaggio e la decisione di passare i giorni e le notti in azienda, per cercare di portare a temine l’incarico. Inutilmente.
E siamo alla destinazione finale, qui non può sbagliare…forse!
I bagni il suo nuovo regno, la carta igienica il suo nuovo alleato, il water pulito il suo nuovo obiettivo: guardiana dei cessi. Finalmente è atterrata sul gradino più basso. Ma anche questo incarico si rileva troppo complesso per la nostra Amélie.
“La mia memoria cominciava a funzionare come uno sciacquone. Lo tiravo la sera. Uno scopino mentale eliminava le ultime tracce di lordura.”
La mentalità nipponica non contempla le dimissioni, sarebbe offensivo nei confronti di sé stessi, significherebbe perdere la faccia.
E’ il primo romanzo che leggo di questa scrittrice, apprezzo la prosa schietta e veloce. Il racconto è breve ma zeppo di significato, apprendo una realtà che ignoravo, la considerazione che hanno del lavoro altrui, le rigidissime regole, i cerimoniali che vanno rispettati, le trappole poste sul cammino di una collega che potrebbe farsi strada in tempi più brevi rispetto ad altri colleghi, dover ascoltare rimproveri urlati a voce altissima senza poter giustificarsi perché sarebbe irrispettoso, far finta che tutto sia normale e che vada tutto bene. Ammettere colpe inesistenti per soddisfare pretese assurde altrui.
La nostra Amélie è la mia vincitrice assoluta.
E’ il 7 gennaio 1991. Il contratto scade a giugno. Arriva giugno.
Ormai è chiaro, nessun compito può vederla all’altezza della situazione, non resta altro che ringraziare, essersi resa conto dei propri limiti le sarà utilissimo in futuro. Un cervello limitato. Basta saperlo.
“Nel antico protocollo imperiale nipponico, si afferma che ci si rivolgerà all’Imperatore con ”stupore e tremore. Assunsi dunque la maschera dello stupore e cominciai a tremare.”
Torna in Europa e nel 1992 viene pubblicato il suo primo romanzo.
Nel 1993 riceve le congratulazioni di Mori Fabuki, in giapponese.
“Finché esisteranno finestre, l’essere umano più umile della terra avrà la sua parte di libertà.”
Buone prossime letture.
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Mattia
«Non ti interessa di procurarmi guai” gli ho chiesto con un filo di voce.
“A te interessa di procurarmene da quando sei nato?”»
Torna in libreria Marco Balzano con un nuovo titolo, con un nuovo romanzo dalle tinte storiche. Le opere dell’autore non sono mai scontate e sorprendono sempre e immancabilmente per la prospettiva con la quale si rivolgono al lettore. Nulla è cioè lasciato al caso o al dubbio.
Siamo a Triste, la città italiana che per definizione rappresenta il confine con il resto d’Europa, siamo negli anni del fascismo e della guerra. Rappresenta, ancora, un confine che è una distanza anche quando distanza non è (o non sarebbe).
Mattia Gregori nasce nel 1900 ed appare sin da subito ai lettori come un protagonista estremamente complesso. Diventa ben presto una camicia nera ma non tanto per spirito di aggregazione quanto per conferma della sua problematicità. È un giovane uomo irrisolto che desidera conoscere la verità, soprattutto su sua madre. In punto di morte la donna che lo ha cresciuto gli ha rivelato di non essere la madre naturale. Diventando fascista egli crede di poter intessere una rete che lo porti a scoprire del vero nome della donna, nome che il padre ostinatamente gli cela. Mattia cova tanta, tanta rabbia. Una rabbia sorda, che pulsa, che chiede di uscire. L’identità della madre è un chiodo fisso ma anche una questione ossessiva di cui deve venire a conoscenza. Ogni volta che pensa di averla trovata, la delusione è cocente perché poco dopo realizza di aver nuovamente fallito nella ricerca. Ed ecco ancora che torna la rabbia, una rabbia che per uscire si sfoga su chiunque gli è a tiro.
Se da un lato si lascia alla rabbia per scoprire della madre, dall’altro, vuole essere temuto. Quelle guance da “bambino” troppo a lungo lo hanno penalizzato. Adesso vuole rispetto come capomanipolo. Controverso anche il rapporto con il padre Nanni, orologiaio nonché uomo paziente e preciso. Dal suo canto, Nanni, è preoccupato per questo figlio che non ha freni e ancor meno controllo. Non si lascia intimidire dal ruolo di Mattia e ancor meno dal suo atteggiamento, lo conosce, conosce il figlio; eppure ne è al tempo stesso rammaricato.
«Negavo ogni cosa, eppure quando ero da solo nella penombra della camera m'impensierivo. Forse aveva ragione. Me lo leggeva in faccia che recitavo la parte del fascista convinto anche se convinto non lo ero affatto.»
Gli anni scorrono, il tempo passa. Se Nanni diventa preda di quegli squadristi che lo condannano e vessano per non aver fatto la tessera, Mattia persiste a non avere direzione e finirà con lo scegliere l’individualismo e, se innanzi a una scelta, la strada più conveniente. Deve sopravvivere a qualunque costo, senza possibilità di fallimento. Si auto-illude anche di poter provare amore, distorce se necessario la realtà con fantasie necessarie al sopravvivere.
Mattia è un personaggio che cela tante fragilità e paure ma che indossa perennemente una maschera (o più di una all’occorrenza). Il suo evolvere si ha poco alla volta, piano piano. Balzano arricchisce il personaggio con brevi frammenti in corsivo che interrompono la narrazione cronologica e che inducono a far pensare a una ipotetica sua situazione di pericolo che consente di mantenere vivo l’interesse. È un protagonista ben lontano dagli stereotipi e stratificato. Non è semplice da gestire e da delineare, ancor meno è semplice e facile farlo amare al conoscitore perché non suscita l’empatia spesso cercata nei personaggi principali.
In “Bambino” ritroviamo tutta la maestria di Marco Balzano. Non è un romanzo semplice, non è un romanzo immediato, non è un romanzo dove si può dare qualcosa per scontato, eppure è anche un romanzo che sa farsi amare e che conquista per il grande equilibrio che sa dimostrare. Ogni parola, frase, pensiero, riflessione è ben ponderata ed articolata. Niente è fuori posto.
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Ma che tenerezza la coppia razzista e grassofoba!
Nel 2024 non sono stata particolarmente produttiva su diversi fronti letterari: ho cominciato pochissime serie, ho scovato più delusioni che capolavori ed ho a malapena raggiunto l'obiettivo della Reading Challenge su Goodreads. Su un proposito però mi posso dire soddisfatta, perché ho continuato con profitto il recupero delle opere della cara Agatha; sono arrivata quasi alla fine con le indagini di Miss Marple, mentre per quanto riguarda le avventure di Poirot sono ancora in alto mare (ci credo, con più di trenta romanzi ed una quantità di racconti!) ma nondimeno andiamo avanti, in questo caso con "Delitto in cielo".
Dopo aver rischiato la vita in "Tragedia in tre atti", il buon Hercule qui mette a repentaglio addirittura la sua fama! L'investigatore si trova infatti a bordo dell'aereo Prometheus sulla tratta Parigi-Londra, quando l'anziana usuraia francese nota con il nome di Madame Giselle viene assassinata e -per una serie di coincidenze ed indizi fuorvianti- i sospetti ricadono su di lui. Toltosi senza sforzo dall'elenco degli indiziati, Poirot è determinato a capire chi abbia cercato di incastralo; il suo non è però l'unico POV del romanzo, dove troviamo anche le prospettive degli altri passeggeri, con tanto di intrighi sentimentali da telenovela.
E già qui posso togliermi un sassolino dalla scarpa, perché non ho mai fatto mistero del mio scarso apprezzamento delle romance imbastite da Christie. Qui sono presenti ben due triangoli, soltanto in minima parte collegati alla trama mystery, nonché del tutto privi di appeal dal momento che l'approfondimento psicologico e relazionale di questi individui è rasente lo zero. In generale, la caratterizzazione non spicca come punto di forza in questa narrazione: dopo una decina di avventure, la personalità di Poirot è ormai consolidata, ma i suoi comprimari fanno parecchia fatica da accattivarsi il lettore.
Come i personaggi, anche le ambientazioni peccano della cura necessaria per renderle più che fondali insignificanti. Pur scegliendo location molto diverse tra loro -dalla cabina di un aereo all'aula di un tribunale inglese, fino alla hall di un hotel parigino- la cara Agatha non si impegna granché nel distinguere l'una dalle altre, e questo toglie parecchia potenza all'elemento atmosferico, che in altri suoi lavori era centrale ed affascinante. Mi sento di includere tra i difetti anche la presenza di alcuni commenti decisamente infelici (senza dubbio figli dell'epoca storica in cui il romanzo è stato scritto) e la poca cura dell'edizione; questo potrebbe non significare nulla se avete una copia diversa, però io ho trovato molto spiacevoli l'assenza dei titoli nei capitoli e della piantina dell'aereo, oltre alla scarsa attenzione complessiva della traduzione.
Ma bando alle delusioni e parliamo degli elementi che funzionano meglio. Come sempre, la personalità di Poirot ha saputo conquistarmi, tanto con le sue bizzarre abitudini quanto con il suo piglio risoluto ed appassionato, verso il giallo da risolvere ma non solo. È stato indubbiamente piacevole ritrovare al suo fianco l'ispettore Japp, una spalla meno ottusa del capitano Hastings e perfino più spiritosa; più in generale, il testo presenta diversi momenti genuinamente divertenti, oltre ad un paio di guizzi stilistici niente male nella prima parte. La presenza dell'uomo di legge inglese non è poi l'unico riferimento agli altri capitoli della serie poirotiana, tutti molto apprezzati dalla sottoscritta.
Come capita quasi sempre nelle opere christieane però, il pregio maggiore del volume è rappresentato dall'intreccio. L'autrice si è dimostrata particolarmente abile, sia nell'assegnare qualche dettaglio sospetto ad ognuno dei passeggeri che nel palesare le sue stesse false piste al momento migliore per stupire il lettore. Lettore che avrebbe comunque tutti gli indizi necessari per seguire l'indagine, ma non può neppure tentare di indovinare l'identità del colpevole perché è del tutto avvinto dal ritmo incalzante della narrazione: le scene si susseguono senza nessun momento morto, fino alla brillante risoluzione finale. Rimane solo da capire perché durante le filippiche di Poirot gli assassini non provino mai a scappare, ma aspettino buoni e tranquilli di essere smascherati.
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Un Cigno che farà molta strada.
Luca Mercadante, scrittore affascinato dal teatro, è alla sua prima esperienza, se non erro, come autore di gialli e l'inizio è come si suol dire con il botto: "La fame del Cigno" è a suo modo un romanzo sorprendente, soprattutto per la presenza di un protagonista, Domenico Cigno, eccentrico e del tutto nuovo nella veste di giornalista con il pallino dell'investigatore.
Siamo a Napoli e dintorni, Cigno è un cinquantenne che lavora nella redazione sportiva di un importante quotidiano: ex pugile, supera abbondantemente i cento chili, è bulimico, si muove con difficoltà, ha problemi digestivi, non suscita grandi simpatie ma ha un carattere cocciuto, crede nelle sue convinzioni e non si lascia facilmente intimidire. La storia comincia quando, per primo, casualmente, scopre in un canale in riva al mare, nei pressi di discariche abusive, il cadavere di una ragazza nera, con la pelle in parte sbiancata e con una felpa rossa. Contemporaneamente è segnalata la scomparsa di un'altra ragazza, Viola De Santis, figlia adottiva di un'integerrima famiglia torinese, universitaria ribelle, femminista, influencer molto seguita, arrivata in Campania per indagare sulla sorte e sulle condizioni delle donne nigeriane sfruttate e costrette alla prostituzione, e, forse, anche in cerca della madre naturale. Cigno è convinto che possa esistere un nesso tra la morta in mare e Viola ed inizia ad indagare, con la certezza, ormai abbandonata da tutti polizia compresa, che Viola sia ancora viva e possa essere ancora ritrovata. Anche le indagini ufficiali proseguono battendo altre piste, individuando in un ragazzo nero, Bob, musicista, spacciatore ed amico di Viola, il probanile assassino. Gli ambienti in cui Cigno si muove sono oscuri e pericolosi. L'autore fa emergere tutto un mondo che gravita sulla costa campana da Napoli fino al confine con il Lazio, con epicentro a Castel Volturno: accanto ad hotel lussuosi e centri sportivi, prosperano zone di prostituzione, case famiglia rette da personaggi ambigui, e ancora le cosiddette connection-house, abitazioni dove si psostituiscono per quattro soldi nigeriane ormai anziane, con difetti fisici o ai limiti della sopravvivenza. Su tutto vigila e comanda un boss temutissimo, all'ultimo piano di un edificio fatiscente, protetto da mastini che, si sussurra, si cibano di carne umana, rivali eliminati per vendette o regolamento di conti. Nella zona si smercia di tutto, anche la cosiddetta droga dello stupro che inibisce la volontà con effetti sedativi. Viola forse aveva scoperto troppo? Era stata quindi eliminata o era ancora vittima di violenze e obbligata a prostituirsiI? Cigno non si dà per vinto, neppure dopo acer corso rischi e subito minacce di ogni genere: inseguito da mastini, pestato a sangue da quattro individui mascherati, gettato in mare a rischio d'annegamento, drogato contro la sua volontà, riuscirà alla fine a prendersi la sua rivincita riconquistando prestigio e stima da parte di amici e colleghi.
Il giallo termina con una serie di eventi inaspettati che porranno fine a tutta la vicenda e chiariranno anche che fine avrà fatto la povera Viola De Santis: tutto il marcio viene a galla, a rivelare la desolazione di un territorio insidioso dove la difesa dei più deboli diventa giustificazione di ogni violenza. Tutto il racconto ruota comunque attorno alla figura di questo nuovo personaggio, creato dalla penna di Mercadante: un giornalista sportivo atipico che, oltre a seguire nel poco tempo in cui non è altrimenti impegnato le vicende sportive di un giocatore del Napoli, si dedica alla sua attività preferita, quella di indagare per curiosità e per istinto, un istinto che lo porta ad opporsi ad un vecchio modo di fare giornalismo, cercando invece di percorrere una propria strada, senza condizionamenti e preconcetti. Cigno è intelligente, motivato, astuto, non cede alle limitazioni imposte dall'obesità, dalla fatica, dalla goffaggine, sopravvivendo anche grazie ad una catena di solidarietà umana che pur emerge a tratti nell'oscurità di ambienti misteriosi e grotteschi.
Lo stile, paragonandolo ad un corso d'acqua, è un torrente impetuoso, spumeggiante: la narrazione non ha momenti di tregua, procede incalzante, con frasi incisive, brevi, dando spazio solo ai fatti nudi e crudi. E' un giallo istintivo ed emozionante che, oltre a svelare con crudo realismo l'aspetto di un territorio degradato, controllato da bande camorristiche che si impongono sfruttando con violenza e ricatti l'immigrazione clandestina, ci presenta un nuovo personaggio nell'editoria moderna, dolente ed impacciato ma intelligente e dal formidabile intuito, un personaggio che entrerà sicuramente nel cuore degli appassionati del genere.
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Trudy e Bruno
«Mio figlio Oscar, otto anni, che fa le elementari e studia le stagioni, mi tempesta di domande.
«Papà, qui dice che ci sono le stagioni, e che d’estate fa caldo e d’inverno fa freddo. Perché da noi non ci sono le stagioni? Non piove mai, neanche in autunno, quando il libro dice che dovrebbe».
«È perché siamo a Billenshaft, è un posto speciale. Dopo quello che è successo. Prima c’era la guerra, eravamo nell’esercito, a combattere, tutti i giorni. Rischiavamo la vita ad ogni istante, sai quanti ne ho visti morire? E la guerra non finiva mai, non sapevamo neanche dove ci trovavamo. Ci buttavano in campo e l’unico nostro scopo era sopravvivere, in mezzo al fango. Molti cadevano. Quando non combattevamo era quasi peggio: ci tenevano dentro dei contenitori di ferro, niente da bere e da mangiare, vivevamo in mezzo agli escrementi».
«Caro, non lo terrorizzare!», disse mia moglie.
«Eh, è bene che sappia. Fatto sta che un bel giorno, ci hanno portati via, ci hanno tolto l’uniforme, ci hanno rivestiti, e ci hanno messi in questo mondo, che a me è parso fin da subito una meraviglia. Qui hanno ricostruito tutto, in modo che fosse più semplice vivere. Ti piacerebbe morire di caldo? O di freddo?».
«No, papà. Ma perché non ci sono gli uccellini? E nemmeno gli insetti. Io non ho mai visto neanche una mosca, o un ragno».
Ha inizio da questo breve incipit “Wunderland”, opera ultima di Francesco Recami, edita per Sellerio, che ci porta a conoscere un mondo fatto di distopia. Bruno Stock ha una moglie e un figlio di otto anni di nome Oscar. È un rappresentante specializzato in articoli di cancelleria e vive in una località ove tutto funzione e ove tutto ruota attorno alla ferrovia. Tutti sognano di entrare a farne parte, tutti desiderano lavorarvi.
Il luogo ha però anche regole ferree tra cui un coprifuoco specifico, la corrente elettrica che viene meno dalle 9 di sera alle 8 di mattina ed ancora, non piove mai. In questo posto, inoltre, le barriere sembrano essere invalicabili tanto da delinearne un confine serrato. La sua esistenza scorre tranquillo fino a quando, una sera come tante, non conosce Trudy. Ella offre il suo corpo in cambio di denaro e per una questione di attrazione fa innamorare Bruno. È un amore senza confini che da puro desiderio per l’uomo e lavoro per la donna, diventa vero e proprio sentimento. È un sentimento non ben visto però. La moglie di Bruno non vuol essere lo zimbello del paese e mira a intascare l’assicurazione che è determinata dalla morte del coniuge, al contempo Bruno vuole salvare Trudy ma non ha il denaro sufficiente che viene richiesto dai suoi magnaccia. Succederà che i due coniugi cercheranno una soluzione che porterà alle conseguenze più nefaste e obbligherà Bruno e Trudy a fuggire verso Wunderland, la città dove è possibile ricominciare e avere una seconda occasione. Ma sarà davvero così? Per Trudy e Bruno sarà possibile crearsi una nuova vita? O questo desiderio è un miraggio come lo è Wunderland stessa?
Francesco Recami, con questo suo ultimo scritto, ci propone un romanzo lineare e circolare ove tutto ha inizio e si sviluppa in perfetta sincronicità ma senza nulla lasciare o risparmiare al lettore. È un romanzo onirico ma al tempo stesso intriso di tinte distopiche che rimandano a grandi classici come “1984” di Orwell. Di fatto Recami parte da un modellino ferroviario, un vagone militare tedesco che risale agli anni Trenta e che riproduce un vagone dell’esercito germanico usato al tempo dai gerarchi nazisti.
All’interno questo contiene salottini arredati lussuosamente, camere da letto, bagni, vasche e chi più ne ha più ne metta. È un vagone usato molto probabilmente per il divertimento. È un modellino realizzato da un artigiano in scala 1 a 87 (ove un centimetro equivale a 87 cm, scala che in gergo si dice HZero). Da qui si sviluppa una storia fatta di intrighi, di amore, di riflessione e di tanto altro ancora. È un testo che niente risparmia e che niente pretende. O si ama, o si odia. Questo per storia, sviluppi e struttura.
Ad ogni modo, anche se è un Recami diverso, non perde quelle che da sempre sono le caratteristiche delle sue opere e non delude le aspettative degli appassionati.
Una piccola curiosità: se siete appassionati di modellini ferroviari e vi interessa il modellino di cui al libro, a Firenze presso il museo HZero, potrete soddisfare il vostro appetito di sapere. Una visita della durata di un’ora adatti e grandi e piccoli, da non perdere così come Wunderland.
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Un romanzo adolescenziale
Forse arrivavo da un libro molto bello e particolarmente originale, ma sin dalle prime pagine di questo Acciaio la sensazione è stata di essere piombata in un fotoromanzo di bassa lega.
La storia in breve: la vicenda si svolge a Piombino nel quartiere dove abitano gli operai che lavorano nelle acciaierie, e lo sfondo è quindi quello di un Italia operaia ma dignitosa. Via Stalingrado, questa la zona, è vicina al mare che d’estate viene vissuto e goduto dai giovani di queste famiglie. Di fronte al mare si staglia l’Isola d’Elba, frequentata d’estate da turisti benestanti.
Due ragazzine quattordicenni molto amiche, una bionda e l’altra mora, vivono praticamente in simbiosi. Uno screzio, una mancanza di dialogo e la loro amicizia si tronca all’improvviso anche se le due continueranno a sentire la reciproca mancanza fino alla fine del romanzo. Qui mi fermo, il resto lo lascio a chi vorrà leggerlo.
Si tratta davvero di una storiella, senza approfondimenti e molto scontata, che si svela pagina dopo pagina nella sua ovvietà. Il linguaggio è scolastico senza nemmeno un tentativo di guardare verso l’alto. L’autrice cerca di inserire altri argomenti (la lotta operaia, la violenza sulle donne), ma tutto è abbozzato e lasciato lì senza andare da nessuna parte.
Leggo in copertina che “Acciaio” vuole essere un romanzo di formazione: ecco, non ve l’aspettate, perché queste ragazzine sono e restano quello che sono fino alla fine, e l’autrice sembra essere una di loro, adolescente che ha l’ambizione della scrittura nella quale concentrare i propri amori giovanili e le proprie amicizie.
Un romanzo molto modesto senza nessun approfondimento psicologico, che si legge per intero solo per trovare conferma di quanto si è capito già dalla prima pagina pur nella sofferenza di dover si confrontare con uno stile tanto adolescenziale.
Si tratta di un’opera prima, quasi un tentativo, quindi la scrittrice avrà poi avuto modo di maturare e far crescere creatività e stile. Come tale va presa senza aspettarsi nulla.
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La settimana del disagio
Incredibile crescendo di inquietante disagio, intervallato da momenti di profonda dolcezza che rendono ancora più straziante il destino del protagonista. Impossibile non identificarsi nelle fragilità e nei timori che Nicolas esprime e che abitano in qualche modo il vissuto delle paure di ogni bambino. Le storie spaventose che lo attraggono in maniera morbosa appesantiscono l'atmosfera man mano il racconto procede, fino a svelare una fine sconcertante, che non viene nemmeno raccontata nei dettagli ma solo lasciata immaginare al lettore. Ed a mio avviso è proprio questo tacere a rendere davvero magistrale la capacità narrativa di Carrere.
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Doppio viaggio
…Fu allora che capii che dolore terribile sia l’ amore…
“ Non dico addio “ è un viaggio a ritroso nel presente, tra le profondità di un’ esperienza condivisa, spezzoni di un passato funesto, il potere della memoria, sensazioni vivide in tanti momenti fatti di piccole cose.
Gyeong-ha, dopo la stesura del suo ultimo libro, da due anni staziona in uno stato d’ inedia, sola, insonne, malnutrita, il medesimo sogno inquietante, alberi recisi e tombe sommerse da un mare crescente che strappa le ossa alla loro sepoltura.
Per lei il ritorno alla vita significa accogliere la richiesta di In-seon, amica di lungo corso, cercando di salvare il suo pappagallino da morte certa nella casa che ha dovuto abbandonare frettolosamente dopo un incidente.
Gyeng-ha vivrà un soggiorno breve nella dimora di In-seon situata sull’ isola di Jeju, una bufera di neve in corso, una terra lontana dove settant’anni prima si è consumato un capitolo drammatico della storia, non solo coreana, il massacro di migliaia di innocenti accusati di comunismo e l’ occultamento dei loro cadaveri.
Saranno giorni di rivisitazione pubblica e privata, sancendo un legame profondo nella ricostruzione e condivisione del terribile evento, addentrandosi nei segreti della casa, documenti, lettere, ritagli di giornali, ricordi, testimonianze, dando forma a un passato sepolto nel dolore di chi è scomparso, di chi ancora si ricorda, di chi è morto ammazzato, è stato incarcerato, un luogo non luogo che sopravvive dentro.
In-seon parla con amore e realismo degli assenti, la madre, il padre, gli amati fratelli, ricostruendo la storia di un paese scomparso, l’ inspiegabile massacro di tanti innocenti, donne e bambini, intere famiglie, un cimitero coperto da silenzio e menzogne.
Nel fluire del racconto paesaggi animati, voci interrotte, passaggi intermedi, luoghi silenti, un deserto di basalto esteso fino all’ orizzonte, scheletri bianchi sparpagliati su una distesa di roccia nera, volti insanguinati ricoperti di neve, fiocchi percorsi da una strana bellezza, dal peso della leggerezza, invisibili all’ interno di uno spazio interpersonale, sciolti, posatisi lì in quel momento ma anche in luoghi diversi e in tempi lontani.
Le due amiche sfogliano un viaggio della memoria sfiorando l’ inafferrabile, consapevoli di quanto la pazienza può essere rassegnazione, la tristezza riconciliazione, forza e solitudine uniformarsi, gioie e sofferenze fondersi.
E allora ci si identifica con l’ altro in una nuova forma e Gyeong-ha si domanda che cosa sarebbe successo se fosse vissuta In un universo parallelo dove In-seon non si fosse tagliata le dita, probabilmente starebbe in un letto o seduta alla scrivania in un appartamento alla periferia di Seoul.
… ho inspirato e sfregato un secondo fiammifero sulla scatola. Non si è acceso. Ho provato con un altro ma si è spezzato. Ho trovato il punto in cui si era rotto, l’ ho stretto tra pollice e indice e ne ho strofinato di nuovo la capocchia sulla superficie ruvida. La fiamma si è levata. Come un cuore. Come un bocciolo che palpita. Come il battito d’ali dell’ uccellino più minuscolo del mondo…
“ Non dico addio “ è un romanzo dai temi forti nella dolcezza di parole e sentimenti, pensieri rimodulati che entrano dentro, corpi fluidi, oggetti parlanti, paesaggi dell’ animo, una materia immateriale sospesa tra sogno e realtà in un tempo scandito dalla memoria, luce che attraversa gli abissi del genere umano dando forma a un amore estremo, come la stessa Han Kang ci ha suggerito.
L’ esito è una presenza vivida e cangiante, come quella neve che, ciclicamente, cade, si dissolve, ritorna, una sensazione di pienezza nel vuoto circostante…
…Hai presente la morbidezza che ti resta nelle mani dopo aver toccato dell’ ovatta, una piuma, o la pelle di un neonato? Ecco, immagina tutte queste sensazioni insieme, distillate e compresse, che pervadono lo spazio. …
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Il campione emozionale
«Apro gli occhi e non so dove sono e chi sono. Non è una novità: ho passato metà della mia vita senza saperlo. Eppure oggi è diverso. È una confusione più terrificante. Più totale.»
Cosa significa essere un campione? Quale sacrificio, quale verità si nasconde dietro la facciata di un uomo che nella vita ha vinto tutto il possibile dettando anche le regole e i connotati di uno sport emblematico per le sue etichette?
Sta per scendere in campo. Andre Agassi sa benissimo che si trova davanti a quello che probabilmente rappresenta il suo ultimo match. È un uomo giovane in apparenza, ha solo trentasei anni, eppure il suo corpo, in particolare al mattino, sembra dimostrarne novanta. È pieno di dolori, la muscolatura è compromessa, la schiena è “rotta”. Dopo trent’anni di scatti, arresti, balzi e atterraggi sul duro, il suo corpo è consumato. Ma è davvero pronto a smettere? Lui che è stato numero uno del circuito Atp per 101 settimane, vincitore di 60 titoli – tra cui 7 tornei del Grande Slam – nonché vincitore dell’oro olimpico nel 1996 ad Atlanta è pronto ad appendere la racchetta al muro?
Si trova a New York, sta partecipando agli US Open 2006. La moglie, Stefanie Graf, e i due figli, un maschio e una femmina, di cinque e tre anni, sono con lui. Vivono a Las Vegas, Nevada, ma in questo momento si trovano in una suite del Four Season Hotel della Grande Mela.
Andre gioca a tennis per vivere, perché lo ha reso famoso, perché è sempre stata la sua vita, ma in realtà odia il tennis. Lo odia sin da piccolo, da quando il padre lo obbligava a combattere con “il drago” a colpire palline su palline senza sosta, sempre più veloce. Il padre, ex pugile di origine armena ma nato in Iran e naturalizzato statunitense, che parlava cinque lingue e nessuna bene, lo spronava a colpire 2.500 palline settimanali, per 17.500 mensili per oltre un milione l’anno. Solo così sarebbe stato imbattibile. Adesso, che è un uomo adulto e a fine carriera, sta per scendere in quel campo che tanto lo ha reso solo decretandone il passaggio alla Storia dei campioni.
«Il campo, dove mi sono sentito così solo e indifeso, è il luogo dove adesso spero di trovare rifugio dalle emozioni di questo momento.»
In “Open” conosciamo la storia dalla conclusione. Da qui torniamo indietro e riscopriamo in ordine cronologico il percorso del tennista. Non è una canonica biografia esattamente come canonico e tradizionale non è stato il protagonista. Scopriamo le fragilità di un uomo, le sue paure, il suo essere così emozionale e non così controllato come abbiamo pensato nelle occasioni in cui lo abbiamo visto scendere in campo.
Agassi ha lottato sempre e perennemente, dentro e fuori dal campo. Tra demoni e palline. Odia se stesso perché non sa staccarsi dal tennis, odia il tennis ma al tempo stesso lo ama per quel che tira fuori in lui e per il campione che gli permette di essere. Tra vittorie e sconfitte, tra solitudine e grandi preparatori atletici quali Gil Reyes che in lui ha visto la stella, che in lui ha creduto ogni singolo giorno per ogni singolo set.
Lo stile è semplice, poco erudito, volontariamente colloquiale e questo per suscitare maggior coinvolgimento nel lettore.
Una storia che ci parla di uno sport solitario, psicologico e fatto di individualità, una storia che ci invita a non arrenderci davanti alle difficoltà.
«Mi ricorda il modo in cui i secondi diventano minuti che diventano ore, e ogni ora può essere la più bella della nostra vita. O la più buia. Dipende da noi.»
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Il principe pora stella
Nel 2024 non solo ho letto molti meno libri in senso lato, ma sono stata particolarmente improduttiva sul fronte delle serie letterarie. Mi sembrava quindi una buona idea rimediare cominciando Il Popolo dell'Aria, sia per la popolarità di cui gode questa trilogia (a dispetto dei pareri altalenanti) sia perché l'ho lasciata fin troppi anni a stagionare in libreria, perfino per i miei standard! Con la mente priva di informazioni pertinenti ma stipata con più fanart del necessario, ho quindi affrontato "Il principe crudele".
Prima di iniziare la lettura, l'autrice sembra chiederci di fare uno sforzo di immaginazione per accettare il modo alieno di pensare delle creature fatate, che essendo immortali e dotate di poteri magici non possono ovviamente avere gli stessi valori degli umani. Con questa premessa approdiamo al prologo, in cui assistiamo all'omicidio dei genitori della protagonista Jude Duarte da parte dell'essere fatato Madoc -un tempo marito della madre-, che poi porta lei e le sorelle Taryn e Vivienne "Vivi" nella Terra degli Elfi, per occuparsi di loro. Le ragazze crescono così tra i membri del Popolo sull'isola di Insmire, fino a quando la rinuncia al trono del Sommo Re Eldred Greenbriar porta alla luce le animosità tra i suoi figli, l'ultimo dei quali è il tormentatore della stessa Jude, il principe Cardan.
I preamboli da fare sarebbe molti di più in realtà, perché Black introduce una buona quantità di sottotrame più o meno rilevanti, ma diciamo che il fulcro della vicenda è rappresentato dagli intrighi alla corte di Faerie, nella quale troviamo emissari degli altri regni fatati, umani più o meno consenzienti e le spie della Corte delle Ombre. Tra tanti caratteri risulta impossibile non sviluppare delle preferenze, ed io ammetto di essere stata colpita in particolare dall'ambiguo Madoc e da Vivi, per la propensione a preferire il lato mortale della sua esistenza. A conti fatti, tutti i membri del Popolo avrebbero in fondo del potenziale per risultare intrigati, per merito della loro natura così diversa e degli escamotage che devono inventare per sopperire all'incapacità di mentire.
Anche per questo motivo, mi sento di includere tra i pregi il sistema magico, nonostante non sia granché approfondito; vediamo a sprazzi come gli umani siano vulnerabili alle parole ed al cibo fatato, ed assistiamo ad alcune piccole magie di ispirazione folkloristica davvero affascinanti. Questo perché l'estetica in generale è molto curata, e mi riferisco ovviamente alle descrizioni (ad esempio, quelle dei particolari cibi o dei ricchi abiti indossati dai personaggi) ma anche al volume in sé: dalla copertina alle illustrazioni ad inizio capitolo, fino alla stupenda mappa, tutto è gradevole ed in linea con il tema.
Il world building rientra quindi tra i punti a favore del romanzo? non proprio, perché la cara Holly arricchisce il suo mondo con tantissimi esseri bizzarri, senza però fornire alcuna descrizione. Ad esempio, quando Jude incontra un goblin pensa tra sé di non potersi fidare così su due piedi, ma non chiarisce se la ragione della sua titubanza sia la natura dei goblin in generale o la poca fiducia che le ispira questo in particolare. La Terra degli Elfi sembra poi meno magica di quanto ci si potrebbe aspettare, tanto che ci sono molte scene in cui i protagonisti seguono delle lezioni scolastiche come in un teen drama qualunque.
E tutto questo viene mostrato al lettore tramite la voce di Jude, che adotta un lessico estremamente informale e spesso infrange la quarta parete senza alcun motivo; la prosa abbastanza elementare non supporta la narratrice, che in ogni caso non è all'altezza neppure come singolo personaggio. Jude non è brillante, impiega secoli ad elaborare informazioni basilari e nel complesso risulta più confusa che tormentata. Con il resto del cast le cose non vanno meglio: il testo è a dir poco affollato da un gran numero di personaggi, che per ovvie ragioni sono descritti in modo approssimativo, come la famiglia della protagonista che non ha il tempo per essere introdotta perché subito bisogna lasciare spazio ai vari principi o al gruppo dei bulli. Ad uscirne peggio sono Oriana (la matrigna di Jude, da lei odiata perché sì), la sciapa Taryn e Valerian, forse il teppista fatato con le motivazioni meno credibili di sempre.
Il medesimo problema riguarda le vicende, che la frettolosa narrazione non concede il tempo di comprendere, in relazione tanto alle regole fantastiche quanto nelle singole svolte; come conseguenza, tutte le azioni compiute dalla protagonista sono di una facilità estrema, ma il lettore non può capire se lei sia fin troppo talentuosa oppure sono le creature fatate ad essere parecchio rintronate e distratte. Non mancano inoltre ripetizioni continue delle frasi dette in precedenza (così Jude ricorda di dover reagire a tono) e scene puramente funzionali, come la festa a corte nei primissimi capitoli.
A questo punto potreste pensare che perlomeno il ritmo renda la lettura godibile. Ma vi sbagliereste! e non solo per la presenza di parecchi dialoghi tronchi. A fare da scoglio è l'edizione italiana, con una delle traduzioni più atroci in cui sia mai incappata; in più punti i refusi rendono realmente ostica la lettura, oltre a far diventare i personaggi ancor più scemi di quanto già non fossero nel testo originale. Sempre più spesso ho la sensazione che la cura nei libri per ragazzi tenda a mancare, quando invece sarebbero proprio le storie sulle quali investire più attenzione.
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Lyra e Will alla resa dei conti (finalmente!)
Lyra è stata rapita da sua madre, la signora Coulter, e viene tenuta nascosta e sedata in una grotta di uno dei tanti mondi paralleli a cui si può accedere dalle finestre aperte grazie alla “lama sottile”, il coltello super-affilato che squarcia i diaframmi di separazione. Will, il portatore della “lama”, accompagnato da due angeli di grado inferiore, la sta cercando tra i vari mondi anche se è atteso da lord Asriel che vorrebbe entrare in possesso del coltello.
La ricercatrice Mary Malone, l’unica che aveva compreso l’importanza di ciò che sapeva e poteva fare Lyra, è fuggita dal nostro mondo e si trova in un altro universo popolato da esseri alieni dall’aspetto bizzarro, che corrono su ruote e manipolano la natura con una proboscide multiuso. Tra questi miti esseri lei riesce a costruirsi uno strumento che le permette di vedere la Polvere, la misteriosa sostanza che sembra circondare tutti gli esseri senzienti, e che ormai pare catturata da un flusso inarrestabile che la trascina via da tutti gli universi.
Nel frattempo Lord Asriel si sta predisponendo alla battaglia finale che lo contrapporrà all’Autorità, quest’ultima arroccata nella misteriosa Montagna Annuvolata. La Corte Concistoriale, da un lato, fornisce truppe da contrapporgli nello scontro finale e, dall’altro, sta sguinzagliando i suoi sacerdoti e militari per rintracciare e sopprimere Lyra, prima che la ragazzina “cada in tentazione” come una novella Eva e, con il suo peccato, come raccontano le profezie su di lei, influisca negativamente sulle sorti finali dello scontro.
Una serie di eventi imprevedibili e una pericolosa e arrischiata iniziativa di Lyra e Will, alla fine, porteranno all’instaurazione di un nuovo ordine universale.
Confesso che sono partito molto prevenuto contro questo terzo e conclusivo libro della saga “Queste oscure materie”; al punto che è restato intoccato per mesi. Infatti mentre il primo volume, pur con tutti i dubbi suscitatimi, mi era apparso abbastanza interessante, già il secondo romanzo aveva abbondantemente evidenziato i difetti della storia così com’era stata concepita. Quindi dubitavo che un colpo d’ali potesse risollevare la sorte di questa trilogia. Però, onestamente, pur nel mio pessimismo, non mi sarei aspettato di trovarmi a leggere qualcosa di così brutto, insulso e barboso. Tra l’altro insopportabilmente lungo e arzigogolato e affastellato di vicende a fatica legate o logicamente collegabili tra loro.
Pulmann ha infarcito questo nuovo romanzo di nuovi mondi, nuovi personaggi, nuove creature, alcune davvero strambe, nuove intricate vicende e balzane invenzioni nella speranza di ravvivare l’intreccio, senza rendersi conto che una minestra, se è poco sostanziosa di partenza, non migliora le sue qualità solo aggiungendovi spezie a profusione.
Vorrei precisare che la cosa che mi ha dato più fastidio non è stato l’ateismo militante e predicante che permea tutta la storia: riconosco a ognuno il diritto di pensarla a modo suo e di esprimere le proprie idee in assoluta libertà. Magari, solo, in un libro, sarebbe buona creanza preavvertire i lettori (soprattutto se giovani) delle proprie intenzioni e non tendergli un agguato sorprendendoli a metà lettura. Ma questo è solo un dettaglio marginale.
Preso atto, però, che il ciclo “Queste oscure materie” non dovesse essere solo una immaginosa storia fantasy con avventure in luoghi mirabolanti ed eroi dotati di strumenti magici portentosi, ma, al contrario, si prefiggeva di diventare un manifesto anti-religioso e, più precisamente, anti-cattolico, almeno sarebbe stato gradito che la costruzione fosse solida, ben costruita, con argomentazioni logiche e uno sviluppo strutturato in modo da creare un legame empatico con i personaggi e da attrarre con le peripezie da essi vissute. Non ho trovato nulla di tutto ciò. Non è sufficiente, infatti, assemblare disordinatamente vicende, eventi, trovate strane per costruire un’avventura letteraria nella pretesa che quell’unione determini un qualcosa di organico e, soprattutto, visto che si vuole proporre e difendere una tesi di cotanto valore simbolico, efficace e persuasivo.
Nell’insieme, questo terzo romanzo risulta poco interessante, non emozionante, né avvincente.
Mi spiego. È poco interessante perché, in fondo, non è chiara la meta che si vuole raggiungere con questa storia o il messaggio che si vuole lanciare, ammesso che ce ne sia uno, al di fuori dell’affermazione, ripetuta sino allo sfinimento, che la Chiesa sarebbe brutta, sporca e cattiva.
Anche il finale appare totalmente arbitrario e assurdo perché si basa sull’assunto, vecchio come il mondo e altrettanto vacuo, che “omnia vincit amor”. Ma cos’ha di speciale quell’unico, particolare amore adolescenziale dei protagonisti che mancava ai milioni di milioni che lo hanno preceduto? Perché è così singolare da stravolgere l’ordine universale delle cose? Non ci viene spiegato in alcun modo. Da qui l’assoluta supponenza e apoditticità dell’intero costrutto narrativo che oltre a rasentare il ridicolo risulta totalmente acritico. E, poi, a prescindere dalla love story infranta tra Lyra e Will, che ne è del resto dello scontro epocale tra Ordine religioso costituito e Schiere di angeli ribelli? Se, come pare di capire, l’Autorità è una entità fungibile con altre ad essa simili, perché la sua scomparsa dovrebbe mutare l’assetto dei mondi? Come dice il proverbio: “morto un papa se ne fa un altro, e quindi?
Non è emozionante perché le disavventure dei protagonisti vengono raccontate con uno stile piatto e non coinvolgente e, anche quando si cerca di tirar fuori dal cappello qualche vicenda particolarmente movimentata, alla fine le parole non riescono a rendere il senso dell’azione e più che trepidazione ed empatia suscitano sbadigli.
Di conseguenza l’insieme non risulta neppure avvincente, ma anzi, in molti passaggi, si rivela tedioso e irritante con troppe parole spese per descrivere qualcosa che, forse, con meno inchiostro versato, sarebbe stato possibile rendere con più efficacia. Oserei affermare che ci sono interi capitoli più noiosi e deprimenti dello stesso Mondo della morte che l’A. s’è inventato per infilare Lyra e Will in un’improbabile impresa salvifica per tutti i defunti. Ho dovuto far violenza a me stesso per limitarmi a saltare la lettura di qualche periodo, di pochi paragrafi e non di interi capitoli e per giungere all’epilogo della storia.
La cosa che più mi ha irritato è il tono presupponente, presuntuoso e supponente con il quale vengono narrati i fatti come se l’A. avesse scoperto una sconvolgente nuova “buona novella” e volesse farne partecipe l’intera umanità, ma senza condividere con essa i meccanismi che la azionano e motivano. Nella storia avventurosa troviamo miscelati considerazioni filosofiche, teorie scientifiche, (ahimè, mal comprese e peggio esposte), estrapolazioni metafisiche e dogmi religiosi o confutazione degli stessi, tutti grossolanamente miscelati in un unico calderone, ma non amalgamati in esso, con il risultato di ottenere una broda difficilmente digeribile.
Anche l’intreccio in sé fatica a dipanarsi tra i paragrafi. Con una assiduità degna di miglior causa, spesso situazioni aggrovigliate, confuse e, apparentemente, irrisolvibili in cui è stato infilato questo o quel protagonista, vengono sbrogliate dall’apparizione di improbabili deus ex machina tirati fuori a casaccio, all’ultimo momento, senza una minima giustificazione, senza una vera logica narrativa. Altrettanto ingiustificati sono i subitanei mutamenti di carattere e inclinazione di questo o quel personaggio che, come novello S. Paolo sulla via di Damasco, si redime con eclatanti sacrifici personali per la salvezza complessiva, ma nell’assoluta incomprensibilità del gesto.
Non parliamo poi della coerenza e logicità non solo di certi ragionamenti, ma pure di certi passaggi. Un paio fra tanti: com’è possibile che esseri definiti, espressamente e ripetutamente, immateriali, come, ad esempio, gli angeli – inconsistenti e privi di massa corporea al punto che gli umani li trapassano e attraversano come fossero fatti di nebbia – a un certo punto, quando la narrazione lo rende conveniente, diventano corporei e possono essere abbrancati e stretti in una presa in stile wrestling o, al contrario, riescono a spingere col loro solo peso qualcuno sott’acqua fino a farlo affogare? Evidentemente l’A., preso nella foga della propria narrazione, s’è completamente dimenticato di cosa aveva scritto solo poche pagine prima.
Ugualmente, ci è stato detto sin dalle prime pagine del romanzo d’esordio, che gli esseri umani dotati di daimon non possono essere allontanati dal proprio compagno in forma d’animale pena una morte straziante con parallela gran liberazione d’energia, come, per l’appunto, accaduto a Roger nel primo volume. Ora, però, Lyra si permette di passare da un mondo all’altro abbandonando il suo Pantalaimon disperato sulla riva di un fiume infernale, senza danni materiali superiori a una afflizione esistenziale intima. La spiegazione abborracciata, che viene data solo molto dopo è più una mesta pezza per una chiara contraddizione che una seria motivazione.
Per non spoilerare troppo la trama non mi dilungherò a criticare certi personaggi, al limite della comicità involontaria, o certe rappresentazioni che appaiono blasfeme pure a chi religioso non è. L’A. nei ringraziamenti, ci confida di aver preso ispirazione per la sua storia dal “Paradiso perduto”. Beh, il povero Milton si dev’essere ben agitato nella sua tomba per questa sua responsabilità postuma.
Insomma, il giudizio finale, che, a questo punto, va esteso a tutta la trilogia, è il più negativo possibile. L’insieme è risultato al mio palato davvero indigeribile e sgradevole e mi rammarico di aver preso in mano il primo volume animato da ben diverse speranze. La cosa che più mi stupisce è il relativo buon successo di pubblico e critica che ha ottenuto la trilogia e il fatto che, al di là dei comprensibili attacchi di tipo religioso, nessuno abbia evidenziato mai la pochezza letteraria dell’opera.
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Travolgente
Un libro che sotto ogni punto di vista ti prende e ti porta via.
Un mix di intrecci e personaggi che ti accompagnano pagina dopo pagina verso un finale totalmente inaspettato. Magistrale la capacità di Ammaniti di trasportare di volta in volta il lettore nel punto di vista del personaggio di turno. Ognuno con la sua sensibilità, ognuno con i suoi drammi. Personaggi veri, concreti, che quasi si possono vedere e tastare con mano. Pochi fronzoli, nulla è lasciato al caso, tutto è veritiero, nudo e crudo e a tratti tragicomico. Tutto trova un perché, che viene spiegato dettagliatamente senza lasciare lacune o dubbi nel lettore. Romanzo dove si può ridere di gusto o piangere commossi. Magistrale. Consigliatissimo.
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Una sparatoria e un mistero risolto.
E' l'undicesimo giallo della serie che riguarda il personaggio di Enrico Radeschi, cronista di nera con curiosità da investigatore. Le vicende nelle quali è coinvolto come cronista sono due: una è prettamente milanese, l'altra, più complessa ed articolata, vede il bravo Radeschi viaggiare in lungo e in largo, investigando con due compagni estrosi e spericolati.
Il giallo si apre con un delitto, quasi nel centro di Milano. Un motociclista con tuta nera, casco integrale e moto con targa coperta spara su due uomini: uno, titolare di un autosalone di lusso muore quasi sul colpo, l'altro , speaker di una radio privata, se la caverà con varie ferite. Le indagini brancolano nel buio, non è chiaro quale in realtà doveva essere la vittima, quale il mandante e per quali motivi. Il socio del morto sembra l'indiziato numero uno, dato che vendeva auto a prezzo maggiorato con la complicità di clan mafiosi, intascandone i profitti. Contemporaneamente prende avvio l'altra storia, nella quale Radeschi è in compagnia con il Danese, un amico dal passato oscuro, imprenditore italo-greco, socio, fra l'altro, di una banda di rapinatori russi. Il Danese, delinquente sì, ma dal cuore d'oro, ha perso moglie e figlia saltati in aria nell'incendio di una macchina. La vendetta è d'obbligo, con l'aiuto di Radeschi e di una coraggiosa e brillante minorenne, Liz, che lo accompagna come un'ombra e che aiuta i due amici con le sue straordinarie doti di hacker nel violare i sistemi informatici più complessi, doti che le sono utilissime anche per individuare chi potrebbe essere stato l' autore del duplice delitto. Ne individua tre, inizia così la caccia ai presunti colpevoli, tra pericoli e ostacoli d'ogni genere, che termina con un imprevedibile colpo di scena.
Un inatteso colpo di scena conclude anche la prima storia, con una svolta finale decisiva che sorprende gli investigatori milanesi, il bizzoso vicequestore Loris Sebastiani e la sua agente Carla Rivolta: una sorpresa che inchioda sia il mandante che l'autore della sparatoria e che permette anche di arrestare importanti boss mafiosi.
Le vicende sono intriganti e coinvolgono il lettore per l'incalzare degli eventi e le sorprese che non mancano. Grazie anche ai personaggi che le animano, ben caratterizzati da Paolo Roversi. A cominciare da Enrico Radeschi, cronista di nera con il pallino dell'investigatore e con storie sentimentali sconclusionate. Gira su una vecchia Vespa gialla e non sa nascondere smarrimento e nostalgia per la morte di un unico, grande amico, il suo cane Buk, consolandosi come può, in casa di un'amica, con due piccoli cuccioli. L'amore per i cani è sintetizzato da un pensiero di Schopenhauer, che già conoscevo e che lui cita con rimpianto: :"Chi non ha mai avuto un cane non può sapere cosa significa essere amato". Ma anche la giovane Liz ha un debole per gli animali: ha salvato due cuccioli di pipistrello, se li porta dietro e li libera infine quando diventano autosufficienti. E l'iguana del titolo? E' piccola, indifesa, e il burbero Danese la tiene con sè, sotto la maglia: l'ha chiamata Iris, come la figlia che crede morta nella macchina in fiamme e che l'avrebbe ricevuta in dono dal padre. Un piccolo animale innocente ad una bimba adorata e innocente: una corsa contro il tempo, quasi a recuperare un'innocenza perduta, una corsa tra pericoli che incombono e speranze che via via si affievoliscono.
Roversi sa tenere il lettore nell'incertezza fino al termine, il finale non è mai scontato e riserverà, come di consueto nei libri gialli, sorprese. Poche sorprese invece per quanto riguarda il mondo dell'informazione, che Radeschi frequenta da professionista e che amaramente giudica con un'illuminante riflessione: " Del resto, non è necessario che tutto quello che si pubblica sia vero, basta che la gente si incuriosisca. D'accordo, è squallido,, orrendo persino: ma là fuori, è un brutto mondo per tutti, no?".
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Che montagne russe, lapocki miei!
Dal momento che uno dei miei obiettivi letterali per l'anno nuovo è di riscoprire la passione per la lettura nel senso più cozy possibile -ovvero, scollegandosi dal lato social di questo hobby- ho pensato fosse un'ottima idea recuperare vecchi titoli dei miei autori del cuore. Con due romanzi che ho apprezzato parecchio, la cara Liane può rientrare senza timore in questa categoria, e proprio per questo la mia prima lettura del 2025 è stata il suo "Nove perfetti sconosciuti".
Dopo un flashback incentrato sul passato di Maria "Masha" Dmitrichenko, la scena si sposta alla Tranquillum House, il suo resort nel sudest australiano dove piccole celebrità e persone comuni si recano per rimettersi in forma fisicamente e mentalmente. Come lettori seguiamo diverse prospettive, tra clienti e personale della struttura, ma a spiccare tra le altre è sicuramente quella di Frances Welty, autrice di libri rosa in declino nel lavoro ma non solo. La donna arriva al resort per riprendersi dopo una crudele truffa, e finisce così per far parte del gruppo sul quale Masha vuole testate la nuova procedura di trasformazione di sua invenzione.
Se avete già letto qualcuna delle mie recensioni, sapete come la presentazione falsa di un libro mi irriti; in questo particolare caso, avrei potuto sindacare sul titolo scelto perché i nove partecipati al ritiro non sono realmente degli sconosciuti, personalmente ma neanche a livello di fama. Invece non ho nulla da eccepire dal momento che l'autocecità è il tema centrale della storia: i personaggi non sono degli estranei verso gli altri quanto per sé stessi, infatti un po' tutti loro sembrano essere estremamente capaci ad intuire le difficoltà del prossimo ma a dir poco ottusi nell'indovinare i propri limiti psicologici. Il testo affronta anche temi secondari, che riguardano i singoli caratteri; quello che ho trovato più rilevante e meglio approfondito è l'elaborazione del lutto, ma si parla anche di apparenza estetica e di rapporto tra genitori e figli.
A veicolare brillantemente il tutto troviamo lo stile versatile e scanzonato di Moriarty, che ha la straordinaria capacità di bilanciare nei giusti tempi battute umoristiche e riflessioni ponderate. In questo titolo più che nei precedenti, ho apprezzato il suo talento per intessere delle ottime relazioni, spiegando bene i legami passati e gettando con sicurezza le basi per dei nuovi rapporti. In generale, trovo che i personaggi rappresentino un grosso punto di forza: si percepisce l'impegno nel rendere uniche e facilmente identificabili la personalità e la voce di ognuno.
E questo non era affatto facile, considerando che i POV totali sono ben dodici! una scelta che comprendo a livello concettuale, ma sulla quale ho finito con l'avere delle riserve perché alcuni sarebbero stati facilmente condensabili in altre prospettive. In particolare Lars, Ben e Delilah non mi hanno trasmesso granché, quindi avrei optato per approfondirli di più oppure eliminare direttamente i loro capitoli. Un ragionamento simile si potrebbe applicare sui temi, perché sfoltire almeno in parte gli argomenti trattati avrebbe permesso a quelli centrali di risaltare.
Nonostante queste critiche, il romanzo è riuscito ad emozionarmi in diverse scene, ma questo ha influito sulla valutazione solo fino ad un certo punto. Il vero limite per me è stato l'intreccio, perché la maggior parte del volume presenta un ritmo talmente fiacco da far pensare che non ci sia neppure una trama da seguire. Quando infine la narrazione prende il via, gli eventi ai quali assistiamo sono così rapidi e surreali da lasciare interdetti: l'impressione è quella di un accelerazione folle ed insensata dopo chilometri di strada percorsi con la prima ingranata. Magari mi andrà meglio con la prossima storia ideata dalla cara Liane.
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"Tutto è fragile, tutto quanto ci circonda"
La storia sembra semplice. E' la vita di un uomo come tanti, Edouard Malempin, medico pediatra, sposato, due figli. La vita di tutti i giorni è scandita da rituali sempre uguali, casa e ospedale. L'acquisto di una macchina nuova con un colore (verde) eccentrico e la prospettiva, finalmente, di un viaggio in vacanza nel Sud della Francia sembrano proprio distoglierlo dalla monotonia della quotidianità quando un evento improvviso e inaspettato viene a creare una nuova atmosfera, densa di preoccupazioni: la malattia del figlio Bilot, un bimbo pallido e gracile, affetto da quella che sembra ad una prima diagnosi difterite maligna a probabile esito infausto. Malempin inizia la terapia vaccinale, iniziano i consulti, il viaggio non si fa più e la mente comincia a vagare in tempi lontani, alla vecchia fattoria dei genitori, alla madre finita in povertà pur provenendo da famiglia agiata, al padre, uno spavaldo garzone di campagna... I ricordi di una vita percorrono tutto il libro, trasportando il lettore in altre epoche, dove il piccolo Edouard cresce imparando dalle circostanze della vita e dai personaggi che lo circondano quanto sia difficile capire e relazionarsi con il prossimo. Ma sperimenta anche la realtà , così come è, della vita, tanto da fargli annotare poi che "gli unici anni della vita reale sono gli anni dell'infanzia". E dall'infanzia e dall'adolescenza scaturiscono ricordi che Malempin rivive con malcelata nostalgia. Ad esempio lo zio Tesson "un vecchio satiro che odora di caprone", un vecchietto che aveva smesso di esercitare la professione di avvocato, dedito ad affari loschi come prestasoldi, sposato con la zia Elise, bionda evanescente e grassoccia, che ospiterà più tardi Edouard quando dovrà frequentare la scuola superiore. Ed i ricordi diventano tormentosi, quando Tesson scomparirà, ed i genitori di Edouard, indebitati fino al collo, saranno sospettati di averlo in qualche modo eliminato...
Ma la vita continua. Tornando al presente, il piccolo Bilot si riprenderà e, forse, il programmato viaggio al Sud potrà realizzarsi. Insomma, un barlume di speranza ravviva la vita di Edouard, i ricordi evaporano lentamente, ma ritorna implacabile l'irrealtà della monotonia giornaliera. Lo zio Tesson ormai è definitivamente scomparso, la zia Elise si è risposata con un uomo violento, impazzirà, subirà il ricovero in manicomio dove si spegnerà. Edouard vive ora come in un sogno, distaccato dalla realtà, domandandosi il perchè di tanti avvenimenti: più che vivere sopravvive, cercando di calarsi in un'attualità che non lo capisce e che lui stesso non comprende. E quando Bilot gli chiede "che cosa mi hai portato?", gli viene di rispondere "Me !", quasi a sottolineare la sua stessa presenza nella realtà quotidiana, fragile e spesso incomprensibile. Ed è proprio la fragilità del tutto che lo turba e che lo induce a scrivere in un suo diario segreto: "Tutto è fragile, tutto quanto ci circonda, tutto quanto prendiamo per la realtà, per la vita: la fortuna, la ragione, la quiete... e la salute soprattutto, e l'onestà ...".
"Malempin", pubblicato per la prima volta nel 1940, è un grande romanzo, che non fa che sottolineare la grandezza dell'autore, Georges Simenon, troppo spesso etichettato solo come scrittore di romanzi gialli. L'autore ha il raro dono di far rivivere il passato attraverso il presente, presentandoci lo spaccato di una Francia del secolo scorso, ma viva, reale, attuale, filtrata attraverso personaggi ben riconoscibili. Il passato più o meno tormentato è sempre presente nei ricordi e nella nostalgia dolente del protagonista, un Edouard vigile anche nei tanti silenzi e nei tanti episodi non raccontati ma sicuramente vissuti o immaginati. Un Edouard che afferma di non sentirsi turbato neppure se i genitori si fossero sbarazzati dello zio Tesson, che afferma di non sapere il perchè del matrimonio con sua moglie, come se l'avesse scelta in un catalogo di offerte, che sostiene di essere gentile, ben educato con i malati, chiedendosi però se queste affermazioni sono sincere o solo una posa ... Insomma una figura nello stesso tempo enigmatica ma vera, un personaggio che solo la penna e l'abilità di un grande scrittore potevano farci apprezzare.
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Il defenestrato di Pineta e gli usi civici
Grandi novità a Pineta. Il piccolo paesino della riviera toscana ha cambiato la sua giunta e, in contrasto con quanto era avvenuto nei decenni precedenti, hanno vinto i partiti di destra. Amperio e Pilade sono disperati e si vedono già attorniati dalle camicie nere e dai fasci littori. Gli altri due vecchietti del Bar Lume sono, come al solito, di avversa opinione.
Nel frattempo, però, il vice-questore Alice, compagna del "barrista" Massimo e madre della loro primogenita Matilde, si trova per le mani un caso spinoso. Un giovane studente, che stava preparando la tesi per il dottorato alla Normale di Pisa, è precipitato davanti al municipio del paese, con tutta evidenza facendo un volo, non richiesto, da una delle finestre dell’edificio.
Direttamente o indirettamente coinvolti, oltre ai pochi impiegati presenti nel palazzo durante quella notte, un esimo barone dell’università toscana (relatore del defenestrato) e un nobile ultra-decaduto la cui famiglia, sino a qualche decennio prima, era proprietaria di una tenuta, il Bosco Torto, che ora è oggetto di accese battaglie politiche in vista della sua probabile vendita a una multinazionale.
Così, mentre i vecchietti, una volta tanto, sono più attratti dalla pupattola appena nata che dalle indagini di polizia, e Massimo si arrabatta per cercare di venire a capo di un brutto guaio relativo alla concessione d’uso di suolo pubblico, Alice, nella sua indagine, si imbatte in questioni sugli usi civici e in antichi manoscritti di importanza storica che potrebbero riscrivere pagine della letteratura italiana.
Che dire di nuovo sulle storie che vedono protagonisti i vecchietti del Bar Lume, dopo nove romanzi di successo e una ventina di racconti brevi?
Non possiamo considerarla certo Letteratura con l’iniziale maiuscola, nonostante l’autore scriva in un italiano impeccabile, ahimè cosa assai rara di questi tempi, e le trame siano ben congegnate e strutturate. Però, come, tornando a casa dopo una giornata di duro lavoro, noi si preferisce infilare i piedi nelle comode, confortevoli pantofole imbottite, piuttosto che continuare a soffrire dentro a più formali calzature da ufficio, così, scorrere le righe in cui si narrano le vicende del simpatico quartetto e del loro contorno, è andare incontro a una lettura accogliente, piacevole e, sotto molti punti di vista, tranquillizzante. Una lettura che non ci instilla soverchi dubbi o problemi esistenziali, ma che ci rilassa e diverte, fa fare qualche risata e, perché no, ci spinge pure a riflettere su alcune questioni più serie.
Per parte mia, poi, trovo poi estremamente rasserenante trovare concetti e considerazioni che sento mie nel profondo. Osservazioni, magari pure banali su cose banali, ma dette nella più assoluta serena sincerità, infischiandosene del politicamente corretto o della tendenza a evitare espressioni che possano causare anche la minima asperità, il minimo dissenso, nel lettore. Insomma, è come sedersi in salotto a sorseggiare una birra a fianco di amici fidati, parlando del più e del meno in totale rilassatezza.
Nella storia gialla Malvaldi non perde occasione di farci capire che, in fondo, lui scienziato è, e. anche in questo caso. la soluzione vada ricercata con spirito scientifico. Nella fattispecie, sebbene il titolo ci richiami alla mente il classico gioco della morra cinese, nel concreto dovremo riandare con la memoria a un noto enigma che riguarda la città di Königsberg e i suoi sette ponti. Idea, se non proprio nuova, certamente ben trovata e, comunque, funzionale allo svolgersi della trama che si sviluppa in modo non troppo intricato e cervellotico.
Insomma come al solito Malvaldi ci dona un libro distensivo e piacevole, per una rilassante seduta di lettura senza troppi problemi.
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IL TRADUTTORE PIÙ FEDELE DI SÈ STESSA
Che non si incorra nella malsana e ottusa opinione di inserire gli scrittori dentro una cerchia univoca, come se tutti fossero capaci di scrivere qualunque cosa e cimentarsi in qualunque genere. Se vogliamo parlare di impronta, alla base delle tante variabili possibili, esistono scrittori destinati alla prosa e scrittori destinati alla poesia. Sylvia Plath è una poetessa. E lo è perché per lei non c'è nulla da inventare nella scrittura, con essa cerca soltanto di essere il traduttore più fedele di se stessa, avendo il dono di trasferire l'epifania, il sacro parto della mente, su fogli destinati ad essere squarciati dal suo crudo ed emozionante realismo. Ho sempre pensato che le più belle poesie non possano prendere forma fisica, che la loro nobiltà stia nel fluttuare dalla mente al corpo, destinate ad essere intrappolate nella voce misterica di una conchiglia, ma fortunatamente mi sbaglio e qualcuno ci riesce. Sylvia Plath è un percorso, una folgorazione di femminilità tenera, tremenda e tremante. Se partiamo da tutto questo, allora credo che la poesia di Sylvia Plath, innanzitutto, sia di più quanto sliricato ci possa essere, perchè la scrittura striscia insieme a chi la partorisce come un verme che cerca il buco della terra per entrare nelle sue stesse viscere. La forma del contenuto poetico diventa solenne perché nobili sono i suoi sentimenti, ma la scrittrice è investita dal fango, è macchiata dalla sua primigenia forma di bruco ed è solo un inesorabile ciclo naturale a far diventare le sue poesie divine farfalle, non esiste nessuna menzogna, non esiste nessun artificio retorico. Questo romanzo mi ha stravolto perché mi ha fatto capire come la Plath non si sia mai sentita farfalla nella sua vita e mi commuove molto pensare quali capolavori riesca a creare il dolore di un bruco. Ho conosciuto Sylvia Plath leggendo prima i suoi "Diari" e poi le sue poesie, più o meno cinque anni fa. A quel tempo la cercai perché iniziava l'estate e io avevo bisogno di un riparo dalla presunzione del sole. Adesso l'ho ricercata perché volevo la compagnia di una donna vera, qualcuno che mi sorridesse debolmente, con il corpo sporco di una terribile umanità e che avesse capito che nella vita si parla di "vuoto" solo per dissimulare e non sentire la vertigine che apre al terremoto psichico della tenerezza.
"La campana di vetro" è una solitudine che stramazza. Ha una razionalità raggelante e, nel mio soggettivo e debole parere, credo che la scrittrice volesse cercare la verità più profonda del suo dolore. La scrittura è da intendere come archeologia, mentre il romanzo non è nient'altro che emergenza, un'esigenza carnale, non c'è sperimentalismo, nessuna prova di narratività; penso davvero sia nato soltanto dall'urgenza del caso. Se volessi prelevare un segmento, solo un piccolo pezzettino di tutto questo romanzo, cercando di ricostruire un quadro filologico che potesse poi rispondere alla totalità del testo, io farei affidamento all'entfremdung (alienazione, straniamento): tema concepito nell'800, ma protagonista indiscusso del Novecento e che in Sylvia Plath sembra quasi aver preso struttura ossea che non trova pace. Questo tema è diventato un vero e proprio catalizzatore letterario di dispersione quando gli scrittori hanno cominciato ad avere fede nell'abbandono e ad intraprendere questa nuova via di pellegrinaggio. La nausea, tra tutte, è forse la sensazione più forte che la scrittrice mi abbia trasmesso. In questo romanzo l'autrice cambia prospettiva e prova a guardare, a volte, l'interno dall'esterno, intenta a scavare spiegazioni su spiegazioni, con una ferocia animalesca e una naturalezza selvaggia di chi, con le parole, sta cercando terra.
Futuro certo
California, 2070, in una versione post-apocalittica immersa in un futuro lontano, la terra è un luogo desolato, spopolato, deserto, infestato da bestie feroci, preda delle forze indifferenti della natura, dell’ individualismo di un’ umanità regredita ai primordi, scontando a distanza di anni l’ avvento tetro e funesto dell’epidemia di morte scarlatta ( nel 2013).
Il genere umano, ormai quasi estinto, vive una nuova era tutta da costruire, una civiltà disadorna che si serve di un linguaggio scarno, pochi concetti e parole, la lettura e la scrittura scomparse, sopraffatti dalla cruda realtà, dalla violenza, dalla mancanza di rispetto per i più anziani.
Il racconto di uno dei sopravvissuti, un vecchio professore di letteratura immerso in libri e parole che da sempre ha narrato ai propri studenti, segna le tappe del terribile evento, i ragazzi che lo ascoltano vivono di immagini ignorandone la dialettica, non comprendendone i significati profondi, figli di un’ ignoranza della quale si servono e si vantano per sopravvivere nella barbara quotidianità.
Il vecchio racconta della caduta degli Dei, laddove agli inizi del nuovo secolo prosperavano opulenza e conoscenza, d’ improvviso strani sintomi, tachicardia, innalzamento della temperatura corporea, la diffusione rapida di un’ eruzione cutanea scarlatta sul viso e sul corpo causa di morte istantanea.
E allora tutto implode, si sgretola rapidamente, gli individui pensano a se’, si guardano dagli altri, regredendo a uno stato di solitudine e ignoranza, la società destinata a un inesorabile crollo, migrazioni, razzie, violenze, assassinii, ciascuno preda e predatore al contempo.
Ogni forma di civiltà rimossa, i libri perduti, il saper estinto insieme alle menti illuminate che lo hanno creato, un’ inversione sociale in atto, nessuna speranza, circondati da distruzione e morte.
Il ritorno alle origini, dopo un lungo periodo di assestamento, darà lentamente forma a una nuova civiltà, quella stessa che, un giorno, all’ apice di progresso e produttività, in una condizione dicotomica di ricchezza e povertà, tra esodi e sovraffollamento, segnerà una nuova discesa agli inferi assecondando il sentimento umano di sopraffazione e autodistruzione.
Cicli e ricicli, il peggio di se’ nel proprio momento migliore, una genia di barbari e di selvaggi che, nella sventura generalizzata, distruggeranno gli altri e se stessi.
La Peste Scarlatta è un racconto orale calato in un’ epoca post-apocalittica, la fine della cosiddetta civiltà, l’ idea ossessiva della sopravvivenza in un individualismo che paradossalmente azzera tutte le differenze.
L’ avvento del virus ha generato violenza, tracotanza, una solitudine alla ricerca di eventuali superstiti, il senso insensato di chi pensa, legge, scrive in un mondo privato di tutto e senza destino. Ci si chiede se sopravvivere sia sufficiente, e a quale prezzo: all’ interno della narrazione si fissano alcune chicche:
…che cos’è istruzione? Chiamare scarlatto il rosso…
a che cosa servono le università?
…All’ Università insegnavamo ai giovani a pensare…
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ODISSEO E LA FOLLIA
Mentre le fila di Penelope si incontrano e si disfano ad Itaca, allo stesso modo le parole di Odisseo si intrecciano nei suoi racconti e si dipanano nel mare. L’architettura narrativa è densissima ed essa stessa fa arte al complesso miscuglio tra tempo della storia e tempo del racconto: ci si ritrova nel presente della vicenda impersonata subito dalla Telemachia, nel passato dei viaggi compiuti da Odisseo e che il protagonista stesso racconta agli stranieri che di volta in volta incontra, si viene travolti nel passato ancora più remoto dal canto degli aedi, i quali ricalcano l’impronta della memoria delle gesta di Troia, nell’imperfetto, che è causa di tutte le colpe commesse in precedenza e che ogni personaggio si porta dietro, fino al raggiungimento di un destino che gli è toccato in sorte e lento attende il suo compiersi, e infine in un futuro, dettato da profezie e saggi consigli. Tutti abbiamo sentito parlare spesso di Odisseo, ma chi è realmente? In una visione completamente soggettiva, in cui mi sono concentrata principalmente in certe parti del racconto, che ho staccato e ricostruito nel mio immaginario, Odisseo mi è parso certamente l’uomo astuto di cui sempre si parla, l’uomo dal multiforme ingegno, ma pur sempre un uomo e il cuore di un uomo solo non può sopportare e patire così tante pene se non è accompagnato da un dio. Sopra tutte le divinità, è Atena che lo protegge, lo guida e gli appare in varie forme, e questo è un privilegio non da poco per un essere umano. Odisseo è davvero un uomo di raffinato ingegno, con una notevole fermezza, ma non gli sono estranei tratti riconoscibilmente inquieti e in costante allerta. Ho voluto cercare qualcos’altro in questo personaggio quindi, tra le pagine, ho incontrato anche un uomo la cui intelligenza è stata tanto gloriosa quanto sfrenatamente lungimirante e consequenzialmente dannosa. Mi sono domandata se Odisseo conosca la gioia e credo di no: chi possiede il pensiero complesso difficilmente abita il presente nel suo istante, ma è questo che costruisce il fato per lui e, come sappiamo, nessuno può sfuggirgli. Il guardare sempre al di là porta ovunque e da nessuna parte. Odisseo ha un obiettivo, il suo ritorno in patria, ma da qualcuno ha già saputo che, una volta approdato nella sua amata Itaca, dovrà nuovamente rimettersi in viaggio. Nonostante la perseveranza, la tenacia e la costanza, può essere sempre forte quest’uomo? No, non lo è. Una manifestazione di grande disperazione è vissuta dal protagonista sull’isola della dea Calipso che, innamorata, trattiene l’eroe per sette lunghi anni. Odisseo piange tutto il giorno guardando il mare, ha perso i compagni e la speranza va sempre più scemando, eppure resta intatta la sua nobiltà d’animo. La dea offre all’uomo l’immortalità se lui accetterà di restare accanto a lei per sempre, ma Odisseo rifiuta ogni volta una condizione di vita che, per quanto preziosa, non gli appartiene. È un uomo che soffre molto e parla poco dei sentimenti perché possiede poca fiducia nel prossimo. Come potrebbe un uomo fidarsi degli altri, quando è lui per primo a ordire inganni? Ancora una volta mi sono chiesta se Odisseo potrebbe essere definito un personaggio dal contorno complesso e paranoico. Cosa succede ad Odisseo quando non è accompagnato dal dio? È lì che ho sentito l’abisso di un uomo in una delle scene più sazie e più folli del poema: mi riferisco a quando Odisseo scende nell’Ade. Ma Odisseo scende davvero nell’Ade? Ecco come l’indefinitezza di un segmento narrativo racconta il mito più a fondo. Odisseo scava una fossa, avvia la libagione, si siede e rievoca i morti, questa pratica si chiama nekyia, che molto spesso viene confusa con la catabasi. Le immagini più atroci gli si affollano intorno, accompagnate da voci angoscianti di dolore, rimpianto e tremenda tristezza: sono le ombre dei morti, anime tristi di giovani, donne, guerrieri morti in battaglia, vecchi agonizzanti, compagni con cui l’eroe ha combattuto a Troia. Che cosa significa tutto questo? Cosa significa scavare una fossa? È vero che il consiglio di entrare in contatto con il mondo dell’Ade è stato un suggerimento della maga Circe, ma prima di allora Odisseo sembrava aver perso il suo obiettivo nell’isola di Eea, sembrava aver dimenticato del suo ritorno in patria, sarà infatti un compagno, con parole di rimprovero, a ricordargli la loro ultima destinazione. È possibile che un uomo tanto astuto abbia dimenticato il suo agognato ritorno ad Itaca? Secondo me sì. Ho letto questo undicesimo libro dell’Odissea sotto un profilo estremamente fragile e mi sono chiesta cosa cerchi realmente Odisseo quando, scavando il solco da solo, cerca di mettersi in diretto contatto con il regno sotterraneo. La profezia di Tiresia è la risposta più immediata, ma la risposta può non essere univoca. Non c’è mai un singolo responso perché il mito ne porta sempre di nuovi. Tra i possibili, ho immaginato che quest’uomo, per un istante, grattando la terra, stesse cercando la sua morte, in preda alla disperazione, come se l’uomo dall’acuto ingegno avesse perso momentaneamente il senno. Odisseo non ha particolare reazione alla profezia di Tiresia, il suo immediato desiderio è parlare con la propria madre, intravista tra le anime vaganti che la tremenda Persefone invia dall’oltretomba. La figura materna sembra essere l’approdo più sicuro per un uomo in balia di un tormento divoratore. Sarà proprio la madre di Odisseo a invocarlo verso la luce: "ma tu cerca al più presto la luce, però tutto qui guarda per raccontarlo poi alla tua donna". Pulsioni di vita e di morte si intrecciano in questo episodio magnifico e complesso. Odisseo guarda attentamente le anime che gli stanno attorno e la sua forza dinamica, che sempre lo porta a un costante autocontrollo, si disperde nell’abisso di una stanchezza psichica. Cosa proietta in tutte quelle anime? Forse la miseria della vita quando si perde la speranza, forse il pentimento di certe sue azioni compiute antecedentemente e, in tal senso, significativa è la presenza di Aiace, che non perdonerà Odisseo neanche dopo la morte. Forse, guardando tutte quelle anime femminili, osserva il loro patire e si immedesima in quel dolore che egli stesso ha causato alla moglie amata, al figlio abbandonato ancora in fasce, alla sua stessa madre Antìclea, morta per le pene insopportabili a causa di un figlio troppo lontano e considerato ormai morto, e sarà la stessa genitrice a informare il figlio sulle condizioni del padre, il nobilissimo Laerzio, che, senza ormai più vigore e straziato dal dolore, preferisce l’isolamento nei campi, vestendo stracci e poco altro. Un nucleo familiare, una terra intima che è andata in frantumi, i cui cocci isolati diventano singoli membri, ma l'uomo antico non è in grado di sopportare il peso della solitudine ed è per questo che cade nel disegno della follia.
L’Odissea è un’opera che ha molto da dire, una reale trattazione può essere composta solo dopo aver impiegato uno studio lungo, concreto e accurato da parte di un professionista. Io ho solo portato alla luce una piccola scintilla che mi è venuta in mente solo dopo aver letto più volte l’undicesimo libro dell’opera e, a questa miccia, ho accostato la rappresentazione del pittore di Dolone di un cratere a calice, a figure rosse, un vaso lucano del 380 a.C., che raffigura un Odisseo stanco, dallo sguardo insensibile e vuoto, ed è lì che le domande hanno cominciato a prendere forma dentro la mia testa, affascinata, come sempre, dalla potenza del mito e di quanto ancora abbia da raccontare.

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Adamsberg e i dolmen
Il commissario Jean-Baptiste Adamsberg, lo “spalatore di nuvole” del XIII arrondissement, ha dovuto soggiornare per qualche tempo in Bretagna per chiudere un brutto caso di un omicida seriale. Qui ha collaborato con il suo collega Frank Matthieu di stanza a Rennes e ne è diventato amico. Cenando con lui in una rinomata locanda di Louviec, paesino di poche anime vicino a Combourg, aveva fatto la conoscenza con Josselin de Chateaubriand forse erede del famosissimo letterato e uomo politico del XIX secolo e suo sosia sputato. Ma aveva scoperto pure che il paese era in agitazione perché si diceva che fosse ricomparso il fantasma dello Zoppo (un antico visconte di Combourg) e che la sua comparsa avrebbe portato, come quattordici anni prima, a qualche morto ammazzato.
Meno di un mese dopo, ritornato a Parigi, legge su un quotidiano che Gaël Leuven, il guardiacaccia di Louviec, un omone grosso come un toro e altrettanto rude, che lui aveva intravisto quel giorno nella locanda, è stato brutalmente assassinato. Indiziato principale proprio Chateaubriand, da sempre bersaglio dell’acredine di Gaël, ma nessuno di coloro che lo conosce crede che sia possibile che l’uomo, mite e schivo, possa essere l’autore del crimine, efferato quest’ultimo. Ma Adamsberg non può intromettersi nella vicenda; è fuori dalla sua giurisdizione. Tuttavia è il Ministero stesso che vuole scongiurare che uno Chateaubriand, seppur solo lontanissimo discendente dell’autore di “Memorie d’Oltretomba” possa essere accusato di omicidio senza schiaccianti prove a suo carico. Così il Sottosegretario in persona lo chiama e gli ordina di tornare a Louviec per affiancare la polizia locale e indagare sul misfatto.
Nel frattempo i morti, uccisi tutti alla stessa maniera, un paio di fendenti al torace con un coltello di marca lasciato dentro la ferita, si accumulano e Adamsberg (pur affiancato dal valido Matthieu), brancola nel buio, tra ipotesi fantasiose e divagazioni a stile suo, tentando di fare ordine, anche meditando sulla pietra in un dolmen che si erge nei pressi del paese. Stavolta però, dovrà stare più attento del solito: qualcuno vuole ucciderlo per punirlo della sua ingerenza,
Il Commissario Adamberg è uno dei personaggi più iconici del panorama poliziesco francese e l’autrice, Fred Vargas, è un’abile narratrice che, con stile sempre impeccabile, alterna accattivanti descrizioni, incursioni ammiccanti al paranormale (prontamente smentite in chiusura dei romanzi), intrecci investigativi complessi, ma coerenti, con introspezioni nello stato d’animo delle persone, in particolare del suo personaggio principale. Quindi è difficile che un libro suo risulti insoddisfacente o, peggio, sgradito.
Però, se dobbiamo fare le pulci a quest’ultima storia (e non si tratta solo di un modo di dire, visto che questi afanitteri saranno uno degli elementi chiave per la soluzione del caso) non possiamo non rilevare come “Sulla pietra” sia un’opera decisamente inferiore a quelle che l’hanno preceduta.
Ne “Il morso della reclusa” l’A. aveva in qualche modo palesato come nell’efficientissima squadra del XIII arrondissement qualcosa cominciasse a non ingranare più al meglio: i dissidi tra Adamsberg e il suo fido vice Danglard erano giunti al punto da far ipotizzare un divorzio tra i due; alcuni altri collaboratori erano passati a occupare ruoli di secondo piano; la vicenda stessa era risultata ingarbugliata e il Commissario aveva dimostrato una certa stanchezza nel suo ruolo. Insomma tutto aveva fatto ipotizzare l’intenzione dell’A. di far restare quel nono libro l’ultimo della fortunata serie. E forse, sarebbe stata una scelta felice.
Questo decimo romanzo, uscito oltre sette anni dopo il precedente, appare, sin dall’inizio, come una operazione commerciale per sfruttare la scia, ancora attraente, della fortunata saga, ma la storia è abbastanza raffazzonata, confusa. Nella vicenda si intersecano piccole vendette paesane a intrighi e delitti compiuti dalla criminalità organizzata, minacce mafiose alle forze dell’ordine e misere superstizioni come scusa per truffare i creduloni. A ben vedere, infatti, per mettere assieme questa storia, l’A. è stata costretta a cucire assieme, e non sempre in maniera efficace, quattro o cinque vicende diverse, apparentemente slegate le une dalle altre. Non tutti i passaggi appaiono logici e conseguenziali. Non tutti i personaggi coinvolti appaiono convincenti e ben disegnati. Non tutte le deduzioni sono coerenti. Anche lo “spalatore di nuvole” appare confuso e ondivago.
La storia in sé procede lentamente e il crimine seriale che dà l’avvio alle indagini spesso si perde sopravanzato da altre vicende che, più che interagire con il filone principale, confondono e depistano.
La stessa squadra di Adamsberg sul campo, ridotta a soli cinque elementi (forse anche per evitare domande sulla tenuta dei rapporti interni) è posta sullo sfondo della vicenda, senza che le singole personalità riescano a emergere, se escludiamo l’atleticità da supereroe della Retancourt e l’abilità al computer dell’ipersonne Mercadet. Ma anche per loro dette caratteristiche appaiono più un distintivo caricaturale che natura rappresentativa e qualificante della persona.
Ho avuto la netta sensazione che, per inventarsi la trama, l’A. sia andata a saccheggiare idee precedentemente utilizzate e già abilmente sfruttate, e le abbia utilizzate per allungare un po’ il brodo del racconto. Solo per citarne alcune: le pulci di “Parti in fretta e non tornare”; l’interpretazione fuorviante di certe espressioni in francese (“Nei boschi eterni”); la vendetta per i torti subiti in passato (“Il morso della reclusa”). Insomma, sotto certi aspetti questo romanzo sembra una sorta di coperta patchwork con tanti quadratini tagliati via da altri teli e cuciti assieme, ma senza troppa convinzione.
Lo stile è indubbiamente buono, e non ci si potrebbe aspettare di meno dalla Vargas, ma anche sotto questo aspetto si nota una certa stanchezza, un “tirar via” alcuni passaggi.
In definitiva, si tratta di un romanzo non memorabile, ma, soprattutto, evitabile, cioè che non aggiunge nulla alla serie, ben più valida, dei libri che lo hanno preceduto e, forse, fa un cattivo servizio alla stessa Autrice.
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Resa dei conti
…” Abbiamo solo finto che nella vita possa esserci una catarsi, una risoluzione. Forse succede solo quando finalmente non hai più scuse. Ma la vita la salvi solamente vivendola”…
L’ ex detective Ray Lennox, da Edimburgo alla tranquillità di Brighton sembra avere cambiato pelle, l’ amore per una giovane ricercatrice, Carmel Deveraux, un lavoro come addetto alla sicurezza, alcool e droghe dimenticati, il passato sepolto, finché un volto noto riemerge improvvisamente riconsegnandolo alla rabbia dolente del se’ bambino.
Che cosa successe in quel tempo, che cosa è rimasto, chi si nasconde dietro Mathew Cardingworth oltre l’ industriale facoltoso con tendenze filantropiche?
Ray, suo malgrado, rivive quel pomeriggio della sua fanciullezza, gli occhi terrorizzati di due bambini aggrediti da tre sconosciuti all’ interno di un tunnel, un dolore ancora vivido, la rabbia cementata dentro, l’ impossibilità di dimenticare.
Basta poco ad azzerare il presente inseguendo una nuova versione dei fatti, spulciando i frammenti della memoria, una vicenda tacitata e sommersa, tracce invisibili che scuotono dentro, scatole chiuse, incastri pericolosi, vuoti enigmatici di un’ essenza violata, un percorso a ostacoli disarcionante nell’ immagine sfuocata dei fantasmi che furono.
Un fitto soliloquio accompagna nuovi giorni tra passato e presente, dubitando di tutto e di tutti, anche delle persone più care, un’ apnea del profondo in una vita che sembrava indirizzata alla quiete definitiva.
L’indagine si allarga, nuove voci incombono, la sparizione di bambini dati in affidamento fa pensare a un meccanismo complesso, a un’organizzazione a delinquere con origini lontane, ricatti, omissioni, silenzi di comodo.
Fame di verità e desiderio di vendetta accompagnano un reale ancorato a un agghiacciante tempo che fu, una spirale di forza bruta e violenza soverchia l’ apparenza sfociando nella rabbia indomabile che pretende una soluzione definitiva.
Resolution e’ un’ immersione in un inferno che si credeva morto, dimenticato, rimosso, una tregua spezzata dalla ricomparsa del “ mostro”.
È un viaggio temporale, uno stato di confusione nella schizofrenia del presente, personaggi marchiati dalla propria essenza, ombre minacciose, maschere bipolari oltre il confine ossessivo-compulsivo della memoria, calate in un’ Apocalisse di dissolvenza, vomitanti menzogne, crudeltà, violenza, eco di sottofondo, una sola certezza, questa è stata la propria vita, tutto il resto rinchiuso in una forma mentis con l’ obbligo di chiudere i conti.
Il risultato in giorni ancora da vivere, relazioni e situazioni in fieri, il passato è passato, la vera catarsi nel respiro del presente.
La prosa di Irvine Welsh, famelica, frenetica, colloquiale, basta a se stessa, i personaggi forgiati in un microcosmo d’ origine aspro, degradato, brutale, il linguaggio sconnesso, truce, ossessivo, un impasto camaleontico nel quale fare i conti con gli albori della propria storia, in attesa di altro.
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LIBERARSI DEL TEMPO E SENTIRE IL SUONO DEL FUTURO
“La musica predice il passato, ricorda il futuro. Ogni tanto la differenza sfuma e nel semplice dono unico di un suono circolare l’orecchio risolve l’astruso crittogramma. Un solo ritmo persistente, presente e perenne, e sei libero. Qualche altra misura, invece, e il manto del tempo ti si richiude intorno.”
Leggendo “Orfeo”, il cui titolo fa ovviamente riferimento al cantore della mitologia greca capace di piegare al suono della sua lira gli animali e la natura, mi è saltato agli occhi ad un certo punto della storia un curioso parallelo con “Il passeggero” di Cormac McCarthy. In entrambi i romanzi infatti i protagonisti sono dei fuggiaschi, ricercati dalle autorità senza che praticamente vi sia una ragione plausibile, la fuga costituendo quasi una condizione ontologica dell’esistenza di coloro che sono stati in passato due talenti precoci e parzialmente inespressi nella musica e nella scienza. Non solo, ma entrambi i libri, i quali peraltro sono sotto la maggior parte degli aspetti diversissimi tra loro, sono anche dei gialli mancati. Se nel caso de “Il passeggero” il MacGuffin è palese (la scomparsa di un passeggero dall’aereo precipitato in mare), in “Orfeo” la questione è più ambigua: l’incriminazione per bioterrorismo di Els è uno spunto abbastanza risibile (utile tutt’al più per polemizzare con la deriva autoritaria dell’America post-11 settembre, con l’emanazione del Patriot Act che, con il pretesto di proteggere una nazione in preda al panico, ha limitato non poco le libertà individuali dei suoi cittadini), ma per tutto il libro il lettore si interroga inevitabilmente sui motivi per cui il compositore d’avanguardia, il musicista sperimentale, l’insegnante immerso a tempo pieno negli spartiti, sia potuto diventare agli occhi delle forze dell’ordine e della pubblica opinione il pericoloso terrorista Bach Biohacker. “Orfeo” infatti alterna in continuazione, come è tipico dei romanzi di Powers, il passato e il presente, ma le due storie (da una parte la vita di Els che attraversa pieno di ambiziose speranze l’intera musica del ‘900, sacrificando amicizie ed affetti al suo scopo di inventare dei suoni capaci di aprire la serratura segreta del mondo, dall’altra il disordinato vagabondare di Els, finito su tutte le prime pagine dei giornali e ricercato dall’FBI) sembrano procedere in maniera parallela e non convergente. La spiegazione del mistero arriva solo nelle pagine finali del libro, quando un Els disilluso, che sembra aver perso la fede nella sua arte e addirittura inizia a soffrire di una specie di amusia, non riuscendo più a provare piacere nell’ascoltare la musica (“ascoltare la musica era come guardare uno spettacolo floreale con gli occhiali da sole”), all’improvviso comprende come tutto nel mondo possieda una armonia, come la materia sia impregnata di ritmi e melodie, come l’intero cosmo sia un immenso coro segreto. I suoi giovanili studi scientifici gli fanno capire che la musica si può ricavare da qualsiasi cosa: “fughe dai frattali, un preludio estratto dalle cifre del pi greco, sonate scritte dal vento solare”. Già ventitré anni prima “Canone del desiderio” ci aveva affascinato con le sorprendenti e quasi mistiche analogie che legavano le Variazioni Goldberg di Bach al DNA. Ora, in “Orfeo”, Powers rafforza vieppiù questo concetto, facendo innamorare il protagonista quindicenne della chimica, in quanto “il linguaggio schematico di atomi e orbitali aveva una logica comune soltanto alla musica” e “la simmetria nascosta nelle colonne della tavola periodica aveva un che della maestosità della Jupiter”. Diventato vecchio e folgorato dalla scoperta della musicalità delle cose, Els decide quindi di lanciarsi in un esperimento folle e azzardato, quasi una sorta di avanguardistica “biocomposizione”: prova cioè a inscrivere la sua musica nel DNA di microorganismi, le sue canzoni nel codice genetico dei batteri, dando loro la possibilità di sopravvivere nel tempo, per l’eternità, “musica per la fine del tempo” da lanciare “nel lontanissimo futuro, inascoltata, sconosciuta, ovunque”. E’ un progetto prometeico, una hybris destinata alla spietata repressione da parte delle autorità (è la casuale scoperta del laboratorio casalingo di Els a farlo scambiare per un terrorista), in quanto gli dei non permettono che qualcuno si innalzi al loro livello. E’ però anche l’opera migliore di Els, che, dopo aver aspettato per tutta la vita una rivoluzione musicale che aveva già vissuto lasciandosela sfuggire, riesce infine a realizzare l’utopia per eccellenza, la libertà suprema, quella di innalzarsi in una dimensione sovratemporale, eterna, con una musica capace di resuscitare i morti, ripristinare le cose perse e fermare il tempo.
Si può dire a ragion veduta, senza tema di venir accusato di blasfemia, che Powers è il Proust della nostra epoca. In tutte le sue opere i personaggi hanno sempre una titanica ambizione, che non è tanto quella di recuperare, come nella “Recherche”, un elegiaco passato perduto, quanto di annullare il presente, il passato e il futuro, e di raggiungere una sorta di tempo immobile, al riparo da qualsiasi contingenza storica. E’ per questo che la musica, la chimica, la biologia sono così importanti, perché sono una scorciatoia per il sublime, per l’iperuranico, per l’eterno, in grado persino di “ingannare il corpo facendogli credere che abbia un’anima”. Già ne “Il tempo di una canzone” Powers aveva detto che “il tempo non scorre, ma è. In un mondo così, tutte le cose che saremo o siamo stati le siamo”. La musica è questo luogo cristallizzato per eccellenza, dove il tempo si può arrestare, anche se solo per lo spazio di qualche battuta. “Il suo non è tanto un anticipare quanto accadrà, ma un ricordarlo”. E in “Orfeo” aggiunge, sottolineando questa trascendente circolarità, che “la musica predice il passato, ricorda il futuro”. Gli aneddoti di Messiaen, che scrive ed esegue il suo quartetto nel lager nazista in cui è rinchiuso (“fra trecentomila prigionieri io ero forse l’unico a non essere prigioniero”) e di Sostakovic, che compone la sua quinta sinfonia facendosi beffe del regime di Stalin che lo aveva messo all’indice per il suo formalismo e le sue dissonanze (tagliatemi le mani, e continuerò a scrivere musica con la penna stretta tra i denti”), sono l’esempio cui Els si appoggia per sostenere la sua concezione di una musica che possa concedere all’ascoltatore di “liberarsi del tempo e sentire il suono del futuro”. Nel suo disordinato peregrinare per l’America, da Est a Ovest, Els diventa quasi l’incarnazione di Harry Partch, il musicista vagabondo, visionario, profetico, inventore di nuovi, eccentrici strumenti, “convinto che la salvezza della musica richiedesse di dividere un’ottava in quarantatré parti”, anziché nelle canoniche dodici. Els libera la musica dalla sua prigione fatta di tasti bianchi e neri, e, in un finale davvero commovente, realizza in extremis il sogno di una vita, ossia “il battere di un po’ d’infinità”.
“Orfeo” non è soltanto un romanzo sulla musica, anche se Powers ci accompagna insieme al suo appassionato protagonista attraverso gran parte della musica del ‘900, da Mahler e Bartok, giù giù fino a Ives, Boulez, Cage e Riley. Esso è, anche e soprattutto, un’opera intimamente, profondamente musicale. Anche chi, come me, sa poco o nulla di note e di ottave, di accordi in maggiore o in minore, di toniche e dominanti, di scale e di fughe, riesce a cogliere la bellezza e la poesia di una prosa sempre di altissimo livello, ispirata e geniale, come quando, parlando de “Il clavicembalo ben temperato” di Bach, Powers scrive che “le linee caleidoscopiche esplodevano nella testa di Peter come un groviglio di scale in un labirinto di Piranesi”, oppure, a proposito di una canzone composta da Els per la moglie, “Il motivetto irresistibile e accattivante, come una nuvola livida soffiata da una brezza di giugno, si lasciava dietro una fascia azzurra che catturava il cuore e lo sollevava verso una prospettiva a volo d’uccello delle cose future. La canzone, soltanto la canzone, il suo enigma, il calore e il desiderio. L’eternità in tre minuti”. Powers è secondo me l’unico autore in grado oggi di far assurgere la musica ai più alti livelli della letteratura, e forse solo la scrittura “musicale” di Thomas Mann (che intendeva il romanzo come un insieme di melodie e di voci che lo scrittore, come in un concerto, assembla e dirige, privilegiando, più che la consequenzialità logica del testo, i suoi aspetti ritmici e musicali) può stargli alla pari. Insieme a “Il tempo di una canzone”, “Orfeo” forma un ideale, impareggiabile dittico sulla musica, il quale, se si aggiunge anche “Canone del desiderio” (in cui è però preponderante la componente scientifica), diventa addirittura una trilogia, in cui l’autore americano raggiunge la perfezione della sua arte, concludendo una fase formidabile della carriera che, a mio avviso, si fa di gran lunga preferire a quella “ecologista”, anche se è proprio quest’ultima, grazie al premio Pulitzer assegnato a “Il sussurro del mondo”, che gli ha finalmente dato la meritata notorietà presso il grande pubblico mondiale.
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Meglio del primo, forza Pippa!
Non e' assolutamente comune che io apprezzi piu' il secondo romanzo che il primo scritto da un autore. Eppure stavolta e' andata proprio cosi.
"Brave Ragazze, Cattivo sangue" e' un thriller dai riflessi adolescenziali che utilizza l'escamotage del podcast per rivelare ulteriori indizi al lettore.
Partendo dai punti positivi di questo romanzo, sicuramente la scorrevolezza del testo e' importante. Ho trovato piacevolissimo leggere questo testo, mi sono affezionato dei personaggi e della loro storia.
Rispetto al primo libro, ho trovato la protagonista piu' matura, piu' complessa, sotto molti aspetti piu' "dark".
La scrittura rispetta una Pippa piu' matura, i cui contorni iniziano ad evadere dal classico thriller adolescenziale.
Avrei personalmente evitato l'utilizzo di immagini che distolgono l'attenzione e creano immagini pre impostate nella mente del lettore.
La trama e' interessante, certamente l'utilizzo di colpi di scena e' abbastanza pilotato da elementi al lettore ignoti. Tuttavia, la tensione rimane alta per buona parte del libro.
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Il libeccio non porta nulla di buono
E’ incredibile come il libro in cui, più di tutti gli altri, il commissario Ricciardi sembra sereno e circondato da una bolla di gioia finisca in una delle più grandi tragedie della sua vita. In questo episodio infatti il commissario più malinconico del nostro panorama letterario si ritrova ad indagare su un omicidio che non è un evento qualsiasi e che lo segna, abbastanza profondamente, turbandolo e disturbandolo. Veniamo, come sempre, catapultati in una città dalla confusione multicolore, di cui impariamo a conoscere segreti ed ombre. Perché Napoli è una ragnatela e se muovi un filo, si muove tutto, così come, se sai interpretare il movimento, allora riesci a risalire a come stanno le cose. Veniamo travolti da fiumi di sentimenti intrecciati, fra passato e presente, da cui percepiamo ed assorbiamo la sensibilità profonda di tanti protagonisti di queste storie, il loro aspetto umano più magnifico. Ascoltiamo il mormorio dei venti ed impariamo a temere il libeccio, che non porta nullo di buono. Perché alla fine succede quanto non ti saresti mai aspettato, quanto non avrebbe mai dovuto succedere.
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Assoluta lentezza
Mc Carthy in questo romanzo, che fa parte della trilogia del Confine, segue le avventure di un giovane caballeros e della sua vana ambizione di addomesticare una lupa.
Lo scrittore ama nei suoi romanzi porre come protagonisti, prima di tutto uomini (non ho mai letto un suo romanzo dove la protagonista fosse una donna) e poi come Dostoevskij mette in luce i diseredati, i reietti, i vinti dalla vita che hanno esistenze al limite tra la società e la legge.
Filo conduttore della sua scrittura è la lentezza con cui avvolge i romanzi. In questo poi sembra proprio che non si abbia mai fine nella lettura ed ho fatto uno sforzo enorme a portarlo a compimento. Non c'è una trama ben precisa, con un classico antefatto, lo sviluppo della storia e una conclusione.
E' un eterno vagare senza meta di questo adolescente tra terre aspre e imbrattate di sangue e dolore.
Diventa un barbone a cavallo, un diseredato, un senza storia che come in ogni tomo di Cormac non ha come destino la salvezza, ma bensì la dannazione degli uomini.
La Natura selvaggia affascina e scandisce il tempo del vagabondare. Oltre il confine è solo una linea retta tracciata dagli uomini su una lingua di terra, una demarcazione geografica, un andare al di là di un posto nella speranza di una rinascita, che spesse volte è solo un chimerica illusine.
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Un serial killer insospettabile.
Il giallo è della serie NYPD RED, e riguarda una speciale attività della polizia di New York dedicata a delitti di alto livello. Due sono le storie che, nel finale, si intrecciano. La prima rievoca l'assassinio del figlio di un potente boss mafioso, avvenuto molti anni prima: il giovane, della famiglia Salvi, di origine italiana, aveva stuprato dopo un festino una ragazza i cui fratelli si erano subito vendicati uccidendolo a bottigliate. La seconda storia, iniziata con il ritrovamento su una giostra di cavalli in Central Park del cadavere di una donna orrendamente torturata, appartenente ad una famiglia molto nota, prosegue, occupando gran parte del giallo, con le indagini alla ricerca di un serial killer misterioso che si accanisce su personaggi giudicati colpevoli di vari delitti e degni di punizione. Le indagini, affidate a due bravi poliziotti del dipartimento, procedono con alti e bassi, intralciate anche da una accesa propaganda elettorale per l'elezione del nuovo sindaco. Il rapimento di un'altra vittima, una giovane donna accusata di aver ucciso la figlia ma risultata in seguito innocente, innesca una nuova ondata di indagini, sempre più serrate. Trapela finalmente qualche sospetto su chi potrebbe essere il serial killer, sospetto che pian piano diviene certezza ed induce i criminali ad agire con la massima cautela. Tutto verrà chiarito quando un caso fortuito metterà i vari attori della storia gli uni di fronte agli altri: un magistrale e ben costruito colpo di scena, nel quale i due poliziotti protagonisti del NYDP RED Zach Jordan e Kylie MacDonald, la squadra d'élite del dipartimento, responsabile delle indagini che fanno tremare i potenti e suscitano scandali, si scontreranno contemporaneamente con i mafiosi del clan Salvi ed i veri e propri serial killer. Una scena conclusiva ben orchestrata, nella quale i "cattivi" ovviamente avranno la peggio e l'ultima vittima da sacrificare sarà salvata in extremis.
Il giallo, per gli appassionati del genere, è abbastanza godibile, soprattutto nella parte finale quando l'indagine si fa più serrata e si arriva al redde rationem. C'è spazio nel romanzo per alcuni pericolosi intrecci tra politica e potere, e più spazio ancora per altri intrecci, quelli amorosi, tra il poliziotto Zach e la sua compagna di indagini Kylie, la donna che un tempo gli aveva fatto perdere la testa e che sembra nascondere segreti inconfessabili. La trama è comunque serrata, tanti sono i personaggi del dipartimento coinvolti, tra i quali un'affascinante strizzacervelli che si innamora del bravo Zach. Non manca neppure un soffio horror, allorquando uno dei serial killer spiega nei dettagli l'utilizzo di un famigerato strumento di tortura medioevale per estorcere dalle vittime impossibili confessioni.
Sullo sfondo, una New York caotica e brulicante, cui fanno da contraltare desolate periferie semiabbandonate, terreno di malavitosi. Malavitosi ben rappresentati anche dal potente clan familiare Salvi, riverito e temuto persino dal parroco della chiesa locale, al quale il boss si finge devoto frequentando cerimonie ed elargendo soldi.
Lo stile narrativo non ha ovviamente pretese di eccellenza: sbrigativo, senza troppe introspezioni nè approfondimenti, racconta semplicemente fatti in successione serrata. I lettori sembrano soddisfatti e James Patterson pure: complessivamente 400 milioni di copie vendute per lo scrittore più ricco del mondo!
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Porci con le ali
Rocco e Antonia
Porci con le ali
Romanzo cult che ha segnato profondamente una generazione, almeno buona parte di essa.
Le scene esplicite di sesso sono sempre un richiamo; qui acquisiscono una valenza di ordine maggiore in quanto inserite in un contesto politico condiviso da moltissimi giovani studenti degli anni '70: la militanza attiva nelle molteplici organizzazioni e movimenti della sinistra extraparlamentare; questi ultimi così diversi tra loro per sfumature ideologiche più o meno accentuate, per modalità di lotta più o meno violente.
Uniti però, graniticamente, nella contestazione radicale del sistema politico vigente, nella contrapposizione con le sue forze di difesa – leggasi polizia e carabinieri –, nel ripudio di un sistema scolastico considerato anacronistico e nel radicale rifiuto delle forme del lavoro salariato, fonte di sperequazione, sfruttamento e ingiustizia sociale.
La domanda da porsi (porci?) oggi è questa: è ancora attuale questo libro che descrive una generazione scomparsa, ormai invecchiata e in ogni caso travolta dal riflusso?
Io credo di si.
Tralasciando per un attimo quelle che sono le inequivocabili e particolareggiate descrizioni di sesso spinto, le pruriginose elucubrazioni e le fantasie erotiche dei due protagonisti, vorrei soffermarmi su un altro fattore.
Cioè la capacità sorprendente degli autori, gli allora giovanissimi Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, di avere intuito con largo anticipo il limite congenito della politica militante sinistrorsa, l'ominoso ragionare per slogan, l'acritico accodarsi a poderosi e bellicosi cortei dove venivano rivendicati diritti di popolazioni remote e spesso sconosciute; gli interminabili dibattiti sul nulla, la cavillosa disamina di problematiche estranee e incomprensibili – in ogni caso complesse e di ostico approccio – e gli scontri di piazza terrore di esercenti e ignari passanti.
I due ragazzi appartengono alla buona borghesia romana, frequentano il Mamiani, prestigioso liceo capitolino, partecipano alle manifestazioni quasi automaticamente, come si trattasse di un dovere da espletare per forza di inerzia compiendo un rito collettivo dai risvolti omologanti.
Sono però stufi e annoiati, provano insofferenza per il conformismo politico e i suoi insiti proponimenti velleitari.
La loro ribellione consiste nel rifugiarsi nel sesso.
Non vi è nessun riferimento culturale, nessun rimando a un qualsiasi libro letto; solo la rozza animalesca rivalsa che si esprime in modo elementare, arcaico, spontaneo, forse il solo conosciuto da quella gioventù illusa e generosa.
Così incompresa, ma anche impossibilitata ad esprimersi esaustivamente per evidenti limiti culturali, per l'indottrinamento continuo, per il bombardamento ideologico caratterizzato da istanze impossibili da raggiungere, da utopie bambinesche.
Ritengo che quella generazione sia stata truffata più di altre. I cosiddetti cattivi maestri hanno lasciato il loro malefico suggello sia sui marciapiedi con i morti ammazzati sia negli uffici matricola delle case circondariali, sempre a spese altrui.
Alla fine i brigatisti sono andati in galera, gli autonomi sono ritornati nelle loro squallide subtopie, i militanti generici hanno abbracciato lavori generici, mentre i capi che primeggiavano nel gotha rivoluzionario, i Soloni della teoria insurrezionale del passamontagna e della famigerata P38, dirigono quotidiani, trasmissioni tv o sono impegnati in redditizie attività imprenditoriali.
Ritornando al famoso romanzo, ribadisco il valore della ribellione sacrosanta di Rocco e Antonia; che almeno ci provano; rozzamente, ma ci provano ad uscire da un circolo vizioso e fagocitante.
Sanno esprimere solo così il disagio che subiscono. Sanno intuire il fallimento del "politico" per appropriarsi delle loro private pulsioni; magari infantili, ma sintomatiche di un riavvicinamento fisico tra simili nella riacquisizione di un qualcosa che è connaturato nell'uomo: il rapporto interpersonale. Sia esso sessuale o di altra forma.
Quelli sono stati anni di grandi speranze, di sinceri slanci emozionali, di sogni grandi poi svaniti in una bolla di sapone, di ottima musica e di indiscussa solidarietà.
Per chi li ha vissuti attivamente, indimenticabili; però funestati da una violenza continua, alimentata ad arte dai mestatori professionisti dell'inganno, da pseudointellettuali che riempivano i numerosi giornali di allora con articoli che, letti oggi, sono indicativi di una percezione distorta delle cose, di una pregiudiziale ideologica fuorviante, di una considerazione delle problematiche contingenti falsata dall'ideologia soverchiante.
Il romanzo ha avuto un successo di pubblico strepitoso nonostante, inizialmente, fosse stato concepito per circolare unicamente nell'ambiente studentesco.
Sono state fatte innumerevoli ristampe e traduzioni in molte lingue.
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Dissipatio H.G.
Guido Morselli
Dissipatio H.G.
H.G. sta a significare Humani Generis.
Ultimo romanzo di Morselli che, morto suicida pochi mesi dopo la stesura del libro, non ebbe mai la soddisfazione di vedere pubblicate le sue opere uscite tutte postume.
Un riconoscimento tardivo a un individuo tribolato.
Dissipatio è un'opera molto particolare, in alcuni casi viene definita di fantascienza o distopica per la storia narrata ai confini della realtà.
In verità è un documento di profonda meditazione e di altissimo valore morale che si addentra in tematiche essenziali per l'uomo: la solitudine, la morte, il senso di sgomento di fronte a un mondo abitato da una moltitudine di umanità formicolante che si muove freneticamente e che ignora l'essenza dell'esistenza, la sua finalità ultima; il concetto profondo che costituisce l'unica verità importante cioè il fatto di dare uno scopo plausibile alla vita senza infingimenti o stordimenti derivanti da fuorvianti attività che hanno lo scopo di anestetizzare la coscienza.
La vicenda si svolge a Crisopoli, immaginaria città facilmente identificabile con Zurigo.
Il protagonista, intelligente, ipocondriaco e misantropo, il giorno prima del compimento del 40esimo anno di età decide di togliersi la
vita con la strana modalità di annegarsi in un laghetto di montagna infilandosi prima in un sifone che comunica con il lago stesso.
All'ultimo momento ha un ripensamento e ritorna verso la propria abitazione.
Si accorge a poco a poco che, nel frattempo, tutta l'umanità è scomparsa e che lui è l'unico rimasto. Animali e vegetali sono vivi.
In pratica l'uomo che voleva uccidersi è rimasto solo, come se tutti gli altri fossero morti; comunque volatilizzati, dissolti.
La situazione si è modificata in senso contrario e dà occasione all'aspirante suicida di intrattenere un lungo monologo, un solipsismo allucinato ma preciso e penetrante, di grande impatto emozionale.
C'è una lucida e fredda estraneità nelle sue elucubrazioni, emerge un senso di lontano distacco verso i propri simili di cui non rimpiange l'assenza.
Questo scritto contiene indubitabilmente tutte le ragioni e il tragico sentire di un uomo pervaso da un tragica insopprimibile volontà suicida, che in effetti metterà in atto poco dopo.
Tra dotte citazioni e riferimenti letterari di notevolissimo spessore si percepisce un'incoercibile tendenza all'autodistruzione.
Un senso profondo di estraneità a tutto; il fatto di non trovare un appiglio al quale aggrapparsi per continuare a vivere.
Una malattia dell'anima incurabile e non imputabile a un fatto particolare, a un evento scatenante.
Il protagonista si comporta come se vivendo si sentisse fuori luogo, in una dimensione assolutamente estranea della quale non concepisce l'inizio, la prosecuzione, ma solamente la fine.
Un libro che colpisce al cuore, che induce a riflessione, che tratta argomenti di ordine superiore in un'ottica non convenzionale, lontana dal comune sentire. Esteticamente perfetto, perché non risente di nessun condizionameto; spontaneo e puro nella sua cristallina disperata evocativa genuinità.
Un'opera di non facile lettura dove la prima parte sembra essere un pretesto per le successive speculazioni dello scrittore; va apprezzata comunque per l'originalità e la "messa a nudo", le fragilità e i fantasmi che perseguitano un essere diverso, piegato sotto il peso di un disagio soverchiante.
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Douglas Adams
Douglas Adams
Guida galattica per gli autostoppisti
Un libro la cui qualità è inversamente proporzionale al successo editoriale acquisito.
Premettendo che a me il genere fantascientifico non piace, anzi fa proprio schifo, probabilmente il presente commento sarà influenzato da questo fatto.
Tant'è, ma de gustibus...
La NON trama si trascina suppergiù in codesto viluppo:
la Terra, la distruzione della stessa, gli alieni con le astronavi verdi, i due amici - l'uno alieno l'altro no - che vengono miracolosamente salvati dalla catastrofe totale, riduzione e riedizione in chiave moderna e rivisitata dell'Arca di Noè, il tetrarca bicefalo onnipotente che viaggia sulla Cuore d'Oro in compagnia della superfiga tecnologica di turno.
Infine il libro, o meglio l'ipertecnologico aggeggio informatico digitale superminiaturizzato, il vademecum del clochard spaziale: la Guida galattica per gli autostoppisti.
Un condensato di sapienza intergalattica indispensabile nel caso probabilissimo e ordinario in cui si venga rapiti e sottoposti a inquisizione post domenicana astrale da parte di psicogendarmi tonitruanti aspiranti al grado di colonnello.
Da profano azzardo che non so se chi scrive di fantascienza lo faccia per non guardare in faccia la realtà quotidiana, per evadere da un che di claustrofobico e castrante, da un lavoro routinario di cacca, da un coniuge alcolizzato, da uno suocero da manicomio, da un vicino di pianerottolo in perenne contrasto per questioni primarie di gerani sfioriti, dal fatto di deresponsabilizzarsi da tutto, dalla logica in primis.
Io non lo so e non mi interessa.
Dico solo che vi sono misteri insondabili su questa terra senza andare a cercarne altri altrove.
Anche perché, sommessamente, per me l'altrove non esiste.
Uno di questi grandi e insondabili misteri è il successo planetario (interplanetario non è dato a sapere) di questo romanzo datato 1979.
Il quale è una accozzaglia di baloccanti amenità per visionari di complemento, per ubriachi di storielle venusiane, discovolantisti domenicali e beoti con la costellazione della Vergine tatuata là.
Ho letto il primo della serie.
Neanche con la promessa di diventare l'Uomo Ragno leggeri la serie completa.
La mia opinione è strettamente personale, credo dettata da un pregiudizio, uno dei tanti che ci portiamo appresso.
Il fatto però non giustifica eventuali commenti irriguardosi tantomeno catechesi sul fatto di non aver compreso il libro etc., etc.
Grazie.
Voto N.C.????
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Ma quante storie!
Alessandro Robecchi è autore per Sellerio dei romanzi che hanno come protagonista Monterossi.
La sua peculiarità, oltre al saper scrivere bene, è saper mettere il lettore su tante strade, o diversi punti di vista, che conducono e convergono in un solo punto , quello risolutivo della storia. Una trama sempre articolata, ma comunque lineare e precisa, dove non si perde un dettaglio e dove tutto torna.
In questo romanzo Robecchi si stacca dal suo, e nostro, amato Monterossi, e ci racconta una storia, anzi due, e forse tre.
Il famoso regista Manlio Parrini, dopo il suo ultimo film, che gli aveva dato la fama, abbandona improvvisamente il cinema, come se non avesse più niente da dire. Ma sull’orlo ormai dei settant’anni suonati gli viene l’idea di fare un film su uno scrittore di libri gialli, realmente esistito, al tempo del fascismo in Italia, Augusto De Angelis, la cui morte violenta è una sorta di cold case che sa di ingiustizia e censura di regime.
I suoi produttori sono ben felici di realizzare il film, ma mettono delle condizioni, vogliono scegliere il cast e rivedere la sceneggiatura e sottoposto a queste pressioni, Parrini perde la passione perchè non si sente libero di esprimersi come vorrebbe.
Questo è l’unico anello che unisce le due storie, quella del regista nel presente e quella di De Angelis nel passato, la libertà di espressione dell’artista, l’uno oppresso dal regime del ventennio l’altro dalle leggi del mercato moderno.
Come se non bastasse si aggiunge una terza storia che dovrebbe dare al libro la caratteristica del giallo: nella villa accanto accanto a quella di Parrini avviene uno strano omicidio, l’anziana vedova e proprietaria viene misteriosamente uccisa. Un delitto d’altri tempi che a Parrini ricorda proprio un romanzo di De Angelis.
E questo è lo spunto (un po' posticcio), che dovrebbe dare suspence e significato, ma che sorprendentemente (e ripeto non è da Robecchi), risulta solo del tutto scollegato dal resto.
In sostanza queste tre storie sono precariamente tenute insieme dall'unico messaggio del libro, ossia la censura dell'artista, un messaggio che oltretutto non è urlato e non arriva forte e chiaro, ma occorre leggerlo attentamente tra le righe.
Sono rimasta sinceramente delusa, Il tutto mi è sembrato un po’ pretestuoso, come a voler cavalcare l’onda, ma controcorrente, in modo da arrivare ad una certa élite culturale e fare un po’ di clamore.
Peccato, avevo altre aspettative.
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Presenza assente
C’è un luogo ricco di parole, pensieri, emozioni, sensazioni, sentimenti che regge e sorregge il peso degli anni, un posto invisibile abitato dal proprio io più profondo, un’ essenza coltivata da sempre, arricchita di esperienze, segreti, ricordi.
E se un giorno pensieri e parole cominciassero a perdersi nella dimenticanza, una nebbia sempre più fitta dentro una fragilità evidente, il respiro confuso dei propri giorni, una dissociazione che sgretola certezze mentre lo sguardo impaurito, preoccupato, indifeso dei propri cari si aggrappa a un reale sfuocato.
Marteen, Il protagonista del romanzo esce, si perde, ritorna, dimentica, guarda ma non vede, sente ma non ascolta, perde progressivamente pensieri e parole, non riconosce i volti, ritorna alla lingua madre, si smarrisce completamente in un caos di voci, immagini, colori, un viaggio nel passato senza presente in una totale mancanza di senso.
Quale inizio, quella sensazione di assenza in piena coscienza, un inspiegabile senso di smarrimento, uno stato d’ animo senza nome che anche gli oggetti più banali sono in grado di suscitare, la perdita del contatto con i movimenti di sempre.
Vera, sua moglie, la donna che ama, l’ unica in grado di comprenderlo e sostenerlo, senza la quale non sa che cosa farebbe, cerca rimedi che possano preservarlo, proteggerlo, aiutarlo.
Nel mentre Marteen si guarda dentro con la paura di attraversare una porta senza sapere che cosa c’è al di là’, guardando delle foto sempre più enigmatiche e impenetrabili, cercando di camminare perché non si sente a casa da nessuna parte, di non stare troppo con se stesso, travolto dai pensieri, accompagnato da un senso di panico trasformato in un malessere onnipresente, qualcosa che lo assale per scomparire improvvisamente.
…Sotto questa vita ne brulica un’ altra in cui tutti i tempi, i nomi e i luoghi si accavallano come ombre e io, in quanto persona, non esisto più...
In mancanza di memoria puoi limitarti a guardare il mondo che ti scorre attraverso senza lasciare traccia, ti senti squarciato dentro, un processo che non puoi fermare perché riguarda te stesso, conversazioni incagliate a metà, parole che sfuggono, voragini aperte di fronte alle quali conviene tacere, la sensazione di parlare con qualcun altro e di qualcun altro….
Chimere ( 1984 ), il romanzo più noto di J. Bernlef, poeta e scrittore olandese, si addentra nel complesso rapporto tra vita, pensieri, parole, memoria, realtà, percezione, temi abituali e cari alla sua poetica. Il dramma della malattia percuote il protagonista quotidianamente, un’ involuzione che gli sottrae la coscienza di se’ e degli altri impoverendolo di pensieri.
Il respiro del romanzo si fa sempre più pressante, un’ angosciosa presenza che si addentra magistralmente e dettagliatamente nell’ involuzione del protagonista, bombardato da immagini e voci incoerenti tra presente e passato, uno stato di percezione caotico, asfissiante, spezzettato, indistinto, di immobilità…
….Quando è giorno e qualcuno dice….sussurra….la voce di una donna e tu ascolti…ascolti con gli occhi chiusi…ascolti solo la sua voce che sussurra…che hanno riparato la finestra… che dove prima era inchiodata quella vecchia porta…ora c’è di nuovo un vetro…vetro oltre il quale si può guardare…guardare fuori…il bosco e la primavera imminente…dice…sussurra…la primavera che sta per cominciare…
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